GRAGNANO CITTÀ DELLA PASTA di Stafania Conti – Numero 14 – Maggio 2019

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GRAGNANO CITTÀ DELLA PASTA 

 

Ma la pasta ci identifica di più. Basta pensare agli “spaghetti western” o – in senso negativo – alla pistola posata su un piatto di spaghetti nella copertina di Der Spiegel. Senza citare il “macaroni” dispregiativo con cui venivano chiamati gli emigranti italiani. Ma, bisogna dirlo, almeno in questo siamo stati bravi e abbiamo capovolto quel disprezzo in una eccellenza e se oggi si dice pasta si pensa, sì, agli italiani, ma con l’acquolina in bocca e la certezza che, se è tricolore, vale di più. Grande merito di questo successo è dovuto alla pasta artigianale, quella prodotta col grano duro. Sul mercato nazionale registra un costante aumento dei volumi di vendita, ma non da meno è il trend delle esportazioni. 

 

Secondo i dati Istat, tra il 2017 e i primi mesi del 2018 l’export è cresciuto di quasi 18.000 tonnellate. Andiamo alla grande in Europa – più di 103.000 tonnellate –  e cresce di quasi 8.000 persino nei paesi terzi.

C’è un piccolo distretto, in Campania, quello di Gragnano, 

dedicato da oltre 500 anni alla produzione del maccherone.


Qui se ne fabbrica uno speciale, di grano duro, essiccato lentamente a bassa temperatura. Grazie a questa sua leggendaria tradizione, è diventato la patria della pasta celebrata da scrittori, storici e poeti. Talmente tanto dedicato alla pasta, che nel XIX secolo l’architettura del paese venne riprogettata in modo tale che la luce del sole giungesse a ogni ora sugli spaghetti messi a essiccare.

La zona fa parte del distretto agroalimentare più ampio, 

quello di Nocera-Gragnano.


Si tratta di un’area, compresa tra il cono vulcanico del Vesuvio e le montagne di Sarno a Nord ed i Monti Lattari a Sud, composta da 20 comuni. Molte sono le produzioni di eccellenza. Dalla trasformazione del pomodoro – sposo ideale di ogni spaghetto – alla realizzazione di conserve, alla pasta (Gragnano), al vino DOC (Lettere e Gragnano), al cipollotto Nocerino (DOP), all’olio (DOP), alla melannurca (IGP). Il prodotto più noto ai consumatori è il pomodoro di San Marzano, l’“oro rosso” che ha ricevuto la Denominazione di Origine Protetta.

Inoltre, i pastifici, qui, hanno creato un discreto indotto: la manodopera 

è quasi tutta locale, altrimenti gli operai arrivano da una raggio 

che non supera i 30 chilometri.


Insomma, una realtà economicamente vivace, che – come si diceva – molto deve all’esportazione. Nella città della pasta, per esempio c’è una azienda che esporta perfino in Mongolia. È un’impresa familiare che si tramanda di generazione in generazione, perché – spiega Ciro Moccia, imprenditore – “la pasta ci è entrata nel sangue”. E per quasi tutte le altre è così: di padre in figlio, da anni e anni. Del resto, il secolo d’oro per la pasta, nel regno delle Due Sicilie, è stato l’Ottocento, quando con le carestie divenne un alimento fondamentale grazie alle sue qualità nutritive. Tanto che,

nel 1845, Ferdinando II di Borbone concesse ai gragnanesi il privilegio 

di fornire la corte e così, per tutti, Gragnano diventò la città della pasta.


Ormai è famosa in tutto il mondo e ha ottenuto il riconoscimento di Indicazione Geografica Protetta. Il segreto dei 20 pastifici locali è che utilizzano solo grano di alta qualità e trafile di bronzo, come una volta. Il resto lo fa la natura. L’acqua che sgorga dai monti lattari, la fertile terra vulcanica, il microclima umido, ideale per l’asciugatura lenta. E poi c’è l’enorme varietà dei formati creati nei secoli: spaghetti, farfalle, maccheroni, penne, bucatini, torciglioni, fusilli, paccheri e chi più ne ha più ne metta. 

 

Certo, non sempre la Campania riesce a custodire la sua miniera d’oro. Alcuni marchi storici della pasta, nel tempo, sono stati inglobati da multinazionali. E poi – come per moltissimi altri settori dell’industria alimentare italiana – c’è il problema delle imitazioni. Ci sono spaghetti stranieri con nomi italianeggianti o con il Colosseo sulla confezione. Per questo si è costituito un consorzio per difendere l’antica produzione. Tutte le aziende che ne fanno parte devono rispettare un rigido disciplinare Igp del 2010, che detta non solo come deve essere fatta la pasta, ma anche altri particolari: un particolare profumo di grano maturo e un sapore sapido, dal gusto deciso. Deve avere un aspetto rugoso, tipico della trafilatura a bronzo e la cottura deve avere un’ottima tenuta.    Perché solo l’alta qualità può salvarci.

 

 

 

 

 

 

 

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L’INDIANO CHE AMAVA IL NOSTRO SUD di Giorgio Salvatori – Numero 14 – Maggio 2019

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L’INDIANO    CHE AMAVA      IL NOSTRO SUD

 

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quando giunse, per la seconda volta, in Italia fu recarsi sulle rive del lago d’Averno, a Pozzuoli. Era affascinato dalla leggenda della Sibilla Cumana e dai miti e dalle leggende dei popoli italici.

 

Gli piaceva l’Italia, ma amava, in particolare, il Sud,

 

per il calore delle relazioni interpersonali, per il legame tra gli uomini e la terra, per la concezione dilatata della famiglia, così simile, affermava, al tyospaye, la famiglia allargata della sua cultura atavica e tradizionale, in cui ogni bambino può contare su una o più madri e su diversi padri o nonni se i genitori biologici vengono a mancare per sempre o anche temporaneamente. “Cerco ciò che unisce le nostre culture e le nostre tradizioni”, diceva, “non ciò che ci separa”.

 

Sarebbe tornato più volte in Italia, dedicando al Sud un’attenzione speciale.

 

Austero, sobrio, capelli sciolti lunghi fino alle spalle, cappellone calato sulla fronte, Birgil era parco nel parlare, a meno che non trovasse una platea disposta ad ascoltare le narrazioni mitopoietiche del suo sfortunato popolo, quei Lakota delle grandi praterie nordamericane che noi conosciamo come i famosi e bellicosi Sioux, “Serpenti” secondo il nome improprio datogli dai primi pionieri e missionari bianchi che, a loro volta, avevano appreso, storpiandolo, dagli indiani Chippewa. Avevo conosciuto Birgil nel rigido inverno del 1990, durante una cavalcata che si richiamava ad un episodio storico e doloroso della sua gente e che ha assunto, nel ricordo di chi vi ha partecipato, il sapore della leggenda. Ne parlerò più avanti.

 

Era nato a Kyle, Birgil, nella riserva di Pine Ridge, nel South Dakota, la terra, 

per intenderci, di Nuvola Rossa e di Cavallo Pazzo. Una volta il cuore 

del vastissimo territorio dei Lakota Sioux,

 

oggi ridotto ad un’isola di un arcipelago di terre selvagge, ancora vaste, agli occhi di un europeo, ma malignamente ritagliate, dal governo federale, negli ambienti meno ospitali e climaticamente difficili del West, in altre parole: una ghiacciaia d’inverno e un forno rovente d’estate. Non a caso, la più estesa porzione delle sette riserve Sioux, ha un nome illuminante, Bad Lands, Terre Cattive, Maledette, nomen omen. “Il sud del mondo”, mi disse una volta, “è quasi sempre uguale, qui come in Italia, meno ricco materialmente, meno fortunato, ma non disposto ad accettare, in cambio della rinuncia alle proprie usanze e memorie storiche, la mela avvelenata dell’opulenza materiale”. Birgil, però, guardava avanti, pur invitando il suo popolo a non dimenticare la propria lingua e a non tradire lo spirito e la cultura degli antenati.

Non malediceva Cristoforo Colombo, non lanciava anatemi sugli invasori whasp 

e mostrava di non condividere fino in fondo neppure gli eccessi delle proteste 

che, sulla scia dei black panters, avevano caratterizzato, negli anni Settanta, 

la politica delle frange più radicali dell’American Indian Movement.

 

Considerava ogni contaminazione ideologica moderna un tradimento della tradizionale visione del mondo degli indiani delle praterie. Una visione solo apparentemente anarco-individualista, in realtà una concezione del mondo ordinata e dotata di una straordinaria forza centripeta, “pan monoteista”, imperniata sulle regole della natura, della madre terra e dell’universo, con una gerarchia di valori che poneva al primo posto la vita spirituale, seguita dal coraggio, quindi dalla tutela dei più deboli e dalla difesa delle tradizioni. Un sistema di valori che era, ed è, ben rappresentato dalla loro cerimonia più importante, la Danza del Sole, che i tradizionalisti hanno ripreso a celebrare, intorno al solstizio d’estate, dopo la fine del divieto imposto, fino ad anni recenti, dal governo federale. Chi non è più giovane ricorderà sicuramente un film crudo, ma realistico, Un uomo chiamato cavallo, in cui la cerimonia religiosa, che si svolge intorno ad un palo e prevede il digiuno totale, veniva descritta nei minimi dettagli. Basta rileggersi autori quali Mircea Eliade, René Guenon o Frithjof Schuon, per comprendere che si è di fronte allo stesso principio, lo stesso simbolo rappresentato, nelle tradizioni religiose dell’emisfero settentrionale, e non solo, dall’Axis Mundi, l’albero cosmico, l’asse, cioè, che collega la Terra al Cielo. Il significato ultimo della vita raggiunto attraverso il coraggio e il sacrificio. Si tratta, insomma, di una visione del mondo completamente opposta allo stile di vita contemporaneo, ispirato ad una libertina ed egotistica tavola di valori. La visione tradizionale del mondo Lakota è però altrettanto lontana dal furore iconoclasta e radicale che soffia nei ghetti metropolitani americani, nelle periferie degradate dove abita chi, a torto o a ragione, si sente escluso dall’american dream

Gli indiani tradizionalisti, di cui Birgil Kills Straight resta una figura di riferimento, 

non chiedono di partecipare al sogno americano, non rivendicano sindacalmente paghe più alte, non vogliono vivere nelle periferie urbane. Cercano, tra immense difficoltà e diverse contraddizioni, di restare, semplicemente, indiani,

 

vivendo nei territori ancestrali, vicini alla natura e alle ossa e agli spiriti dei loro antenati. Perfino nelle recenti proteste contro il progetto per la costruzione di un oleodotto che taglierebbe in due il residuo territorio Sioux i tradizionalisti hanno mantenuto un atteggiamento saggio: fermo, ma pacifico. L’obiettivo centrale non è contestare le politiche energetiche di Trump, ma difendere la natura e i luoghi sacri, a costo di restare poveri. Impossibile? Probabilmente sì, ma Birgil credeva in questa terza via. Per questo non amava  seguire  la strada delle violente contestazioni anti americane, per questo, come molti altri nativi, aveva servito la bandiera a stelle e a strisce indossando, da giovane, la divisa militare senza vergogna o complessi di colpa;

 

per questo era stato ospite di diverse trasmissioni radiofoniche e televisive, 

negli Stati Uniti, in Europa, in Italia, per parlare della cultura tradizionale 

del suo popolo, per questo aveva pubblicato libri e aveva incontrato, 

a Roma, perfino Papa Wojtyla,

 

per favorire il dialogo della sua gente con la Chiesa di Roma e chiedere il definitivo riconoscimento del diritto dei popoli nativi di seguire, ciascuno, il proprio destino e le proprie tradizioni. 

 

A chi è affascinato dalla cultura degli indiani delle praterie, però, Birgil Kills Straight era noto soprattutto perché fu uno dei primi e più seguiti animatori della storica Cavalcata in Memoria di Piede Grosso, un evento che, nell’inverno del 1990, vide confluire centinaia di pellirosse nei territori che vanno dal Nord Dakota fino al confine con il Nebraska. Qui, dopo un lungo viaggio a cavallo e con temperature polari, che toccarono l’ultimo giorno i 40 gradi sotto zero, si svolse la cerimonia in ricordo delle vittime della strage di Wounded Knee, avvenuta esattamente cento anni prima: trecento indiani Lakota inermi, tra i quali donne e bambini, massacrati dal settimo cavalleria.

 

Una troupe del Tg2, insieme con una della CNN e un’altra della BBC, seguì 

quella cerimonia. Io c’ero. Intervistando Birgil per il TG2 gli chiesi se avesse sentimenti di rivalsa nei confronti dei bianchi. “No”, mi rispose. 

“Non cerchiamo vendette. Noi tradizionalisti non crediamo 

che i bianchi siano peggiori o migliori di noi.

 

È la nostra visione del mondo che era e resta diversa, perciò chiediamo che questa diversità venga riconosciuta e rispettata. Non c’interessa avere maggiori opportunità di affermazione economica e sociale nella melting pot americana, noi vogliamo soltanto restare fedeli ai nostri antenati e ricomporre quello che noi chiamiamo il Cerchio Sacro, il Changleska Wakan, questo è stato l’obiettivo centrale della nostra cavalcata commemorativa. Il Cerchio Sacro rappresenta l’equilibrio, l’armonia dell’uomo nel mondo. Si è interrotto durante il massacro del nostro popolo. Dobbiamo ricostruirlo insieme, perché, se ci pensate bene, quel cerchio è anche vostro”. L’importanza di ricomporre il Cerchio Sacro fu anche il fulcro di un emozionante discorso che Birgil tenne di fronte ad una platea, ammirata e stupita, nel remoto centro molisano di Ielsi. A Ielsi era stato invitato dal promotore del Premio internazionale collegato alla stagionale Festa del Grano, il regista e documentarista Pierluigi Giorgio, uno degli storici autori di Myrrha.

 

Qui gli fu assegnato un riconoscimento speciale diretto a suggellare, 

con la cerimonia della piantumazione di un albero simbolico, 

il legame tra due meridioni solo geograficamente lontani, 

il Molise e il Sud Dakota,

 

tra il popolo italiano e il popolo Lakota. Fu emozionante vedere questo “pellerossa” circondato da giovani e meno giovani che, dopo una iniziale timidezza, lo inondarono di domande sulla vita che si svolge oggi nelle riserve indiane e Birgil interessarsi alle nuove opportunità di lavoro agricolo per i giovani molisani. Accadeva nell’estate del 2008. Birgil si dichiarò commosso e onorato del gemellaggio e affermò che il Sud del Bel Paese è ancora talmente ricco di tradizioni, suggestioni, analogie con la storia e la cultura del suo popolo, che varrebbe la pena di difenderne meglio i valori fondamentali e assicurarne la continuità con le giovani generazioni.

 

“Qui, in Molise, mi sento a casa”, disse ricevendo il premio, e aggiunse 

“mi riconosco nelle motivazioni con cui mi è stato assegnato 

il riconoscimento: difendere la dignità e l’identità culturale 

delle piccole comunità e delle etnie diverse”.

 

Birgil Kills Straight non è più tra noi, ha raggiunto i suoi antenati durante “la luna in cui i rami degli alberi si spezzano per la neve”, ovvero lo scorso febbraio. Le sue speranze e i suoi insegnamenti, però, restano, sono ancora vivi e, soprattutto, pieni di vigore.

 

 

 

 

 

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MARE NOSTRUM. RIFLESSI DI ARCHITETTURE di Giusto Puri Purini – Numero 14 – Maggio 2019

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MARE  NOSTRUM. RIFLESSI DI ARCHITETTURE

 

All’inizio degli anni Settanta, girando gli States in Greyhound, mi capitò in una libreria dell’Università di Berkeley, in California, il libro intitolato The Whole Earth Catalogue.

Leggendolo, mi resi conto di aver compiuto, attraverso l’architettura “spontanea”, capanne, palafitte, geodesiche, trulli, nuraghi, yurte ed un’infinità di habitat simboli della diversità del vivere, un viaggio nel tempo, in una società così complessa ed avanzata come quella americana, e che non avrei più dimenticato quelle sensazioni. 

 

Ricordavo trucchi, specchi, false prospettive, architetture di un giorno, impermanenza continua lungo il filo di un racconto.

Queste costruzioni effimere, montate la mattina e smontate la sera, 

che Leonardo da Vinci, nel passato, aveva chiamato 

“Architettura da Festa”,


svilupparono in me quel desiderio di trasparenza tra la prima, “il costruito”, e la seconda pelle, “il traforato”, come l’essere ed il non essere di una rappresentazione architettonica, cercandone la matrice, immerso in qualche viaggio. 

 

Fu così che negli anni Settanta, con Maurizio Mariani, entrambi divenuti Architetti, iniziammo un lavoro di ricerca, progettando giardini per i Vivai del Sud,

nel bel mezzo del “Cratere Mediterraneo”, ed entrammo nelle case, 

portandovi dentro l’esterno.


Passando dalla luce, dalle ombre dei patii agli interni, sentivamo di procedere all’incontrario, ma ci sembrò più “giusto” e fu l’inizio di tante scoperte. Con i Vivai del Sud, divenuta una multinazionale del verde, si operava con un occhio alla tradizione locale:

le sedie pieghevoli dei cammellieri del deserto, le ombre delle serre siciliane, 

lo stile “Mckintosh”, i cestari romani. Si corteggiava e si ribagnava 

nel Mediterraneo la tradizione americana dell'”House and Garden”, 

i mobili Mc Guire, i “Winter Gardens”…


E mentre la “canna d’India” in Italia diventava design, scoprivamo che la “matrice” era unica: la cultura europea emigrata in Colonia aveva scoperto le palme e…reinventato l’eccelso, rischiando nei territori lontani sperimentazioni ardite e seducenti… Pensavo al French Quarter ed a St. Charles Avenue a New Orleans, regina negli U.S.A. della musica, luogo d’ incontro di tante culture, città entertainment per eccellenza. 

 

La “città della festa” mi fu evidente, quel mardi gras 1972. Mi trovavo a New Orleans per caso e di passaggio. Mi immersi in una realtà vorticosa, trascendentale. Tutto fluiva, tutto pareva vi fosse permesso, la musica ed il contorno architettonico risuonavano nelle strade. Mi trovai come per caso in una libreria, vi cercai testimonianze di ciò che andavo vedendo. Un città traforata, piena di merletti, un’impermanenza sfacciata, edifici, natura, verande, patii, tutti gli elementi della seduzione, esposti ai sensi, mutevoli come le ombre, con lo scorrere delle ore. 

Pensai nuovamente ad “Architettura di un giorno”! 

 

Poi tra le mani mi trovai un libro, disegni e fotografie di una strada famosa di New Orleans, Esplanade, che avrebbe dovuto essere inaugurata da Napoleone Bonaparte, in un viaggio da lui sognato e mai realizzato, all’inizio del 1800. Sotto l’80% delle immagini che andavo scorrendo vi era scritto:

“This is an example of an Italianate Architecture”.


L’italianata, l’“Italianate”, mi rimbalzava nella mente e, nella convinzione di avere in mano una chiave di lettura che mi riguardasse da vicino, pensavo alla nostra cultura formativa: Blue Jeans, Chewing gum, Frank Lloyd Wright, J Dean, Il giovane Holden, Easy Ryder e tutte le “Americanate” che noi europei ci siamo portati appresso nei roaring Fifties and Sixties, e – perché no? – pensavo ai Western spaghetti, i famosi western italiani girati tra i cartoni di Cinecittà e le praterie di Ostia Antica. Clint Eastwood, Sergio Leone: Giù la testa!

Vi era, laggiù, a New Orleans, il sapore di un altro Mediterraneo 

come origine degli eventi…


Palladio, il grande architetto veneto, ed i suoi pronipoti, emigrati in Colonia, mi apparvero come gli unici artefici di questa “italianata” eversiva, dal neoclassicismo appena sfiorato, quasi irriverente. Sul restante 20% delle illustrazioni, la didascalia riportava

“This is an example of a Greek Architecture”!


Ebbi la sensazione che, attraverso queste trasparenze, queste ombre, attraverso un filo di Arianna luminoso, sarei stato trasportato nella storia, come in un ascensore, verso il passato e viceversa, in luoghi dove tutto si ritrova e si riscopre.

Storia che ci racconta le mutazioni nel “Nostro Mare”, dall’austerità al vezzo


(penso alle colombaie delle torri di Mikonos, merletti a definire i contorni delle architetture, o a quello che noi italiani abbiamo fatto nelle isole del Dodecaneso, vestendo le architetture che nascevano ispirate alla Bauhaus, e alla neo-razionalista Sabaudia, con i veli delle Mille e una notte). 

Architettura italiana (da festa!) in Colonia! 

Rodi, Simi, Patmos, Koos… 

E perché no, i vetri colorati delle finestre di Tangeri, il tufo giallo di Noto in Sicilia, dove una città è scolpita come una statua, i pergolati a vigna di Sorrento, le cupole dei damusi a Pantelleria, le bianche colonne delle case, nelle Isole Eolie.

Tutto ciò ci ha fatto pensare ad una raccolta di queste sensazioni, 

di queste “architetture da festa”… sparse un po’ ovunque.


Un Whole Earth Catalogue, quindi, trent’anni dopo, più patinato, sotto forma di un “viaggio”, nell’habitat, integrato dai vezzi, quali moda, costume, design, stili… 

 

Nasce così l’idea di “Oltre il 7”, il percorso ideale della nostra avventura tra architetture e culture, ed il suo peregrinare attento, curioso, ironico e ricettivo, tra mode, usi, costumi, etnie, abitudini che si esportano, si reinventano e si ritrovano, da un lato all’altro dell’emisfero.

Ci rendemmo conto, in sintesi, che il primitivo approccio alla “cultura europea 

che emigrava in Colonia” altro non era, se non il seme 

di un lungo viaggio del conoscere.


Viaggio condotto a ritroso, verso le probabili origini delle “cose”, dove anche le “case” degli uomini apparissero come frutto di spontaneità e di progettazione.

 

 

 

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SALE, SALINE, MULINI A VENTO A TRAPANI di Gaia Bay Rossi – Numero 14 – Maggio 2019

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SALE, SALINE, MULINI A VENTO A TRAPANI

 

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scriveva Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia (XXXI, 102) osservando la pelle sana e resistente dei marinai.

Il sale è sempre stato considerato un bene preziosissimo, basti pensare che in epoca romana veniva dato, insieme a olio e grano, come parte dello stipendio (il salario) ai soldati romani e a coloro che viaggiavano per affari pubblici, e giungeva a Roma dal mare Adriatico attraverso la Via Salaria che porta il suo nome; era inoltre utilizzato nelle offerte votive agli dei e offerto agli ospiti in segno di amicizia.

Cicerone stesso nel suo trattato De Amicitia (XIX, 67) scriveva: “Bisogna mangiare insieme molti moggi di sale perché il dono dell’amicizia sia completo”. 


Sempre sotto il segno del sale sono sorte importanti città come Salisburgo, si sono scatenate guerre, come la cosiddetta “Guerra del sale” (diversi eventi bellici che hanno riguardato vari Stati nella penisola italiana lungo i secoli) e la famosa “Marcia del sale” con cui Gandhi condusse nel 1930 il popolo indiano verso l’indipendenza dalla Gran Bretagna, ribellandosi in maniera non violenta contro l’imposta vessatoria sul sale voluta dal governo britannico e gravante su tutti i sudditi dell’India. 

 

Molti secoli prima, Dante fece riferimento al sale nel canto XVII del Paradiso: “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui”, laddove il trisavolo Cacciaguida gli profetizzava l’esilio con tutte le sue pesanti conseguenze.

Senza dimenticare che il sale è stato per secoli uno dei pochi metodi 

di conservazione degli alimenti


(fino al 1700 la salagione è stato il metodo principale per conservare carne e pesce) e che, grazie alla sua composizione, veniva utilizzato anche come integratore di magnesio e potassio. 

 

Quindi, data la sua grande importanza bisognava averne cura e non andava sprecato. Da qui è nata la superstizione che rovesciare il sale a tavola sia di cattivo auspicio. Il sale, secondo la stessa superstizione, non va passato ma va appoggiato sul tavolo, dove ognuno poi lo prende con la propria mano per evitare che nel passaggio possa rovesciarsi. Questa superstizione deve essere piuttosto antica se persino

Leonardo da Vinci ne “L’ultima cena” dipinge del sale rovesciato sulla tovaglia 

davanti alla figura di Giuda, quando il giorno dopo Gesù 

proprio da costui viene tradito.


Oltre a rappresentare cattiva sorte, si ritiene che Leonardo faccia anche riferimento al Discorso della Montagna (Mt 5,13), dove Gesù definisce i propri discepoli “sale della terra”, per l’importanza della loro missione come suoi messaggeri, cosa che non era evidentemente Giuda. 

 

Il sale non è solo proverbio e superstizione ma è soprattutto storia, se è vero che Omero lo chiamava la sostanza divina, mentre i romani lo definivano oro bianco, e se è vero che l’origine delle saline di Trapani risale addirittura ai Fenici, oltre tremila anni fa; ed è anche geografia, se è vero che la sua storia ha superato fiumi e deserti, facendo da collante ad interi continenti.

Le saline della “Riserva naturale orientata di Trapani e Paceco” 

sono tra le più antiche, importanti e ammirate della Sicilia


così come, secondo la rubrica “In viaggio nel mondo” dell’Ansa, i mulini a vento a sei pale che circondano queste saline sono considerati tra i dieci più belli d’Europa. 

 

La storia della Sicilia ha cadenzato le varie vicissitudini del sale e delle saline: dal “monopolio di Stato” della produzione del sale che si aveva sotto il regno di Federico II di Svevia e anche sotto la successiva occupazione angioina, si è arrivati alla “proprietà privata” con la Corona d’Aragona. Il massimo splendore della produzione salina si è avuto sotto la reggenza spagnola, tanto che il porto di Trapani era divenuto il centro più importante in Europa per il commercio dell’oro bianco. 

 

L’Unità d’Italia non diminuì il lavoro nelle saline e i veri problemi iniziarono nel Novecento, per più ordini di motivi: le due guerre mondiali, la concorrenza delle saline industrializzate di Cagliari e quella del salgemma, nonché a causa dei costi elevati del trasporto del sale e dell’alluvione del 1965 a Trapani, che riempì di detriti le vasche rovinando impianti e macchinari. Tutto questo portò alla dismissione e all’abbandono di molte saline.

 

Nel 1995 è stata ufficialmente istituita la Riserva, affidata dalla Regione siciliana 

alla gestione del WWF Italia, e si è dato un nuovo impulso alla produzione 

e alla commercializzazione del sale, recuperando 

i vecchi impianti dismessi.


Oggi “Sale marino di Trapani” è la denominazione di un prodotto IGP, riconosciuto nel 2011, ed è inserito nell’elenco dei “Prodotti agroalimentari tradizionali siciliani” riconosciuti dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. Oltretutto è anche un Presidio Slow Food, grazie alle sue proprietà dovute al differente metodo di coltivazione e di lavorazione rispetto al sale industriale, che fanno sì che questo sale sia un prodotto integrale, quindi più umido e grigiastro, senza aggiunta di altri elementi nella fase di lavorazione, e sia più ricco di potassio, magnesio e meno di cloruro di sodio. Sempre nel 2011 la “zona umida” delle saline di Trapani e Paceco ha ottenuto il riconoscimento di “sito di importanza internazionale” dal Ministero dell’Ambiente ai sensi della Convenzione di Ramsar.

Ma l’espressione più bella e romantica delle saline è riservata agli occhi 

e all’osservazione: immense vasche artificiali che riflettono 

il colore del cielo e del sole,


e ci permettono di ammirare decine di fenicotteri rosa, aironi, spatole, avocette, garzette, falchi, martin pescatori, cavalieri d’Italia e tanti altri uccelli in tutto il loro splendore (208 le specie finora censite). Fra questi, gli uccelli che migrano verso l’Africa sono visibili in autunno e in primavera quando, stanchi e spossati, trovano nelle saline un ambiente sicuro e ricco di nutrimento dove poter ricostituire il grasso consumato durante la migrazione. Ma la vita nelle saline non finisce qui: a costoro fanno compagnia anche numerosi insetti, alcuni dei quali piuttosto rari, e un piccolo e rarissimo crostaceo chiamato Artemia salina, oggi al centro di numerose ricerche scientifiche. 

 

Per ultimo, ma non ultimo, c’è un elemento particolare e pittoresco che cattura lo sguardo e gli obiettivi delle macchine fotografiche: i mulini a vento delle saline trapanesi.

Fino agli anni Sessanta erano decine e decine i mulini a vento utilizzati 

dai salinai per sfruttare la forza del vento.


I mulini avevano due funzioni: da un lato facevano salire l’acqua tramite la spirale d’Archimede dalla cosiddetta vasca “fridda” a quelle di acqua “cruda” per catturare il sale, dall’altro muovevano le ruote di pietra che macinavano il sale riducendolo in polvere. Il mulino classico era di tipo olandese, aveva sei pale di circa quattro metri che mettevano in funzione la pompa a vite di Archimede. Poi negli anni Cinquanta venne introdotto il mulino “all’americana” con ventiquattro piccole pale metalliche di un metro e venti, più facile da gestire perché si autoregolava con il vento. 

 

Oggi rimangono pochissimi mulini a vento integri nella provincia di Trapani: i due mulini della Salina S. Cusumano (ora Baia dei Mulini sul litorale Nord), il mulino Maria Stella sulla Via del Sale di Trapani, i due mulini della Salina Calcara, il mulino del Museo del Sale di Nubia, il mulino Uccello Pio a Salinagrande. A questi si aggiungono i tre mulini della salina Ettore a Marsala e il Mulino della Salina Infersa sempre a Marsala.

 

 

 

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Nihil esse utilius sale et sole
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MUSEO NAZIONALE FERROVIARIO DI PIETRARSA di Stefano Benazzo – Numero 14 – Maggio 2019

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MUSEO NAZIONALE FERROVIARIO DI PIETRARSA 

 

luogo fondante della storia ferroviaria italiana, le officine di Pietrarsa – costruite nel 1853 – custodiscono più di 50 locomotive, numerosi vagoni e innumerevoli reperti.

Il Museo ferroviario nazionale di Pietrarsa – affidato dal 2013 a Fondazione FS Italiane – sorge nel punto di arrivo della prima strada ferrata costruita in Italia nell’ottobre 1839, lunga 7.411 metri, fra Napoli e Portici. Le antiche officine borboniche, risalenti al 1840, sono una vera gloria del Regno delle Due Sicilie, ma costituiscono anche un esempio di edilizia industriale.

 

Le 25 locomotive a vapore – la più antica delle quali risalente al 1882 – sono una completa rappresentazione delle motrici in servizio per decenni in tutta Italia. Con esse, e con la serie di locomotive diesel e elettriche, le automotrici leggere, e numerose carrozze,

rivive l’era in cui la ferrovia era IL mezzo di trasporto terrestre. 

La fantasia ci fa tornare senza esitazioni ai rumori, agli odori 

e ai ritmi del vapore, delle sue stazioni, delle officine.


Il Museo è destinato a tutti: profani ed esperti, giovani e anziani, ma uno dei godimenti maggiori per il visitatore adulto consiste nel vedere i giovanissimi – ben condotti da guide appositamente addestrate – scoprire un mondo sconosciuto e mai visto se non nei film; salire su una locomotiva o un vagone Centoporte o ammirare il gigantesco plastico funzionante permette loro di rendersi conto della vita di generazioni dei loro antenati, a tutte le latitudini. Increduli, ammirano la riproduzione della locomotiva Bayard, gemella di quella che nel 1839 trainò il convoglio inaugurale della Napoli-Portici: le sue parti dipinte in colori diversi consentono ai giovani di capire senza difficoltà la complessa meccanica del vapore.

 

Gli appassionati di storia ferroviaria provano l’emozione di sostare ai piedi di macchine gigantesche, perfettamente lucidate e oliate, nonché il piacere di leggere didascalie plurilingue che descrivono le caratteristiche tecniche, la storia e le curiosità relative ad ogni singolo pezzo esposto.

Difficile non immedesimarsi negli accudienti, nei fuochisti, negli operai 

che riparavano le macchine. Molti visitatori rimangono stupefatti 

scoprendo quanto l’industria ferroviaria italiana ha saputo creare, 

e quando ciò è iniziato.


La particolarità che rende Pietrarsa unica nel mondo consiste nel fatto che il Museo sorge lì dove le macchine venivano costruite e sottoposte alla manutenzione. Questi elementi rappresentano altrettante tessere di un luogo d’eccellenza, dove le FS hanno saputo coniugare in maniera superba la storia industriale e i ricordi, restaurare gli edifici e i mezzi esposti, curare la presentazione al pubblico con sopraffina arte museale, e perfino facilitarne l’accesso. La stazione ferroviaria di Pietrarsa (sulla linea Napoli-Salerno) è infatti situata dentro il Museo e ne rende facilissimo l’accesso, evitando l’accesso via strada e la ricerca del parcheggio: un piacere ormai rarissimo, per non dire inesistente in Italia e all’estero. 

 

Al centro del Reale Opificio meccanico, pirotecnico e per le locomotive, all’estremità del Giardino Mediterraneo, si staglia la statua in ghisa – a suo tempo fusa nell’Opificio medesimo – di Ferdinando II di Borbone, l’ideatore della struttura, deciso ad affrancare il suo regno dalla supremazia tecnologica di Francia e Inghilterra nel campo meccanico, navale e ferroviario.

Al momento del suo completamento nel 1853, la struttura di Pietrarsa 

era il primo complesso industriale italiano, precedente di 44 anni 

la fondazione della Breda e di 57 quella della Fiat.


Vi lavoravano quasi 700 addetti. Centinaia di locomotive costruite a Pietrarsa viaggiarono per decenni su tutte le linee italiane, così come innumerevoli carri e vetture ferroviarie. Numerose “grandi riparazioni” di materiale rotabile vennero compiute a Pietrarsa. Le officine furono attive fino al 1975, mentre il Museo fu inaugurato nel 1989, nel 150° anniversario della Napoli-Portici. L’Opificio è stato anche un esempio: lo Zar Nicola I decise infatti nel 1845 di riprodurlo identico nel nuovo complesso industriale di Kronstadt. 

 

Lo spazio manca per descrivere compiutamente il contenuto dei sei padiglioni – ben divisi e superbamente illustrati – che compongono il complesso. Gli esperti di architettura possono ammirare la loro struttura in muratura o in carpenteria metallica.

In particolare, il padiglione dei macchinari d’officina restituisce perfettamente 

la maestria degli uomini che vi operavano, e la difficoltà, il pericolo di lavorare 

accanto a torni, presse, alesatrici, calandre e magli giganteschi


Quanto alle motrici a vapore, diesel o elettriche, chi scrive commetterebbe un’ingiustizia se volesse dedicarsi ad una piuttosto che all’altra. E che dire delle mitiche Littorine e della carrozza Salone del Treno reale? In realtà, almeno per chi scrive (Fotografo di Relitti navali spiaggiati), il piacere profondo della visita a Pietrarsa non è solo nell’ammirazione delle strutture e dei manufatti, ma nella consapevolezza che questi ultimi – come le navi ora diventate Relitti – erano parte integrante della vita degli uomini. Gli architetti, gli ingegneri, le maestranze, gli operai, gli addetti alla conduzione delle macchine: centinaia di migliaia di uomini che hanno dedicato la loro vita (spesso senza avere facoltà di scelta) ad un lavoro pesante, stancante, pericoloso, e comunque poco apprezzato. Come in molti paesi, il mestiere di Operaio o di Ferroviere non costituiva la massima aspirazione per un giovane. Ecco perché – come per i Relitti – è essenziale il concetto del Dovere di Memoria nei confronti di quegli uomini.

Tutto ciò è offerto al visitatore nello scenario incantato – il termine 

non è di maniera: si tratta realmente di un incanto – del Golfo di Napoli, 

con Capri, Ischia e Procida all’orizzonte, la penisola sorrentina a sinistra, 

il Vesuvio che incombe.


Chi volesse sostare e godersi il paesaggio può usufruire di un’antica pensilina ferroviaria (proveniente da Fiorenzuola d’Arda), in sintonia con il luogo e che non può non suscitare memorie di antichi viaggi in treno. Esiste la possibilità di effettuare visite private nei giorni di chiusura del Museo, ed affittare spazi per eventi privati. 

 

Visitate il Museo di Pietrarsa: l’emozione è garantita, anche per chi non avesse la passione che spinge verso locomotive a vapore e Relitti spiaggiati. 

 

L’Autore ringrazia Ferrovie dello Stato Italiane SpA, Fondazione FS Italiane, Edizioni La Freccia, Museo Nazionale ferroviario di Pietrarsa per le informazioni fornite e per l’autorizzazione alle riprese.

 

 

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Credit photo © Stefano Benazzo

 

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ADRIANO OLIVETTI A MATERA di Tommaso Russo – Numero 14 – Maggio 2019

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ADRIANO OLIVETTI a MATERA

 

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Preceduta da un glamour costruito intorno a lei e diffuso dalle riviste “Life”, “Fortune”, “Time” di proprietà del marito, l’editore Henry Robinson Luce, Claire Booth (1903-1987) giunse in Italia alla vigilia delle elezioni del 1953 che segnarono la fine del centrismo DC con la sconfitta della legge truffa.

8 - Adriano Olivetti 1925

Aveva 50 anni quando arrivò come ambasciatrice USA per restare fino al 1956. Nel triennio romano si circondò di personaggi come Vittorio Cini, Dino Grandi, Leo Longanesi, Indro Montanelli, Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno che, pronti a tutto, facevano da sponda al suo viscerale anticomunismo e integralismo cattolico. Narrano, in proposito, le cronache diplomatiche che al termine di una udienza in Vaticano durante la quale aveva tenuto un discorso di fuoco sull’obbligo di essere cattolici, cristiani e credenti, Pio XII la congedasse dicendo “Signora cara, si ricordi che anche io sono cattolico e non ho bisogno di essere convertito”. 

 

Altri desideri quali mettere fuorilegge il PCI, organizzare con Montanelli strutture paramilitari, bloccare le commesse a quelle aziende in cui era forte la CGIL, rivelano il suo piano per condizionare la vita politica italiana. Anche Adriano Olivetti, ritenuto a torto un comunista, ne pagò le conseguenze. Su pressioni della signora, Angelo Costa, allora capo di Confindustria, inviò una lettera a tutti gli associati in cui consigliava di non acquistare macchine da scrivere Olivetti. Un nome fra quanti ubbidirono: Montecatini.

Da quel delicato microcosmo degli affetti che è Lessico famigliare di Natalia Ginsburg, affiora un giovanile ritratto di Olivetti. Aveva “una barba incolta e ricciuta, di colore fulvo; aveva lunghi capelli biondo-fulvi”. Giuseppe Levi, docente universitario, padre di Natalia e Camillo, padre di Adriano, a loro volta, 

“Avevano in comune il socialismo, e l’amicizia con Turati”, 

di qui la simpatia di entrambi per quel particolare 

riformismo meneghino pragmatico e razionale.


Camillo, di origini ebraiche, e la moglie Luisa Revel, figlia di un itinerante pastore valdese, erano orgogliosi di appartenere a due minoranze religiose. Di questa condizione ne fecero una ragione esistenziale, un costume civile, educando i loro figli al senso di responsabilità, al rispetto quasi religioso per i diritti e i doveri di sé e degli altri, al gusto per il rischio. In Adriano la saldatura tra etica protestante e spirito del capitalismo fu un tratto distintivo ma non unico. 

 

Poco più che quarantenne, con alle spalle il suo antifascismo, è membro dell’UNRRA (United Nation Relief Rehabilitation Administration); magna pars nel CASAS (Centro Autonomo di Soccorso ai Senza Tetto); membro autorevole della Commissione economica per la Costituente. A coronamento del suo impegno per il Movimento di Comunità diventa deputato nella III legislatura repubblicana. Nei due anni di attività parlamentare, prima che la morte lo cogliesse, nel febbraio 1960, a soli 59 anni, firmò con altri colleghi un progetto di legge abrogativo delle norme che consentivano il tiro al piccione ma anche al passero, allo storno, alla tortora. Era il 31 luglio1958. 

 

Nella relazione al progetto si sottolineava come quella pratica non fosse “popolare e sportiva” ma un’attività ristretta a pochi che “traggono divertimento in un ambiente di lusso e di mondanità (…). Lo sterminio di questi animali per lo spasso di pochi facoltosi è veramente ingente”. Solo molto dopo le Olimpiadi romane del 1960 il piattello sostituì i volatili nei club e nei circoli esclusivi. 

 

Un anno dopo presentò da solo la sua seconda proposta di legge. Si trattava di abolire l’art. 12 della LUN (Legge urbanistica Nazionale) del 1942. Quell’articolo consentiva ai Comuni consorziati di approvare un PRG intercomunale. Bastava però il veto di un solo sindaco per bloccare tutto.

Olivetti ebbe sempre a cuore le questioni legate allo sviluppo urbano, all’edilizia e non solo perché Presidente dell’INU. Era convinto che sul regime dei suoli e sulla loro destinazione che si risolveva il conflitto tra interessi della rendita speculativa, bisogni collettivi, razionalità e ordine dello sviluppo edilizio di una città.

 

Il 5 aprile 1960 Franco Ferrarotti “deputato del Movimento di Comunità”, padre nobile della sociologia italiana, nella sua appassionata commemorazione di Olivetti alla Camera ne evidenzia alcuni tratti. Dice come l’industriale eporediese si collocasse molto al di sopra della “miserabile prospettiva del paternalismo padronale corrente”; come fosse convinto della necessità di introdurre novità, ricerca e sperimentazione nel ciclo produttivo. E proseguendo ricorda lo sguardo particolare di Olivetti per il Mezzogiorno che gli appariva “il banco di prova della democrazia italiana” e per il quale “aveva elaborato un piano organico di sviluppo industriale”. Ne costituivano l’essenza più intima: il rispetto per il territorio comunitario, la partecipazione diretta dei cittadini alle decisioni più importanti che li riguardavano, la programmazione. Pozzuoli e Matera che alludevano rispettivamente all’industria e all’agricoltura ne erano la filigrana. 

 

Nel suo “Viaggio in Italia”, effettuato per conto della RAI tra il 1953 e il 1956, Guido Piovene giunge anche a Matera. Ne tratteggia lo sviluppo urbano tra il moderno e i Sassi e scrive che lì, insieme con altri abitanti, vivono “oltre 1200 protestanti (…) che appartengono alle sette più popolari e visionarie quali i battisti e soprattutto i pentecostali”. Lo scrittore vicentino si sofferma sul clima culturale in città nel quale scorge un certo “radicalismo politico negli ambienti cattolici”, anche se in misura maggiore “La funzione critica è esercitata soprattutto da un gruppetto di giovani legati al Movimento di Comunità (…). Le loro idee compaiono in un settimanale, “Basilicata” ”.

Si può scorgere in questo accenno l’esistenza di un rapporto tra Olivetti e Matera che nel corso degli anni ’50 diventerà sempre più stretto e fecondo.

 

Se oggi quel nesso è riemerso, nel dibattito storiografico, non è certo per l’evento Matera 2019 frutto, come sostengono giustamente taluni, di una potente negoziazione tra potere politico e risorse naturali del territorio regionale. Ripensare quel legame e la stagione a cui dette vita torna utile per uno sguardo sulle miserie del presente appena velato dalla spettacolarizzazione mediatica dei Sassi; e per misurare l’incidenza che quel torno di anni ebbe nell’introdurre elementi di cambiamento e di modernità nel tessuto cittadino. 

 

Leonardo Sacco, uno dei giovani critici intravisti da Piovene, in un commosso ricordo in morte di Olivetti, apparso su “Basilicata” 3/1960, racconta che nel marzo 1946 acquistò in un’edicola a Matera un “giornale di tipo insolito”. Era “Comunità”. Dalla lettura di quella rivista ne ricavò la convinzione che per uscire “dal caos” di allora occorresse “veder chiaro e veder nuovo”. Vale a dire guardare alle novità e non alle permanenze, alle fratture e non alle continuità del ‘900 italiano.

La presenza degli olivettiani è segnalata da una lunga relazione
del prefetto 
di Matera del 25 maggio 1957 al Ministero degli Interni 

dove da poco si era insediato Fernando Tambroni.

 

Scrive che i Circoli di Comunità erano nati prima del 1954 quando invece era comparso il Movimento di Comunità. Presenti “con finalità esclusivamente culturali”, in breve tempo erano riusciti ad animare un dibattito su quali mezzi fossero necessari “per la risoluzione dei problemi sociali, riguardanti in particolare il basso tenore di vita delle popolazioni del Mezzogiorno d’Italia rispetto a quelle del Nord”. Molto attivi nel Circolo materano erano alcuni giovani. Pietro Ricciardi insegnante “distaccato presso il Provveditorato agli studi” è descritto “elemento piuttosto fazioso” nella preoccupata nota prefettizia. Ricciardi girava nei Comuni del materano col suo Bibliobus per avvicinare adulti, vecchi, bambini alla lettura convinto che la cultura fosse un forte strumento di emancipazione. Attivi erano anche Francesco P. Nitti e Nicola Strammiello, entrambi docenti. E Sacco, naturalmente, che in una riunione a Milano del Movimento era stato eletto “membro della direzione politica centrale del detto Partito”. 

 

Da altra fonte archivistica si apprende che nel 1958 in Basilicata esistevano 56 Circoli (23 nel materano, 33 nel potentino); in quell’anno essi costavano a Olivetti 1.107.000 lire. Saranno ridotti a 14: 2 nel potentino, 2 nel materano, quasi a segnare una migliore efficienza culturale e operativa di questi ultimi. Le cause del ridimensionamento vanno ricercate nella crisi del Movimento e nelle decisioni del gruppo aziendale di operare tagli e finanziamenti.

 

I Circoli possedevano un patrimonio inestimabile in libri e riviste: sociologia, psicologia motivazionale, management, economia, antropologia;

 

l’abbonamento a tante riviste fra cui “Casabella”, “Comunità”, “Il Ponte”, “Lo Spettatore italiano”, “Nord e Sud”, “Paragone”. Era un universo di saperi nuovi, sperimentali, scientifici, tecnici su cui si esercitava la censura delle culture comunista, cattolica, crociana. Matera fece da cavia per la diffusione di questi contenuti culturali in tutto il Mezzogiorno subendone per prima l’influenza e il lascito successivo.

Ruotavano intorno ai Circoli studenti universitari, insegnanti, avvocati, medici, ingegneri, eruditi locali. Non si creda che quelle figure sociali segnassero il carattere elitario e aristocratico degli olivettiani. Suggeriscono, ancora oggi, l’esistenza 

di processi di mobilità sociale che nel tessuto regionale tendevano a superare 

la bipolarità braccianti-agrari, con cui era rappresentata la regione.

 

Nelle contrade lucane, in specie materane, di quegli anni, la presenza e le attività culturali degli olivettiani fecondarono un processo di educazione alla democrazia, alla cultura politica, alle curiosità culturali che guardava alle nuove generazioni nella convinzione che la modernità avesse bisogno anche di un côté critico, etico e libero nel pensiero. In seguito non si è avuto nulla di simile. 

 

A partire dal 1949 Olivetti fa giungere a Matera un gruppo di scienziati sociali, di tecnici, di urbanisti, di esperti nel management delle risorse e della progettazione. Bastano alcuni nomi per cogliere nel loro profilo un forte èthos pubblico, per misurare competenze specifiche, spessore culturale, qualità intellettuali. Si va da Ludovico Quaroni a Giovan Battista Martoglio, da Guido Mazzucchelli-Nazdo a Riccardo Musatti, a Rigo Innocenti; da Lidia De Rita a Tullio Tentori, a Eleonora Bracco. Saranno essi, con i materani Nitti, Ricciardi, Sacco ed altri, che attraverso la volontaria presenza sul campo, col metodo dell’inchiesta partecipata tenuta a battesimo proprio a Matera, con grandi idealità, tenteranno di dare corpo al sogno olivettiano. Membri della “Commissione di studio sull’agro e la città di Matera”, voluta nel 1951 dall’UNRRA-CASAS Prima Giunta, quindi da Olivetti, essi contribuirono a gettare le basi per la legge sullo sfollamento dei Sassi, a sostenere per Matera la necessità del PRG, a pianificare la costruzione del borgo rurale “La Martella”.

Con le dovute cautele e le differenze di spazio e tempo, i borghi rurali olivettiani rinviano all’esperienza dei villaggi operai.

 

Per questi, per esempio, si pensi ai Crespi di Canonica d’Adda, ai Marzotto di Valdagno, ai Rossi di Schio. Sono tutti industriali tessili, cotonieri, ossia il settore più forte del capitalismo italiano tra fine ‘800 e ‘900 ineunte. Il loro paternalismo, però, s’interrompeva sul tema della libertà individuale. Se un operaio veniva sorpreso fuori dal villaggio a frequentare la sede sindacale della FIOT (Fed. Ind. Operai Tessili) o la sez. socialista veniva subito cacciato. In ossequio a questo stile la FIAT schederà più di 100.000 operai nel secondo dopoguerra. Non così nelle fabbriche Olivetti, dove libertà individuale, dignità del lavoratore, alti salari, investimenti in ricerca, elevato tasso di innovazione, erano a base della produttività e della commercializzazione dei manufatti. 

 

Pur ripetendo alcuni criteri ispiratori del villaggio operaio, “La Martella” aveva fattori di diversità ideale e progettuale. Il borgo doveva avere tutti i servizi, dalla farmacia alla scuola, ospitare non più di 2/300 famiglie per dare l’immagine di una struttura comunitaria e non di un alveare. Doveva essere al centro dei terreni dati in proprietà in modo da ridurre il viaggio da casa al lavoro. Il tempo così liberato era destinato a una sociabilità alta: letture, biblioteca, cinema, viaggi culturali, corsi di formazione per introdurre innovazioni nelle tecniche colturali. Ciò nonostante, il trasferimento di abitanti dai Sassi a “La Martella” andò a rilento e subì forme di ostruzionismo. 

 

I primi a spostarsi, è il caso di ricordarlo, furono molti di quei battisti e pentecostali di cui Piovene aveva segnalato la visionarietà. La loro numerosa presenza a Matera deriva dall’apostolato religioso e laico del Monaco Bianco che agli inizi del ‘900, in concomitanza con la nascita del sindacalismo rivoluzionario nel Mezzogiorno, aveva guidato le lotte bracciantili, contro gli agrari materani, per il diritto di spigolatura, le otto ore, salari più dignitosi.

Interessata da un visibile processo di mobilità sociale, Matera visse in quel decennio uno sviluppo edilizio pubblico e privato all’altezza del mutamento. In mancanza 

di una pianificazione urbanistica il rischio era la costruzione di una città-mostro. Nell’immaginario olivettiano, invece, gli interessi della comunità, i suoi bisogni 

e i desideri dovevano trovare nella pianificazione, nella classificazione 

delle aree e dei suoli una rispettosa e armonica realizzazione 

con l’intero territorio comunitario.

 

Si pensi a Pozzuoli. Nel suo discorso del 1955 ai lavoratori, Olivetti sosteneva come la fabbrica costruita “di fronte al golfo più singolare del mondo (…) si è elevata all’idea dell’architetto, in rispetto alla bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno”. Fu Luigi Cosenza l’architetto realizzatore di quell’armonia. 

 

I comunitari materani utilizzarono “Basilicata” come strumento di lotta, di denunzia degli scempi edilizi ottenendo risultati favorevoli più a Matera che a Potenza. Si batterono per anni perché il conflitto tra disordine e irrazionalità della rendita speculativa non travolgesse del tutto l’armonia comunitaria. Gli alterni risultati ottenuti per effetto della potenza delle controparti (in primis Emilio Colombo) non scoraggiarono gli olivettiani. La loro resistenza può considerarsi frutto di una triplice azione: percepirsi portatori di saperi tecnici e scientifici con cui sostenere il conflitto; sentirsi parte di un più ampio disegno modernizzatore; riconoscersi sintesi tra l’alta tradizione di impegno civile propria degli intellettuali meridionali e le novità dei tempi.

Il capitalismo comunitario, ovvero l’idea che “il capitale azionario delle grandi 

e medie imprese deve appartenere in parte alla comunità” locale 

e che alla gestione e proprietà devono partecipare insieme 

“i lavoratori, la Comunità e lo Stato regionale”, fu sconfitta.

 

Concorsero a ciò l’ostilità pregiudiziale e ideologica di Claire Booth Luce e la miopia di Confindustria. L’associazione, infatti, ritenne preferibile la scorciatoia dei finanziamenti pubblici, la distribuzione dei dividendi anziché il loro reimpiego in ricerca, sviluppo, innovazione. Nonostante la politica di alti salari, Olivetti si trovò a fare i conti anche con l’opposizione della CISL, più che della CGIL. 

 

Lo schema teorico del federalismo olivettiano (Comunità e Stato regionale) non incrinava né l’Unità del Paese, né la solidarietà reale. Nel 1952-54 il gruppo aveva deciso “di trasferire al Sud il suo potenziale di incremento produttivo”. A causa di una ennesima crisi che aveva investito il Canavese, la politica di riassorbimento dei disoccupati negli stabilimenti di Ivrea non poteva avvenire come era accaduto in precedenti situazioni. Pur tuttavia, ricorda Olivetti agli operai di Pozzuoli, nessuno “ebbe a lamentarsi (…). Perché nella coscienza dei nostri operai del Canavese è vivo il senso di solidarietà con i fratelli della Campania, della Calabria, della Lucania”. 

 

L’abbandono del Mezzogiorno, le scorribande leghiste e neoborboniche (che lo stanno attraversando), l’autonomia differenziata costituiscono un pericolo per la democrazia italiana. La lotta contro questo scenario è il lascito migliore dello “sguardo” di Olivetti e va mantenuto vivo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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NOTA

 

Le fonti archivistiche e bibliografiche sono qui elencate per documentare il virgolettato presente nel testo. 

 

Archivio centrale dello Stato, Roma: Min. Int. Partiti politici 1944-1964 b.113. 

 

Archivio storico Olivetti, Ivrea: Seg. del Movimento di Comunità Lucania, bb.1-9. 

 

Camera dei Deputati Atti Parlamentari. 

 

G. Baglieri, M. Fabbri, L. Sacco, Cronache dei tempi lunghi, Lacaita, 1965. 

 

F. Bilò, E. Vadini, Matera e Adriano Olivetti. Ed. di Comunità, 2013. 

 

R. Giura Longo, Per Matera si cambia, pref. di Angelo R. Bianchi, Ed. Giannatelli, 2018. 

 

R. Musatti et alii, Matera 1955, Ed. Giannatelli, 1996. 

 

A. Olivetti, Ai lavoratori, Ed. di Comunità, 2012. 

 

Id. Città dell’uomo, Ed. di Comunità, 2015.

 

 

FOTO

 

“Courtesy Archivio Fondazione Adriano Olivetti” www.fondazioneadrianolivetti.it

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IL SOLIMENA DA NAPOLI A PARIGI di Sergio Attanasio – Numero 13 – Gennaio 2019

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IL SOLIMENA DA NAPOLI  A PARIGI

 

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In origine il palazzo San Nicandro apparteneva a Marzio Carafa duca di Maddaloni, che nel 1585 lo aveva acquistato da Fabrizio Cardito.

Era un palazzo grande con loggia, cortile coperto e giardino nel Borgo dei Vergini di fronte alla chiesa di Santa Maria della Stella, pagato la somma di 3700 ducati e nel quale il duca avviò ingenti lavori di ristrutturazione ed ampliamento per rendere la sua dimora degna di cotanto padrone.

I duchi di Maddaloni e il loro figlio primogenito Diomede dal 1606 vivranno 

nel grandioso palazzo alla Stella nel lusso e nello sfarzo, imponendo 

angherie ai loro sudditi, come testimoniano le cronache 

della “Sollevazione dell’anno 1647”,


e quando “Masaniello con gran seguito di popolaccio andò al palazzo, che non fu più difeso come la prima volta: tutto ciò che vi era di prezioso, fu portato fuori……..stoffe di seta ricamate di oro e di argento, arazzi fiamminghi, quadri rari, vasi di argento e di oro, carrozze e cavalli e gran quantità di danaro furono portati innanzi a Masaniello che mandò tutto al Mercato……….insieme ad una famosa carrozza, coperta di lamine d’argento ed ornamenti d’oro, valutata quindicimila scudi, fatta fare dal duca in occasione delle sue nozze”

 

Le originarie caratteristiche e le decorazioni del palazzo sono descritte in un apprezzo (relazione di un perito per una stima del valore) del 1656 per la vendita del palazzo al marchese del Vasto, seguita allo scambio con il marchese che cede il palazzo in via Toledo, ottenendo dal duca di Maddaloni, oltre al palazzo alla Stella, una villa a Posillipo detta l’Auletta.

Siamo in presenza di una casa grande palaziata, con portale in piperno 

che dà accesso all’ampio cortile con rimesse per le carrozze, che ha sul fronte 

una loggia scoperta che conduce al giardino di piante di agrumi e di frutta.


La dimora era dotata di due stalle per trenta cavalli con accesso dalla strada. 

 

La scala principale con pettorate e palagusti di piperno, con volte decorate a grottesche dal pittore Giovanni Balducci, ci porta all’appartamento nobile con più anticamere, una cappella e altre camere le cui volte presentano scene di battaglie in ricordo delle doti di valoroso guerriero del duca Marzio, nominato Capitano generale della cavalleria dal Viceré duca di Osuna. 

 

Nel secondo appartamento, con galleria e soffitti in legno dorato, vi sono camere, camerini e una loggia che collega due parti del palazzo e che prospetta sulle colline. 

 

 L’impianto distributivo ancora esistente del palazzo è sintetizzabile in due distinte parti che lasciano intendere quale fosse lo sviluppo nel tempo della dimora dei Carafa di Maddaloni: 

 

– edificio cinquecentesco: portone con primo androne con volta a botte 

 

– primo cortile piccolo con scala sulla destra; 

 

– edifico seicentesco: secondo androne – grande cortile coperto e grande scala sulla sinistra. 

 

Di particolare interesse risulta la soluzione del secondo cortile porticato e coperto con volte a vela innestate su otto grandi pilastri, non riscontrabile in altre dimore napoletane. Tale soluzione suggerisce l’ipotesi che i Maddaloni, allevatori di razze scelte di cavalli, avendo una nutrita scuderia necessitavano di ampi spazi coperti per la movimentazione degli stessi e per le carrozze utilizzate per recarsi nei loro feudi. Ma ciò che maggiormente dimostrava il lusso e lo sfarzo dell’edificio erano le decorazioni e l’arredo degli interni.

Nel palazzo, successivamente acquistato da Domenico Cattaneo dei principi 

di San Nicandro, aio di Ferdinando IV, che sposerà nel 1717 Giulia de Capua, principessa di Roccaromana e duchessa di Termoli, tra il 1724 e il 1730 

furono realizzati notevoli lavori di restauro relativi al rinnovo della decorazioni, 

lavori eseguiti sotto la regia e il disegno del maestro Francesco Solimena, 

come testimoniato dai documenti e dalle descrizioni del De Dominici.


Famosa fu la Galleria che il Solimena stesso dipinse per il Principe di San Nicandro, realizzata dopo lo studio di molti bozzetti, che rimase nel palazzo fino agli inizi del ‘900 e poi scomparve. 

Era stata eseguita dal pittore tra il 1730 e il 1731: “fece il bozzetto che riuscì compitissimo, ed indi dipinse il quadro ad olio in casa del medesimo Principe, che per essere di palmi 44 lungo, e 22 largo, non capiva in casa propria, e nella stanza ov’egli lavorava. In esso rappresentò i varj modi per i quali si ascende alla Gloria, e le Virtù, che cercano sottrarre da’ Vizj la Gioventù, la quale è guidata da Pallade, e da Mercurio ala suddetta gloria, accompagnata da varie scienze acquistate con lungo studio, e nel basso Pericle che sbrana il leone; nel mentre alcuni sacerdoti porgono incensi a un simulacro di un falso Dio; con altri bellissimi accompagnamenti, e figure allusive; ma perché per la troppa lunghezza della Galleria, e bassezza della soffitta, non si può tutta interamente godere questa bellissima pittura, che pur non empie tutta la volta di essa, per supplire alla restante lunghezza, e renderla anche adorna con sue pitture, vi fece due ovati con favole allusive al quadro di mezzo, collocandone uno sopra, l’altro al di sotto di esso, e con ciò ha arricchito quella nobile Galleria; della quale si dichiarò quel Principe contentissimo a tal segno, che oltre all’accordato onorario volle regalarlo di altri 500 ducati”.

Fortunatamente però, anche se lontana da Napoli, la tela del Solimena 

era finita nella dimora di Ferdinand Bischoffsheim, a Parigi, 

nella Place des Etats-Unis, al numero 11.


Agli ambienti di questa residenza francese, che erano decorati con grande sfarzo, la sala da pranzo rivestita da marmi policromi nello stile di Versailles, alle pareti una favolosa collezione di dipinti di antichi maestri, mancava però qualcosa per meravigliare i suoi ospiti. Pertanto, il Bischoffsheim non esitò a importare dal palazzo napoletano dei San Nicandro una delle tele più belle ed interessanti del maestro Francesco Solimena, dal titolo Les différents moyens pour un Prince d’accéder à la gloire, la grande composizione con soggetti allegorici sopra descritta, per adornare la sala da ballo della sua residenza. Al ricco banchiere, che aveva acquistato in giro per il mondo le più belle opere di arte antica e moderna, si aggiunse la favola, il pezzo unico, esagerato e raro.

 

Successivamente, i discendenti vendettero il palazzo ad un finanziere saudita e questi, recentemente, alla famosa fabbrica di cristalli Baccarat, che vi installò il suo museo, affidandone la ristrutturazione all’architetto Philippe Starck.

Questo edificio, oggi fortunatamente visitabile, con la Galleria decorata dalla tela del Solimena, offre un assaggio dello splendore e di quanto Napoli 

sia presente con la sua magnifica arte nel mondo.


Invece, il palazzo alla Stella, che apparterrà ai Principi di San Nicandro fino agli anni Venti del XX secolo, quando verrà frazionato e venduto a più proprietari, è oggi un condominio che purtroppo ha perso l’antico splendore. 

 

 

 

 

 

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DEMOGRAFIA IN BASILICATA di Angelo Raffaele Colangelo – Numero 13 – Gennaio 2019

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DEMOGRAFIA IN BASILICATA

 

Molteplici e profondi sono stati i cambiamenti che ha subito la popolazione della Basilicata dall’Unità ad oggi. Alcuni divari insorti dopo l’unità sono stati superati, altri se ne sono aggiunti. Tuttavia in oltre un secolo e mezzo non si è prodotta una vera convergenza della regione lucana, e più in generale del Mezzogiorno, con la parte più dinamica del paese. E forse sta qui la vera debolezza della politica: la mancanza di una strategia coerente e risolutiva della questione lucana e meridionale. Tutto ciò si riflette sulla società locale, sulle persone, sulle famiglie, sospinte a “difendersi” dal cambiamento, rifugiandosi in una concezione familistica priva di sbocco. Va letto in questo contesto, ad esempio, il fenomeno della fecondità delle donne lucane, un tempo portate ad esempio per l’intero paese (1), ed oggi tra i livelli più bassi e involutivi. Come va letto in tale contesto la continua fuga soprattutto di giovani dalla regione. Fenomeni che sono all’origine della “desertificazione demografica” del territorio regionale. Nello spazio limitato di questo articolo è difficile dare conto di tutte le trasformazioni e le emergenze demografiche; cercherò di evidenziarne le principali, a partire dalla consistenza della popolazione residente registrata nei 15 censimenti che si sono succeduti in 150 anni di storia unitaria.(2) Cercherò anche di cogliere sinteticamente i fattori che ne hanno condizionato l’evoluzione (o involuzione), accennando conclusivamente ai processi di spopolamento che stanno interessando larga parte del territorio regionale.

 

La Popolazione Lucana dall’Unità ad oggi.

 

Il dato che immediatamente colpisce è lo scarso sviluppo della popolazione lucana nel secolo e mezzo di storia unitaria: 509.060 sono le unità censite nel 1861, 578.036 quelle censite nel 2011. In 150 anni, insomma, la popolazione regionale è cresciuta di appena 68.976 unità, pari ad un incremento del 13,55%, corrispondente ad un tasso medio annuo di appena lo 0,09%. Tra le regioni italiane soltanto il Molise riesce a fare peggio, registrando addirittura un regresso assoluto della popolazione residente (passando dalle 355.138 unità del 1861 alle 313.660 unità del 2011, con una perdita di 41.478 residenti pari all’11,68%). Nel periodo considerato la popolazione del paese, nel suo complesso, cresce di 37.257.267 pari al 168%, con una variazione media annua pari all’1,12%.

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 (*) L’andamento demografico anomalo del comparto è condizionato dal fatto che Veneto e Friuli Venezia Giulia sono presenti dal censimento del 1871, mentre il Trentino Alto Adige è presente dal 1921(**) Le province di Roma e di Viterbo sono presenti dal censimento del 1871

È il Mezzogiorno continentale a presentare il minore sviluppo della popolazione tra le diverse ripartizioni del territorio nazionale. Ma tra le regioni che compongono il Sud, la Basilicata risulta tra le più fragili. Nei 150 anni considerati, infatti, la popolazione meridionale (escluso la Basilicata) passa da 6.105.376 a 13.399.395 abitanti con un incremento assoluto di 7.294.019 pari al 119,46%; insomma raddoppia la propria consistenza. Inoltre, a fronte di una popolazione sostanzialmente stazionaria in Basilicata, nelle altre regioni meridionali – fatta eccezione per il Molise – la popolazione cresce significativamente: in Abruzzo (+52,29%), in Calabria (+69,64%), in Campania (+140,05%) e in Puglia (+203,65%).

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In conclusione, la popolazione residente in Basilicata in un secolo e mezzo non è cresciuta. Tuttavia questo sintetico dato è il risultato di un percorso alquanto accidentato e tormentato (non solo demograficamente). Possiamo distinguere diversi periodi nella vicenda della popolazione lucana contemporanea. Un primo periodo, quello del ventennio immediatamente successivo all’unità (1861-1881), nel quale, nonostante la presenza di un profondo disagio sociale, la popolazione cresce, anche se con un ritmo modesto (tasso medio annuo dello 0,29%, contro un tasso medio nazionale dell’1,5% e del resto del Sud dello 0,6%). Un secondo periodo, quello del quarantennio a cavallo del secolo (1881-1921), quando la popolazione lucana decresce fortemente, ad un ritmo medio annuo dello 0,22%. Nel quarantennio considerato l’Italia nel suo insieme cresce ad un ritmo medio annuo dello 0,90%, e la popolazione del resto del Mezzogiorno cresce con un tasso medio annuo dello 0,7%. È il periodo della grande emigrazione transoceanica, che produce fenomeni di spopolamento diffuso sul territorio della regione. (3) Un terzo periodo, il trentennio che va dal primo al secondo dopoguerra (1921-51), quando la popolazione lucana cresce ad un ritmo più elevato della media italiana (tasso medio annuo dell’0,92%, contro una media nazionale dello 0,69%). Anche il resto del Mezzogiorno continentale cresce nel periodo ad un ritmo medio annuo dello 0,92%. È un periodo demograficamente positivo, sotto l’influenza di due fattori determinanti: il persistere di un regime demografico condizionato ancora dall’alta fecondità delle donne lucane e dalle difficoltà ad emigrare, per le restrizioni operate dagli Stati Uniti d’America. Un quarto periodo, dal 1951 in poi, quando la regione sperimenta un nuovo periodo di flessione demografica, soprattutto nel ventennio 1951-71 e dal 2001 in poi. Nell’intero sessantennio la popolazione regionale diminuisce con un ritmo medio annuo dello 0,13%, mentre il paese cresce con un tasso annuo dello 0,42% e il resto del Sud dello 0,31% annuo. Ed è soprattutto nell’ultimo ventennio che la perdita di popolazione diventa drammatica: contro un paese che comunque cresce al un ritmo dello 0,23% annuo ed il resto del Sud sostanzialmente stazionario (tasso medio annuo dello 0,03%), la popolazione lucana decresce con un tasso medio annuo dello 0,27%.

 

Fattori naturali e migratori nella dinamica della popolazione.

 

Al momento dell’Unità il modello demografico lucano – ma anche quello dell’intero paese – rifletteva le condizioni di antico regime. La fecondità era ancora di tipo naturale, nel senso che il comportamento riproduttivo non mutava in funzione dei figli avuti. La nascita, insomma, era un evento al quale non si sapeva come far fronte (si pensi ai neonati abbandonati, ai cosiddetti “esposti”). E la morte era ancora profondamente “ingiusta”, nel senso che recideva la vita nel fiore degli anni, e particolarmente in età infantile. La transizione ad un regime demografico moderno, caratterizzato da bassa natalità e bassa mortalità, in Italia è avvenuta tardi, e in modo particolare nel Mezzogiorno e in Basilicata. Il processo si avvia a cavallo tra XIX e XX secolo, e il regime demografico moderno si afferma soltanto nel secondo dopoguerra. Con riferimento al territorio regionale, il quoziente di natalità per 1000 abitanti passa da 42,1 nel triennio 1862-64 a 35,9 nel triennio 1900-02, riducendosi di 6,2 punti, contestualmente il quoziente di mortalità passa da 39,3 a 28,3, riducendosi di 11 punti, per cui in quasi quarant’anni il tasso di incremento naturale lucano diventa più che doppio (dal 2,9 per mille al 7,6 per mille). La tendenza alla discesa dei tassi prosegue nel tempo, e nel triennio 1961-63 si attesta al 23,6 per mille per la natalità ed all’8,7 per mille per la mortalità: in sessant’anni il primo quoziente si riduce di 12,3 punti ed il secondo di 19,6 punti. Di conseguenza il tasso di incremento naturale sale al 14,9 per mille, quasi doppio rispetto all’inizio del secolo. Negli ultimi cinquant’anni, invece, si verifica un vero e proprio tracollo nelle condizioni demografiche della regione, con un tasso di natalità che sprofonda al 7,65 per mille nel triennio 2010-12 ed un tasso di mortalità che, per effetto dell’invecchiamento della popolazione, subisce un lieve rialzo, collocandosi al 9,7 per mille, e ne consegue un tasso di decremento naturale di circa il 2 per mille.

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Il processo di invecchiamento della popolazione lucana è evidente, se si considera che la quota degli anziani (quelli in età da 65 anni in poi) passa dal 6,6% del 1951 al 20,5% del 2011; nello stesso periodo la quota dei giovanissimi (in età fino a 14 anni) passa dal 29% al 13,3%. Di conseguenza l’indice di vecchiaia (rapporto tra anziani e giovanissimi) passa dal 344,4% al 752,6% (insomma, se vi erano circa 3,5 anziani ogni giovanissimo nel 1951, ve ne sono ben 7,5 nel 2011), e l’indice di dipendenza (rapporto tra anziani e classi centrali di età 14-64 anni) passa dal 10,3% al 30,9% (insomma, se prima vi era un anziano ogni 10 persone in età lavorativa, ora ve n’è 1 ogni 4). L’altro grande fattore di trasformazione demografico e sociale è stato il fenomeno emigratorio. A causa, certo, della pressione demografica sul territorio, ma anche per l’arretratezza dei rapporti produttivi nelle campagne. È la combinazione dei due fattori (demografico e socio-produttivo) a generare una spinta espulsiva così importante, che assume i connotati dell’esodo nel momento in cui i luoghi di attrazione si rendono disponibili e i sistemi di comunicazione rendono più agevolato il movimento. Il flusso di espatrio, infatti, si mostra presto potente: nel periodo 1876-1913 emigrano 376.627 persone, la gran parte (354.110) verso i paesi oltre oceanici, e solo poco più di 20 mila verso i paesi europei. La meta principale sono gli Stati Uniti (199.475 unità, il 53% dell’intero contingente), seguiti dall’Argentina (77.649, il 22%) e dal Brasile (50.484, il 13%); la meta europea più ambita è la Francia (11.132, il 3% del contingente migratorio). La media annua di espatrio ammonta a 9.911 unità, su una popolazione media del periodo che non supera le 550 mila unità. Dopo il periodo bellico, nel quale partono soltanto 13.159 unità, per lo più ricongiungimenti familiari, il flusso riprende subito con vigore, ma dura solo pochi anni a causa del contingentamento all’ingresso deciso dagli Stati Uniti d’America e alla successiva crisi economica mondiale. In tutto il periodo 1919-1925 emigrano 41.228 lucani, con una media annua pari a 5.890. Dopo il 1925 l’esodo dei lucani via via si spegne. In tutto il cinquantennio 1876-1925 sono espatriati dalla regione 431.014 lucani, dei quali 228.260 hanno raggiunto gli Stati Uniti, 92.563 si sono diretti verso le terre argentine, 55.683 sono approdati in Brasile e 13.165 nella vicina Francia, per citare solo le mete più frequentate. La media annua di espatrio in tutto il cinquantennio è di 8.620 unità. Ad emigrare è soprattutto il maschio (303.627 unità, pari al 70,4% del contingente) che parte da solo (270.239 unità pari al 62,7% del contingente); tuttavia, rispetto al complesso dell’emigrazione italiana del periodo, la presenza delle donne (127.387 pari al 29,6%) e soprattutto dei minori (160.775 unità pari al 37,3%) si mostra significativa nel contingente lucano, a segnalare che gli emigranti lucani esprimono più degli altri l’intenzione di partire per non ritornare. La figura professionale più presente nel contingente emigratorio è l’addetto ai lavori campestri (63,8%), seguito a distanza dagli addetti ai lavori di sterro (10,9%), ma anche la presenza di figure artigianali e professionali è significativa (13,3%), a testimonianza che il progetto emigratorio, in realtà, interessa tutta la società lucana. Non tutto il contingente che espatria, ovviamente, diventa perdita demografica definitiva per la regione: c’è chi parte e non ritorna, e c’è chi dopo essere tornato riparte nuovamente (il cosiddetto flusso circolare), ma c’è anche chi dopo un po’ di tempo ritorna definitivamente. Le statistiche ufficiali non registrano le ripartenze né, fino al 1905, i rientri; è quindi complicato avere cifre esatte su quella che viene definita “emigrazione netta”, ossia la perdita netta di lucani che si sono spostati definitivamente all’estero. Le statistiche ufficiali (4) registrano che, nel periodo 1906-25, sono 58.302 emigrati di ritorno, meno del 30% del flusso in uscita. Anche assumendo tale percentuale come valida per tutto il periodo 1876-1925, avremmo comunque una perdita di popolazione per emigrazione superiore alle 300 mila unità (oltre la metà dei residenti in regione al 1881), con un tasso di emigrazione netta pari all’1,16% sulla media della popolazione dal 1881 al 1921, ben più alto del tasso di crescita naturale della popolazione lucana nel periodo. Al termine del secondo conflitto mondiale la pressione demografica sul territorio torna ad essere notevole, ma non si trasforma immediatamente in flusso emigratorio, per il persistere del contingentamento degli sbarchi negli USA e per le condizioni non più favorevoli nelle tradizionali destinazioni latino-americane (Argentina, Brasile), mentre le nuove destinazioni – come l’Australia – non corrispondono pienamente alle aspirazioni dei potenziali emigrati e lo sbocco europeo è ancora molto limitato (quelli svizzero e tedesco si apriranno solo dalla seconda metà degli anni cinquanta). Nel decennio 1946-55 emigrano dalla regione 43.728 unità (10.163 sono i rimpatri, pari al 23,2% degli espatri), ma già nel ventennio successivo il flusso in uscita sale a 194.776 emigranti (76.190 sono i rimpatri, pari al 39,1% degli espatri). La crescita del flusso di ritorno è dovuto al fatto che l’emigrante lucano predilige ormai la destinazione continentale, e diversi paesi europei praticano politiche di scoraggiamento all’insediamento definitivo sul proprio territorio. La vicinanza tra luogo di provenienza e quello di destinazione, e i relativamente bassi costo di trasferimento, inoltre, consentono all’emigrante di partecipare ad un mercato del lavoro allargato, capace di fargli cogliere ogni opportunità di lavoro temporaneo che si crea nei paesi esteri, nel nord d’Italia o nella stessa regione. In sostanza il progetto emigratorio lucano diventa sempre meno un progetto di vita, da condividere con la propria famiglia. L’emigrante è un lavoratore che si muove prevalentemente da solo, pronto a cogliere le opportunità di una domanda di lavoro che nel continente europeo tende ad unificarsi. La partecipazione femminile è scarsa nel movimento emigratorio continentale (solo del 10%, nel quadriennio 1959-63), mentre permane elevata (50% nel contingente) nel movimento transoceanico. Il 43% dell’emigrazione continentale lucana si dirige verso la Svizzera e il 32% verso la Germania Federale, nazioni che forniscono anche alte percentuali di rimpatrio (rispettivamente 29% e 13%).

 

Espatri e rimpatri 1876-2014 : Basilicata, Italia e Sud

 

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Nel secondo dopoguerra parte anche un intenso movimento migratorio interno, con destinazione le regioni del cosiddetto triangolo industriale (Liguria-Lombardia-Piemonte), la cui entità è stimata attraverso il trasferimento di residenza (iscrizioni e cancellazioni anagrafiche). La registrazione anagrafica coglie, tuttavia, solo approssimativamente il movimento reale, perché non sempre chi si muove trasferisce la propria residenza, e comunque non lo fa con contemporaneità; tuttavia questa rimane l’unica fonte statistica per rilevare il movimento migratorio interno. Il fenomeno assume ritmi elevati nel triennio 1961-63 (71.887 cancellazioni a fronte di 34.019 iscrizioni, con una perdita netta di 37.868 unità, corrispondente ad una media annua di 12.623 residenti) e nel triennio 1968-71 (67.216 cancellazioni a fronte di 34.611 iscrizioni, con una perdita netta di 32.605 unità, corrispondente ad una media annua di 10.868 residenti). Dal 1972 in poi il flusso netto si ridimensiona, ma non si esaurisce. Fino al 1981 le destinazioni prevalenti sono le regioni del Nord Ovest, ed in particolare la Lombardia (con unità nette trasferite) ed il Piemonte (con 49.085). Dopo il 1981 il flusso si riduce nelle dimensioni e si distribuisce nelle principali regioni sia del Nord che del Centro Italia; in particolare, perde importanza il Piemonte, mentre emerge il polo attrattivo dell’Emilia Romagna.

 

Saldi dei movimenti anagrafici tra comuni della Basilicata e comuni del

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Muta anche la qualità delle risorse umane che abbandonano la regione: sempre più giovanile e scolarizzata, anche femminile; spesso ci si sposta per proseguire gli studi e non si fa più ritorno.

 

Lo spopolamento attuale

 

Questa continua sottrazione di risorse umane, soprattutto giovanili, non solo ha effetti negativi sulla consistenza della popolazione residente in regione, ma altera profondamente la sua struttura per età. In particolare assottiglia le classi di età demograficamente più produttive, con effetti sulla consistenza della quota di popolazione prolifica e quindi sulla fecondità generale. Quest’ultima è depressa, inoltre, dalla carenza di servizi di conciliazione tra famiglia e lavoro e dal carico, sulla componente femminile, dei servizi di assistenza a una popolazione sempre più anziana. Studi demografici sulla fecondità, sia a livello europeo che nazionale, hanno mostrato come le aree con minori servizi di conciliazione subiscono un doppio effetto negativo: l’occupazione femminile stenta a decollare e la fecondità si riduce sempre di più. In questo modo si spiega l’inattesa inversione territoriale nella fecondità in Italia, dove regioni tradizionalmente feconde come la Basilicata fanno sempre meno figli, mentre le regioni settentrionali vedono un incremento relativo delle nascite. E ciò non soltanto per effetto delle immigrate, il cui comportamento riproduttivo sta via via allineandosi a quella delle italiane, ma proprio per la maggiore disponibilità di servizi di conciliazione.

Numero medio di figli per donna ed età media della donna al parto

 

 

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Sono queste le ragioni che portano alla crescita del “malessere demografico” nella regione lucana. Il demografo Antonio Golino, analizzando il fenomeno dello spopolamento nelle regioni italiane, con riferimento al 1991, per la Basilicata parla di “malessere demografico relativamente diffuso e crescente”. (5) I comuni più compromessi (“in grave crisi demografica”) risultavano 11 e quelli comunque in difficoltà (“tasso di incremento naturale medio annuo…sceso al di sotto dello zero”) ben 69. Ricalcolando con i medesimi criteri i valori dei comuni lucani con i dati del censimento 2011 viene fuori che i comuni più compromessi salgono a 67 e quelli comunque in difficoltà a 51. È stato osservato (6) che in presenza di condizioni di arretratezza e di diffuso malessere sociale (oltre che demografico), le aspettative dei cittadini e i meccanismi di consenso finiscono per adattarsi ali livelli più bassi, facendo quindi venir meno la necessaria spinta critica verso i soggetti pubblici, i quali finiscono per non trovare le motivazioni per una politica di cambiamento. Sono convinto che ciò accresce la responsabilità di una classe dirigente che intende prendersi cura dei cittadini che amministra e del territorio che governa, e per costruire risposte adeguate e coerenti a queste condizioni di malessere è opportuno avere piena cognizione delle cause che ancora le determinano.

Note

 

(1) “La Lucania ha un primato che la mette alla testa di tutte le regioni italiane: il primato della fecondità, la quale è la giustificazione demografica e quindi storica dell’impero” (B. Mussolini, comizio a Potenza del 27 agosto 936). Citato in R. Villari “Il sud nella storia d’Italia”, vol. II, Laterza 1974

(2) Nei primi censimenti unitari viene rilevata soltanto la popolazione presente. Tuttavia l’ISTAT ha ricostruito quella residente per tutti i censimenti e per tutti i comuni. Cfr. ISTAT “Popolazione residente dei comuni. Censimenti dal 1861 al 1991”, Roma 1994

(3) Come testimonia Francesco Saverio Nitti nella sua “Inchiesta sulle condizioni dei contadini in Basilicata e in Calabria” del 1910, riportata in “Scritti sulla questione meridionale”, Laterza 1968

(4) Commissariato Generale per l’Emigrazione “Annuario dell’emigrazione italiana dal 1876 al 1925”, Roma 1926

(5) Golino-Mussino-Savioli “Il malessere demografico in Italia”, il Mulino 2000

(6) Casavola-Utili “Il Mezzogiorno: politiche per la crescita e riduzione delle disuguaglianze”, nel volume curato da Guerzoni “La riforma del welfare. Dieci anni dopo la Commissione Onofri”, Il Mulino 2008

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I PARCHI LETTERARI DELLA BASILICATA di Giuditta Casale – Numero 13 – Gennaio 2019

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I PARCHI LETTERARI DELLA BASILICATA 

 

giuditta casale storia

furono promulgate le nuove leggi, dette Constitutiones Melfitane, perché la cerimonia dell’emanazione si tenne nel Castello lucano di Melfi, una delle dimore più amate dall’imperatore, in cui aveva convocato la Grande Assise di Baroni e Vescovi del Regno.

Il corpus di duecento leggi davano un assetto legislativo completo ed organico per ogni aspetto della vita amministrativa, sociale ed economica del Regno. Considerato l’atto di nascita dello stato amministrativo moderno, la raccolta pone Federico II sulla linea di Cesare, Teodosio e Giustiniano, riaffermando l’universalità del diritto romano.

A secoli di distanza, da un altro castello una giovane donna disperata, 

Isabella Morra, confida le sue pene al fiume Sinni,


che in prossimità del castello devia il corso con un’ansa per asciugare le lacrime da cui scaturisce una delle voci più interessanti della poesia del XVI secolo, isolata da corti e salotti letterari. Nella breve vita, Isabella Morra non riuscì mai ad allontanarsi da Favale, l’odierna Valsinni in provincia di Matera, dove era nata intorno al 1520, e dove fu uccisa probabilmente dai fratelli per vendetta e gelosia tra il 1545 e il 1548. Invano dall’alto del castello normanno, divenuto una prigione, avrebbe guardato il mare in attesa dell’arrivo salvifico del padre, nella speranza di essere portata via dal “denigrato sito”, che ancor oggi risuona dei suoi poetici lamenti. 

 

Morte precoce e violenta anche per

Mario Francesco Pagano, immortalato da Giacomo Di Chirico, 

pittore lucano della metà dell’Ottocento,


mentre accetta senza cedimenti la condanna a morte, all’indomani della caduta della Repubblica di Napoli, per la quale aveva scritto insieme ad altri quattro giuristi la Costituzione, pubblicata il 1 giugno del 1799. Era partito giovinetto dal piccolo borgo lucano di Brienza, dove era nato nel 1748, per proseguire gli studi a Napoli, e diventare il brillante giurista, letterato, filosofo e saggista, uno dei più importanti nomi dell’illuminismo italiano. 

 

Il 15 luglio 1935 una condanna altrettanto ingiusta cadeva su 

Carlo Levi, ritenuto pericoloso dal Fascismo per attività politica 

nociva agli interessi nazionali.

 

I tre anni di confino avrebbero dovuto essere scontati a Grassano, ritenuta poco sicura per la vicinanza della stazione ferroviaria, e sostituita con un paese inaccessibile: Aliano. Indimenticabile per lui e per i numerosi lettori di “Cristo si è fermato ad Eboli”, sparsi dovunque nel mondo, l’arrivo in paese. Il paesaggio lunare rimase impigliato nelle mani di scrittore e pittore, indelebile, tanto da divenire sua patria d’adozione e ultimo ricovero, perché è lì che riposa come da lui voluto all’indomani della morte nel 1975. 

 

Come la casa abitata da Levi ad Aliano gli lascia posare lo sguardo sull’immensità del paesaggio, così “’U Paazze”, la casa natale di Albino Pierro nella piazza del centro storico di Tursi, dove era nato nel 1916, domina su una vista incantevole, motivo di ispirazione lirica costante: il torrente Pescogrosso, il convento di San Francesco e i dirupi del rione Rabatana, a cui sono dedicati i suoi versi più celebri.

Federico II, Isabella Morra, Mario Francesco Pagano, Carlo Levi, Albino Pierro: personalità divise da distanze temporali consistenti, differenti i contesti storici 

e umani, esistenze di spessore segnate da vicende difficilmente assimilabili. 

Cosa le lega tra loro?


Quale percorso congiunge Melfi, Valsinni, Brienza, Aliano e Tursi, oltre a essere territori lucani? 

 

C’è una connessione per un viaggiatore attento alla letteratura e spinto a credere che i luoghi e i paesaggi natii o abituali influenzino lo sguardo e l’indole del soggetto che li vive? Quante volte guardando un paesaggio abbiamo sentito scorrere un brivido e risalire prepotentemente alla memoria parole, versi, frasi letti? Non potrebbe essere diversamente visto che il paesaggio è fonte d’ispirazione costante per scrittori e poeti, artisti e intellettuali. Binomio insolubile, radicato nella coscienza, nonostante la sorte possa spingere lontano, come avviene per Pagano o Pierro, o al contrario rendere intimi e propri luoghi “distanti” da quelli considerati originari, come per Levi.

Il nesso che volevo evidenziare tra le biografie e i luoghi da cui scaturiscono 

è racchiuso nella seguente affermazione:


I Parchi Letterari® assumono il ruolo di tutela letteraria di luoghi resi immortali da versi e descrizioni celebri che rischiano di essere cancellati e che si traducono nella scelta di itinerari, tracciati attraverso territori segnati dalla presenza fisica o interpretativa di scrittori. Un singolare percorso che fa rivivere al visitatore le suggestioni e le emozioni che lo scrittore ha vissuto e che vi ha impresso nelle sue opere 
(Stanislao Nievo) È l’idea di partenza da cui si mosse nel 1992 il pronipote di Ippolito Nievo, a sua volte scrittore, per dare corpo e motivazione all’ambizioso ed entusiasmante progetto dei Parchi Letterari. Tale è Melfi grazie alla personalità “stupenda” di Federico II; Valsinni per essere immortalata da Isabella Morra nei versi che l’hanno resa celebre; Brienza per i natali illustri a Mario Francesco Pagano; Aliano che da prigione diventa patria elettiva per Carlo Levi; Tursi conosciuta in più di trentasei lingue grazie ai versi sublimi e malinconici di Albino Pierro.

 

Un paesaggio che senza dimenticare la sua valenza turistica, anche in senso economico, la valorizza sul piano storico-testimoniale attingendo alla forza immortale della letteratura, anche in termini di tutela, custodia e salvaguardia.

“Per questi motivi I Parchi Letterari® sono fatti di accoglienza, di visite guidate, 

di eventi spettacolarizzati, e prevedono la possibilità di coinvolgere anche 

le realtà imprenditoriali identificative dall’enogastronomia all’artigianato”, 

come si legge sul sito www.parchiletterari.com, curato ed esaustivo,


in cui i tanti parchi letterari che costellano il territorio italiano trovano il luogo deputato per attrarre il lettore e comunicare le attività che autonomamente gestiscono.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Castello di Isabela Morra

 Il Castello di Isabela Morra

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UN RICORDO DI GIOSE RIMANELLI di Pierluigi Giorgio – Numero 13 – Gennaio 2019

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UN RICORDO  di GIOSE      RIMANELLI

 

1997. Fratello Giose, occhi di gatto, lo acchiappai per la coda e quasi per caso in America al mio scalo aereo South Dakota-Roma, reduce – io – dell’ospitalità di un gruppo d’indiani della prateria; lui, in fase di trasferimento – eterno gitano mai domo – dal Minnesota al Massachusetts con la moglie Sheryl da lui chiamata “Ciliegia”.

Micio micione, camaleontico nello sguardo, che si tramuta in serpentello beffardo: sempre che azzannarti ne valga la pena! Ma poi, d’un tratto, il sorriso ironico, sornione si liquefa in amichevole dolcezza, come quello di un bambino tenero a cui non puoi che voler bene. Tutto, su un corpo ancora massiccio: “Paisà!” gli urlo, scuotendo gli assonnati passeggeri in transito che vagano alla ricerca di parenti o del prossimo volo come zombi inebetiti dall’ora e dal viaggio: “Il solito emigrante italiano!” avranno pensato. “Mi hai sconvolto i piani con l’insistenza di conoscermi proprio in questo frangente” – Giose esordisce, esplorandomi tutto – “ma sono felice!” L’abbraccio è energico, franco e lo sguardo, ancora un po’ incredulo, si fa all’improvviso raggiante. Il tempo di accompagnarmi in albergo e di ritrovarci al mattino dopo, solo poche ore più tardi, in lavanderia dove Ciliegia e lui si son trascinati dietro due sacchi di panni accumulati nell’eterno viaggio d’avvicinamento e ricerca di una nuova dimora.

Un incontro breve quanto un respiro, solo due ore alla partenza del sottoscritto: 

a cosa dare la precedenza?


Con l’alito addosso di un tempo tiranno, Giose ascolta e ti assale con una cascata di parole; ed io con una vita da raccontargli. Li aiuto a piegare lenzuola, asciugamani, camicie, pigiami, mutande e calzini; parliamo di lui e parliamo di me e parliamo di patria e Molise, spesso ingrato ed amato.

“Ho portato il Molise sempre con me, col cuore e negli scritti, in tutto il mondo girato: come faccio a rinnegare quella mia terra?


Altro non ci resta, caro amico della macchia, di tenerci ancor più vicini con il pensiero e la parola, continuando tuttavia ad amarla, quei luoghi, quelle memorie e lasciando scorrere sotto il ponte, come acqua che va a perdersi, quei malintesi, le sgarberie, le forzature e sforzature politiche…” Ho provato simpatia e affetto immediato per quest’uomo – “Crescerà!” predisse – per questo fratello più grande di una ventina d’anni, trovato (ri-trovato) fra i risvolti o le righe di un racconto che mi riportò ad amare la mia terra da cui ero “fuggito”. Soprattutto il libro “Molise Molise”…! Mi accompagnano all’aeroporto: un altro abbraccio. Scambio reciproco -quasi in un rito arcano – di gilet (il mio) e di un cappellone old-west (il suo) così agghindati: “Fratello Giose, ho scavalcato oceani e ci siamo rincorsi per gli States sfidando tempo e ragione pur d’incontrarci e conoscerci, ma non siamo riusciti a fermare il tempo”… “Pierluigi carissimo, sei passato come un fulmine e te ne ringrazio, perché insieme abbiamo addomesticato il difficile!”… “Arrivederci in Molise, Giose! A presto, spero: faremo uno spettacolo un giorno insieme!” gli preannuncio con veggenza spiritata… In Molise, mi giunge un sonetto che benevolmente mi dedica. Come in uno specchio, ci vedo riflesso lui stesso e la sua delusione:

“Molise, Amore di terra lontana: prima che l’inverno ci sorprenda, questo smarrito amante senza mondo ripasserà l’Atlantico profondo per distendersi sotto 

la tua tenda. Su quest’amore han malignato a fondo i senza cuore, 

scarsi di leggenda, imbavagliati dentro una tregenda d’ignoranza sapiente, 

a tutto tondo. Questo smarrito amante ha ben pagato la sua fede: 

desiderio e pienezza, un manoscritto sempre ben arato sia nel tormento 

della fanciullezza che nella quieta questua d’un alato riavere il perso, 

l’amata carezza…”.


Come atto d’amore nei riguardi della stessa patria, gli mandai imbustata terra, semi e petali della regione, insospettendo – come lui suppose – i controllori americani… L’impulsività costa, ma come tentare la via della saggezza con lui e lui con me? Come si poteva imbrigliare l’impulso e la voglia – quasi settimanale – di un confronto seppur epistolare? Mi vien da ridere!!! 

 

Un anno passa e gli comunico che l’abborracciato zibaldone di testi (i suoi) è pronto: mi sono basato su un collage di scritti, libri e racconti di vita. L’idea gli piace e poi… poi “un’enormefolleinfinitaquasincalcolabile” sfilza di cifre sulla bolletta telefonica. “Oggi abbiamo consumato le linee internazionali!” mi fa. Costa meno vederci…! A una settimana dalla prima teatrale, arriva ed è sufficiente un solo abbraccio per intenderci. Ci ritroviamo a stagliuzzare, incollare, riscrivere, riordinare le tessere letterarie di un puzzle esaltante: il mondo, tutto il mondo è tra le quattro pareti di casa mia… “Buona notte!” “Buona notte!” e dopo mezz’ora siamo di nuovo in piedi a trascinar pantofole, perché il sonno non viene e quindi è meglio lavorare… Gli sparo lì la proposta: “Anche tu sarai di scena! Tu racconti la tua vita ed io sarò il tuo alter-ego, quello della creatività letteraria, dei tuoi testi, che dà voce alle tue poesie! “Ok?” “Ok!” Nasce: “L’Arcangelo e il ragazzo: Giose e io”.

L’intuizione è giusta: Giose per la prima volta in assoluto che interpreta se stesso! 

Lui è un simpaticissimo, ottimo, spontaneo animale da palcoscenico! 

Sarà teatro nel teatro.


Attorno a noi, un gruppo di musicisti bravissimi (a cui affido le musiche scritte da Giose) ed una danzatrice: è un lavoro frizzante, culturalmente valido, eccitante, non localizzato, ma tutto ciò per sole tre insufficienti repliche: Campobasso, Isernia, Casacalenda. L’esperienza teatrale, le notti insonni, le risate attorno ad un tavolo ci accomunano, ci affratellano ancor di più, ma arriva il momento del ritorno e “gli anni scivolano come passi su bucce di banane” scriverà un giorno. 

 

2018. “L’emozione non ha voce…” recita una canzone di successo di Mogol interpretata da Celentano.

Dall’America il 6 gennaio arriva purtroppo la notizia: Giose, l’eterno itinerante, 

è andato a raccontar storie tra le nuvole…


Undici mesi dopo, su un’idea che suggerii al Rettore dell’Università di Campobasso Gian Maria Palmieri, siamo ad onorarlo in una due giorni di Convegno dedicato interamente a lui e la sua fervente, strabordante creatività letteraria (con lo spettacolo “Giose&Giose” compreso, organizzato il 5 e 6 del dicembre scorso dall’Università di Campobasso (UNIMOL) su Giose Rimanelli (Casacalenda – CB/1925 – New York 2018). Dal 1960 si era trasferito negli Stati Uniti ed è stato Professore Emerito d’Italiano e Letteratura Comparata all’Università di Stato di New York ad Albany. Personaggio eclettico e simpaticamente fuori dagli schemi, scrittore transculturale, ha pubblicato romanzi, narrative di viaggi e racconti sia in italiano che in inglese. All’attività narrativa ha unito quella della poesia, del teatro, del giornalismo e della critica letteraria in italiano ed inglese. 

 

Fra gli eccelsi relatori -perlopiù docenti universitari newyorkesi – Gino Tellini, Antonio Vitti, Anna Maria Milone, Luigi Montella, Giorgio Patrizi, Luigi Bonaffini, Romana Capek-Habekovic, Sebastiano Martelli… La maggior parte giunta dalle Università degli States. Prima fra tutti, la moglie di Giose, Sheryl Lynn Postman – docente della University of Massachusetts di Lowell – la più attenta a proteggere la “verità” di pensiero ed umana di Rimanelli:

un eclettico scrittore – per mole autoriale – da non confinare soltanto 

nella memoria dei primi libri,


“Tiro al Piccione” (tradotto in film da un giovane Giuliano Montaldo) o “Il mestiere del furbo” (condanna dei “salotti letterari” del tempo) ma neppure nella definizione “molisano”, né tantomeno italo-americano, bensì, più appropriatamente, quale autore italiano transculturale! L’idea è quella di istituire un Premio letterario internazionale, atto a preservare la memoria di uno scrittore che, pur avendo rivolto sovente la sua attenzione letteraria alla terra natia (portata ovunque come il guscio di una chiocciola), è indubbiamente di gran spessore e calibro internazionale! 

 

A conclusione, la riproposizione vent’anni dopo – prodotto dalla Incas Cinematografica – del Recital-Spettacolo “Giose&Giose” (un tempo il già citato “L’Arcangelo e il ragazzo”) nell’Aula Magna dell’Unimol, ed io questa volta ad interpretare, necessariamente, proprio l’amico Giose Rimanelli!

Si, l’emozione non ha voce… 

Mi piace ricordarlo nelle ultime battute dello spettacolo in proscenio, 

l’uno accanto all’altro, con in mano una valigia vuota:


GIOSE: “Stanco della vita, Giose?” PIERLUIGI (alter ego di Giose): “Terribilmente”. GIOSE: “Fai due passi? Ti seguo da molto, sai?” PIERLUIGI: “Sei Giose…?” GIOSE: “Viaggio, vedi la valigia?” PIERLUIGI: “E cosa contiene?” GIOSE: “Guarda!” PIERLUIGI: “Ma è vuota?” GIOSE: “Si, ma una volta era piena zeppa. Infine ho dovuto buttar via tutto.” PIERLUIGI: “Ma se è vuota, a che serve?” GIOSE: “Si riempirà di nuovo… La vita continua”…

dallincontre_in_america
 

Mai incontrato prima, lo riconosco all’istante – come non potrei? – 

 mentre mi accoglie all’aeroporto americano all’una di notte, con bermuda 

alle ginocchia ed un cappellone bianco a tesa larga quanto un ombrello 

da spiaggia calcato su un viso netto, tagliato da un’accetta; due baffoni 

da zingaro e, al di là di larghe lenti chiare su un promontorio 

da pugile, due tagli netti, marcati marcati, che ti scrutano l’anima 

e ti scherniscono dentro.

 

Pierluigi-Giorgio_arte
giose_rimanelli
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