LA SARDEGNA CHE NON TI ASPETTI di Gloria Salazar numero 29 agosto 2023 editore Maurizio Conte
LA SARDEGNA
CHE NON TI ASPETTI
oltre che per lo straordinario eroismo – che valse numerose medaglie d’oro ai combattenti (detti sos dimonios ossia i demoni per la loro furia bellica) e alle bandiere -, erano famosi per il fogu a intru, il fuoco all’interno; che non era la fiamma interiore che li animava, bensì il modo di fumare i sigari in trincea.
Si trattava, infatti, di introdurre il sigaro in bocca dalla parte incandescente per non far capire al nemico la propria posizione.
Quella del fuoco occulto è anche una caratteristica della cucina sarda.
In Sardegna sopravvive, ormai quasi esclusivamente come tradizione folcloristica, un sistema arcaico di cottura che prevede l’arrostimento dei cibi attraverso una combustione latente, ovvero senza fiamma: la cottura cosiddetta a carraxiu.
Il procedimento consiste nell’utilizzare come “recipiente” una buca scavata nella terra, nella quale è stato fatto un fuoco di legna; una volta rimaste le sole braci la buca viene foderata con rami frondosi – verdi – di arbusti aromatici (lentisco, mirto, rosmarino, ginepro), sui quali si adagia la carne da arrostire (di solito l’intero animale), ricoprendola poi ancora con gli arbusti odorosi e quindi di tizzoni ardenti.
La cottura avviene molto lentamente e le essenze profumate sprigionate
grazie al calore conferiscono alla carne – che rimane tenerissima –
un sapore straordinario.
Questo è uno dei metodi usati per cucinare cinghiali (sirboni), capretti, vitelli ed il famoso e succulento maialetto sardo, a seconda delle località chiamato: porceddu, proceddu, porcheddu, pulcheddu, ed altre numerose varianti. Una ricetta a carraxiu ancor più caratteristica è quella denominata su malloru de su sabatteri, ossia “il toro del calzolaio”, tipica del nuorese -in particolare di Villagrande -; consistente nella gigantesca farcitura di un vitello, al cui interno vengono inseriti come matrioske russe: una capra, un maialino, una lepre, una pernice ed infine un altro piccolo volatile.
Il nome deriva dal fatto che un tempo era il ciabattino del paese (sabatteri o calzolaio, dallo spagnolo zapatos, cioè scarpe) a provvedere alla cucitura dei vari animali.
Quello di utilizzare la terra è un sistema che i sardi usavano anche per nascondere, seppellendole, le bottiglie di acquavite,
anticamente oggetto di appalto (durante la dominazione spagnola detto arrendamento de l’aguardiente – “l’acqua ardente” perché sembra acqua, ma “brucia”- monopolio di privati in ambito locale). Per ritrovare le bottiglie così occultate le munivano di un filu ‘e ferru; filo di ferro che spuntava dal suolo, da cui deriva il nome della bevanda attuale.
I sardi se la cavano bene anche con la graticola (sa cardiga) e soprattutto con lo spiedo (su schidoni o schironi).
Uno spettacolo le grigliate sarde.
Gli spiedi o meglio gli spiedoni – che sembrano piuttosto degli spadoni (possono essere lunghi anche più di un metro e mezzo) – vengono conficcati in circolo nel terreno con infilzata la bestia intera, intorno ad un imponente fuoco di braci, e ritmicamente girati per consentire una cottura uniforme. Con questo sistema vengono cucinati principalmente i famosi maialini da latte.
Nel sassarese invece vi è l’usanza dello zimino
– anch’essa, analogamente alle metodologie precedenti, caratterizzata da una spiccata connotazione conviviale -, costituita da una grigliata di frattaglie, per la quale ci si avvale, come “barbeque”, di una vecchia carriola (ruota compresa), riempita per metà di sabbia e per il resto di carbone di legna.
L’alternativa alla cottura arrosto è quella in umido, una cottura lunga effettuata con l’ausilio di aromi, che intenerisce la carne ed elimina il gusto di selvatico; come quella della pecora in cappotto o dell’ottima capra alla vernaccia, cotta, appunto, con la vernaccia di Oristano – tipico vino sardo- e le bacche di ginepro.
La cucina sarda tradizionale, al contrario di ciò che si potrebbe pensare,
non è una cucina “di mare”, ma è principalmente
una cucina pastorale, “di terra”,
nella quale per secoli le pietanze a base di pesce sono rimaste circoscritte alle sole zone costiere. Anche la celeberrima bottarga, introdotta in Sardegna dai Fenici, che da alimento base nelle traversate e moneta di scambio di quei mercanti navigatori, divenne cibo pregiato per l’elite, ma non venne mai utilizzata nelle ricette tipiche della regione.
Foto da DEPOSITPHOTOS