NAPOLI “SPAGNOLA” di Sergio Lambiase – Numero 8 – Luglio 2017

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Che è un paradosso, o una boutade, ma con un fondo irriducibile di verità, soprattutto alla luce della impetuosa “barcellonizzazione” che ha investito Napoli negli ultimissimi anni, nel senso della iridescenza turistica e dello spettacolo insolito delle strade colme di viaggiatori incantati e qualche volta turbati. 

Come la Napoli di trenta o quaranta anni fa, Barcellona una volta era una città grigia, perfino triste, e chi vi capitava, per lavoro o per diporto, a stento si accorgeva del fascino del Paseo de Gracia con i capolavori del modernismo catalano o del fulgore del barrio gotico intorno alla cattedrale sontuosa dedicata a Sant’Eulalia. Poi vennero le Olimpiadi del ‘92 e la città mutò pelle, non più la vita sonnolenta, le strade vuote, la tristeza ereditata dal passato, ma nuove prospettive architettoniche, alberghi eleganti e musei rimessi a nuovo, e via, manco a dirlo, le ciminiere, la caligine, le vecchie fabbriche, i palazzi slabbrati, il grigiore del porto.

 

I tempi nuovi entravano a vele spiegate nella città cara a Gaudí, suscitando il malumore dei vecchi catalani, ma esaltando lo spirito giovanile in chi vedeva nella palingenesi turistica (e sportiva)

della città il motore di una invocata modernità.

 

Nel 2004, il Forum delle Culture, che invano si sarebbe tentato di replicare a Napoli, e con scarsa fortuna, una decina d’anni più tardi, rappresentò un’altra tappa avventurosa della modernizzazione di Barcellona, anche se nel sostituire il nuovo all’antico, qualcosa andava irrimediabilmente perduto. Chi scrive è stato testimone, sia pure occasionale, delle metamorfosi della città delle ramblas ai tempi del Forum. La metropoli aveva la febbre. Il quartiere di Poble Nou, roccaforte della classe operaia barcellonese (quella che aveva impugnato le armi contro i franchisti ai tempi della Guerra Civile) entrava nel mirino degli urbanisti o degli urbanisti-speculatori. La rambla di Poble Nou da ritiro accogliente degli operai delle industrie conserviere si mutava in una strada modaiola, votata alle lusinghe della cucina spagnola e alle ebbrezze della movida. Il piccone demolitore. cominciò a cancellare, nell’antico quartiere, aggraziati edifici di fine Ottocento per sostituirli con arditi, ma allo stesso tempo, anonimi volumi architettonici. Vanamente gli abitanti cercarono di opporvisi, con le “lenzuolate”, i volantinaggi, i piccoli cortei improvvisati che la polizia puntualmente rintuzzava. “Oggi Barcellona è una città trasparente, colorata, vivace, dinamica che piace ai giovani!” disse a commento Joan Clos, in quegli anni applaudito sindaco della metropoli catalana, ignorando malumori e proteste.     

 

La “barcellonizzazione”, nel senso della rigenerazione urbana, in sé, comunque, non è un crimine. Va al più governata, “decelerata”, semmai ricollocata in orbita, se per un eccesso di energia o di spavalderia amministrativa debordasse dai confini che la metamorfosi turistica impone al tessuto e alle forme di vita proprie di una città storica.

 

 Ma come sta vivendo Napoli la sua tardiva “barcellonizzazione”,
e a quali mutamenti la costringe?

 

Napoli è da sempre una città “disfunzionale”, per definizione bella e impossibile, sregolata, orgogliosa della sua “diversità” e irriducibilità, quasi nazione nella nazione, con le sue “leggi”, i suoi capricci, le sua tentazioni di eterna ribelle. Sono cose che sappiamo tutti; ma la “barcellonizzazione”, qualsiasi forma finisca per assumere, invocherebbe anche una misura d’ordine, una “normalizzazione”, un adeguamento agli standard che la modernità, e in particolare la modernità turistica suggerisce nell’epoca dei tour operator, dei voli a basso costo, della sharing economy (nei trasporti, nella pratica delle case vacanza, ecc.). Partenope è in grado di farvi fronte?     

 

Certo è che la città, o per lo meno il paesaggio urbano sta mutando. Sia ben chiaro: a Napoli non è in atto alcuna trasformazione radicale, come è accaduto a Barcellona a tempi delle Olimpiadi. Vedi il caso di Bagnoli in qualche modo la Poble Nou napoletana che non è mai stata investita dalla rigenerazione urbanistica (buona o cattiva che sia), né diventata un Parco tematico come è accaduto nella zona della Ruhr, con il Landschaftspark, all’indomani della dismissione delle acciaierie Thyssen. Stessa musica per la zona di San Giovanni a Teduccio, sul confine orientale della città, rimasta un cimitero di vecchie fabbriche slabbrate, anche se di recente vi si sono insediati i padiglioni dell’Academy Apple. I mutamenti, se vi sono, riguardano per il momento soprattutto la street scene, la buccia della metropoli, con le vie e le piazze principali della città, al Vomero, a Toledo, sui Decumani, nel quartiere di Chiaia, trasformate in veri e propri distretti gastronomici, dove domina il cibo di strada, con le pizze fritte vendute dovunque e le lusinghe del finger food che attrae soprattutto i turisti. Tutto qui? 

 

Per fortuna Napoli, ancor più di Barcellona, è una città di grandi risorse artistiche e di straordinari giacimenti culturali che fanno da nobile contraltare ai fumi molesti delle friggitorie.

 

Mai come in questi ultimi tempi il centro storico è punteggiato di avvenimenti culturali, o di riscoperta di tesori per troppo tempo nascosti alla vista, grazie anche all’impegno di associazioni di volontariato. Qui valgano un paio di esempi.  Quello dei volontari del Touring Club Italiano per il Patrimonio Culturale che hanno messo in luce, con il loro impegno disinteressato, i gioielli artistici della Basilica dei Santi Severino e Sossio o di San Giorgio Maggiore e quello del gruppo “Respiriamo Arte” che ha ridato voce all’antica arte dei setaioli napoletani, guidando i turisti negli ambulacri misconosciuti della chiesa dei SS. Filippo e Giacomo sul Decumano inferiore di Napoli. Certo, ancora molto resta da fare per articolare una coerente narrazione del patrimonio monumentale della città. Basti pensare alla trama magnifica degli ipogei e delle catacombe del quartiere Sanità-Vergini, non sufficientemente valorizzati, a cominciare dall’ipogeo greco-romano dei Cristallini con le struggenti epigrafi greche delle tombe, come quella per Aristagora, sacerdotessa di Leucatea.

 

Uno degli aspetti più interessanti della rinascita turistica di Napoli
è indubbiamente l’attenzione per le arti figurative contemporanee.

 

Risalire la stazione del metrò di Piazza Dante passando in rassegna le opere e le istallazioni di Jannis Kounellis o di Joseph Kosuth è ancora oggi una straordinaria esperienza estetica. Il museo MADRE (il Museo d’arte contemporanea Donnaregina) dopo un periodo in ombra è ritornato a brillare con importanti esposizioni di artisti internazionali. Si deve a Peppe Morra la creazione recente di nuovo museo dedicato all’arte contemporanea, con una vasta collezione di opere sistemate nelle stanze dell’antico Palazzo Cassano Ayerbo d’Aragona, proprio a due passi dalla stazione “Materdei” del metrò progettata da Alessandro Mendini. È merito di Morra anche la nascita, qualche anno fa, del piccolo museo dedicato all’arte “globale” del pittore austriaco Hermann Nitsch. 

 

I tesori artistici di Napoli fanno del centro storico della città e dei quartieri a ridosso dell’antico tracciato delle mura aragonesi un unicum
nel panorama artistico italiano.

 

Resta il problema della sua tutela, nell’assedio della modernità turistica che il processo di “barcellonizzazione” determina col suo luccichio. Troppi negozi nuovi che sostituiscono vecchie botteghe artigianali, troppi micro-abusi nelle facciate e nei cortili di palazzi, troppi vandalismi che fanno a cazzotti col decoro urbano (basti guardare alle scritte che imbrattano mura medievali e reperti romani lungo i decumani), troppi bar, troppi gazebo, troppe pizzerie e friggitorie. Nel lungomare “liberato”, all’odore del mare si è sostituito da tempo quello delle carni alla brace e degli spiedini di pesce.      

 

Negli ultimi tempi è accaduto che il processo di “barcellonizzazione”, che ora investe, o contamina, Napoli, proprio nella metropoli catalana sia improvvisamente arrivata al capolinea. “Non vogliamo essere come Venezia” si è gridato nella città delle ramblas. “Via i turisti, meglio i rifugiati!”. Sono avvisaglie, o per il momento semplici sintomi d’un malessere, nel tentativo di far argine al “nemico alle porte”, leggi il turista, il barbaro moderno che mette i piedi nelle fontane o improvvisa picnic tra le rovine antiche. Ma il turismo di massa è anche un potente, e prepotente, motore economico, tanto più necessario, dopo la deindustrializzazione e la terziarizzazione che hanno investito, a cominciare dagli anni Ottanta-Novanta, Napoli come Barcellona. Che fare, allora? 

 

Chi amministra una metropoli attraente come Napoli (o Barcellona,
o Madrid, o Amsterdam) è come un funambolo
in equilibrio su un filo teso.

 

Basta un momento di distrazione per precipitare nel vuoto – un vuoto di idee e di politiche urbane – con la città abbandonata alle scorribande del turista “mordi e fuggi”. Non sarebbe auspicabile, per una delle più antiche e nobili città del mondo, che il numero delle friggitorie superasse quello degli ipogei o dei musei d’arte, lasciando i Decumani o Toledo preda delle “molestie olfattive”, così definite da una recente sentenza della Cassazione.   

 

 

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NAPOLI “SPagnola”

 

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