QUANDO LA TRECCANI NON CONOSCEVA LA MOZZARELLA di Francesco Festuccia – Numero 7 – Aprile 2017
QUANDO LA TRECCANI NON CONOSCEVA LA MOZZARELLA
Scrivere una possibile o impossibile storia della mozzarella è come addentrarsi in una materia molle che ricorda proprio la consistenza della mozzarella stessa. Pochi i testi certi, come incerta è la “certezza” del nome, anche se “mozza” deriva sicuramente da mozzato, tagliato.
e ricerche, sia sui testi che nello sterminato mondo di Internet, danno risultati contraddittori e, a volte, sorprendenti. Basti mettere a confronto due totem del passato e del presente.
Andando a sfogliare le polverose pagine della Bibbia delle definizioni, cioè l’enciclopedia Treccani – che ha fatto bella mostra in tante case importanti, nel suo mobile dedicato – nell’edizione del 1934, alla voce Mozzarella, non si trova nulla. Incredibile a pensare: non esiste nella Treccani di quegli anni – summa di tutto lo scibile umano – la voce “mozzarella”. Insomma, la mozzarella proprio non sembrava aver cittadinanza: anzi, solo cercando più a fondo, alla voce “bufalo”si trova: “La femmina produce 1200/2000 litri di latte all’anno che viene trasformato in mozzarella”. Un po’ meglio se si va al dizionario enciclopedico della Treccani del 1958, nel quale testualmente si legge: “voce meridionale diminutivo di mozza, tipo di formaggio, latticino magro tipico della Campania, prodotto con latte di bufala. La cagliata viene cotta nel siero finché diventi filante poi è tirata in cordone e tagliata a pezzi di circa mezzo chilo da consumare fresca e cotta”. E aggiunge, come “figura regionale”: “essere una mozzarella, persona fiacca e lenta”.
Non solo la mozzarella viene citata poco o niente, ma più che altro passa, anche, come termine derisorio. Se ci pensiamo bene non a torto.
Chi non ha avuto un compagno di scuola o, magari, un parente a cui è stato affibbiato il termine “mozzarella”, perché era un tipo moscio, giusto come una mozzarella. Moscio, diremo morbido, che per una mozzarella vera è una bella cosa, perché si taglia facilmente e altrettanto morbidamente si scioglie in bocca; mentre, certo, per una persona, non è un granché di qualità. Così come si usa nello slang della pallavolo, sinonimo di tiro senza energia… e poi quante volte pensando al colorito di una persona in costume sulla spiaggia abbiamo detto: “è una mozzarella”. A dire il vero, questa ultima derisione sta passando di moda, visto che la tintarella ora è un po’ meno trendy, mentre, per la mozzarella stessa, il bianco è un bel complimento dal momento che se vira al giallastro non è un buon segno di conservazione e se vira al blu, addirittura, va a finire sui giornali come emblematico e, forse, fin troppo rumoroso caso di “avvelenamento”.
Secondo l’enciclopedia internettiana, le prime notizie si hanno in un documento longobardo. Secondo queste fonti, già nel XI secolo, la principessa Aloara, vedova del principe di Capua, Pandolfo Testadiferro, distribuiva una “mozza” – un pezzo di pane – ai monaci dell’abbazia di San Lorenzo ad Septimum, alle porte di Aversa. Secondo altri, la mozzarella l’avrebbero inventata i monaci stessi. Mentre le bufale si trovavano nelle vallate acquitrinose, i conventi erano invece sulle alture; per trasportare meno peso, il latte veniva lavorato con un procedimento veloce direttamente sui pascoli, concentrandolo in un latticino che poi veniva portato su in convento. Secondo altri, invece, gli inventori della mozzarella sarebbero stati i Normanni la cui contea-città era Aversa. Dell’uso della lavorazione e del consumo dei prodotti derivati dal latte di bufala (il casicaballus, il butyrus, la recocta, il provaturo) abbiamo attestazioni in documenti del XII secolo conservati presso l’archivio episcopale di Capua.
Ognuno sembra voler prendere una primogenitura e, allora, prima del famoso cuoco della corte papale Scappi, a cui si deve il primo uso ufficiale nel 1570, ecco ritrovata, nel 1481, una denominazione di “mozza” del fiorentino Paolo Rucellai.
Anche se le denominazioni (mozza-provatura) variano a seconda dell’epoca, in tutte le fonti citate, una sola cosa sembra certa: tutte queste denominazioni hanno voluto indicare sempre quella che oggi viene chiamata mozzarella. E allora, vista la varietà e anche la contraddittorietà delle fonti, andiamo a scomodare illustri dizionari. Dagli Accademici della crusca, che parlano di Mozza come “sorta di cacio fatto con il latte”, al vocabolario della lingua italiana di Scarabilli, secondo cui “così chiamavansi certi piccoli caci chiusi in una vescica e legati a mezzo. Usano massimamente nel napoletano dove la chiamano mozzarella”; dal dizionario Palazzi che, alla voce provatura, dà “formaggio molle fresco che si prepara nel napoletano con latte di bufala” al vocabolario Basilio Puoti napoletano-toscano, che la definisce “qualità che si fabbrica col latte di bufala”; al vocabolario napoletano-italiano di R. Andreoli, che dice “latticino che non usa in Toscana ed al quale dovrà mantenersi il nome di mozzarella derivato da mozza”. E qui, in questa complessa e fumosa storia di definizioni e primogeniture, ci vengono in aiuto le parole di un medico senese – autore di una monumentale opera di divulgazione più volte ripubblicata nel XVI secolo – che dice del latte di bufala “di cui si fanno quelle palle legate con giunchi che si chiamano mozze e a Roma provature” per far comprendere il rapporto mozza provola.
In qualsiasi dizionario della lingua italiana – recente o meno – provola viene fatto derivare da provatura, mentre, a definire il legame mozzarella/provatura, c’è un documento del 1873 – ancora un vocabolario napoletano-toscano domestico – che definisce la mozzarella “piccola forma poco più poco meno di un uovo di provatura fresca”.
A questo punto, vale la pena di citare lo storico Migliorini che descriveva cosa succedeva nella Piana del Sele intorno alla metà dell’800: “le mozzarelle non erano destinate al commercio, ma si confezionavano per uso familiare e il latte bufalino serviva per la lavorazione di provole affumicate per salvaguardare la crosta dal deterioramento”. E qui, continuiamo ad attingere ai pochi dati storici arrivati a noi. Se nel mercato di Capua sembra che fin dal 1500 ci siano tracce di mozzarelle accompagnate dalle provole, i dati archivistici sembrano dimostrare come, nella non lontana Castelvolturno, pervenissero solo provature, Le Assise di Napoli, poi, confermano, per quello stesso periodo, la presenza su quel mercato solo di provature affumicate e fresche; invece, la mozzarella, accompagnata da provole, sembra comparire solo dal 1720, per diventare più frequente dal 1780 in poi. Insomma, chi faceva mozzarella lo faceva ad uso e consumo privato: cibo non povero, ma poverissimo, tanto da non poter essere nemmeno commercializzato e che avrà una trasformazione in prelibatezza solo tanti anni dopo.
E, allora, andiamo per altre doverose citazioni: prima di tutte, a fare da contraltare alla Treccani, quella su Internet di wikipedia che, anche qui, poco ci aiuta e, per approfondire, ci rimanda alla voce “mozzarella di bufala campana”. E qualche cenno sulla storia c’è, anche se la certezza manca.