IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI Parte II di Francesco Avolio – Numero 13 – Gennaio 2019

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IL mezzogiorno  FRA LINGUE          E DIALETTI

Parte II

 

 

Verso Nord, le parlate tecnicamente definibili come “meridionali intermedie” giungono all’incirca all’altezza di una fascia che unisce il Circeo, sul Tirreno (LT), 

alla foce dell’Aso, sull’Adriatico (AP), passando per Ceprano (FR), Sora (FR), 

Avezzano (AQ), L’Aquila e Accùmoli (RI), mentre, verso Sud, includono per intero 

la Basilicata, valicando il massiccio del Pollino, in provincia di Cosenza, 

fino al fiume Coscile, e, più a Oriente, raggiungono le città pugliesi 

di Taranto, Martina Franca (TA), Ceglie Messapica e Ostuni


(BR, Francavilla Fontana e Brindisi sono invece già salentine, cioè meridionali estreme, come quelle calabro-sicule). 

 

L’intera penisola calabrese viene poi a configurarsi come una sorta di lungo ponte fra i dialetti meridionali e quelli siciliani, i quali, invece, per non pochi fenomeni, fanno gruppo a sé (come vedremo nel prossimo numero). 

 

Le parlate meridionali intermedie si distinguono da quelle delle aree vicine per la contemporanea presenza di almeno due fenomeni:

1) il passaggio di tutte o quasi tutte le vocali finali al suono –ë, la cosiddetta “e muta” o “indistinta” che sarebbe più corretto definire “vocale centrale media”, ben nota 

a lingue come il francese (faire ‘fare’) o l’inglese (about ‘circa’):


napoletano aggë ‘ho’ < HABEO, nirë ‘nero’ < NIGRU(m), ma anche ‘neri’ < NIGRI, sèttë ‘sette’ < SEPTE(m), ùnnëcë ‘undici’ < UNDECI(m), fémmënë ‘femmina, donna’ < FEMINA(m); questa vocale, come si è visto dagli ultimi due esempi, può spesso comparire anche nella altre sillabe non accentate (fërràrë ‘fabbro’, sèntënë ‘sentono’ ecc.), e, in qualche parlata, soprattutto del versante adriatico, perfino come vocale accentata principale (ad Atri, Te, mëtrë ‘metro’, a Stigliano, Mt, mërë ‘muro’). 

 

Una parziale eccezione, da questo punto di vista, è rappresentata da una serie di dialetti che si estendono dalla valle del Garigliano fino alla Basilicata sud-occidentale, attraverso la media valle del Volturno, una parte del Beneventano, la bassa Irpinia, l’alto Sele e il Cilento (cioè la zona del Mezzogiorno che nel Medioevo fu più marcatamente longobarda), i quali mostrano invece vocali finali e interne ancora in vario modo percepibili.

2) Lo sviluppo, almeno in tracce, del nesso latino pl- in /kj-/ (scritto chi-):

 

nap. chianë ‘piano’ < PLANUM, chiòvërë ‘piovere’ < PLOVERE, chiummë ‘piombo’ < PLUMBU(m) ecc.

2 – Il ruolo e la posizione linguistica di Napoli

 

Napoli, la capitale – su cui molte zone del Regno hanno gravitato per secoli, 

con cospicui e a volte patologici fenomeni di inurbamento – pur avendo esercitato 

a lungo una riconoscibile leadership, non ha mai affidato quest’ultima 

ad una politica linguistica appositamente pianificata.

 

Del resto, sono stati e sono molto dibattuti, anche oggi, i rapporti che intercorrono tra il napoletano e le parlate ad esso limitrofe, e tra la zona più propriamente “campana” e le altre zone linguistiche del Mezzogiorno. Semplificando e sintetizzando, si può affermare che se da un lato è senz’altro vero che in una fascia di territorio piuttosto ampia tutt’intorno a Napoli esistono varietà dialettali molto simili a quella cittadina (al netto delle piccole differenze che intercorrono tra comuni e perfino tra frazioni, che del resto si ritrovano in tutta Italia, e sono anzi una caratteristica di fondo del nostro Paese; v. Fig. 1), è però altrettanto facilmente verificabile che, all’interno del territorio amministrativamente campano, esistono transizioni fonetiche di un certo rilievo nel contesto dialettale meridionale, e ciò malgrado la plurisecolare presenza del prestigioso modello partenopeo (come spesso accade, i confini amministrativi non hanno alcun valore dal punto di vista linguistico). Fra queste citiamo, in Irpinia e ad Est di Salerno, come anche nel Cilento e nel Vallo di Diano, gli esiti di -cj- in -zz- (fazzë ‘faccio’ < FACIO, nap. faccë, vrazzë ‘braccio’ < BRACIUM, nap. vraccë) e di -ng- + e, i in -ng- (chiangë ‘piangere’, nap. chiagnërë, móngë ‘mungere’, nap. mógnërë), nonché lo sviluppo -ll- > -dd- (jaddë ‘gallo’, ddà ‘là’), che anticipano quanto si osserva più a Oriente e anche nell’estremo Mezzogiorno.

3 – Alcuni tratti particolarmente diffusi


Sulla base di una lunga tradizione di studi – nella quale spiccano i nomi di Clemente Merlo (1879-1960), Gerhard Rohlfs (1892-1986), Oronzo Parlangèli (1923-1969), Franco Fanciullo, Nicola De Blasi, e le gradi imprese dell’Atlante linguistico Italo-Svizzero (AIS, fondato nel 1919 dagli studiosi svizzeri Karl Jaberg e Jakob Jud) e dell’Atlante Linguistico Italiano (ALI, fondato nel 1924 da Matteo Bartoli) – possiamo identificare una significativa serie di tratti fonetici e grammaticali tipici di ampie aree del Mezzogiorno. Fra questi: 


• la “metafonesi”, cioè l’innalzamento delle vocali accentate -é- ed -ó-, che diventano rispettivamente -i- ed -u- per influsso delle vocali finali -i e -u latine originarie (a Napoli acitë ‘aceto’, pilë ‘pelo, -i’, munnë ‘mondo’, pullë ‘pollo, -i’ ecc. ), e di -è- e -ò-, che invece, nelle stesse condizioni, possono dittongarsi (piéttë ‘petto, -i’, piérë ‘piedi’, uóssë ‘osso’, fuóchë ‘fuoco, -chi’) 

 

• il “betacismo”, cioè il doppio esito di v– e b-, che di norma è v- in posizione iniziale e tra vocali, –(b)b- dopo consonante o alcuni monosillabi (nap. na vòtë ‘una volta’, ma tre bbòtë ‘tre volte’); 

 

• l’uso del “possessivo enclitico”, cioè posposto e privo d’accento, con i nomi di parentela, soprattutto nelle prime due persone singolari (fìgliëmë ‘mio figlio’, sòrëtë ‘tua sorella’); 

 

• la conservazione, con ulteriori sviluppi, del “neutro” latino, attuata sia attraverso un particolare articolo usato con gruppi di nomi che non ammettono una forma plurale (e che spesso erano neutri già in latino: a Monticchio, aq, lë vinë ‘il vino’ < vinu(m), lë férrë ‘il ferro inteso come metallo’ < ferru(m), ma u férrë ‘il ferro da stiro’, pluralizzabile e dunque maschile), nonché con aggettivi e verbi sostantivati (lë ruscë ‘il colore rosso’ vs. u ruscë ‘la persona dai capelli rossi’, lë campà ‘il vivere’), sia tramite aggettivi e pronomi dimostrativi diversi dai corrispondenti maschili (nap. chéstë nun o ssaccë ‘questa cosa non la so’, ma a cchistë nun o saccë ‘questa persona non la conosco’: in tutti i casi il dimostrativo neutro è non metafonetico, quello maschile è invece metafonetico). 

 

Vi sono poi altri fenomeni meno diffusi: larga parte della Puglia e la Lucania contigua, ad esempio, oltre ad essere caratterizzate da vistosi dittonghi (a Martina Franca, ta, sóulë ‘sole’, a Bitonto, ba, fòichë ‘fico’, a Melfi, pz, léucë ‘luce’), che giungono verso Nord fino all’Abruzzo (a Lanciano, ch, spàusë ‘sposa’), ci mostrano anche il caratteristico sviluppo j-, dj-, g + e, i > š (suono come quello dell’italiano sciame, ma un po’ più debole): šamë ‘andiamo’, da un precedente jamë < eamus, óšë ‘oggi’ < hodie, frìšë ‘friggere’ < frigere ecc.

 

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La gran parte dell’area linguistica meridionale (detta anche “meridionale intermedia” o “alto-meridionale”) coincide con una vasta porzione di quello che fu il Regno di Napoli, il più esteso stato preunitario d’Italia, collegato al resto della penisola da importanti direttrici Nord-Sud, come il litorale adriatico, la conca aquilana e la valle del Sacco-Liri, che, in varia misura, hanno potuto attenuare l’isolamento determinato, nella regione abruzzese, dai più elevati rilievi appenninici.

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Carta linguistica dell’Italia, con indicazione delle minoranze linguistiche o comuità alloglotte (elaborazione di Elena Crescenzi dalla Carta dei dialetti d’Italia di G. B. Pellegrini, Pisa, Pacini, 1977).

La tabella mostra come due dialetti, uno degli immediati dintorni di Napoli (Afragola), l’altro della Costiera amalfitana (Ravello, Sa); non solo siano assai vicini tra loro e al napoletano cittadino, ma concordino alternativamente con quest’ultimo riguardo ad alcuni tratti molto frequenti nel parlato d’uso quotidiano.

La copertina di uno dei volumi dell’Atlante Linguistico Italiano, fondato a Torino da Matteo Bartoli nel 1924 e pubblicato dall’attuale direttore, Lorenzo Massobrio, presso l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato.

 

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LA GROTTA DELL’ARCANGELO GUERRIERO di Giorgio Salvatori – Numero 13 – Gennaio 2019

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LA GROTTA DELL’ARCANGELO GUERRIERO

 

Secondo le Scritture Sacre questa domanda risuonò come un tremendo ammonimento nei cieli quando Michele, l’Arcangelo che guidò le schiere angeliche contro Satana, cacciò dalla volta celeste le creature spirituali che, con un atto di superbia, si erano ribellate a Dio.

L’iconografia cristiana lo raffigura alato, fiero, con la spada sguainata, 

nell’atto di schiacciare un drago o una creatura infernale. Prefigurazione celeste 

di San Giorgio, sua più terrestre emulazione. Angelo guerriero, dunque, 

ma anche guaritore e protettore dei giusti. 

 

In queste vesti è apparso in frequenti ierofanie nell’Occidente cristiano. Lungo la penisola sono diverse le narrazioni di episodi legati a manifestazioni improvvise dell’Arcangelo, dal Piemonte alla Sicilia, con una frequenza accentuata nel meridione dello Stivale. 

In Puglia, in particolare, la sua epifania è attestata ripetutamente 

nell’area del promontorio montuoso del Gargano.


Una presenza costante che ha generato miti, leggende e un culto devozionale che, originatosi nel Medio Evo, è giunto fino alla nostra epoca senza perdere vigore né vitalità. Le ragioni di questa devozione sono molteplici.

La più importante è da ricercarsi nella marcata ripetizione delle apparizioni.

 

Esse hanno donato al luogo della prima manifestazione dell’Arcangelo, una grotta vasta e profonda, un’aura di sacralità ormai radicata nella memoria delle popolazioni del Gargano. Non meno rilevante, per la forte devozione popolare, è l’aspetto terrifico che la figura di Michele condivide con la sua immagine salvifica e benefica, aspetto che, da sempre, è accolto e riconosciuto nella tradizione cristiana: ferreo giustiziere divino per i malvagi, dunque, e salvatore misericordioso per gli oppressi, senza alcuna contraddizione. 

 

È proprio il suo aspetto terrifico ad accogliere i visitatori all’ingresso della grotta di San Michele, a Monte S. Angelo, in Gargano:

‘‘terribile è questo luogo’’ c’è scritto sulla porta della basilica da cui si accede alla grotta. ‘‘Terribilis est locus iste, hic domus dei est et porta coeli’’.

 

Va precisato, tuttavia, che la traduzione più aderente al significato biblico (Genesi, 28, 17) e la più ortodossa per la Chiesa, dovrebbe essere la seguente: ‘‘Questo luogo deve suscitare rispetto, questa è la casa di Dio e la porta dei Cieli”. Oggi, condizionati, dalla sindrome di Dan Brown, molti preferiscono porre l’accento sul presunto significato esoterico della frase che compare, identica, anche all’ingresso di altri templi cristiani e, tra questi, sul frontone della famosa chiesa di Santa Maria Maddalena di Rennes-le-Château.

Torniamo all’origine della nostra storia, a quel lontano 490, anno della presunta, prima apparizione dell’Arcangelo in Puglia, la prima secondo alcuni, 

tra le decine attribuite a San Michele, in tutta Europa.


In quell’anno, secondo la leggenda, un allevatore di buoi del Gargano si mise alla ricerca di un toro scomparso dalla sua stalla. Quando lo ritrovò, dopo una lunga e spasmodica caccia, lo vide coricato nella penombra di una grotta dall’accesso impervio. Irato per la ricerca estenuante e perché l’animale non si lasciava avvicinare, il mandriano incoccò una freccia nel suo arco e la scagliò rabbiosamente verso il toro. Inspiegabilmente il dardo, sempre secondo la leggenda, dopo aver percorso un breve tratto, si girò verso l’arciere e si conficcò sul corpo del malcapitato, facendolo sanguinare. Alcune versioni della storia accennano inoltre ad una sfolgorante luce proveniente dalla cavità più profonda della spelonca. L’uomo corse subito a narrare l’accaduto a Lorenzo Maiorano, vescovo di Siponto. Il prelato rimase talmente turbato da quel racconto che, durante la notte, ricevette in sogno la visita dell’Arcangelo Michele. Questi gli rivelò che la grotta in cui aveva trovato rifugio il toro gli era sacra e che egli ne era l’eterno custode. Aggiunse poi che là, dove si apriva la caverna, potevano essere rimessi i peccati di chi vi si fosse recato in sincera contrizione. Dopo alcune, iniziali, titubanze, la Chiesa riconobbe nel luogo la presenza di Michele, l’Arcangelo venerato come un santo.

Si trattò invece, secondo l’esegesi più laica e profana, della prima sostituzione cultuale del mito pagano di Ercole vendicatore, armato di clava, fortemente 

presente nell’area garganica, con quello dell’Arcangelo Michele 

che si fa giustizia impugnando la spada.


Comincia così la vicenda che lega in modo inestinguibile Michele, il guerriero di Dio, alle popolazioni della Montagna del Sole, il Gargano. Dopo nuove manifestazioni dell’Arcangelo, negli anni e nei secoli successivi, e dopo miracolose guarigioni da pestilenze, processioni di fedeli e pellegrinaggi di santi e di cavalieri crociati nella grotta consacrata, l’epifania di Michele in Gargano divenne leggenda, culto e patrimonio dell’intero Occidente. 

 

Apparizioni simili seguirono un po’ dovunque nell’Europa ormai cristianizzata, quasi tutte collegate a luoghi di culto che, ancora oggi, per i devoti, ne sono testimonianza e formano quella che viene chiamata la ‘‘Via Micaelica’’: da Shelling Michael, in Irlanda, a Saint Michael Mount, in Inghilterra e poi Mont Saint-Michel, in Francia, la Sacra di San Michele, in Piemonte, l’isola di Symi, nel Dodecaneso.

Alcune epifanie sono sorprendenti. La più stupefacente è quella che ebbe luogo 

nel XII secolo, ancora una volta in Italia, più precisamente a Chiusdino, 

nelle colline selvose della Toscana.


È qui che un cavaliere, in cerca di gloria (come Francesco di Assisi prima della conversione) rimase atterrito quando, all’improvviso, venne investito da una luce accecante. Il bagliore emanava da una figura luminosa, l’Arcangelo che lo affrontò mentre il cavaliere, armato e a cavallo, stava per attraversare, fisicamente e metaforicamente, un ponte. Un incontro che lo trasformò da ‘‘miles belli’’ a ‘‘miles Christi’’ grazie al gesto di rovesciare la spada, che in questo modo divenne una croce, per poi infiggerla, prodigiosamente, nella dura roccia (la spada nella roccia è un mistero non svelato, ma documentato da analisi e ricerche effettuate da studiosi dell’Università di Pavia). Quel cavaliere, poi riconosciuto come santo, si chiamava Galgano. 

 

Non può sfuggire neppure al più distratto dei lettori che questo nome rievoca, per impressionante assonanza, quello di Gargano, termine che, storicamente e geograficamente, contrassegna sia il promontorio montuoso pugliese sia, in alcune versioni della leggenda della grotta, il nome del proprietario del toro fuggito dalla mandria. 

Fascino, mistero, carisma, spiritualità emanano dalla figura di Michele, 

venerato da tutte e tre le religioni del Libro: 

Ebraismo, Cristianesimo, Islam.


L’angelo che, insieme a Gabriele, istruì Maometto sulla volontà di Allah per i musulmani, Arcangelo e Santo per i cattolici, Arcangelo e basta per gli ebrei, ma anche per i cristiani ortodossi. Cuore del suo culto resta quella grotta a Monte S. Angelo, in Gargano, cui si accede attraverso una basilica in cui transitano ancora oggi migliaia di fedeli. Nel corso dei secoli vi si sono recati papi e condottieri, principi e plebei e diversi santi. Tra questi Padre Pio da Pietrelcina, il più amato in terra di Puglia e tra i più venerati nel mondo.

Eppure leggendo l’interminabile elenco dei visitatori della grotta, 

ciò che più colpisce, ma non sorprende, l’animo del lettore 

è il pellegrinaggio di San Francesco.


Dopo aver percorso, a piedi e con mezzi di fortuna, l’itinerario che lo separava dalla caverna dell’Arcangelo, il Santo di Assisi giunse all’ingresso della grotta e lì si fermò in silenzio. ‘‘Non sono degno di entrare in un luogo così sacro’’, furono, secondo i biografi, le sue parole. Una frase che racchiude insieme la grandezza del fraticello di Assisi e la forza prodigiosa e sovrannaturale che ancora emana dalla Grotta dell’Arcangelo. 

 

Per tutte queste ragioni la miracolosa caverna del Gargano è, per moltissimi devoti, il santuario più importante tra i tanti luoghi di culto cristiano diffusi lungo la penisola.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La parola Michele, infatti, si potrebbe tradurre in ‘‘Chi è come Dio’’? Che in ebraico suona: ‘‘mi kha El’’?

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PAESTUM QUEL SOGNO GRECO di Nadia Parlante – Numero 13 – Gennaio 2019

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PAESTUM QUEL SOGNO GRECO

 

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mentre sfiorano il tufo ruvido delle colonne, cercando di carpire il segreto nascosto dei templi pestani, la bellezza maestosa di quelle pietre millenarie che sfidano il tempo degli uomini proiettandosi nell’eternità.

Sono i turisti provenienti da tutto il mondo che ancora oggi, esattamente come trecento anni fa, raggiungono le rovine dell’antica città di Poseidonia, attratti da un mito immortale che qui ha trascinato artisti, poeti, re e imperatori…

Li puoi immaginare, quegli uomini avventurosi e colti del Grand Tour 

mentre nel XVIII secolo, affrontano un viaggio a dir poco apocalittico 

nelle paludi a sud di Salerno, verso il Cilento, solo per ammirare 

il segno tangibile della civiltà e dell’arte antica. 


E tra mandrie di bufali dagli occhi sanguigni, mandriani malarici, sterpaglie, greggi, fuochi e zanzare, piegarsi commossi di fronte a quella magnificenza assoluta che si ergeva nella solitaria valle dei templi italiana, tra la terra e il mare. Maestosa e perfettamente visibile, eppure inspiegabilmente ignorata e depredata da secoli, tanto vicina alla civiltà moderna eppure tanto remota e incomprensibile da sembrare un universo sconosciuto e inesplorato.

“L’unico modo per divenire grandi, è l’imitazione degli antichi”
– scriveva in quegli anni il tedesco Winckelmann – gettando le basi 

del Neoclassicismo che proprio del mito greco si nutriva 

e grazie a Paestum conobbe uno dei suoi momenti 

più alti e significativi. 


E nel suo vagare stupefatto tra le possenti colonne doriche, le piante di fichi e le rose virgiliane, anche lo scellerato genio Giovan Battista Piranesi, precursore del romanticismo, riscoprì l’assoluta grandezza degli antichi posidoniati, la eternò attraverso le sue incisioni, dedicando a Paestum la sua ultima, eroica fatica. 

 

Le tre architetture colossali si ergono a pochi chilometri dal fiume Sele e dalla Real Caccia di Persano, sito venatorio dei re Borbone, grazie al quale fu creata la strada che vi conduceva e procedeva poi oltre il fiume, verso l’antica città, patrimonio personale del re Carlo, appassionato di arte, archeologia e promotore della loro riscoperta e valorizzazione.

E vi giunse tra gli altri, anche lo scrittore Goethe, sgomento per l’inferno del viaggio da Salerno ma estasiato e ampiamente ripagato dalla vista di ciò 

che, quasi di colpo, si era trovato innanzi.


Un mondo che gli parlava “in un linguaggio sconosciuto” mentre sbigottito camminava lungo il perimetro del tempio “comunicando alle colonne la sua vita” e ascoltando da esse “il soffio vitale” che l’architetto geniale vi aveva infuso. 

 

L’antica città della Magna Grecia, dedicata al dio del mare, conobbe il periodo di massimo splendore economico, politico ed artistico intorno alla metà del VI secolo a.C., ma continuò ad espandersi in età romana e lucana, fino all’impaludamento e abbandono progressivo. Della polis e delle mura che la circondavano restano tracce architettoniche evidenti e ben conservate, oltre ai templi di Hera, Nettuno e Cerere.

Un patrimonio artistico, storico ed etnografico dal valore inestimabile 

custodito nell’omonimo museo e nei suoi ampi sotterranei, 

da poco aperti al pubblico grazie ad una gestione illuminata.


Cosa dire poi dell’enigmatica Tomba del Tuffatore – unico esempio al mondo di pittura greca non vascolare – e di quello spettacolare tuffo verso l’ignoto capace di catalizzare lo sguardo di ogni visitatore costringendolo ad una pindarica riflessione esistenziale? E quando il giorno tramonta su Paestum e il sole infuocato del Sud scende nel mar Tirreno illuminando i tre giganti di pietra, sai di trovarti nel cuore della storia del mondo, in uno dei luoghi simbolo della civiltà occidentale.

Dove tutto ha avuto inizio. Dove tutto può ricominciare. 

 

 

 

 

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EDINA ALTARA. “LA PITTRICE CANTASTORIE” di Stefania Conti – Numero 13 – Gennaio 2019

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EDINA ALTARA. “LA PITTRICE CANTASTORIE” 

 

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Edina Altara

Ma Edina Altara era tutt’altro. O meglio, era bellissima, certo, ma soprattutto era pittrice, illustratrice, ceramista, decoratrice e – a un certo punto della sua vita – anche creatrice di moda. 

 

Poliedrica e raffinata, ribelle e borghese. Ma soprattutto testarda come poche, convinta della sua vocazione e capace di emergere in un mondo maschile – di quegli anni, poi, quando una donna artista era considerata una poco di buono o giù di lì. 

 

Nata a Sassari nel 1898 da una famiglia facoltosa, terza di quattro figlie, riceve un’educazione normale. Fin da bambina però preferisce matite e forbici alle bambole. <Non ho mai avuto bambole costruite da altri>, racconterà quando era già famosa. Col passare degli anni comincia a confezionare collage di un certo pregio. Una tecnica, tra l’altro, che lei, così attenta alle novità e così piena di entusiasmo, conosceva perché era stata già adottata dagli inizi del ‘900 da esponenti del Cubismo come Braque e Picasso. 

 

Nel 1916 partecipa alla Mostra della Mobilitazione Civile a Sassari, con un suo collage in carta, tela e filo. Due mesi dopo è a Milano, alla Mostra campionaria del giocattolo italiano, dove ottiene la medaglia d’argento con dei giocattoli in cartone colorato. Ha solo 18 anni.

 

Il suo lavoro viene segnalato da critici come Margherita Sarfatti, 

Vittorio Pica e Ugo Ojetti.

 

Raffaello Giolli (tra i maggiori critici e studiosi d’arte del periodo) è entusiasta al punto di usare uno dei suoi collage per la copertina della sua rivista “Pagine d’arte”. L’anno dopo, durante la mostra della Società degli Amici dell’Arte di Torino, il re Vittorio Emanuele III acquista il collage “Nella terra degli intrepidi sardi” (noto anche con il titolo “Jesus salvadelu”), ora esposto al Quirinale. E’ la consacrazione dell’artista. Il suo nome oltrepassa l’isola. 

 

Lei non si ferma e continua a sperimentare nuove tecniche. Costruisce giocattoli di carta colorata e si dedica alla ceramica, disegna piatti, piattini, mattonelle che saranno prodotti da una ditta sassarese. Ma quando la collaborazione finisce, insieme alle sorelle Iride e Lavinia dà vita ad una piccola azienda al femminile, che nella Sardegna di quegli anni, era quasi un miracolo. 

 

Sposa un illustratore e sceneggiatore noto, Vittorio Accornero (suo è l’iconico foulard Flora di Gucci creato per Grace Kelly e ancora oggi apprezzato dalle signore) e con lui si trasferisce a Milano. Sono una coppia che oggi diremmo glamour,

frequentano il bel mondo, Edina diventa una icona di stile. Ma il matrimonio 

non dura e nel 1934 si concentra nella moda, 


lavora con filati e broccati, apre un atelier, disegna per riviste come “Grazia” e “Rakam”. 

 

Negli anni ‘40, una svolta. All’ombra di Giò Ponti, architetto e designer già famosissimo, acquista maggior peso il ruolo di pittrice e decoratrice. Orna, tra l’altro, numerosi arredi firmati dal designer (è pur sempre una donna). Disegna e decora arredi e mobili di cinque transatlantici (tra cui l’Andrea Doria). La collaborazione, che dura fino agli anni ‘60, esalta la sua creatività e i suoi lavori vengono pubblicati su autorevoli riviste, come “Stile” e “Domus”.

Giò Ponti la definisce “la pittrice cantastorie”, perché in tutti i suoi lavori 

c’è un filo rosso: la Sardegna.


Tutta la sua voglia di cambiare, tutta l’attenzione allo stile futurista, il suo essere ribelle e moderna non spezzerà mai l’amore per la sua isola.  

 

 

 

Capelli corvini lunghi e morbidi. Occhi neri penetranti, con un trucco intenso e ammaliante. Un vestito da sera elegantissimo. Una femme fatale, di quelle che tanto piacevano a Gabriele D’annunzio.

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MARETTIMO LA VERA ITACA di Stefano Paolo Genco e Gaia Bay Rossi – Numero 13 – Gennaio 2019

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MARETTIMO LA VERA ITACA

 

Infatti, Il viaggiatore che sbarca a Marettimo provenendo da Favignana o da Trapani, trova un piccolo paese fatto da casette bianche con le imposte azzurre, privo di automobili ed equamente separato dalla montagna, che gli protegge le spalle e gli dona il profumo della macchia mediterranea, e il mare (facente parte dell’area marina protetta più grande d’Europa), che gli accarezza il volto e gli dona quotidianamente pesce freschissimo.

 

Qui – come in molti luoghi del sud – il tempo ha un’altra valenza, 

quasi una condizione mentale, discostandosi totalmente 

da ciò che indica l’orologio, ed è sempre pronto 

ad avvalorare la propria einsteiniana relatività

 

Sì, perché bastano pochissime ore sull’isola per lasciarsi andare a ritmi completamente diversi, rallentati, quasi studiati per dare alle persone un tempo dilatato, adatto ad immergersi nel luogo in cui stanno vivendo. Non a caso i marettimari sono soliti ripetere: “Trovata Marettimo, ritrovi te stesso”. Infatti poter godere della natura, del mare, dei boschi e del buon cibo, con poco o nessuno spazio alla mondanità e all’intrattenimento, permette di modificare la propria convinzione sulle priorità della vita, rendendo inutili gran parte degli orpelli che ci portiamo dietro. 

 

La nostra Hierà Nésos, antico nome greco di Marettimo che significa “Isola Sacra”, ha tanto da offrire e da scoprire, e quando si giunge qui, anche se per la prima volta, è un po’ come tornare a casa. Non è un caso che la più esterna e occidentale delle isole Egadi,

secondo le supposizioni dello scrittore inglese Samuel Butler 

nel suo libro “The Authores of Odyssey”, coincida 

dal punto di vista geografico con Itaca, 

la patria di Ulisse,

 

che non avrebbe viaggiato in acque greche ma ben più a ovest, nel Canale di Sicilia, tra Italia e Tunisia, giungendo sin qui. 

 

Soltanto 12,3 km, incontaminati e selvaggi, che mostrano prepotenti una flora e una fauna unica in tutta la Sicilia. Oltre 500 specie botaniche presenti, molte delle quali si possono facilmente osservare passeggiando per l’isola, come il timo di Marettimo, il rosmarinus officinalis, la finocchiella di Boccone, il garofano rupicolo e l’erica multifiore, mentre sulla zona montuosa i pini di Aleppo offrono rifugio a numerose specie di uccelli, tra cui l’aquila del Bonelli, il martin pescatore e vari tipi di corvi. Ma ancora è possibile avvistare aironi, barbagianni, falchi, nibbi e gabbiani reali. Passando dalla montagna al mare, fra gli alberi e lungo i sentieri, oltre a saltellanti conigli selvatici così come cinghiali e mufloni, è possibile incontrare Nino “l’indiano”, che organizza gite in montagna con i suoi asinelli. Certo, non sono asinelli selvatici, ma accarezzarli, passeggiare su di loro, abbracciarli e fotografarli, indubbiamente rallegra la giornata di chi, stanco di passeggiare, vuole continuare a godersi i paesaggi della natura.

 

Una volta giunti al mare, molti scrutano gli scogli e le insenature alla ricerca 

di strani personaggi che fino a cinquant’anni fa erano ben presenti sull’isola, 

non famigerati mostri di Loch Ness, ma deliziose foche monache 

che, sembra, siano state avvistate anche negli ultimi dieci anni 

da turisti increduli e dai mezzi meccanici di ricercatori. La costa 

regala l’emozione di oltre 400 tra grotte e insenature, 

molte delle quali raggiungibili solo via mare. 

 

Lì incontriamo Pietro Torrente, comandante in capo di un diving dell’isola, che prosegue la strada tracciata da papà Franco, e gli domandiamo di raccontarci qualcosa su queste pittoresche grotte e sui fondali della nostra Itaca. Pietro, con la luce negli occhi, ci racconta che il mare e i fondali di quest’isola sono il suo vanto e la sua ricchezza, che “alcune grotte sono visitabili solo con la barca e tra le più spettacolari fra quelle emerse ci sono: la Grotta del Cammello, che deve il nome allo scoglio che ha la forma dell’animale, dove l’acqua è turchese e cristallina, e un tempo era il rifugio delle foche monache [cit. aut. Nel 2011 l’AMP Isole Egadi in collaborazione con l’ISPRA ha avviato un programma di monitoraggio con foto-trappole che hanno immortalato l’animale nella stagione invernale]; la suggestiva Grotta Perciata, ricca di stalattiti e stalagmiti; la Grotta della Pipa, che all’estremità interna ha una saletta con una vasca naturale. La pavimentazione dimostra che era stata anticamente utilizzata dall’uomo, infatti inglobati in essa vi sono antichi cocci, otri, lucerne ad olio e una fibula in bronzo. Tra quelle subacquee, impossibile non citare la Cattedrale, una spettacolare grotta unica nel suo genere, con l’ingresso posto a 29 metri di profondità, ricca di vita e piena di stalattiti e stalagmiti, a confermarne una sua precedente e remota collocazione di superficie. Ma per noi del diving le grotte sono solo una parte delle meraviglie osservabili, infatti poter ammirare gorgonie, dentici, cernie, barracuda, saraghi e corvine è un’emozione altrettanto potente. Provate ad immergervi nelle nostre coste e, se volete stupirvi, fatelo alla Punta Libeccio dove, ad appena 15 metri di profondità, vi accoglierà il relitto di un antico mercantile risalente al Seicento, oppure alla secca di Cala Bianca, estremo confine ovest d’Italia, ove è usuale sentirsi immersi in un acquario”.

Sulla scogliera di Punta Libeccio, ove gli isolani collocano l’anima di Marettimo, 

si trova un importante faro costruito nel 1860 in pietra con una forma ottagonale. 

La sua luce arriva quasi a salutarsi con quella del faro di Capo Bon in Tunisia 

che è posto di fronte a lui.

 

Sembra che durante lo sbarco degli americani in Sicilia, durante la Seconda Guerra Mondiale, il guardiano di allora finse di obbedire all’ordine dei militari di distruggere quel faro e lo salvò, facendo detonare una carica poco distante. 

 

Per dare un tocco di dolcezza, non possiamo non ricordare che Marettimo è l’isola del miele. Qui è antichissima la tradizione dell’apicoltura. L’azienda locale è composta da persone colte che non solo conoscono perfettamente i metodi di produzione del miele, ma anche la storia di questa attività, che a Marettimo ha origini remote. È stato sviluppato un programma di salvaguardia e selezione dell’Ape Mellifica Sicula, la stessa che produce il miele locale, fatto soprattutto di Cardo, Erica, Rosmarino e Timo, mentre quello di Arancio e Sulla viene prodotto nella provincia di Trapani. 

 

La sera a Marettimo, come si è già detto povera di mondanità, si conclude la stancante giornata di mare o montagna, in uno dei ristoranti che cucinano in modo sapiente e tradizionale il pescato della giornata, rendendo il soggiorno su questa magica isola un appuntamento, forse sarebbe più corretto dire una esperienza, da ripetere.

 

 

 

 

 

 

 

trattandosi di un microcosmo d’altri tempi.

gaia bay rossi
Stefano Paolo Genco
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Editoriale: perché Myrrha? di Sergio Spatola – Numero 13 – Gennaio 2019

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Il nostro sito recita: «Una nuova memoria del Sud Italia. Le eccellenze che non hanno goduto nel tempo attenzione al pari delle denunce». 

 

Ciò, perché la memoria raccontata fino ad oggi non ha raggiunto lo scopo di elevare il centro Euro-Mediterraneo dalla connotazione negativa che gli viene attribuita? Ci sono tanti esempi di memorie che hanno raccontato e raccontano il sud. Myrrha, però, lo vuole fare con un profilo di novità che accompagni, nella contemporaneità, fatti noti o meno noti, fatti nuovi o storici. E allora si svela il segreto di Myrrha. Un’estetica da periodico cartaceo fatto web e dal web un’antologia cartacea fatta catalogo. Quello che abbiamo presentato, itinerando per le città meridionali. 

 

Si diceva delle memorie. 

Dalle memorie è indubbio possa trarsi l’identità, in questo caso, di un luogo.

Myrrha intende trasmettere l’identità del Sud, proprio partendo dal suo territorio perché chi vi vive possa comprenderne appieno la natura e, liberatosi 

dai condizionamenti e convincimenti che vogliono un meridione d’Italia 

improduttivo, creare un nuovo concetto di produttività.


Non si vuole, dunque, innalzare le bellezze mediterranee creando un muro contro un Nord. Al contrario rilevare un Sud diverso dal Nord, un meridione potenzialmente produttivo per altre caratteristiche. 

 

Myrrha tenta di evidenziare questa diversità che non indica un meglio o peggio, un giusto o sbagliato, un bello o brutto. Indica, invece, una pura e semplice «diversità» che abbisogna di un «diverso» approccio. E allora si spiega come mai autorevoli e impegnate firme dedichino il poco tempo a loro disposizione per fare crescere Myrrha, per continuare a farne uscire numeri e dotarla di strumenti che possano maggiormente diffonderla.E allora si spiega come mai la passione ci ha condotti al quarto anno di pubblicazioni e alla prima diffusione cartacea. 

 

La nostra ostinazione ha il prezzo del tempo dedicato a (ri)scoprire nuove realtà senza tempo, perché la rivista non tratta di cronaca, che, seppur importante, lascia una scia che permane un paio di giorni della frenetica esistenza che caratterizza la modernità.

Myrrha cerca di trovare quel che non passa per bloccarne un’importanza 

senza durata, cristallizzandola nello spazio del web.


Esso sì, è veloce per natura, ma la rivista trimestrale lo rallenta arricchendolo di contenuti sempre attuali. L’esigenza di utilizzare il web allora dipende dalla sua connaturata capacità diffusiva che ha consentito alla rivista di raggiungere quanti non avrebbero potuto ricevere un cartaceo. Da ciò dipende anche la scelta di realizzare un antologico scritto, che dia, con lo strumento più classico, una testimonianza degli sforzi profusi. In esso, con nostro stupore, non abbiamo potuto inserire tutti i lavori di due anni, della cui consistenza e qualità ci siamo accorti in fase di lavorazione del volume. Siamo stati però consapevoli immediatamente del fatto che tutto il lavoro è fruibile integralmente sul web che, a differenza del cartaceo, non ha limiti.

Auspichiamo di poter continuare nella nostra avventura editoriale arricchendo 

sempre più questo scrigno che custodisce i doni del Sud.


È scritto, sul contributo di Marzio Maria Cimini, che «è compito di questa epoca promuovere e anzi imporre contenuti che non solo suonano nuovi e inediti alle orecchie più accorte, ma che possono dare nuova energia al recupero e alla trasmissione di storie e di valori che non possono non essere riconosciuti come alti e irripetibili. (…). 

 

Una vera identità, passa oggi attraverso il recupero di consuetudini più antiche e più illustri, meno orecchiate e più precise, meno consolatorie e più forti, meno gentili ma anche più autentiche”. Speriamo che Myrrha ci stia riuscendo.

 

 

 

 

 

 

E, poi, perché un volume antologico cartaceo di una webzine – magazine on line?

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SILVIO SPAVENTA. IL NOVECENTO, SECOLO DEL LAVORO di Raffaele Colapietra – Numero 13 – Gennaio 2019

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       SILVIO SPAVENTA.           IL NOVECENTO,     SECOLO DEL LAVORO

 

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A questa linea egli si serbava fermamente fedele, dopo qualche sbandamento durante il rigidissimo ergastolo di Santo Stefano: Italia e Vittorio Emanuele, nel 1860, persecuzione implacabile e indifferenziata di borbonici, camorristi e garibaldini, fino alla sanguinosa repressione dei moti torinesi di fine 1864 per il trasferimento della capitale a Firenze.

 

Spaventa lasciava il potere per poco meno di un decennio, entrando a consumare un’esperienza nel Consiglio di Stato che si dovrebbe conoscere meglio per intendere il suo pensiero in proposito, nessuna reazione immediata, ad esempio, all’abolizione del contenzioso amministrativo nel 1865 ad opera del guardasigilli Pisanelli, uomo di Destra e meridionale come lui, e suo amicissimo personale.

Spaventa è ministro dei lavori pubblici nel dicembre del 1873 

in un gabinetto Minghetti tutt’altro che “piemontese”


e la novità d’ambiente che subito lo colpisce sono le società più o meno anonime fiorite nel frattempo, un’escrescenza capitalistica internazionale che egli non comprende, denunziandone subito, ed esclusivamente, l’egoismo e le immoralità spicciole nella gestione ferocemente privatistica delle ferrovie italiane, donde la “gioia segreta” di poter eliminare tale gestione ad opera di stranieri “i più audaci avventurieri e speculatori che si siano mai visti” ed in favore di uno Stato da “adorare” in quanto “dirige un popolo verso la civiltà” intesa quest’ultima “quale unità della coltura e del benessere” ed identificandosi esso Stato con “un’assoluta necessità sociale” (marzo e giugno 1876).

Spaventa non avrebbe visto questo Stato trionfare contro “la frode, 

il raggiro, l’aggiotaggio e tutti gli altri vizi” delle società anonime, 

i suoi stessi elettori abruzzesi lo avrebbero escluso e costretto 

a rifugiarsi nella Bergamo “capitale dei Mille”


ma altresì roccaforte del cattolicesimo sociale dei Radini Tedeschi, Rezzara, Agliardi, Suardo, il mondo da cui sarebbe venuto fuori il futuro Giovanni XXIII e che condizionava Spaventa nella sua requisitoria dell’aprile 1877 contro gli estremismi laicisti del guardasigilli Mancini che lo aveva escluso dal Consiglio di Stato (avrebbe riparato ben presto Zanardelli, l’uomo delle aborrite società anonime) anche nelle sue novità più indiscutibilmente liberali, l’abolizione del carcere per debiti, le modifiche alla condizionale e alla libertà provvisoria, il voto amministrativo alle donne (era stato Spaventa ad ammetterle come telegrafiste, esempio immediato ed illustre Matilde Serao, ma ciò alla luce del puro e semplice “tornaconto finanziario”, marzo 1875, cioè perché pagate di meno).

“Nessun pubblico impiegato possa, una volta investito del suo ufficio legittimamente, esserne arbitrariamente privato” ecco la parola d’ordine che Spaventa innalzava 

alla Camera nel novembre 1877 ed avrebbe mantenuto per un decennio 

con i suoi corollari:


l’auspicata esclusione degli impiegati dalla lotta dei partiti politici, “il bisogno di vivificarne l’ambiente” attraverso organi speciali concordati tra il potere esecutivo e quello legislativo, grazie ai quali “la libertà costituzionale diventa concreta, diventa quello che deve essere, non semplice partecipazione alla formazione delle leggi ma partecipazione alla loro esecuzione” donde “l’uomo veramente libero, che fa a sé la propria legge e l’esegue da sé” (giugno 1878). Cose del genere avrebbe ripetuto Giovanni Gentile tra il delitto Matteotti ed il 3 gennaio, allorché si parlò correntemente di uno Spaventa in camicia nera e di una tessera fascista a Spaventa.

Croce aveva posto da un pezzo lo zio al vertice del proprio personale pantheon risorgimentale, accanto a De Sanctis e Carducci: ma Gentile non va dimenticato, 

né con lui Salandra, che di Spaventa era stato allievo


e che, tanto a Chieti nel giugno 1922 per il centenario della nascita, quanto nel 1928, in merito alla crisi di fine secolo, aveva obiettato più o meno direttamente a Croce in termini da ripensare con attenzione.

Un ripensamento sistematico dell’esperienza risorgimentale era intanto 

quello che il Nostro veniva svolgendo nei suoi ultimi anni, 


i pieni poteri del 1859 soffocatori di ogni autonomia provinciale alla luce di una indipendenza che era arrivata a subordinare la libertà (marzo 1879) ed a consentire un’ingerenza dello Stato obiettivamente inevitabile alla quale si reagisce privilegiando l’amministrazione sulla politica sotto l’egida suprema della monarchia “che in questa missione ha la sua nuova ragion d’essere” (maggio 1880, in evidente chiaroscuro con ciò che parecchi anni prima aveva sostenuto Angelo Camillo De Meis e ben al di là dell’auspicata elettività del Sindaco, che monopolizzava l’attenzione nell’atmosfera pre-elettorale dell’epoca). 

 

Appunto l’allargamento del suffragio avrebbe richiamato il Nostro a Chieti nel dicembre 1882 ma egli si sarebbe mantenuto fedele a Bergamo in nome di un organicismo conservatore tutt’altro che alieno dal cattolicesimo del Zentrum tedesco, il diritto elettorale “non individuale ma pubblico per operare il bene altrui e adempiere un dovere” donde la speranza che

“facendo partecipe del governo dello Stato altri ceti che abbiano intenti ed ideali diversi dalla borghesia si produca quella differenziazione di partiti che oggi manca” 

e che è dovuta al “principio essenzialmente radicale” (e borghese) 

del protagonismo del pensiero a fini di governo,


protagonismo che “si è provato inefficace ed inetto a riedificare ciò che deve continuare ad esistere”, scopo a cui debbono adempiere, in funzione essenzialmente conservatrice (e perciò latamente cattolica), gli “altri ceti” chiamati sul proscenio dalla riforma elettorale (e perciò tutt’altro che sovversivi). 

 

Sbarazzatosi di fatto delle novità di tipo tedesco che Guido Baccelli pretende di introdurre nelle strutture universitarie “istituzioni sociali indipendenti dallo Stato” con la loro nebulosa “libertà d’imparare” (gennaio 1884), ribadito il carattere letterario e retorico del patriottismo quarantottesco che aveva indotto ad un’assurda azione puramente rivoluzionaria una Destra “parte media che doveva fare ad un tempo da propulsione e moderatrice dello Stato” (settembre 1885), il canto del cigno parlamentare del Nostro, marzo 1886, prima delle novità crispine del Senato e della nuova specifica sezione del Consiglio di Stato, prende atto dell’esaurimento del ciclo trasformistico, il principio nazionale che degenera in nazionalistico con le sue vocazione imperialistiche, bellicose e protezioniste, il principio democratico pacifista volto essenzialmente a sollevare le sorti delle classi inferiori.

Questo “sollevamento”, lo ripetiamo, non ha nulla di sovversivo 

e molto di paternalistico,


contribuisce essenzialmente alla definizione dei partiti politici (lo avrebbe ben inteso Giolitti nel 1892), si sarebbe identificato (settembre 1886) con “una classe che non ha altra base che il suo lavoro e diventa sempre più numerosa, ed aspira naturalmente a venir su ed a migliorare il suo stato”: ma poiché “la libertà stessa è spesso contraria agli sforzi che le classi operaie fanno per riuscirvi” la grande novità del Nostro, schiettamente democratica di fatto anche al di là dell’intenzione, è la scoperta e la valorizzazione della scuola popolare “l’officina in cui devono farsi i nuovi italiani… nella quale il sapere diventa carattere e le cognizioni opere”:

in altre parole, dall’Ottocento secolo della storia di De Meis al Novecento 

secolo del lavoro di Spaventa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

aveva dato la misura della levatura politica e dell’orientamento strategico del venticinquenne Silvio Spaventa, unità italiana monarchica sotto l’egida di Carlo Alberto Re di Sardegna.

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L’ANTICA BOTTEGA DEL LEGNO CHE SUONA di Michele Minisci – Numero 13-Gennaio 2019

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       L’ANTICA BOTTEGA        DEL LEGNO CHE SUONA

 

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Parliamo di Rosalba De Bonis, l’ultima di una dinastia di liutai, famosi in tutto il mondo, che da 500 anni costruiscono strumenti musicali a corda, tra i quali va segnalata la chitarra battente, la cui particolarità consiste nella sua sonorità. E’ chiamata così anche perché le corde debbono essere percosse e non pizzicate e la quinta corda, o scuordo, dà una nota cupa. 

 

Nell’Italienische Geigenbauber, l’almanacco del gotha dei liutai, si parla dei De Bonis come di una dinastia. C’è un Francesco I, Francesco II, un terzo, un quarto, come ci sono i Giacinto, i Michele, i Nicola, i Vincenzo, i Rosario, e infine Rosalba, l’ultima della dinastia, variamente alternati come i rami di un albero genealogico imperiale.

L’abilità, il gusto raffinato della linea e tutti i segreti per ottenere dagli strumenti 

un suono armonioso che i grandi musicisti conoscono bene, 

vengono custoditi gelosamente e tramandati di padre in figlio.


La bottega d’arte, posta al centro dell’antico Rione della Giudecca, nel comune di Bisignano, in provincia di Cosenza, dove ormai Rosalba De Bonis, l’ultima della dinastia, lavora da sola, è un ambiente luminoso, inconfondibile; le forme-modello dei vari strumenti musicali sono appese alle pareti, i molti attrezzi antichi da lavoro, ben ordinati, sembrano tanti elementi decorativi dell’ambiente. Le linee degli strumenti sono l’una diversa dall’altra, i legni rari sapientemente invecchiati e trattati con vernici speciali; i vari intarsi, le decorazioni, sono veri capolavori di sapienza, di calcolata straordinaria sapienza, perché ogni elemento, anche quello decorativo, contribuisce alla più pura musicalità degli strumenti.   

Sono secoli di storia, la storia di una Calabria segreta e inattesa, 

quella della musica. Le vicende di una bottega dove con gli stessi scalpelli, 

le stesse forme, gli stessi legni, soprattutto con lo stesso amore, 

qualcuno ripete ogni giorno il miracolo di creare uno strumento vivo.

Violini, chitarre, mandolini, ukulele, tutto nasce in questa bottega in modelli identici da secoli. I nipoti diventano padri, poi nonni, poi se ne vanno vedendo che gli ultimi nati sono già pronti a prendere il posto lasciato vuoto, per continuare quel lavoro che non deve finire mai. Rosalba mi dà appuntamento davanti alla sua bottega e subito mi rapisce: parla metà in italiano e metà calabrese-cosentino; occhi neri come la pece, sguardo limpido, sincero, ma quasi inquisitore, come a voler proteggere, davanti ad un estraneo, i suoi lavori, la sua arte, la sua genialità, nonostante la cordialità con cui mi concede questa intervista. 

 

Mentre mi mostra i modelli da cui ricava poi le sue chitarre, Rosalba mi racconta la storia del legno da cui sono state ricavate le sue ultime chitarre, legno di palissandro brasiliano, una partita del 1957, arrivata a Battipaglia dal porto di Napoli, che ora non si trova più in commercio, lasciata ad invecchiare per decenni. E poi tira fuori da un cassetto ciotoli di colla risalenti al 1915, uguale a quella che si usava nel ‘700; e poi mi porta nello stanzino dove c’è una piccola officina, con al centro una base in muratura, di lato un mantice, della cenere forse ancora calda, e

mi spiega come lavora col fuoco per addomesticare, piegare il palissandro 

alla sua volontà, alla sua idea di chitarra,


all’anima che vuole infondere ad un semplice pezzo di legno. 

 

E la tecnica di Rosalba è la stessa che si usava nel 1500, uguale alla tecnica utilizzata per modellare le gondole di Venezia, le chitarre spagnole. E’ qui che Rosalba ha un moto di orgoglio spontaneo e sincero, quando mi dice che non le piace la chitarra spagnola, la chitarra classica è quella italiana. 

 

Punto. Ricorda poi quando ai primi del ‘900 i suoi lontani parenti andavano in giro, con in spalla la viertula, insomma la bisaccia, piena di chitarrine, per venderle nei mercatini di tutta la Calabria. Poi sono arrivate le prime mostre, i primi concorsi e i riconoscimenti in tutto il mondo.

“Un vero liutaio inizia questo lavoro a sette anni, per essere considerato 

un liutaio perfetto. Io ho iniziato che avevo vent’ anni 

e ci lavoro solo da altrettanti anni


– mi dice Rosalba – e non faccio ancora la chitarra perfetta, come timbrica, forse come estetica ci sono vicino… e poi sono l’unica donna della dinastia a lavorare con le chitarre – e sottolinea questo aspetto con determinazione, forse per ribadire un suo orgoglio femminista, ricordando la contrarietà in famiglia per questa sua decisione di impegnarsi in questo lavoro – …e poi è mancina… dicevano per dissuadermi… 

 

Ricordo che zio Vincenzo e anche mio padre, Costantino, solo dopo la mia cinquantesima chitarra battente hanno detto …ci siamo…. Ho deciso di impegnarmi nella costruzione della chitarra classica solo dal 2013, e ne ho fatte già una decina e penso che quando ne costruirò altre dieci forse raggiungerò la perfezione. Farò la chitarra classica perfetta del 2000 – mi dice con un largo sorriso e un’impennata di orgoglio -. Pensa che ci vogliono dai 40 ai 50 giorni per costruirne una”.

A questo punto Rosalba mi racconta delle tante visite ricevute 

nella sua bottega dai tanti chitarristi-cantanti italiani,


di diversa estrazione musicale, come Roberto Murolo, Pino Daniele, Celentano, però in incognito, Fred Bongusto, e poi Eugenio Bennato, della Compagnia di Canto Popolare, che da quando scoprì la chitarra battente, nel 1976, contribuì a renderla molto popolare. “Per non parlare di Modugno, che incontra mio zio Nicola sul treno e gli compra una de Bonis seduta stante: pensa un po’! Ma ho saputo che anche Fabrizio De Andrè ha suonato una De Bonis”. 

 

Ma l’episodio che Rosalba ricorda di più e con infinito orgoglio è quello riguardante

la prima visita in Italia di Segovia, il grande chitarrista spagnolo, 

invitato in una trasmissione per la Rai, con la fila dei liutai italiani 

che gli presentavano le proprie chitarre da utilizzare 

per il concerto italiano e lui scelse la De Bonis.


Ma chi prenderà il posto di Rosalba de Bonis, fra cent’anni? 

 

“E chi lo sa… – mi risponde Rosalba allargando le braccia – Mio figlio ha dodici anni e ho anche diversi nipoti, ma nessuno di loro, per ora, ha mostrato interesse per le nostre chitarre. Vedremo…. mai dire mai”. 

 

Finisce qui il mio incontro con Rosalba de Bonis, una liutaia calabrese, un mito nel mondo della liuteria internazionale, e mentre ci salutiamo mi dice ancora, con malcelato orgoglio: “Io voglio proteggere la mia tradizione, la mia particolarità, e non voglio che finisca”. 

 

Che gli dei ti siano propizi, Rosalba.

 

 

Lavora con le sue mani per carpire al legno un segreto. Legno di palissandro, di abete, di ebano, di acero, di mogano. Tante parti che, assemblate poi insieme, daranno vita, dopo settimane, mesi, di intenso lavoro, alle sue chitarre.

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