UN MERIDIONE MARITTIMO? di Ferdinando Sanfelice di Monteforte – Numero 9 – Dicembre 2017

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UN MERIDIONE MARITTIMO?

 

NEGLI_ULTIMI_ANNI

convinte che la loro sopravvivenza futura, nonché la speranza di mantenere il livello di benessere finora goduto dalle loro popolazioni, dipendano in parte rilevante sia dallo sfruttamento delle risorse marine, sia da un maggiore coinvolgimento nelle attività del commercio marittimo. 

La maggior parte dei governi, infatti, è giunta alla preoccupante conclusione che quanto è ricavabile dalla terra o dal sottosuolo non basta più a produrre reddito per il proprio Paese, e per questo si rivolgono al mare, come fonte di future ricchezze. Sintomatica è, a tal proposito, la dichiarazione, alcuni anni fa, da parte di un Presidente della Repubblica francese, che si meravigliava del “troppo lungo oblio della Francia sulla sua vocazione marittima”1 e aggiungeva che il Paese “doveva avere una volontà politica permanente per andare verso l’oceano, per proiettarvi un’ambizione”2

Questa corsa al mare, divenuta di recente un approccio comune 
a molti governi, inclusa la Cina, spiega perché si sia verificata un’intensificazione dei contenziosi marittimi e un riarmo navale generalizzato, che ha coinvolto, tra l’altro anche 

molte Nazioni rivierasche del Mediterraneo.

La situazione nel nostro bacino è oggettivamente difficile e, anche se non ha ancora dato luogo a conflitti aperti, non sono mancati momenti di tensione tra i vari Paesi. Basterà citare lo scontro tra un convoglio di navi turche, la Freedom Flotilla, con le forze speciali israeliane, il 31 maggio 2010 e, ancor prima, la dichiarazione del Parlamento turco, che nel 1995 approvò un documento che considerava casus belli ogni espansione delle acque territoriali greche, al di là delle 6 miglia marine.

Un tale crescente livello di contenzioso, frutto di questa maggiore attenzione alle ricchezze del mare comporta, per il nostro Paese, come e più del passato, la necessità di disporre di un “Potere Marittimo” per contenere tale conflittualità e far valere i propri diritti. Ma cosa vuol dire questo concetto? Per chi non lo ricordasse, già nel 1814 un illustre napoletano, Giulio Rocco, ne definì l’essenza, affermando che esso era “nell’ordine politico, una forza somma risultante da quella di una ben ordinata Marina Militare e di una numerosa Marina di Commercio”3.Vista con gli occhi di oggi, tale affermazione del nostro insigne conterraneo non è altro che un’applicazione all’ambiente marittimo del paradigma secondo il quale “la ricchezza è in genere necessaria per sostenere la potenza militare, così come la potenza militare è di solito necessaria per conquistare e proteggere la ricchezza”, ma possedere un “Potere Marittimo” richiede precisi requisiti, sia in campo militare, sia in quello commerciale, che non sono sempre disponibili.4

Il Meridione è la parte della penisola italiana più vicina sia alle linee 
del grande commercio marittimo internazionale, sia ai bacini alturieri 
del Mediterraneo, dove le ricchezze dei fondali marini 
sono più numerose, e pretese da molti.


È quindi necessario capire come il Meridione si collochi rispetto ai requisiti di marittimità, e cercare di stabilire quale possibilità esso abbia di sviluppare le proprie attività sul mare, che oggi, ancora più rispetto al passato, è diventato la fonte primaria di benessere per un popolo.

I requisiti che definiscono la marittimità furono analizzati, verso la fine 
del XIX secolo, da uno studioso americano, Alfred Thayer Mahan, 
il quale li chiamò “elementi del potere marittimo”. Sarà quindi 
opportuno esaminare, per ognuno di essi, come si colloca 
il nostro Meridione: 
 
Posizione geografica

 

“se una nazione è situata in modo tale da non essere costretta a difendersi sulla terra né indotta a ricercare un aumento del proprio suolo sulla terra, è per la sua stessa unità d’intenti rivolti al mare, avvantaggiata rispetto a un’altra che abbia le sue frontiere sul continente”5. Se poi questa Nazione è posizionata lungo le principali rotte commerciali, lo studioso americano notava che il suo vantaggio geografico è ancora maggiore. A proposito del Mediterraneo, Mahan aggiungeva che “le circostanze hanno fatto sì che il Mare Mediterraneo abbia giocato nella storia del mondo una parte superiore a quella di qualsiasi altra estensione di mare della stessa dimensione”6. La posizione geografica del Meridione, che, con la Sicilia, taglia il bacino in due parti, potendo controllare i transiti tra queste, è quindi particolarmente favorevole, e notevole potrebbe essere di conseguenza la possibilità di sfruttare la posizione geografica per il proprio sviluppo. Basta, inoltre, uno sguardo alla carta geografica per vedere come, dal punto di vista marittimo, il Meridione si affacci su entrambi i bacini, con la costa adriatico-jonica che guarda verso il Levante, fino al Medio Oriente, e un’altra che guarda verso il Ponente, e quindi aperta ai commerci atlantici. Non vi è un’altra regione o Paese, nel Mediterraneo, che goda di tutti questi vantaggi, dal punto di vista geografico; 

Conformazione fisica.


“La linea di costa di un Paese costituisce una delle sue frontiere e più facile è l’accesso alla regione al di là della frontiera, in questo caso il mare, maggiore sarà la tendenza di un popolo ad avere relazioni col resto del mondo per quella via. Se si potesse immaginare un Paese con una estesa linea di costa, ma interamente priva di porti, questo Paese non avrebbe, di per sé, alcun commercio marittimo, né naviglio, né Marina Militare”7. Qui sorgono alcuni problemi: il Meridione, con la sua limitata disponibilità di porti, alcuni dei quali sono ormai inadeguati a favorire il commercio, spesso per mancanza di manutenzione e di ammodernamento, è quindi fortemente svantaggiato sotto questo aspetto. La situazione dei porti turistici, i “Marina”, è in effetti migliore, anche se non ancora adeguata, per numero e capacità ad accogliere tutto il turismo marittimo che le bellezze dei nostri mari potrebbero attirare. Questo è un punto sul quale è necessario impegnarsi, se si vuole che il Meridione esca dal suo presente stato di sottosviluppo;

 

Estensione del territorio.

 

“Non è tanto il numero totale dei chilometri quadrati della superficie del Paese che deve essere considerato, quanto la lunghezza della sua linea di costa e le caratteristiche dei suoi porti. A questo riguardo occorre dire che, a parità di condizioni geografiche e fisiche, la lunghezza della linea di costa è fonte di potenza o di debolezza, a seconda che la popolazione sia più o meno numerosa”8. In teoria, quindi, con la sua costa estesa e piena di piccoli ridossi, il Meridione avrebbe tutte le caratteristiche per costituire un fattore propulsivo per incrementare la potenza economica e commerciale dell’Italia. In pratica, però, ci troviamo di fronte a un grande problema, triste retaggio della Storia, come vedremo tra breve;

 

Entità della popolazione.

 

“Per quanto riguarda la popolazione, non è solo il totale generale che deve essere computato, ma il numero di gente che prende il mare o, per lo meno, che è immediatamente disponibile per l’imbarco e per la costruzione di materiali navali”9. Purtroppo, nel Meridione, la specie umana nota come “homo maritimus” costituisce una netta minoranza, ancorché di rara qualità. Questo è dovuto sia ai secoli di dominazione straniera, sia alle minacce dal mare, che hanno indotto larghe fasce della nostra popolazione a emigrare verso l’interno del Paese: i bellissimi comuni, arroccati sulle montagne, che vediamo attraversando in auto il Meridione, non sono altro che una risposta a queste situazioni ingestibili, da parte di un popolo spesso lasciato indifeso, fino al XVIII secolo. Un altro grave problema, presentatosi negli ultimi decenni, è la progressiva decadenza della cantieristica meridionale, dato che in questo importante settore produttivo i responsabili delle decisioni economiche hanno a suo tempo deciso di spostare il baricentro della cantieristica al nord dell’Italia. Ciò ha reso il Meridione particolarmente debole sotto questo aspetto, facendogli perdere know-how e posti di lavoro;

 

Carattere nazionale.

 

“Se il potere marittimo è basato su un vasto e pacifico commercio, allora l’attitudine all’occupazione commerciale deve essere la caratteristica peculiare delle Nazioni che sono state, prima o poi, grandi sul mare”10. Ma il Mahan osservava anche che “le classi nobili d’Europa ereditarono dal Medioevo un arrogante disprezzo per il pacifico commercio, un disprezzo che ha esercitato un’influenza modificatrice nel progresso di queste, a seconda del carattere nazionale di questi Paesi”11. Questa osservazione si attaglia, in modo particolare, al Meridione: anche dopo la scomparsa della nobiltà come classe dirigente, le attività commerciali vengono sia sistematicamente oppresse dalla criminalità organizzata, sia considerate di livello inferiore rispetto ad altre professioni, specie quelle del terziario. Nel Meridione il senso di legalità è un patrimonio di meno della metà della popolazione e la criminalità organizzata, che prospera solo in ambienti dove l’illegalità è tollerata, può quindi opprimere le attività produttive e commerciali, impedendo lo sviluppo delle nostre terre e incrementando la disoccupazione;

 

Carattere del governo.

 

“La condotta del governo corrisponde all’esercizio di una volontà intelligente che, a seconda che sia saggia, energica e perseverante oppure no, causa successo o fallimento nella vita di un uomo o nella storia di una Nazione. (A tal proposito) i più grandi e brillanti successi si sono avuti quando vi è stato un intelligente indirizzo da parte di un governo interamente impregnato dello spirito del popolo e consapevole delle sue genuine inclinazioni”12. Quanto i governi regionali del Meridione siano determinati a far sì che il nostro Sud possa godere di uno sviluppo duraturo grazie alle attività marittime, è una domanda che è lecito porsi

 

In effetti, qualcosa è stato fatto, ma con una popolazione in gran parte lontana dal mare, com’è stata per secoli quella del Meridione, molto c’è ancora da fare per invertire la tendenza. 

 

Come si può notare dalle considerazioni finora elencate, esistono notevoli impedimenti a uno sviluppo della marittimità del Meridione, malgrado l’enorme potenziale, essenzialmente geografico, che la favorisce.

 

In buona sostanza, le azioni necessarie, per colmare il divario esistente, rispetto alle potenzialità in campo marittimo del Meridione, 

sono, in ordine di importanza: 

 

 Educare e abituare alla vita di mare una maggiore aliquota 

 della nostra popolazione.

 

Molti encomiabili sforzi sono stati fatti da parte di Associazioni, come la Lega Navale, ma è necessario che tali sforzi vengano non solo incoraggiati, ma anche integrati da un’azione ben più energica da parte delle Pubbliche Amministrazioni. Portare una popolazione verso il mare richiede anche una propaganda capillare per convincere l’opinione pubblica del Meridione che il mare non è più un pericolo, ma un’enorme opportunità;

Migliorare i porti.


Questo è un problema generale dei Paesi del Mediterraneo. Osservava, a tal proposito, l’intellettuale francese, Jacques Attali, che “i porti maggiori di questo mare sono al quarantesimo o al cinquantesimo posto nel mondo, (e) scadono annualmente in tale classifica”13. Un’azione decisa in tal senso, quindi, porterebbe al Meridione un benessere notevole, come mostra lo sviluppo di Gioia Tauro, che è diventato –
rara avis – uno dei porti maggiori del bacino;

 

Incentivare la cantieristica meridionale, la cui decadenza 

ha raggiunto un livello preoccupante.

 

Se è vero che la concorrenza dei Paesi asiatici è forte in questo campo, è altrettanto vero che le costruzioni navali di alta qualità e prestazioni sono un settore strategico, dove ben pochi Paesi possono competere con le qualità di noi meridionali in fatto di ingegno e di progettazione;

Dare un ulteriore impulso alle attività turistiche sul mare.


Chi sia andato sulla Costa Azzurra, da Nizza fino a Tolone, può vedere quanto indietro siamo noi meridionali, in questo campo. Con le coste e isole che abbiamo, potremmo più che raddoppiare le presenze di turisti e appassionati del mare. Servono più porti e più servizi, che generano indotto e occupazione. 

 

A monte di tutto, però, deve esserci una maggiore consapevolezza che non vi è sviluppo senza legalità. Proprio il settore dell’economia marittima è quello che necessita, come e più di altri, di legalità e di trasparenza.

 

Se la maggioranza della nostra popolazione non si convince 

che le attività economiche vanno protette dall’illegalità, dalla 

corruzione e dalla criminalità, nulla potrà consentire 

lo sviluppo di un “meridione Marinaro”.

 

Infatti, non ci vuole molto per perdere questa occasione di sviluppare le attività sul mare e altri Paesi, pur meno dotati del nostro Meridione, sarebbero ben felici di toglierci fette importanti di benessere in questo settore. Il rischio è quello di rassegnarci a vedere gli altri prosperare sul mare e, al massimo, “servire loro il caffè”! 

In definitiva, non ci si può limitare a vedere i futuri perni dell’economia del Meridione né nel turismo in genere né nella manifattura di prodotti di basso valore aggiunto, come si è pensato di fare. Una decisa sterzata verso l’eccellenza in campo marittimo, in tutti i settori di attività, è necessaria se si vuole stimolare uno sviluppo bilanciato e durevole del Meridione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

fine-t-storia
Ferdinando-Sanfelice

1 Discorso del Presidente SARKOZY a Le Havre, 16 luglio 2009.
2 Ibid.
3 G. ROCCO. Riflessioni sul Potere Marittimo. Ed. Lega Navale Italiana, 1911, pag. 1.
4 P. KENNEDY. Ascesa e Declino delle Grandi Potenze. Ed. Garzanti, 1989, pag. 20.
5  A.T.MAHAN. L’influenza del Potere Marittimo sulla Storia. Ed. Ufficio Storico Marina Militare, 1994, pag. 64.
6 Ibid., pag. 68.
7 Ibid., pag. 70.
8 Ibid., pagg. 77-78.
9 Ibid., pag. 79.
10 Ibid., pag. 84.
11 Ibid., pag. 88.
12 Ibid., pag. 92.
13 J. ATTALI. La Méditerranée ou l’ultime utopie, in Défense Nationale et Sécurité collective, numero speciale dedicato all’Unione per il Mediterraneo, 2008.

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1 Campania
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2 Puglia
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3 Sicilia
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4 Puglia
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5 Abruzzo
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6 Basilicata
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LE BUFALE STRALUNATE DI PIOVENE di Francesco Ricciardi – Numero 9 – Dicembre 2017

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LE BUFALE STRALUNATE DI PIOVENE

 

 

Piovene batteva palmo a palmo lo Stivale per conto della Rai quando, giunto nelle campagne di Paestum, prendeva per la prima volta contatto con quello “strano e primitivo animale, dagli occhi spiritati”

e con il delicato rito della mungitura: “La bufala si incontra in tutta la Campania; nella zona di Paestum gli allevamenti sono fitti, ed il caso ha voluto ch’io la conoscessi qui. Vi è certo una specie di affinità poetica tra quel grande animale nero e le antiche rovine. Armato di un bastoncino dalla punta di ferro, il massaio, che regola la vita delle mandrie, mi ha condotto dentro il recinto; le bufale facevano davanti a noi quasi un muro compatto, fissandoci a muso basso con espressione stralunata; se non fosse stata la fiducia nei poteri magici del bastoncello del massaio, avrei apprezzato meno la poesia della visita. Quell’animale primitivo è però strano e intelligente. Rifiuta di lasciarsi mungere se non ha il proprio piccolo attaccato a un capezzolo; soltanto allora, per nutrirlo, rilascia il suo prezioso latte, che altrimenti può trattenere. E infatti, ad ogni mungitura, il piccolo è presentato alla madre; questa cerimonia però richiede una specie di rito.

Al momento del parto, l’unico uomo che la bufala riconosce, il massaio, le grida il suo nome all’orecchio. Il nome non consiste in una parola, bensì in una frase cantata.

 

La bufala non la scorda più; diviene per sempre il suo nome, e insieme l’appello del figlio che chiede d’essere allattato. Anche tra duecento bufale, ognuna nel branco conosce la frase modulata che la distingue”. A questo punto il lettore perdonerà una divagazione personale a chi scrive, che coltiva il vezzo di considerarsi un intenditore della materia… in fondo può vantare un consumo familiare vecchio di alcune generazioni, una sorta di Dna latticino. La famiglia di mia nonna materna, infatti, gli Alfani, nelle sue vaste proprietà, con diverse fattorie attive nella piana del Sele (tutte sulla sponda destra del fiume) tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento allevava circa 8000 bufale (e altrettanti cavalli). Furono tra i primi nel Salernitano, gli Alfani, a produrre in maniera “sistematica” mozzarella di bufala. Era una produzione destinata piuttosto all’uso familiare, per la gioia propria, dei tanti amici e clienti (nel senso latino del termine), dei contadini ecc. Le mozzarelle, infatti, per la loro deperibilità e le caratteristiche di assoluta freschezza che devono avere al momento di essere consumate, mal si prestavano ad un esteso commercio. Che la diffusione della mozzarella fosse limitatissima è provato, peraltro, dalla sua totale assenza nelle figurazioni del Presepe napoletano, dove invece fanno bella mostra di sé provole e caciocavalli appesi alla porta delle case o sulle botteghe dei salumieri.

Alimento di lusso, dunque, la mozzarella… tanto che, in epoca borbonica, la sua produzione e la commercializzazione avvenivano addirittura nella Tenuta reale di Carditello.

 

Da qui ogni giorno venivano inviati latticini freschi per la tavola del re, e il resto della produzione era venduta ai privati, costituendo una delle voci più cospicue delle rendite reali. Siamo verso la fine del Settecento e l’affermarsi del consumo dei latticini di bufala va certamente collegato con l’attività della Tenuta reale, dove venivano anche apportate migliorie agli allevamenti e alla razza mediante incroci indovinati. Re Ferdinando, infatti, se da un lato lasciò assai a desiderare quanto a doti politiche, non era per nulla scarso sul versante del bel vivere. Trascurava, insomma, volentieri i problemi pratici del suo regno ma sapeva come godersi la vita. Era anche buongustaio e i suoi latticini amava consumarli freschi, così come arrivavano sulla sua tavola. E faceva bene. È solo un parere personale ma nessuno mi toglierà mai dalla testa la convinzione che utilizzare la mozzarella di bufala in qualsivoglia preparazione di cucina sia uno spreco: se cucinata, infatti, perde quasi del tutto il suo sapore e quella consistenza inconfondibili… meglio allora usare una qualsiasi mozzarella di latte vaccino. Come si conviene a una regina della tavola meridionale, la mozzarella di bufala va consumata fresca – alcuni, tra cui il sottoscritto, la preferiscono del giorno prima – e gustata da sola.

 

La sua pasta inconfondibile, la forma e la consistenza non hanno riscontro in nessuno dei prodotti simili.

 

Perché – per dirla con Maria Rivieccio Zaniboni (Cucina e vini di Napoli e della Campania – Mursia 1975) – non solo occorre che le bufale pascolino nelle piane di Aversa e di Paestum, ma occorre che pascolino di notte quando la luna batte e illumina d’argento le pianure e gli acquitrini. È questa luna, ci ha raccontato un amico, che ne arricchisce e ne impoverisce il latte per cui, a detta degli esperti, un legame arcano passa tra il sapore della mozzarella e le fasi lunari così come altri orfici legami restano intrecciati con il colore dell’erba dei pascoli o addirittura con i venti che corrono sul litorale sul quale sciaborda quel mare su cui veleggiarono un giorno lontano Ulisse ed Enea”. È un mondo, quello descritto dalla Rivieccio Zaniboni, che purtroppo è finito per sempre, sepolto dai moderni metodi di allevamento che ospitano gli animali in stalle attrezzate e a cicli di produzione programmati che hanno tolto le bestie dagli acquitrini primordiali.

 

Le bufale che ancora si vedono oggi percorrendo le vie della Piana 

del Sele spesso sono messe lì per bellezza, magari come semplice richiamo per un caseificio che ha il proprio punto vendita 

lungo la strada.


Già dal 1993 il “Consorzio formaggio tipico mozzarella di bufala” ha ottenuto la doc (sicché può fregiarsi di questo nome solo la mozzarella prodotta al 100% con latte bufalino, confezionata in sacchetti adeguati recanti l’apposito contrassegno) ma, come avviene anche per altri prodotti, non è tutto; come le mozzarelle di bufala non sono tutte uguali. Non basta fermare la macchina ad Aversa o Battipaglia, entrare dal primo rivenditore che capita ed essere sicuri di portare a casa una buona mozzarella. Ve ne sono anche di pessime. Se il caseificio non ha un buon “casaro”, personaggio strategico che racchiude in sé esperienza, competenza e tecnica, non produrrà mai una buona mozzarella. E il “napoletano”, che tra i suoi oggetti di culto, cui non può o non vuole rinunciare (la pizza, i maccheroni, il sole, il mare, San Gennaro…), ha anche la mozzarella, sarà in grado di riconoscere al primo boccone se è buona, in barba a qualsiasi normativa.

Il nome delle bufale


Secondo Achille Bruni (Dell’Agricoltura e Pastorizia del Regno di Napoli, 1845) «la bufola figlia una volta l’anno, porta 10 mesi circa, ed ha moltissimo amore per la sua prole. È chiamata con nome e con una certa cantilena, e così essa si muove dal luogo ove pascola, e si avvicina alla persona per farsi mungere». È tutto vero: ama i suoi piccoli e risponde al richiamo. I nomi, quasi delle frasi, devono essere cantati: «È una cantilena orientale – dice Piovene – certo d’origine remota, simile a quella del muezzin dal minareto, e che il massaio invece modula all’alba davanti al branco. Successivamente le bufale escono dalla mandria e si consegnano docili ai mungitori; senza la frase magica non uscirebbero, e si ribellerebbero al tentativo di mungerle con tutta la loro furia selvaggia». Ogni annutolo, dunque, appena il massaro intonava il suo nome – diverso nelle parole e nel ritmo dagli altri – rispondeva al proprio e accorreva, seguito dalla madre che, anch’essa rispondendo al richiamo, lo raggiungeva lasciando il gruppo.

Potevano essere centinaia, le bufale, ognuna aveva il suo versetto inventato apposta per lei dal massaro.

 

Traducendo i nomi citati in italiano da Piovene, questi “in lingua” suonerebbero più o meno così: Chesta se ‘ntrica ‘ e tutto (s’impiccia su di tutto); Tu nun si’ mai cuntenta (non sei mai contenta); ‘A canzona è bella ‘a ssentì (la canzone è bella da sentire); Me piace pecché è bell’ e giovane (mi piace perché è bella e giovane); ‘Onna Rosa cumanna a tutt’ quante (Donna Rosa comanda tutte); Tu me fai ‘a presumente (Tu mi fai la presuntuosa); I’ song’ bella o’ veramente (sono veramente bella). 

Anche il poeta Rocco Scotellaro in ‘Contadini del Sud’ ci riferisce di alcuni di quei nomi magici: «Ogni bufala ha un nome che è un versetto e i nomi di una mandria di bufale sono un poema! ‘Nu turzu… ‘nu turzo t’è lassato ‘n canna (il nocciolo… ti è rimasto in gola); ‘A malatia… tiene sempre ‘sta malatia (la malattia… hai sempre la stessa malattia); ‘E cane… pure ‘e cane stanne amare (anche i cani sono tristi); ‘A cuccagna… sta cuccagna pure fernisce (la cuccagna… anche questa cuccagna finisce); A lu fine… a lu fine se sente l’addore (dal friggere… dal friggere si sente l’odore)». E mia nonna Angelica ce ne ha tramandato alcuni creati dai suoi massari, tra cui ricordo: Vac’ a Ievol’ a fa’ ammore (Ievol’ sta per Eboli), Tavernanova alloggia a tutti (a Tavernanova sorgeva la maggiore tra le aziende agricole di famiglia), ‘O signurino ‘nsisto, dove per signorino prepotente si intendeva Mariantonio, il primogenito della famiglia… Si, perché alcuni nomi potevano essere anche un pretesto, un mezzo indiretto usato dal massaro per dire la sua al padrone, perfino per insultarlo, giacché tra massaro e bufala il padrone non si poteva intromettere.

La parola mozzarella

 

Già alla fine del Seicento Antonio Latini, nella “Breve descrizione del Regno di Napoli in ordine alle cose commestibili”, indicava Acerra come luogo principe per la produzione di provole; e, poco più di un secolo dopo, lo confermava Vincenzo Corrado che nelle “Produzioni del Regno di Napoli” inserisce questi latticini tra i prodotti tipici della città che aveva dato i natali a Pulcinella: “Si fa grande industria e commercio di provole, di mozzarelle, di burrielli, e di altri freschi latticini, giacché vi sono procovj di vacche e di bufale. Parimenti – egli prosegue – per la città di Aversa…”.

Ma la prima citazione sicura del termine mozzarella, diminutivo 

di mozza, risale alla seconda metà del XV secolo quando Pietro Mattioli (“I discorsi”), parlando di latte, citava “quello di bufala di cui si fanno quelle palle legate con giunchi che chiamiamo mozze 

e a Roma provature”. 

 

Mozzarella, provatura, provola… negli antichi ricettari si parla in genere di provatura, termine usato un tempo nelle zone del Lazio meridionale, tuttora zona di bufali, per indicare i formaggi freschi bufalini lavorati come la mozzarella; provola invece era il nome usato in Campania, sostituito poi con la parola mozza e con il diminutivo mozzarella, dal verbo mozzare, chiara allusione ad uno dei momenti significativi della lavorazione. Con l’andar del tempo provatura è finito nel dimenticatoio come termine arcaico, usato solo in qualche ricetta della tradizione romana (crostini di provatura), e provola invece è rimasto ad indicare il formaggio bufalino o vaccino affumicato, un espediente, questo, usato per una migliore conservazione e un più facile trasporto e commercio. Sulla storia delle bufale e della loro presenza in Italia esistono pareri quanto mai controversi. Alcuni, basandosi su un brano di Plinio, affermano che i bufali sarebbero stati presenti già in epoca Romana. C’è poi l’affermazione di Paolo Diacono nella sua Historia Longobardorum, secondo la quale i bufali sarebbero arrivati in Italia al seguito di Agilulfo, re dei Longobardi intorno al 596 d.C.  

Nell’Ottocento, altri autori ipotizzarono che essi fossero stati introdotti 

in Sicilia dagli Arabi e, successivamente, per opera dei Normanni, dall’isola importati nelle regioni meridionali.


Nessuna delle ipotesi può vantare prove inconfutabili, nessuna storia è più vera dell’altra, anzi, è probabile che tutte abbiano un fondo di verità e che le bufale d’oggi siano un misto di tutte le razze del passato. Per la storia della nostra gastronomia la cosa è irrilevante poiché le prime testimonianze di formaggio bufalino si hanno solo molti secoli dopo. Una cosa è certa, però, due sono le localizzazioni originarie (solo in seguito si aggiungeranno il Foggiano e la provincia di Latina): una nei territori di Acerra e Capua, l’altra nella piana del Sele, dove la presenza di questi animali è abbondantemente testimoniata. Tra l’altro il bufalo, sconosciuto nel resto d’Europa, suscitava la curiosità di quei viaggiatori stranieri del Settecento così ardimentosi da spingersi fin qui. Essi, tornati in patria, raccoglievano le loro esperienze nei famosi diari di viaggio, in cui non di rado si parlava dei bufali. Così J. W. Goethe: “… attraversando canali e ruscelli e incontrando bufali dall’aspetto di ippopotami e dagli occhi iniettati di sangue…”; e così C. V. De Salis Marschlins: “… razza di bestiame alla quale si porta da alcun tempo molta attenzione… le mandrie più numerose si ritrovano sulle rive del Garigliano e nelle pianure a settentrione della Terra di Lavoro…”.

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e il suo Viaggio in Italia (1957), libro del quale l’anno appena trascorso ha festeggiato il sessantesimo compleanno, come del suo autore i 110 anni dalla nascita. Fu, quello dello scrittore vicentino, un lavoro speciale, un affresco straordinario del nostro Paese che Eugenio Montale, nel recensirlo, non esitò a definire “un viaggio di ricognizione di una completezza senza precedenti”. A mezzo secolo dalla sua pubblicazione, non è ancora apparso un altro libro di viaggio capace di penetrare così a fondo nella realtà del paese, tanto da poter essere letto con piacere e profitto anche in funzione dell’Italia di oggi.

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ARCHIMEDE GENIO DEL SUD di Fabio de Paolis – Numero 9 – Dicembre 2017

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 ARCHIMEDE GENIO
DEL SUD

Sebbene dai più sia ricordato soprattutto per la sua attività di ingegnere e inventore, capace di ideare macchine belliche e dispositivi meccanici di vario tipo, Archimede di Siracusa, matematico, fisico e astronomo, è il maggiore scienziato dell’antichità. Gli storici romani raccontano che il console Marco Claudio Marcello, dopo avere con la forza e uno stratagemma espugnato Siracusa, si arrampicò nei luoghi più elevati, per vedere dall’alto la bellissima città sottomessa. Una immagine questa, che lo commosse fino alle lacrime. Lacrime di gioia per una così grande vittoria, ma anche lacrime amare, dovute alla pena di vedere deturpata dal suo esercito la più bella e ornata città greca d’Occidente.

 

Siracusa nel III secolo era la capitale di un regno piccolo 

per territorio ma importante nell’ambito degli stati ellenistici 

del Mediterraneo. Grazie al suo illuminato Basileus Ierone II 

il regno aveva una salda struttura amministrativa e perseguiva, 

con i più potenti Stati dell’epoca, un’accorta politica impostata 

su equilibrati rapporti diplomatici ma, soprattutto, con l’Egitto, 

paese allora all’avanguardia in campo scientifico.

 

Non a caso Archimede fu mandato a studiare ad Alessandria nella scuola fondata da Euclide, dove strinse amicizia con il geografo Eratostene da Cirene, con l’astronomo Conone di Samo e con il matematico Dositeo di Pelusio, e dove visse gli anni fondamentali della sua formazione scientifica. Quando il nostro genio tornò a Siracusa (città dove Archimede scrisse tutte le sue opere) la città godeva di un lungo periodo di pace e di prestigio internazionale. Era divenuta uno straordinario centro culturale ove s’irradiavano intense correnti artistiche e scientifiche che la rendevano città di primissimo piano. Per la centralità della sua posizione, per il volume dei traffici, per la sua la ricchezza economica fondata sull’agricoltura e sul commercio, e soprattutto per la qualità delle relazioni internazionali, Syrakousai era un centro di cultura tecnico/scientifica in cui interagivano i migliori specialisti in circolazione. La fiorente economia di Siracusa e del suo territorio era radicata nella ricchezza della sua produzione agricola a cominciare dal grano, dalla produzione del pesce salato, dalla produzione di vasellame, dalla coroplastica, dalla raffinata toreutica e dalla impareggiabile oreficeria. Una città modello soprattutto per le straordinarie architetture civili e militari di cui era dotata (in primis il Castello di Eurialo).

La Siracusa che commosse Marcello possedeva 27 chilometri 

di mura che le garantivano una formidabile difesa sia dalla parte 

del mare, sia da quelle di terra. Era chiamata anche la Pentapoli,

 

una città che comprendeva cinque grandi quartieri, che erano a loro volta delle vere e proprie città fortificate: l’Acradina, il quartiere posto al centro, il più grande e più popolato, tutto ruotante intorno alla grande Agorà attraversato da grandi strade rettilinee secondo il modello greco; la Neapoli, un quartiere monumentale dedicato al culto e allo spettacolo, con l’Anfiteatro, la Stoà, l’Ara di Ierone, il tempio di Apollo, il teatro lineare, e nelle vicinanze il tempio di Demetra e Kore; la Tyche (così denominato per la presenza di un tempio dedicato alla dea fortuna), un quartiere bagnato sulla sommità dal famoso torrente Timbri, un quartiere fornito di templi, ginnasio, torri e mura; poi l’Epipoli, che era un nuovo vasto quartiere inaccessibile dall’esterno, concepito per scopi militari e quindi poco popolato, interamente roccioso e a picco, anch’esso completamente circondato da possenti mura e torri; ed infine Ortigia, isola volgente verso terra con le sue mura turrite. Un quartiere che viveva avulso dal resto della città e che, secondo un antico giudizio, era al tempo stesso città forte, seggio di monarchi, luogo di traffici, ricovero di navi mercantili e da guerra, con un palazzo fortificato, sede del tiranno con la sua corte, un Athenaion, vasti granai fortificati, e un piccolo porto. Questa era la Siracusa del III secolo, la grande metropoli siceliota dove nacque e morì Archimede. Una città eccezionalmente fortificata e, prima dell’arrivo delle aquile romane, una delle poche città mai espugnate. Narrano gli annalisti che quando i Siracusani videro i Romani con la loro formidabile macchina da guerra investire la città dai due fronti rimasero storditi e ammutolirono di timore. Pensarono che nulla avrebbe potuto contrastare l’impeto di un attacco in forze di tali proporzioni. 

Secondo Tito Livio “la città sarebbe stata subito presa, 

se non vi fosse stato un sol uomo, Archimede, sopra ogni altro contemplatore del cielo e delle stelle, ma più meraviglioso 

inventore e costruttore di macchine guerresche e di ordegni, 

il quale distruggeva in un momento le faticose 

opere di offesa contro la città.


Le mura della città furono da lui fortificate in modo assai vario. Contro le navi più lontane, catapulte lanciavano pesanti pietre, contro le più vicine nugoli di frecce. Opportune feritoie nelle mura permettevano ai difensori di colpire senza essere feriti; uncini di ferro (la manus ferrea), legati da catene, afferravano le navi che si avvicinavano troppo alle mura, e le sconquassavano. Dalla parte più alta delle mura, enormi massi lanciati rotolavano con violenza lungo il pendio naturale delle colline esterne, contro gli assalitori”. Fonti più tarde attribuiscono ad Archimede anche l’invenzione degli specchi ustori, mediante i quali avrebbe incendiato molte navi romane che dal mare assediavano Siracusa. Specchi a parabola ove i raggi del sole, essenzialmente paralleli, si concentravano in un punto chiamato fuoco, e proiettavano con precisione il calore sul legno e sulle vele delle triremi. Racconta Plutarco che le macchine costruite da Archimede (tra cui la Coclea, una pompa a spirale per il sollevamento dell’acqua, dispositivo noto come vite di Archimede; o il Planetario, da lui creato con lo scopo di predire il moto apparente del sole, della luna e dei pianeti; o l’orologio ad acqua, frutto di studi di pneumatica antica) non costituivano per lui oggetto di profondo studio, ma egli si occupava di fabbricarle e studiarle per le insistenti richieste del re Gerone (suo parente), il quale lo aveva persuaso della necessità di volger la sua attenzione dalle cose speculative a quelle materiali, per i bisogni più concreti e più sentiti dalle moltitudini. 

 

Gerone aveva visto lungo, all’impressionante peso dei suoi scritti, che spaziano dalla geometria all’idrostatica, dall’ottica alla matematica, dall’idraulica all’ astronomia, fanno da contraltare le eccezionali intuizioni che, nel campo della tecnologia meccanica, ci consegnano Archimede come il genio assoluto e erga omnes l’inventore per antonomasia. 

Dopo ventitré secoli il nome di Archimede è sinonimo di invenzione e innovazione nel campo della produzione e del design.

L’elenco sarebbe lunghissimo, basti ricordare che, il 14 marzo si festeggia in tutto il mondo il PI greco day (il 3,14 dei paesi anglosassoni, conosciuto anche come costante di Archimede) ove vengono organizzati concorsi di matematica, un momento planetario in onore di Archimede, che viene citato e commemorato. Sempre in onore del nostro genio sono stati nominati sia il cratere lunare Archimede, che l’asteroide 3600 Archimede. Nella medaglia Fields, la massima onorificenza per matematici, in un verso della medaglia c’è il ritratto di Archimede con iscritta una frase a lui attribuita “Transire suum pectus mundoque potiri” (Elevarsi al di sopra di se stessi e conquistare il mondo). Nell’arte Archimede è stato onorato soprattutto da Raffaello nell’affresco vaticano della scuola di Atene, il divino pittore lo rappresenta intento a studiare la geometria, e le sue sembianze sono di Donato Bramante. Anche all’interno della colonna Traiana, costruita da Apollodoro di Damasco, la struttura ad elica dell’interno è visibilmente un preciso richiamo alla vite idraulica ideata da Archimede.

 

Nel corso della propria esistenza anche Leonardo da Vinci dimostrò più volte ammirazione per Archimede, soprattutto per le sue capacità di affrontare proficuamente problemi di statica e di geometria
da cui trarre applicazioni pratiche.

 

Leonardo lavorò a un particolare cannone a vapore (l’architronito) che attribuì al genio di Archimede. Anche Galileo cominciò molto presto a studiare Archimede, che definiva il suo maestro. Particolarmente apprezzati da Galileo furono i trattati “Sui galleggianti e Sull’equilibrio dei piani “. “Voi aspettate io invento; se c’è gente che proprio non sopporto sono gli inventori; il cliente ha sempre ragione” non sono motti del nostro genio siracusano ma di Archimede Pitagorico (Gyro Gearloose) un gallo con i piedi antropomorfizzati e con fattezze umane. Nato nel 1952 dalla penna di Carl Banks con le caratteristiche del nostro eroe, Archimede Pitagorico è un papero da laboratorio straordinariamente intelligente e creativo, che trascorre ore nella sua disordinata officina. Perennemente scapigliato, è apparentemente avulso delle cose terrene, ed è sempre circondato da fogli stracolmi di calcoli e geometrie, papiri da cui difficilmente si separa per distrarsi a parlare col prossimo. Nonostante tutte le stravaganze, l’amatissimo Archimede Pitagorico è destinato a non morire mai, a differenza di Archimede da Syrakousoi, a cui questo lato del carattere risultò fatale. 

 

Seguendo il racconto degli storici proviamo a immaginare 

i suoi ultimi momenti.

 

Siracusa era in festa per il giorno di Artemide quando le legioni di Marcello penetrarono nella città abbandonandosi al saccheggio. Un legionario romano entrò nella casa di Archimede, che probabilmente abitava nell’Acradina. La sua era una tipica casa siracusana del tipo a peristilio, con accesso sulla via principale, dotata di un corridoio d’ingresso che conduceva in un cortile intorno a cui erano disposte le camere. Penetrò in quella di Archimede, che nel frattempo non si era accorto che la città era caduta, con i Romani penetrati all’interno. Il soldato lo trovò con la barba folta, le sopracciglia contratte e la capigliatura scompigliata. Indossava un mantello ed era probabilmente chino su di un tavolo mentre studiava con in mano il suo bastone per tracciare figure. Il legionario gli si avvicinò ordinandogli più volte di seguirlo, ma Archimede lo ignorò completamente, provocando l’ira del soldato che con la daga lo trafisse sul posto.

 

Questa fu la fine di un uomo semplice e puro, con una straordinaria capacità di attenzione e di lavoro, uno spirito di concentrazione 

che spesso gli faceva dimenticare di mangiare, di dormire.

Che gli faceva trascurare la sua persona, a tal punto che si racconta che anche quando si ungeva il corpo con l’olio, con il dito vi conduceva linee e geometrie. Si dice che Marcello fosse afflitto per questa morte, allontanasse l’uccisore, facesse ricerca dei parenti di Archimede rendendo loro onore. Nel 75 a.C., Marco Tullio Cicerone, questore in Sicilia, cercò e scoperse la tomba di Archimede finita nel dimenticatoio, sulla lapide erano scolpiti un cilindro circoscritto ad una sfera con un iscrizione indicante il rapporto tra i volumi e le superfici dei due solidi.

ArchimedeMuore
fregioArancio
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PREZIOSA MEMORIA. CULTURA DEL SUD di Grazia Francescato – Numero 9 – Dicembre 2017

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PREZIOSA MEMORIA. CULTURA DEL SUD

 

intervista a
di grazia francescato
un sacerdote della natura

Esagero? Affatto. Giampiero Indelli, fotografo e naturalista di rango, grande esperto di zone umide e wildfowl, si è sempre considerato, innanzitutto, un “officiante” dedito a celebrare la bellezza e la sacralità della natura. Il suo obiettivo si è puntato principalmente sulle sue terre d’origine, quel Sud nascosto e dimenticato, dove non crescono solo i limoni cantati da Goethe, ma anche i faggi del Cilento e i salici in riva al verde Sele.

Uno sguardo al di là degli stereotipi, quelli romantici ma anche quelli moderni dello sviluppo e della crescita, come medicine
per gli antichi mali del Meridione.

 

Lo sguardo di un artista del Sud che ha saputo conquistare un primato ragguardevole nel raccontare, con professionalità e amore, lo splendore ignorato ma anche la metamorfosi dei territori meridionali, intento a cogliere quel di più di valori naturalistici, artistici, storici e culturali che rappresentano la vera ricchezza di questa vasta parte d’Italia.

 

Ti definisci “uno che entra in un bosco in punta di piedi, come se entrassi in una chiesa”. La fotografia naturalistica, dunque,
non solo come professione ma come vocazione?

 

Esattamente. Fin da bambino, quando accompagnavo mio nonno Federico a caccia negli oliveti del Cilento o mio zio Antoniuccio a pesca lungo il fiume Sele, mi sono subito reso conto, istintivamente, della bellezza e maestosità del paesaggio meridionale. La mia prima foto pubblicata su una rivista, quando avevo quindici anni, ritrae appunto mio zio a pesca sul Sele. Ancora una foto di mio zio campeggia sulla mia prima copertina di una rivista a tiratura nazionale: “Pescare”. Nei primi anni della mia carriera di fotografo mi sono dedicato esclusivamente alla caccia fotografica. Anatre, aironi, beccaccini, limicoli erano i miei soggetti abituali. Immagini pubblicate sulle riviste di caccia, perché all’epoca non c’erano ancora le riviste di natura. Quando queste ultime hanno fatto la loro comparsa, ho cominciato a fotografare anche fiori, alberi, paesaggi e a pubblicare su “Airone”, “Oasis”, “Gardenia”, “Bell’Italia”. In seguito mi sono dedicato a fare libri fotografici: Le Oasi del WWF, Cilento, Persano. Recentemente ho pubblicato un libro, La prima luce del giorno, che racconta questo mio percorso esistenziale e professionale. 

 

Dagli animali al paesaggio. Quali le motivazioni di questo cambiamento?

 

Sostanzialmente due. Da un lato ho fatto tesoro delle indicazioni di Fulco Pratesi, mio maestro, il quale sosteneva che i veri fotografi dovevano vendere alle riviste non le foto singole ma l’intero servizio. Dall’altro, è maturata in me la consapevolezza che la foto di paesaggio è un genere fotografico più colto, complesso ed espressivo del ritratto di un’anatra o di un beccaccino. Per fare una buona foto di uccelli, devi conoscerne le abitudini, sapere dove cercarli, costruire un capanno adatto, avere molta pazienza. Nella foto di paesaggio confluiscono invece molti motivi d’ispirazione: dipinti, fotogrammi di film, brani di libri, foto di altri autori. La foto di paesaggio costituisce, secondo me, un’evoluzione culturale e professionale rispetto a quella degli uccelli.

 

E la tecnica? Conta davvero tanto, come molti credono?

 

Fino a un certo punto. Ovviamente è necessario imparare a usare al meglio l’attrezzatura, affinare la tecnica… Ma è lo sguardo che conta. La fotografia di paesaggio è fondamentalmente inquadratura. Così come si nasce con un orecchio per la musica, si nasce con un occhio per l’inquadratura. E’ un talento naturale, che permette di riconoscere automaticamente, tramite un processo inconscio, i rapporti tra i volumi, l’armonia dei colori, l’equilibrio tra le linee. Insomma, aveva ragione Picasso che affermava: “Io non cerco, trovo”.

 

Il Sud è spesso protagonista delle tue immagini. Una vera passione, 

nel senso etimologico del termine: estasi di fronte alla bellezza, sofferenza per gli scempi e le ferite.

 

La spinta originaria a diventare fotografo naturalista è stata proprio innescata dal fatto che mi sono subito reso conto di avere a disposizione, vivendo a Salerno, un enorme patrimonio di natura e di paesaggi, quasi del tutto sconosciuto agli italiani e sottovalutato dai residenti. Un patrimonio ancora sostanzialmente intatto, quando ho cominciato a fotografarlo. Ho fotografato quasi sempre luoghi a me cari, che mi parlavano, con cui scattava una risonanza affettiva, emotiva, un legame con la mia infanzia e adolescenza. Luoghi con cui c’era una simbiosi, un’identificazione profonda: il Cilento interno, il fiume Sele, l’Oasi WWF di Persano. Il mio nome è ormai associato automaticamente a queste aree, che sono diventate così il mio ubi consistam artistico. Questa identificazione tra un artista e un luogo si è verificata spesso nel mondo della fotografia e dell’arte. Basti pensare ad Ansel Adams e al Parco di Yosemite, a Fulvio Roiter e a Venezia, a Shinzo Maeda e la catena montuosa chiamata Kamikochi, ma anche a Theo Angelopoulos e alla Grecia interna, a Fellini e Rimini… l’elenco potrebbe continuare a lungo. Quanto alla passione, intesa come sofferenza di fronte alla devastazione di tanta parte del paesaggio meridionale, in particolare le coste e le pianure, ho vissuto con dolore queste alterazioni di luoghi a me cari, ma ho anche combattuto, insieme al WWF, per arginare gli scempi. Per questa ragione ho scelto di non tornare, negli ultimi anni, in alcuni luoghi a me cari, particolarmente segnati dall’urbanizzazione dilagante. Comunque non dobbiamo trascurare le evoluzioni positive: molte zone interne sono migliorate, in seguito allo spopolamento delle campagne e alla diminuzione delle capre, formidabili divoratrici di piante e arbusti. Sull’Appennino meridionale i boschi si sono estesi notevolmente e molti paesaggi hanno ritrovato un’arcaica bellezza.    

 

A parte la visione del paesaggio, cosa distingue le tue immagini 

da quelle di altri fotografi che hanno fotografato il sud?

 

Io mi sono sempre considerato, più che un fotografo-naturalista, un naturalista-fotografo. Non è un semplice gioco di parole. Essere un naturalista vuol dire conoscere intimamente gli ambienti naturali. Significa saper dare un nome agli alberi, ai fiori, agli animali, a tutto ciò che compone un paesaggio, al di là della sua semplice apparenza. La bellezza, intesa come armonie di linee e di volumi, è la patina superficiale di un paesaggio. E’ forma. Il contenuto di quel paesaggio ha un valore, un’importanza che solo un occhio esperto sa riconoscere. Le mie foto raccontano di quel contenuto di natura, racchiuso in un involucro accattivante. Parlando di un altro ambito, non ci sono descrizioni dei paesaggi meridionali scritte da naturalisti. Se uno vuole conoscere com’erano certi luoghi del sud, deve leggere i racconti di caccia ambientati in quei posti. Fra i pochi autori che hanno descritto il sud, con l’occhio del naturalista, ricordo soltanto i libri di Edwin Cerio su Capri e quelli di Norman Douglas sulla Calabria e la Penisola Sorrentina.

 

Quale importanza attribuisci al tuo archivio d’immagini del sud?


In molti casi le mie foto raccontano com’erano i luoghi prima delle trasformazioni degli ultimi decenni. Penso, per esempio, al fiume Sele, che ho fotografato per trent’anni, dagli anni ’70 agli anni ’90. Il paesaggio lungo le sue rive era ancora in buone condizioni. Poi è successo di tutto. E’ stata realizzata la terza corsia sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, sostituendo molti tratti curvilinei con tracciati rettilinei. In realtà è stato costruito un nuovo tracciato, parallelo al primo, a breve distanza dalle rive del fiume. Una miriade di pale eoliche segna il profilo di ogni collina. Edifici e capannoni si sono moltiplicati a dismisura. L’elenco potrebbe continuare a lungo…

 

Tu lamenti spesso la scomparsa della “grande luce del Sud”, 

elemento chiave per una professione che significa proprio 

“scrivere con la luce”…

 

Il mutamento della luce, nel Sud e ovunque, è un vero dramma. La cappa di smog si estende, sale in quota e ormai si ritrova anche sopra i mille metri. La luce che sfolgorava nei quadri dei vedutisti del ‘700 è ormai un remoto ricordo.

 

Negli ultimi anni, ti stai orientando sempre più verso la foto astratta. Perché?

 

Infatti oggi mi sento più attratto dalla foto astratta. Negli ultimi anni ho fatto più di 15.000 foto di nuvole. Quest’anno ho fatto molte foto di licheni. E’ una mia personale ricerca sul colore e sulle armonie presenti in natura. La vivo anche come una forma di ricerca spirituale. E’ un percorso comune a molti pittori, che iniziano con il figurativo e approdano all’astratto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Credit foto Giampiero Indelli 

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IL CODICE PURPUREO DI ROSSANO CALABRO di Michele Minisci – Numero 9 – Dicembre 2017

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Codice purpureo di rossano calabro

 

Il Codice Purpureo (Codex Purpureus) di Rossano Calabro contiene una serie di miniature che illustrano alcuni dei momenti più significativi della vita e della predicazione di Gesù. È stato scritto con un inchiostro aureo per il titolo e argenteo per le tre righe iniziali di ciascun Vangelo e per tutto il resto.  È una preziosissima pergamena di ben 376 pagine (188 fogli della dimensione di cm. 30,7×20), che contiene un antichissimo evangelario scritto con raffinati caratteri in oro e argento, illustrato da 16 stupende miniature sulla vita di Cristo e risale fra la fine del V e l’inizio del VI secolo. Questo documento, unico nel suo genere, riporta in lingua greca il Vangelo di Matteo e quello di Marco fino al cap. XVI,14. In origine doveva contenere anche Luca e Giovanni, visto anche il frontespizio con l’illustrazione dei quattro evangelisti.

Questo evangelario è considerato il più importante esempio
al mondo di codice greco miniato, ed è stato composto certamente
in Medio-Oriente, ad Antiochia di Siria o a Cesarea di Palestina,
e deriva il suo nome dal fatto che è scritto su una pergamena sottilissima color porpora,


fatta con la pelle di agnello con poche settimane di vita, che, nelle terre di Bisanzio veniva anticamente utilizzata solo per documenti particolarmente importanti. Il Codex ha avuto il suggello della sua straordinarietà da parte dell’Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario di Roma che ha lungamente studiato, analizzato e restaurato l’opera, e contemporaneamente è stato considerato Patrimonio dell’Umanità da parte dell’Unesco. “Memoria del Mondo” è il titolo con cui l’Unesco ha riconosciuto il Codice Purpureo Rossanense, Patrimonio dell’Umanità.

 

Come sia arrivato a Rossano non è stato possibile stabilirlo: potrebbe essere stato portato in Calabria dai quei monaci melchiti che, a cavallo tra l’VIII e il IX secolo fuggirono dalle persecuzioni subite durante l’espansione islamica all’interno dei territori cristiani bizantini.

 

La città di Rossano Calabro, situata sull’alta costa ionica della Calabria, in provincia di Cosenza, a pochi chilometri dal mare e dall’importante sito archeologico di Sibari, era già nel VI secolo un notevole centro bizantino di circa ventimila abitanti, ove spesso confluivano profughi dal Medio Oriente, come anche dalla Sicilia, anch’essa invasa dagli arabi. Ed è proprio a causa dell’immigrazione di monaci ed eremiti greci che Rossano diventò punto di diffusione, nell’Italia meridionale, della cultura e della liturgia greca. Il Codex Purpureus è custodito presso il Museo Diocesiano, e precedentemente era conservato nel monastero del Patirion, a pochi chilometri dalla città (anch’esso da visitare!). 

 

Furono due ricercatori tedeschi, Von Harnak e Von Geghardt
a comprendere la grandissima importanza storica della pergamena, segnalandone la presenza agli studiosi di tutto il mondo nel 1879.
Gli studiosi furono subito colpiti dalla bellezza del testo,
scritto su due colonne di venti righe ciascuna.

 

Il Codice è composto, come si è detto, di 188 fogli, ma originariamente ne doveva contenere circa 400, con l’intero testo dei quattro vangeli, delle dieci tavole dei canoni, e della lettera di Eusebio di Cesarea a Carpiano sulla concordanza dei Vangeli, lettera di cui è rimasta solo una parte. Fu proprio Eusebio, vescovo di Cesarea, a lasciarci nel 318 una delle più antiche testimonianze del Canone cristiano, l’elenco dei libri sacri che compongono il Nuovo Testamento.

 

Un altro esempio dei tesori custoditi in terra di Calabria
restituito alla Storia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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LE VIE FRANCIGENE DEL SUD di Giorgio Salvatori – Numero 9 – Dicembre 2017

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LE VIE FRANCIGENE DEL SUD

 

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Era nata la via Francigena che, in seguito, si estenderà,
con un prolungamento del percorso e decine di diverticoli,
al resto della penisola. Diventerà così non soltanto
la via per Roma, la “Romea”, ma anche
la ‘’via verso Gerusalemme’’,


arricchendo il cammino di nuove tappe in quelle regioni che, oggi, sono il Molise, la Campania, la Basilicata e, soprattutto, la Puglia. Un percorso di fede e, contemporaneamente, una sfida, un viaggio alla scoperta di se stessi. 

 

E oggi? Sulla scia del sorprendente successo che anima ancora l’itinerario di fede cristiana verso Santiago di Compostela anche la Francigena, anzi le francigene, come sarebbe più giusto dire, tornano, da alcuni anni, a rianimarsi di frequentazioni. Non solo di fedeli ma anche di curiosi ed amanti di percorsi turistici alternativi e paesaggi rurali. Un rifiorire di passi lenti lungo antichi borghi e mansioni e, soprattutto, cammini impegnativi. Gli itinerari vanno da Nord a Sud e viceversa, attraverso quattro nazioni, Gran Bretagna, Francia, Svizzera e Italia. Ma non bisogna spaventarsi. Chi ama viaggiare senza le quattro ruote, ma non vuole o non può camminare troppo a lungo o affatto, può utilizzare altri mezzi, come la bicicletta o il cavallo. E se la fede oscilla, oltre a chiese e ostelli religiosi che, tradizionalmente, offrono soste di preghiera e pernottamenti ai pellegrini più devoti, il percorso concede approcci diversi e appuntamenti culturali. Un confronto laico, ma non un travestimento irriverente, che, in sette edizioni, ha visto crescere e raddoppiare le presenze di viaggiatori lungo le Francigene, senza nulla sottrarre al sacro e favorendo il contatto con genti e tradizioni dei luoghi percorsi. Collegato strettamente alle diverse tappe dell’itinerario un poliedrico festival ne vivifica le giornate, e soprattutto le serate. I camminatori possono così scegliere tra il silenzio olistico del proprio pellegrinaggio oppure ritagliarsi spazi meno solitari e più animati da svaghi ed eventi che favoriscano lo spirito di gruppo e la voglia di conoscersi. Il Sud, naturalmente, ha carte d’oro da giocare su questo tavolo. Per scoprirle abbiamo incontrato Sandro Polci, ideatore e Direttore del Festival Europeo della Via Francigena. 

 

I numeri ci dicono che il lungo tracciato delle Francigene
si sta popolando sempre più di pellegrini, appassionati, curiosi.
E’ stato il festival a favorire questo interesse?
E come è nata la manifestazione?

 

Molto umilmente abbiamo dato il nostro contributo. Io credo che la crescita – che direi in doppia cifra, anno su anno, negli ultimi 5 anni – dipenda dal momento culturale: vi è bisogno di verità e certezze. Non parlo (solo) di un anelito religioso ma più ampiamente spirituale e condiviso. Qualcosa “oltre”, verso una verità da scoprire, innanzitutto in se stessi e con compagni di strada, spesso non scelti. La condivisione più bella non è esclusiva è inclusiva e trae vantaggio anche dall’imprevedibilità (pioggia, fame, malinconia?). Sognare, creare bellezza, senza remore ma con rinnovata passione. Solo così sapremo valorizzare anche i piccoli centri che traversiamo e che rappresentano: una peculiarità e una garanzia del nostro sistema sociale e culturale; una certezza nella manutenzione del territorio; una opportunità di sviluppo economico. Francia e Italia sono le nazioni europee dove la popolazione è maggiormente distribuita: nel nostro Paese l’85% dei comuni – ben 6. 875 – ha meno di 10. 000 abitanti. Popoliamo un territorio che conta oltre 22.000 centri abitati, quasi 33. 000 nuclei insediativi, senza considerare le caratteristiche di tanta parte del nostro sistema agricolo composto di “case sparse”. 

 

La “piccola dimensione” è spesso considerata un forte limite, rispetto alle esigenze di capitalizzazione e di capacità competitiva, dato dalle necessarie economie di scala e dai sistemi di rete che solo organizzazioni più complesse garantiscono. Io invece credo che ciò può costituire una “attrattività smart”: intelligente e innovativa, ad iniziare dalle politiche di inclusione. E’ dunque possibile un nuovo protagonismo sociale, basato sull’“economia circolare”, di cui il “dinamismo” è una componente fondamentale. Pensiamo ad esempio al turismo delle identità, per “(ri)creare identità antiche e nuove” e valorizzare culture materiali e immateriali, in agricoltura, nell’artigianato e nell’industria creativa, legate alla naturalità dei luoghi. Tale ibridazione, se “ben narrata”, è una opportunità concreta e ancora inesplorata. 

 

Il Sud è entrato a pieno titolo nel progetto di rinascita
della Francigena. Qual è stato l’evento più seguito
del suo Festival in Meridione La scorsa estate?

 

Mi permetto di segnalare il sito festival.viefrancigene.org, dove valutare i circa 500 eventi quest’anno raccolti sotto il tematismo “Borghi e nuvole”. “Borghi”, perché nell’anno dei borghi abbiamo voluto favorire trekking urbani e non solo ruralità affascinanti. “Nuvole”, perché dobbiamo alzare lo sguardo per cogliere leggerezze e qualità di natura e genti. Tra tanti eventi, le tipologie più affascinanti per me sono: le musiche serali, i pasti condivisi, semplici ma di tipicità locali che sposano saperi e tradizioni. Così la “Compagnia dei 12” nel sud del Lazio o gli amici del Cammino di San Benedetto o la vitalità pugliese fino alla nostra finis terrae italiana sono solo alcuni esempi. 

 

La cosiddetta ‘’bisaccia del pellegrino’’ che cosa è esattamente?

 

La bisaccia è il magro bagaglio del pellegrino, fatto di poche, indispensabili cose: il sacco, un ricambio, un farmaco di emergenza e un cellulare augurabilmente spento. Ma da 2 anni la bisaccia del pellegrino è anche una fortunata iniziativa, voluta dall’Associazione Europea delle Vie Francigene e dall’Associazione Civita, che promuove la promozione e la vendita di alcuni prodotti tipici e naturali dei diversi territori ai camminatori di passaggio. Stiamo mutuando l’efficace capacità francese del terroir, ovvero la valorizzazione dell’inscindibile legame tra i prodotti di una terra e la voglia di scoprire quella stessa terra, da parte di un turismo pellegrino che chiede verità, sincerità ma anche godimento.

 

Potrà contribuire a far conoscere meglio ed apprezzare
la cornucopia di odori, colori, sapori del Sud?

 

Lo sta già facendo e attende soltanto i suggerimenti di opinion leader e maker che interpretano al meglio tanti valori e desideri. È un’opera aperta da scrivere insieme. 

 

Un recente sondaggio condotto tra i pellegrini delle Francigene
ha portato alla luce le differenti motivazioni che spingono
i viaggiatori a ripercorrere questo storico itinerario religioso.
I risultati sono sorprendenti: solo il 10 per cento lo compie 

perché spinto dalla tradizionale molla della fede, il 22 per cento 

è spinto da ragioni culturali, il 17 per cento per cercare
percorsi alternativi al turismo di massa. Terrete conto
di queste motivazioni per comporre il calendario
degli eventi della prossima edizione del Festival?

 

Le chiedo. Quando lei mangia un gustoso minestrone, giudica la pietanza nel suo insieme o disquisisce di ogni ortaggio? Io, ad esempio, quando la mattina prima di camminare mi chiedono se sono credente o meno, rinvio la risposta alla sera, quando stanchi e felici sembra una domanda inutile o, come si diceva, sovrastrutturale. Camminare è fratellanza, condivisione, spiritualità e, per chi crede, religione e fede. Comunque, a onor del vero, altre analisi elevano la percentuale dei credenti.

 

 Quale sarà la proposta, l’iniziativa più significativa
del Festival nel 2018?

 

Stiamo faticando, senza risorse e armati solo di passione, per creare il Festival veramente Europeo dei Cammini, per ogni cammino. Ben sappiamo infatti che la Via di Santiago e la Via Francigena sono per antonomasia le “Vie traino” ma che in nulla offuscano i mille altri itinerari di fede, cultura, natura e coesione sociale. Dunque, confidiamo nei suggerimenti, proposte e nuovi progetti di cammini per l’8° Festival Europeo dei Cammini, francigeni, romei e di ogni altra ispirazione perché, ripetiamolo, i Cammini sono la linfa vitale che connette e condivide le eccellenze borghigiane. Un fitto reticolo che, muovendo dalla conoscenza per antonomasia della Via Francigena, traversa i nostri territori innervandone bellezza e ospitalità. E il Festival, in ciò, ne è il messaggero, il buon lievito del pane che alimenta l’hardware, favorendo la fruizione sociale, culturale ed economica di questo vasto scrigno paesaggistico. Dunque, Buon Cammino.

 

 

 

 

nonsolo fede e sudore

Sono trascorsi più di mille anni dal primo, storico viaggio a Roma di Sigerico, neoconsacrato arcivescovo di Canterbury. Ricevuto il pallio, durante il rientro nella sua sede vescovile, l’alto prelato descrisse minuziosamente le 79 tappe che si dovevano rispettare per percorrere, a piedi o a cavallo, i quasi duemila chilometri che separavano (e separano) la capitale della cristianità dalla terra degli Angli, all’epoca fresca di evangelizzazione. Altri monaci avevano compiuto lo stesso percorso prima di lui, ma Sigerico fu il primo a documentare la mappa precisa dell’itinerario e delle inevitabili soste. 

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IL ROMANZO DEI CAMINANTI di Alessandro Gaudio – Numero 9 – Dicembre 2017

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 IL ROMANZO DEI CAMINANTI

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Cos’è un camminante (o caminante, in siciliano)?1
Quali tracce hanno lasciato i Camminanti lungo il corso dei loro molteplici itinerari attraverso tutta l’Italia? Specialmente dal 1952,
quando molti di loro si insediarono a Noto, a Priolo,
a Sommatino e in altri centri siciliani,

 

principalmente nella provincia di Caltanissetta, e poi, negli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo, come si è evoluto il loro legame con il mondo esterno? Cosa resta oggi delle loro attitudini originarie? Grazie a un bellissimo documentario di Giuseppe Tumino, regista indipendente ragusano trapiantato in Basilicata2, e della fotografa Rita Mirabella, ideatrice del soggetto e co-regista3, possiamo tentare di dare una risposta a tali quesiti. Dal lavoro − intitolato Il segreto dei Caminanti (Italia – 63′), uscito nel 2016 per Extempora e realizzato con il sostegno della Sicilia Film Commission − apprendiamo, se non altro, il modo in cui quel legame, non certo dei più labili, si è sviluppato nel tempo. Sulla sua consistenza e il suo peso sembra aver influito la scelta di stabilirsi in alcuni luoghi, di disporre di qualcosa che appartenesse finalmente a loro, di una casa, nella quale abitare durevolmente, di arredi, di alcuni oggetti, senza che, del resto, tale scelta abbia mai modificato la loro attitudine di nomadi.

 

La ricostruzione di questa attitudine, dell’universo del camminantismo, della filosofia e della ratio alla base del fenomeno, è giocata nel film sull’individuazione di alcuni concetti chiave, il principale dei quali
pare senz’altro essere quello di miseria.

 

è la miseria il motivo cardine del nomadismo di un popolo che, a quanto pare, sbarcò in Sicilia già alla fine del XIV secolo, al seguito dei profughi Arbëreshë che Carlo V stanziò nell’Italia meridionale per rinforzarne le difese contro la minaccia degli Ottomani? Pur dovendo sospendere ogni conclusione sull’autoctonia o sulla ziganità di antica data di questa comunità, sembra proprio così; tuttavia, non è il solo presupposto. C’è qualcos’altro cui pare che alluda anche il titolo del film. 

 

Alla miseria dei Camminanti – un tempo conciabrocche e stagnini, ora riparatori di cucine a gas e d’ombrelli e venditori di palloncini – Tumino e Mirabella si accostano lasciando che le immagini e le persone stesse parlino il più possibile per conto loro.

 

Alle immagini si aggiunge un uso contrappuntistico della musica, spesso a mo’ di vero e proprio commento ironico. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di componimenti neomelodici napoletani, prima ancora che popolari, prediletti dai Camminanti medesimi. Le parole delle canzonette di Mario Merola, di Gianni Celeste o di Angelo Mauro, richiestissime star del genere, integrano o, talvolta, contraddicono il senso di una immagine o la reticenza di una dichiarazione. Aggiungono una sfumatura laddove questa non sia immediatamente deducibile da quell’immagine o da quella laconica asserzione. In fondo, i registi costruiscono il loro film proprio sul non detto, pur avendo scelto di servirsi di modalità cineastiche che recuperano la concretezza dell’esperienza umana, concentrandosi non tanto sulle cose in se stesse, quanto sulle storie di alcuni uomini vivi nelle cose. Passando dall’uomo − in particolare, dalla storia e dalle parole di Antonino Rasizzi Scalora4 e della sua famiglia − ed eliminando ogni commento fuori campo, Tumino e Mirabella trovano una misura, un controcanto mai meramente emotivo o incantato o mitizzato che consente loro di liberarsi della struttura ideologica del documentario e del suo soggetto: i diversi intervistati rispondono con le loro voci, senza doppiaggio, 

 

e la fotografia s’impone come mezzo privilegiato dell’analisi della realtà, alternando veloci fotogrammi con inquadrature lunghe e fisse, in modo da definire la staticità di un volto, l’accendersi improvviso di uno sguardo o il peso di un gesto, come se fossero scolpiti in un tempo
eternamente presente, di fatto sottratto alla storia.

 

I registi, che non possono comunque limitarsi a mostrare, di fatto partecipano alla rappresentazione. Lo fanno, osservando, intervenendo sul sentimento del film. Ciò non significa affatto indulgere nel sentimentalismo, ma prediligere alcune modalità di figurazione: l’alternanza delle inquadrature, il montaggio serrato, la presa diretta di parole e spesso di suoni, rumori e musiche sono tutti accorgimenti che consentono di tradurre in termini audiovisivi tanto le dinamiche endogene del gruppo di Camminanti quanto le complesse e spesso difficili relazioni con l’esterno.   

 

Tumino e Mirabella vanno ben oltre la fascinazione che può originarsi dall’osservazione di una tribù di nomadi semistanziali e fornitori di servizi5, scegliendo di curare il nesso con i gaggi, vale a dire con i non camminanti.

 

Se si vuole indicare lo spazio di rappresentazione individuato da
Il segreto dei Caminanti bisogna cercarlo laddove la vita e le esperienze di questo popolo incontrano il nostro mondo, quello sul quale continuano a camminare («il camminantismo – assicura uno di loro – non si fermerà mai; come la rondine che non resta in gabbia»).

 

Si tratta dello spazio dell’immaginario e non è affatto scontato che un film riesca sempre a intercettarlo. Tumino e Mirabella ci riescono ponendo su quello spazio le eterne problematiche dell’integrazione e della comprensione dell’altro. Contribuiscono, per così dire, a colmare quel vuoto di immaginazione nel quale troppo spesso si è deciso di relegare questa gente. Lo hanno fatto con la passione e la sensibilità che filtrano da un lungo lavoro di ricerca (cui Rita Mirabella si è dedicata sin dalla fine degli anni Ottanta), senza rinunciare a mostrare le ombre, le cose poco scoperte, i simboli (significativo quello della rondine, ad esempio, talvolta ferita), le reticenze del baccaglio (il singolare linguaggio usato per non farsi capire), le superstizioni e le tante contraddizioni di questo popolo nel popolo. Presentano anche i tentativi di auto-rappresentazione operati dagli stessi Camminanti e, valutandoli alla luce della loro storia, delle rinunce alla loro libertà e alle specificità della loro cultura, ne registrano il fallimento. Questo fallimento, che pertiene anche al modo in cui i non camminanti si sono rappresentati questa comunità, qualcosa significa. «Cos’è un camminante?» − si chiede Antonino, il protagonista, alla fine del documentario. E arriva, subito dopo, alla conclusione che no, non c’è definizione che si possa dare, non c’è paragone che si possa fare. E non risiederà magari proprio in questa diffusa impossibilità di rendersi comprensibile uno dei motivi, forse il principale, della mancata integrazione di questa comunità?

 

Tutto sommato, sembra che la storia dei Camminanti, essendo interamente chiusa nel presente, sia rimasta in ombra per secoli
rispetto all’avanzare del progresso.

 

è quanto sostiene Sebastiano Vassalli nel ventiduesimo capitolo, intitolato Il camminante, del suo romanzo più noto, La chimera. Vassalli racconta di Gasparo Bosi, tra i Camminanti del basso Piemonte meglio conosciuto come Tosetto, che, nel tentativo di difendersi e di difendere il modo della sua esistenza, si chiude nel suo io, vivendo di appagamenti elementari; si costituisce, cioè, come personificazione di una esistenza votata al romanzo, dice Vassalli, rifacendosi alle testimonianze sui Camminanti fornite dagli scritti di Antonio Massara, letterato e studioso novarese vissuto tra Ottocento e Novecento. E allora, con Vassalli, proviamo a fornire qui una definizione di Camminante.   

 

Cos’è un Camminante se non un romanzo? Romanzo che nessuno si sarebbe sognato di scrivere perché vissuto interamente nel presente del suo essere Camminante, fatto di sofferenza fisica, indifferenza e discriminazioni.

 

Il destino comune a tutti i Camminanti è memorizzato, commemorato, trasmesso di generazione in generazione attraverso la famiglia,
il lavoro, le musiche. 

 

Sebbene la scuola pubblica italiana integri il passato nazionale nello spirito dei ragazzi Camminanti che la frequentano in numero sempre maggiore6, essi rivivono le angosce, i lutti, le poche vittorie della loro esperienza di vita. è proprio nel dolore e nella sofferenza della loro specifica condizione che i Camminanti individuano la loro visione del mondo, la loro immagine, la metafora palpitante della loro vita.

 

L’identificazione con questo passato, che continua inesorabilmente
nel presente, rende quella dei Camminanti una specie di comunità
di destino, i cui limiti, fatti di una miseria che si teme, ma che si
usa per vivere, non sono facilmente superabili nella riflessione
o in qualcosa che risieda al di là di quella comunità medesima.

 

Così, come conclude Vassalli, «un camminante è un camminante e basta»7: una tautologia − dunque non quel paragone che Antonino non riesce a formulare − che restituisce pienamente lo spirito cui si sono attenuti anche Tumino e Mirabella nel tentare di scrivere il romanzo di uomini di cui si parla da secoli ma che, contro ogni evidenza e nonostante il loro profondo legame con la vita e con il mondo, non sono mai esistiti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Sulla comunità dei Camminanti, di cui si era occupato Giuseppe Pitrè sin dalla fine dell’Ottocento, si veda il documentario andato in onda il 12 dicembre 1989 all’interno della rubrica Binocolo di Maria Grazia Mazzola, intitolato I camminanti e diretto, per la RAI, da Rita Calapso. Si considerino, poi, la tesi di laurea di Rita Paola Toro, di cui «Lacio Drom», rivista del Centro Studi Zingari (all’interno del n. 3-4 del 1991, pp. 4-79), ha pubblicato un’ampia sintesi, il volume di Teresa Schemmari, I Caminanti. Nomadi di Sicilia (Firenze, Atheneum, 1992) e i lavori di Sebastiano Rizza, apparsi su «Lacio Drom», negli anni Novanta, su «Italia Romaní», nel corso del decennio successivo e, più recentemente, sui «Quaderni di Semantica», tutti per lo più dedicati al bbaccàgghiu, il gergo usato dai nomadi siciliani. Se ne riportano qui di seguito i titoli più significativi: I ‘gizi’ di Sicilia erano zingari?, «Lacio Drom», settembre-ottobre 1991, n. 5, pp. 27-28; Alcune note: Tre voci ebraiche nel gergo dei Camminanti di Noto, «Lacio Drom», marzo-aprile 1993, n. 2, p. 25; Alcune note: Un blasone popolare zingaro, ivi, pp. 25-26; Zingari in Sicilia fra magia e religiosità popolare, «Lacio Drom», maggio-giugno 1995, n. 3, pp. 13-16; Genesi e metamorfosi dello “zannu” siciliano, «Italia Romaní» (a cura di M. Aresu e L. Piasere), Roma, CISU, 2008, vol. V, pp. 166-184; Tabbarari a mašcu: viaggio nel gergo dei caminanti siciliani, «Quaderni di Semantica», n. 2, 2012, pp. 291-308; Bbaccagghiu sic. e parlèsia nap.: due gerghi a confronto, «Quaderni di Semantica», n. 1, 2014, pp. 125-133; L’elemento zingarico nel bbaccàgghiu dei caminanti siciliani, «Quaderni di Semantica», n. 2, 2016, pp. 191-217.
[2] Giuseppe Tumino ha diretto documentari, cortometraggi, tra i quali Beddu nostru signuri (2’52”-2005), Terramadre (15’-2012), Abbiamo raccolto le pietre (23’-2008) e Atti e scene in luogo pubblico (25’- 2014), nonché diversi lavori sull’intercultura e alcuni videoclip. Sta lavorando alla sceneggiatura del suo primo lungometraggio. 

[3] Di Rita Mirabella si veda l’interessante indagine fotografica intitolata Caminanti siciliani, pubblicata su «Italia Romaní» (vol. II, a cura di L. Piasere, Roma, CISU, 1999, pp. 37-46); della stessa si consideri anche Parole di Caminanti, «Italia Romaní» (a cura di S. Pontrandolfo e L. Piasere), Roma, CISU, 2002, vol. III, pp. 199-237. 

[4] La foto che lo ritrae è un frame del documentario. L’altro scatto è di Marcello Bocchieri. 

[5] Cfr. D. Nemeth, Nomadi fornitori di servizi: signori temporanei di mercati imperfetti, in L. Piasere (a cura di), Comunità girovaghe, comunità zingare, Napoli, Liguori, 1995, pp. 231-248.

[6] Nel 2010 i Camminanti iscritti alle scuole pubbliche di Noto erano quasi 4 mila e costituivano il 40 per cento della popolazione scolastica. Tra i diversi studi dedicati all’analisi del processo di educazione scolastica di questa comunità, si veda A. Palazzolo, Noto. L’inclusione scolastica dei Caminanti siciliani, in Rom, Sinti e Caminanti e comunità locali. Studio sulle condizioni di vita e sull’inserimento nella rete dei servizi socio-assistenziali nel Mezzogiorno, Roma, maggio 2010, pp. 146-161. Si considerino anche S. Taccone, Dove i caminanti hanno trovato casa. Esperienza di integrazione a Noto, «Popoli e missione», maggio 2010, pp. 10-15 

 

 

 

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Marcello Bocchieri Foto

 

I GIARDINI DI KOLYMBETHRA di Cinzia Terlizzi – Numero 8 – Luglio 2017

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 Così l’Abate di Saint Non nel 1778, di fronte alle meraviglie racchiuse nella Kolymbethra, giardino nell’incanto della Valle dei Templi 

ad Agrigento, fra il Tempio di Castore e Polluce 

e quello di Vulcano…


I suggestivi monumenti dell’era classica impreziosiscono questo angolo di terra che fra piante della macchia mediterranea, mandorli e gelsi presenta un prezioso agrumeto ricco di specie ormai rare che ancora oggi viene irrigato secondo le antiche tecniche arabe con acquedotti sotterranei da dove arrivava anche l’acqua che confluiva in un grande bacino: la Kolymbetra appunto, che serviva per approvvigionare l’antica città di Akragas….

 

Di Kolimbethra parla per primo Diodoro Siculo. Nella sua Bibliotheca Historica descrive la città giardino abbellita da una immensa vasca 

dove sboccavano gli acquedotti feaci e dove venivano 

allevati pesci in abbondanza e una grande varietà 

di specie botaniche.

 

La piscina veniva alimentata da un sistema complesso e sofisticato di gallerie e di cunicoli sotterranei, gli ipogei, che raccoglievano la preziosissima acqua permettendo alla vasca di conservare sempre lo stesso livello e al giardino di prosperare senza interruzioni o problemi dovuti alle crisi stagionali di siccità. Acque limpide e fresche dove i cittadini akragantini solevano immergersi e le donne lavare gli indumenti mentre l’ombra e i profumi dei giardini deliziavano i visitatori. C’è da restare sorpresi se si pensa che tutto questo avveniva, stando sempre a Diodoro Siculo, intorno al 480 a.C..    

 

Kolimbethra subì varie trasformazioni nel corso dei secoli.

 

La piscina venne interrata un secolo dopo la sua realizzazione,
ma l’ingegnoso sistema di cunicoli e di acquedotti non smise
di funzionare, consentendo a tutta l’area di diventare
un immenso orto-giardino dalle infinite potenzialità
agrarie e fruttifere:

 

limoni, aranci, carrubi, melograni, gelsi, pistacchi e perfino banani crescevano rigogliosi nel giardino delle meraviglie immersi in una cornice di essenze mediterranee dove erano prevalenti i lentischi, gli allori e i mirti. Nei secoli diciottesimo e diciannovesimo, Kolimbethra acquista l’aspetto di un gigantesco e straordinario agrumeto assecondando la tendenza dell’intera isola a favorire la coltivazione e il commercio delle arance e dei limoni, fino ad arrivare ai nostri giorni, quando, contrastando la rovina e l’oblio, la Regione, nel 1999, decide di affidare al Fondo Ambiente Italiano le sorti del sito.

 

Un gioiello archeologico e paesaggistico, un luogo tenuto per decenni 

in abbandono tornato all’originario splendore grazie al FAI, 

a cui è stato affidato nel 1999 dalla Regione Sicilia 

in concessione gratuita. 

 

Il Fondo Ambiente Italiano ha ora inaugurato un nuovo suggestivo percorso negli ipogei o “Acquedotti Feaci”, gli unici visitabili nella Valle dei Templi… 185 metri nel sottosuolo attraverso cunicoli che risalgono al 480 a.c.: scavati dagli schiavi fenici nella roccia tipica della zona, la calcarenite gialla, e utilizzati anche per conservare acqua e cibo e, durante la seconda guerra mondiale, come rifugio antiaereo. Si cammina così in un luogo dall’indiscutibile fascino e dal grande valore storico-archeologico e botanico-agrario…tra memorie del passato e profumi del presente.

 

Un’altra perla del Sud salvata dal degrado e dall’oblio e che torna a brillare per la gioia di tutti coloro che amano e difendono
l’eredità culturale del Bel Paese.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giardino della Kolymbetra © Vincenzo Cammarata_ok
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I GIARDINI      DI KOLYMBETHRA

 

 

 

 

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CRONISTA D’ECCEZIONE: QUASIMODO ALL’AJA 1948 di Carlo Curti Gialdino – Numero 8 – Luglio 2017

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CRONISTA D’ECCEZIONE: QUASIMODO ALL’AJA 1948

 

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I fotografi di tutte le agenzie giornalistiche del mondo facevano scattare gli obiettivi delle loro macchine. Ero accanto a Churchill, all’uomo della guerra, io italiano. Non l’ho saputo ringraziare, io europeo, che sogna un’Europa veramente unita, senza discorsi preliminari, dove ad ogni parola, s’ode il rumore d’uno scoppio lontano, d’un nuovo scoppio che potrebbe bruciare perfino le acque della terra”[1].

 

 
Così Salvatore Quasimodo (Modica, 20 agosto 1901 – Napoli,
14 giugno 1968) chiude la breve, seppur intensa, testimonianza 
della sua partecipazione ad una iniziativa di tutto rilievo fra le
molteplici che hanno contribuito alla nascita della collaborazione
fra gli Stati europei, dopo il secondo conflitto mondiale 
e nel pieno della guerra fredda.
 
Ci si riferisce al Congresso dell’Europa, svoltosi a L’Aja dal 7 al 10 maggio 1948[2], presieduto da Winston Churchill ed ospitato nella sede del Parlamento olandese. Il congresso, che fu definito dal federalista francese Alexandre Marc gli États généraux de l’Europe, aveva l’obiettivo di dimostrare che esisteva una corrente di opinione favorevole all’unità dell’Europa, di discutere dei passi da compiere per realizzarla e di proporre ai governi delle realizzazioni concrete. La salvezza dell’Europa nel 1948, nelle intenzioni degli organizzatori, era vista nella creazione di una federazione degli Stati europei, possibile mediante la creazione d’un organismo internazionale capace di offrire un vasto mercato interno, base d’una solida prosperità; e questo con la ricostruzione tecnica, con la comunità delle risorse, con la divisione dei lavori tra i popoli. Ed in effetti quelle realizzazioni poi ci furono. Tra di esse possiamo ricordare, nell’immediato, la nascita del Consiglio d’Europa nel 1949, associazione di Stati con sede a Strasburgo, che oggi conta 47 membri e la firma a Roma il 4 novembre 1950 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Agli inizi degli anni Cinquanta seguirono la Dichiarazione del Ministro degli esteri francese Robert Schuman (9 maggio 1950), la conseguente istituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA, Parigi 18 aprile 1951), primo ente sovranazionale europeo, progenitore delle Comunità europee (CEE ed Euratom) istituite, come noto, dai Trattati firmati a Roma il 25 marzo 1957, dai quali è nata l’attuale Unione europea.
 
Al Congresso dell’Aja parteciparono circa 800 personalità: uomini di Stato, parlamentari, religiosi di tutte le confessioni, industriali, dirigenti sindacali, economisti, docenti universitari, scrittori, poeti e artisti.
 
Della delegazione italiana, presieduta da Nicolò Carandini, diplomatico e politico, e composta, tra gli altri, da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi[3], Giuseppe Ungaretti e Ignazio Silone, fece parte, per l’appunto, Salvatore Quasimodo[4]. Il poeta ci ha lasciato una vivace e salace descrizione dell’incontro nel saggio Europa één, (Europa unita), pubblicato postumo nel volume A colpo omicida ed altri scritti, apparso nel 1977[5].
 
Con occhio tagliente di osservatore critico, Quasimodo inizia rilevando che “pare che tutte le delegazioni italiane ai congressi internazionali arrivino, per tradizione, nel luogo stabilito per gli incontri,
con ventiquattro ore di ritardo”.

 

Ed anche in questo caso gli italiani arrivarono all’Aja alla fine della prima giornata dei lavori quando le “questioni preliminari” erano state regolate, Churchill aveva pronunciato il suo discorso e le presidenze delle commissioni erano state decise. Per arrivare all’Aja, gli italiani, che viaggiavano in treno su una vettura speciale, avevano dovuto superare cinque frontiere (Svizzera, Francia, Lussemburgo, Belgio e Olanda), quelle stesse frontiere che, dalla fine degli anni Novanta, dopo gli accordi di Schengen, non prevedono più la visita doganale dei viaggiatori. Quasimodo, a beneficio del lettore, ricorda che L’Aja (Den Haag in olandese) deve il suo nome alla Haghe, l’antico terreno di caccia del conte Guglielmo II di Olanda che fece costruire in questi luoghi, nel 1280, il castello ‘s-Gravenhage (L’Aja dei Conti). Nella Sala dei Cavalieri (Ridderzaal) si svolsero le sedute plenarie del Congresso. Con molta ironia, se non sarcasmo, Quasimodo ricostruisce i primi incontri della delegazione italiana con gli altri congressisti: in un albergo di Scheveningen, che è la spiaggia dell’Aja, in cui gli olandesi si difendono dal forte vento “stando seduti sulla sabbia dentro un curioso riparo di vimini, rannicchiati in una specie di culla verticale” e dove ancora oggi il turista ammirato non può sottrarsi al richiamo sorprendente dei rosseggianti tramonti sul Mare del Nord. Ma quella sera l’attenzione degli ospiti riuniti presso il grande salone dell’albergo ristorante “Kurhaus” fu tutta per la delegazione italiana che, essendo anche in questa circostanza giunta in ritardo, “per ragioni di orientamento” (sic!) ed essendo tutti i tavoli occupati, fu fatta accomodare sul palco; il che provocò un lungo applauso dei congressisti, convinti che fossero entrati Churchill o l’Altezza Reale Giuliana… Nella cena offerta, in cui la pastasciutta o la bistecca ai ferri, annota Quasimodo, “erano lontane esattamente ventotto ore di ‘Express’” ed il calice di vino era a pagamento (250 lire di allora, che, rivalutate, corrispondono agli odierni 3,67 euro), le sigarette, confezionate per l’occasione, erano gratuite.

 

Quasimodo partecipò ai lavori della commissione culturale,
presieduta dallo spagnolo Salvador de Madariaga[6], che propose
un Centro europeo della cultura, poi istituito nel 1949 a Ginevra
ed un progetto 
di una università europea, che fu poi alla base
del Collège d’Europe di Bruges, una istituzione post-universitaria
pure creata nel 1949 e divenuta rapidamente un noto centro
di formazione per la futura classe dirigente europea.

 

Quasimodo stronca il discorso di de Madariaga in plenaria, definito “gonfio e retorico, degno di un collaboratore d’una di quelle riviste letterarie che vedono la luce in ogni provincia degli Stati europei”. Ricorda, pure, che l’unico emendamento che la delegazione italiana riuscì a far approvare fu “accessorio, di carattere linguistico: la sostituzione d’un ‘europeo’ al posto d’un ‘occidentale’” e commenta, con le parole del Petrarca, “Italia mia, benché il parlar sia indarno…”. La seduta finale del Congresso si svolse ad Amsterdam nel corso di una grande riunione pubblica sulla piazza antistante il Palazzo reale. Quasimodo ricorda il risuonare dell’inno per l’Europa Unita (Europe united, Europe Unie, Europe èèn), con testo del poeta olandese H. Joosteen e musica del Maestro Louis Noiret, anch’egli olandese e lo sventolio di bandiere bianche con la E di Europa in rosso (vessillo allora del Movimento europeo, disegnata da Duncan Sandys, genero di Churchill, che poi, dopo la riunione dell’Aja[7], pretese che la E fosse colorata di verde). “Addio Amsterdam: il ritorno fu una corsa verso la stazione”. Il bilancio è amaro. Le parole di Quasimodo, che siamo abituati a conoscere quale poeta del dolore umano, sembrano indicare un atteggiamento di sfiducia verso le troppe parole roboanti e le poche conclusioni interessanti. Avrebbe, il poeta, preferito una visita alla città della pinacoteca e dei quattrocento ponti, dei settanta musei e delle due università, piuttosto che restare imprigionato al calar del sole nella ricordata piazza prospiciente il palazzo reale per una cerimonia sfiancante nel susseguirsi di discorsi non sempre pregnanti. Forse troppo provati, alcuni intellettuali, dalle vicende belliche, per coltivare la speranza. L’unico che sembra aver lasciato un segno nell’animo dello scrittore è proprio Churchill, “l’uomo della guerra”, per quel senso di gratitudine e riconoscenza che ogni uomo dell’epoca, ancora intimorito dallo spettro di una pace non duratura, era incline a tributargli. Settant’anni sono passati. La bandiera e l’inno dell’Unione europea non sono più quelli del Congresso dell’Aja del 1948. Sono stati sostituiti, rispettivamente, dalle 12 stelle dorate in campo azzurro e dall’Inno alla gioia della Nona sinfonia di Beethoven[8]. 

 

E, tuttavia, pur tra molte difficoltà e crisi ricorrenti, l’unità dei governi e dei popoli europei ci ha assicurato, dal 1945 ad oggi, il periodo di pace più lungo di sempre nella storia della nostra Europa. Non è poco. Occorre non dimenticarlo mai e ricordarlo sempre
alle nuove generazioni.

 

 

 

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 [1] S. Quasimodo, Europa een, in “A colpo omicida” e altri scritti, a cura di G. Finzi, A. Mondadori, 1977, p.61. [2] A. Varsori, Il Congresso dell’Europa dell’Aia, 7-10 maggio 1948, in Storia contemporanea, rivista trimestrale di studi storici, 1990, n. 3, pp. 463-493; J-M- Guieu & C. Le Dréau (dir.), Le “Congrés de l’Europe” à La Haye (1948-2008), P.I.E. Peter Lang, Bruxelles, 2009. 

 

[3] A. Spinelli, E. Rossi, Per un’Europa libera ed unita progetto d’un manifesto, più noto come Manifesto di Ventotene, scritto nell’inverno 1941 e pubblicato in edizione clandestina nel 1944, con prefazione di E. Colorni con il titolo Problemi della Federazione europea. [4] S. Paoli, The Italian Delegation to the Hague “Congress of Europe”, in J-M- Guieu & C. Le Dréau (dir.), op. cit., pp. 211-222. [5] S. Quasimodo, op. cit., pp. 51-61.

 

[6] La presidenza era stata originariamente offerta a Benedetto Croce, che rinunciò adducendo motivi di salute (S. Paoli, op. cit., pp. 214-215). [7] Riferisce R. Harmignies, Le drapeau européen, in Vexilla Belgica, n. 7, p. 77 che “Malheuresement, lorsque la cérémonie s’ouvrit au Binnehof et n’y avait pas un souffle de vent, tous les drapeaux pendaient mollement le long des hampes, formant ainsi un véritable mer rouge. Le viex Churchill vit rouge égalemen et Mr Sandys fut instamment prié de choisir un autre couleur pour l’emblème de son Mouvement!”. [8] C. Curti Gialdino, I Simboli dell’Unione europea. BandieraInno – Motto – MonetaGiornata, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 2005. 

 

 

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IL DIOMEDE RIAFFIORATO di Giorgio Salvatori – Numero 8 – Luglio 2017

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Diomede, eroe leggendario o veramente esistito? Tanta è la pletorica presenza di Ulisse nell’Iliade e, naturalmente, nell’Odissea, che i più stentano a ricordare la figura del suo valoroso sodale durante gli eventi di Troia. 

 

Eppure, Omero, nell’Iliade, gli dedica il quinto libro, dal titolo “Le gesta di Diomede”, descrivendo l’”aristia” – l’eccellenza dell’eroe – declinata in ripetuti episodi di valore. Valore che non incanta Dante che colloca, invece, Diomede, insieme con Ulisse, nella bolgia dei “male consiglieri” affermando: “E così insieme a la vendetta vanno come a l’ira’’ (Inf.XXVI,56,57). Dante non perdona infatti ai due eroi greci la predisposizione a coltivare sempre una smodata astuzia nel costruire inganni. Destini analoghi, insomma, perfino nelle perigliose avventure che entrambi affrontarono nei viaggi che li ricondussero a casa. Ed è questa la narrazione più tenace legata alla figura di Diomede, che ancora sopravvive nella memoria di quasi tutti gli odierni abitanti delle isole Tremiti. Il perché è strettamente collegato al mito della fondazione di queste isole dell’Adriatico. La storia narrata dagli isolani, estrapolata dai testi classici, rielaborata e riportata su varie pubblicazioni turistiche, ammette alcune varianti.  

 

La più suggestiva attribuisce al nostro eroe la creazione ex nihilo
delle Tremiti, o Diomedee, scaturite dagli abissi dopo il lancio in mare delle pietre che Egli aveva portato con sé da Troia.

 

La leggenda, comunque in tutte le sue versioni, narra sempre che Diomede, dopo essere tornato ad Argo, sentitosi tradito da una moglie infedele e da sudditi ostili, fu costretto a rimettersi in viaggio; ma, a causa di una terribile tempesta, fu spinto sulle acque del mare Adriatico approdando, infine, sulle coste settentrionali della odierna Puglia. Qui decise di fermarsi e fondò diverse città. Il destino riservò, a questo punto, anni di gloria a Diomede, acclamato nella nuova patria, prima, come eroe, poi, come re, dopo atti di ardimento e straordinarie imprese belliche. 

 

Dopo i fasti vissuti in terra dauna, giunse, infine, la morte.
Le spoglie dell’eroe furono sepolte sull’isola di San Nicola,
la più abitata tra le Tremiti, in un luogo mai realmente individuato nonostante una piccola grotta dell’isola venga citata
sulle guide turistiche come ‘’Tomba di Diomede’’.

 

Seguendo un collaudato modello mitopoietico, la leggenda racconta anche che i fedeli compagni dell’eroe greco furono trasformati in uccelli marini dalla dea Afrodite, forse per compassione o forse per vendetta – visto che la dea, durante la guerra di Troia, era stata ferita ad una mano da Diomede mentre tentava di soccorrere suo figlio Enea. Non è un caso che questi uccelli, le berte, vengano chiamati anche “diomedee’’. Il loro verso lamentoso, di notte, sembra a molti un pianto inconsolabile per la perdita della guida ardimentosa dell’amato capo.  

 

Fin qui, la leggenda. Affascinante, romantica, remota. Riscontri pochi
o nulli. Ecco però che, a distanza di oltre tre millenni dal periodo in cui si suppone si siano svolti gli eventi successivi alla guerra di Troia,
riaffiora dalla terra del Gargano un piccolo monile che fornisce
il primo, intrigante indizio della presenza dell’eroe omerico
nella terra dei Dauni.

 

Si tratta di un piccolo anello d’oro di epoca romana, probabilmente risalente al primo secolo dopo Cristo: molti secoli dopo, quindi, gli eventi mitopoietici narrati dalla leggenda omerica. L’anello risulta impreziosito da una gemma che reca la fine incisione di una figura maschile con le sembianze del nostro eroe. La scoperta, inaspettata, durante gli scavi intrapresi in una grande e dimenticata necropoli paleocristiana, individuata già sul finire del diciannovesimo secolo (Del Viscio,1887); poi abbandonata; quindi, riaperta parzialmente negli anni sessanta del secolo scorso e, poi, nuovamente abbandonata fino ad anni recenti, quando, con finanziamenti regionali, nell’antico luogo di sepoltura e alle pendici di un monte boscoso, si è tornato a scavare con nuova lena e mezzi adeguati. 

 

Nel libro che divulga questa scoperta (Biscotti, Giglio, La Rocca, 2016), Luigi La Rocca, Direttore presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia, afferma che l’anello, con castone in agata, costituisce la prima attestazione iconografica dell’eroe, la cui figura mitica è notoriamente connessa all’area garganica” e descrive l’incisione come inequivocabilmente raffigurante l’eroe greco Diomede che stringe in una mano il Palladio, cioè l’immagine sacra di Pallade Atena, venerata in Ilio e considerata dai Troiani e dai Greci come il più sicuro presidio per la difesa della città. 

 

E, infatti, la leggenda vuole che proprio Diomede, insieme con Ulisse (entrambi travestiti da mendicanti), riuscì a trafugare il prezioso simulacro da Troia e a portarlo via con sé nelle successive peregrinazioni. Un indizio, non una prova, ma, stando alle autorevoli affermazioni di La Rocca, la gemma dell’anello recuperato negli ipogei di Monte Pucci può essere considerata una traccia concreta 

della presenza di Diomede in Puglia. 

 

Qui ritorna la domanda: Diomede invenzione omerica o eroe approdato e vissuto sul Gargano? Rappresentazioni di Diomede, con o senza il Palladio, non sono rare: immagini emerse da tombe etrusche, raffigurate su reperti di epoca romana. Ma, quella riaffiorata dalle viscere del promontorio garganico, è l’unica, fino ad oggi, che fornisca un riscontro tangibile del possibile approdo del leggendario guerriero greco sulle spiagge della Puglia garganica. Pochi hanno dato rilievo alla notizia della scoperta: qualche riga vergata sul lancio di un’agenzia di stampa, brevi articoli di alcuni quotidiani regionali. Eppure, il rinvenimento meriterebbe maggiori approfondimenti, così come più spazio potrebbe essere dedicato alla eccezionale campagna di scavi che si sta conducendo nella necropoli di Monte Pucci, dove l’anello di Diomede è stato trovato. Si tratta infatti di un luogo la cui unicità è attestata da tutti i ricercatori, archeologi, antropologi, botanici, tecnici che stanno partecipando alla campagna di scavi con l’obiettivo di realizzare, sul posto, un museo archeologico e naturalistico ai piedi di una montagna che si affaccia su un mare dalle trasparenti sfumature di azzurro e di verde. 

 

Gli scavi hanno finora restituito ai ricercatori oltre 800 sepolture, 

tutte risalenti al periodo compreso tra il IV e il VII secolo d.C., 

rinvenute in 26 ipogei la cui insolita architettura ha sorpreso 

tutti quelli che hanno preso parte ai lavori.

 

Centinaia i reperti finora classificati tra lucerne, anfore, oggetti di ornamento, oltre ai tanti resti di individui inumati: adulti, bambini, intere famiglie. Una varietà di tombe a loculo, a baldacchino, a fossa semplice, ad “arcosolio” che, difficilmente, trova riscontro in altri siti di inumazione della penisola. Intorno alla necropoli, e sopra gli ipogei, il fortunato visitatore proverà stupore nell’immergersi in una natura rigogliosa dagli intensi colori e dai soavi profumi di flora mediterranea. Protagonisti dello spettacolo sono gli ulivi maestosi, i grandi caprifichi, le rare campanule garganiche. Una cornucopia di piante, di arbusti, di fiori odorosi. Un unicum da tutelare e offrire al pubblico quando saranno terminati i lavori di scavo e completate le opere di recinzione e di sentieristica guidata. Quali scoperte possa riservare ancora la necropoli ai ricercatori è difficile dirlo. Ciò che finora si è trovato, in ogni caso, dovrebbe indurre responsabili politici regionali e amministratori locali a impegnare il massimo delle risorse disponibili per rendere queste scoperte patrimonio diffuso e condiviso. Non sfugge a nessuno, infatti, che i benefici che ne potrebbero derivare per la cultura, l’economia, il turismo di qualità, sarebbero molteplici, vantaggiosi per tutti e, soprattutto, duraturi.

 

 

 

 

 

 

 

 

IL DIOMEDE RIAFFIORATO

 

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 Le foto sono di Valentino Piccolo, Direttore Gruppo Archeologico Garganico “S. Ferri”