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LA TRADIZIONE ORGANARIA NAPOLETANA di Mario Manzin – Numero 4 – Aprile 2016

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E’ un positivo firmato Domenico Antonio Rossi 1783

Una cengia a picco sul lago Maggiore ospita un antico Santuario sorto per volontà del beato Alberto Besozzi, un mercante del XII secolo che, investito da una burrasca sulla sua barca mentre si recava da una sponda all’altra del lago, e in serio pericolo, si rivolse a Santa Caterina d’Alessandria per avere salva la vita promettendo in cambio una chiesa in suo onore e, per la sua persona, vita eremitica in quell’angolo allora selvaggio del Verbano orientale. Da allora, l’Eremo, dedicato appunto all’invocata santa, è meta di pellegrinaggi e visitato ogni anno da oltre centomila tra fedeli e turisti di ogni nazionalità.

 

 

LA TRADIZIONE ORGANARIA NAPOLETANA

 

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Per le sue qualità, l’organaro venne assunto il 10 giugno 1761 dalla Regia Cappella, con uno stipendio di otto ducati al mese, in luogo del defunto Tommaso De Martino, altra personalità di spicco.

Nell’ambito degli studi condotti da Ulisse Prota-Giurleo e da Stefano Romano su quella scuola, particolare attenzione è stata posta al Rossi la cui tecnica costruttiva emerge dagli organi superstiti, quasi tutti del tipo ‘positivo’.

Conserva opere d’arte pittorica di buon livello e, tra gli arredi,

un organo ‘positivo’ opera di Domenico Antonio Rossi 1783, prezioso cimelio che degnamente rappresenta la tradizione organaria napoletana.

Svolse i suoi compiti con grande serietà e competenza fino al 5 gennaio 1789 quando, a causa dell’età avanzata, lasciava il prestigioso incarico al figlio Francesco Saverio.
Lo strumento, già di proprietà privata, è stato acquistato dal Lions Club Laveno Mombello – Santa Caterina del Sasso e ceduto in comodato all’Eremo per accompagnare i riti.
Ci troviamo di fronte ad un manufatto di rilevante interesse storico ed artistico in quanto uno dei pochi usciti dalla bottega del Rossi ancora conservati a Napoli e fuori Napoli1.
Vale citare in questa circostanza il curioso positivo di Villatorre (CH) attribuito al Rossi, in quanto dallo stesso firmato, mentre, in sede di restauro, è emersa la firma dell’altrettanto celebre Giuseppe De Martino e la data 1721, peraltro quella della morte. Con molta probabilità l’organo è stato successivamente restaurato se non addirittura rifatto dal Rossi che ha cancellato la presenza dell’illustre collega.
Due altri strumenti, rispettivamente del 1768 e del 1776, sono di proprietà privata, un altro ancora giaceva semidistrutto nel Museo degli antichi organi napoletani di Capodimonte. Sono attribuiti alla bottega del Rossi due organi anch’essi di privata proprietà in Germania e nel nord della Svezia.
Lo strumento dell’Eremo varesino si presenta in elegante forma, con un prospetto di facciata composto da 19 canne suddivise in tre campate, 7 – 5 – 7. Bocche non allineate, più basse quelle delle campate laterali, labbro superiore a mitria. La disposizione fonica è composta da Principale 8’, Flauto in XII (dal Fa#2), Ottava, Quintadecima, Decimanona, Vigesimaseconda, Turatutti. Tastiera scavezza con prima ottava corta di 45 note, Do1-Do5,. Corista La 415 Hertz (a 16°), temperamento inequabile. Non c’è pedaliera.

Altra caratteristica sopravvissuta a lungo è quella degli ‘effetti’, quali l’Uccelliera, frequentemente denominata Uccelli, Uccellaia, Rosignoli, oppure Stortae Philomelae, cioè canne ricurve. Il congegno imita il cinguettio degli uccelli.

L’organo si impone anche dal punto di vista estetico in virtù della decorazione della cassa, peraltro una delle caratteristiche di questi positivi. Scultura e intaglio del legno, doratura e decorazione pittorica costituiscono un altro sorprendente capitolo che rileva il talento degli organari partenopei.

Si basa su cannucce ad anima (da tre fino a dieci, quello dell’Eremo varesino ne conta cinque) saldate ad un tubo ripiegato ad angolo retto di cui un braccio è in comunicazione con il somierino sottostante, l’altro regge le cannucce a pelo dell’acqua, immesse in un minuscolo recipiente ovale in piombo, dando aria mediante pomello o stecca: le cannucce soffiano sulla giusta dose d’acqua creando l’effetto del cinguettio.
Il mantice d’alimentazione dell’Eremo, come d’uso, è contenuto nel vano inferiore e sulle portelle di chiusura compare un elegante cartiglio con la scritta: “DOMINICVS ANTONIVS ROSSI / NEAPOLITANVS / REGIAE CAPPELLAE SVAE MAIESTATIS / ORGANARVS FECIT / A D 1783”.

1Un censimento delle opere superstiti curato dallo scrivente ha dato i seguenti risultati:
a Napoli: 
Basilica dell’Incoronata Madre del Buon Consiglio di Capodimonte (1769); S. Giovanni Maggiore (data incerta 17…); 
S. Eligio, Confraternita del SS. Sacramento (1775); S. Maria Incoronatella della Pietà dei Turchini (1776); S. Giovanni Armeno, Arciconfraternita dei SS. Pietro e Paolo (1785), nella celebre via dei presepi, lo strumento si trova collocato nel capellone;
fuori Napoli:
Procida, Abazia di San Michele (data incerta, probabilmente del 1770); Fontanarosa, chiesa dell’Immacolata (1771),
Malta, cattedrale, due strumenti: l’organo maggiore del 1774 è collocato in cantoria nel transetto nord, il positivo, costato 185 scudi, si trova oggi nel Museo della cattedrale; Deliceto, chiesa parrocchiale di S. Antonio (1775);Orsara di Puglia, chiesa di San Nicola (1776) proveniente dalla concattedrale di Troia;Barletta, chiesa di S. Andrea, proveniente dalla chiesa di S. Cataldo (1776);San Sebastiano al Vesuvio, Santuario (data illeggibile); Trento, Conservatorio di Musica (1779); Forio d’Ischia, S. Maria di Loreto (A.D. MDCCLXII); Forio d’Ischia, Santuario S. Francesco di Paola (1781), strumento dotato di un curioso ed elementare sistema di pedali a staffa per l’azionamento dei mantici.

Il lavoro di doratura, ad esempio, viene effettuato con procedimenti diversi, attraverso la mistura sull’argento e l’utilizzo dei fogli d’oro zecchino per creare piacevoli contrasti di lucido e opaco ed ottenere in questo modo affascinanti effetti chiaroscurali.
I positivi presentano un aspetto peculiare dell’originaria napoletana, prodotti in numero imponente di esemplari e destinati alle chiese maggiori, ai piccoli oratori, alle cappelle delle confraternite, ai palazzi nobiliari. Per oltre due secoli e mezzo la tradizione si tramanda e non conosce soluzioni di continuità. Una caratteristica di questi manufatti è la presenza di una canna ad ancia a suono fisso chiamata “zampogna”, particolarità documentata dagli inizi del Seicento fino alla metà del XIX secolo. E’ situata all’interno della cassa ed azionata da una stecca indipendente a tirante. Il timbro non è sempre sonoro e viene utilizzata come pedale armonico per l’esecuzione, ad esempio, di melopee pastorali. Non mancano esempi di zampogna doppia con due canne e due note a distanza di quinta.

Ci troviamo di fronte ad un esemplare che degnamente rappresenta quel barocco che – come scrisse Harold Acton – “ebbe ad esprimersi a Napoli con la stessa gioia di un volo di usignoli liberati da una gabbia d’oro”.

Renato Lunelli, padre dei moderni studi organologici, non nascose il suo interesse per l’organaria napoletana: voleva scoprire anche negli organi il volto della città. “Nei timbri organistici – scriveva – troviamo accoppiata all’impronta mistica una caratteristica storico-ambientale; perché le sonorità dell’organo stilizzano le preferenze di un determinato ambiente musicale per particolari timbri sonori di un certo periodo di tempo”.

Se, da una parte, si è dovuto constatare per anni un saccheggio di questi superbi monumenti sonori, un avanzato concetto di tutela ha consentito recuperi e restauri sotto il controllo di studiosi e di esperti.

E’ stata edita anche una letteratura su queste tematiche, peraltro dibattute in incontri tra organologi di varie estrazioni. All’aspetto tecnico è oggi associato quello musicale e la fruizione di questi positivi è stata anche veicolo per la conoscenza della produzione musicale napoletana – grazie allo spoglio di fonti d’archivio da tempo avviato – eseguita su strumenti che rimandano ad uno degli aspetti più interessanti della cultura di Napoli, permeata da una vivacità intellettuale, com’è nella tradizione, sempre in bilico tra sacro e profano.