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IL RITORNO DELL’URBANISTICA, LE CITTÀ IDEALI SOSTENIBILI di Giusto Puri Purini – Numero 1 – Luglio 2015

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progettata da Le Corbusier, che ne disegna e costruisce i palazzi governativi in mattoni rossi, il centro universitario in c.a., i grandi viali e le immense strade, dando al tutto un sapore “Ville Radieuse”, suo progetto utopico degli anni 30/40. L.C. è attratto dal socialismo di Nehru, e dalla sua volontà di portare l’India, leader allora dei paesi non impegnati, verso un destino futuro di equità. Tamara d’improvviso mi dice: “per vivere città ideali, ci vogliono esseri ideali…”. Certo, l’idealità è un grande deterrente, per il miglioramento della “specie”, ma poi nella realtà delle cose vi si frappone quel “lato oscuro dell’Urbanistica”, il collante che tiene insieme la base sociale, fattore imprevedibile e non razionale, che non è fatto di numeri e di grafici ma da scenari eticamente non compromessi, sana espressione della qualità della vita.

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IL RITORNO DELL’URBANISTICA, LE CITTÀ IDEALI SOSTENIBILI

 

Principi che purtroppo nel mondo occidentale sono stati disattesi, costruendo solo grandi dormitori senza vita, considerati oggi dei fallimenti urbanistici, come nella sua “Unite d’Habitation” di Marsiglia, ispirata alla casbah, di Algeri, ed in altri casi, come Corviale a Roma, Secondigliano a Napoli, lo Zen a Palermo, solo per citarne alcuni, Senza infrastrutture sociali ed economiche e scelte di fondo coraggiose, proiettate nelle “nuove” utopie della sostenibilità, che ricostruiscono il tessuto sociale, impoverito da molte scelte sbagliate e da una marcata “assenza”, questi grandi mammuth urbanistici implodono.
Non sarà forse in mezzo a queste vie che nasce inevitabile, come gli eventi naturali che ci circondano, la “CITTÀ IDEALE SOSTENIBILE”, regina degli altrimondi e sobriamente felice? E, torno in Italia, dove nella sua storia, tanti architetti-urbanisti hanno profuso nella scienza prima delle città stato e poi delle città aperte, profondi elementi umanistici, estetici, funzionali.
Nelle città stato, il principe, il mercante, il banchiere, l’artista, l’orafo, l’artigiano, il contadino ed altri ancora, formavano un variegato ed attivo mondo operoso, che rendeva la propria città, grande e potente, in un rivaleggiare evolutivo, di cui fruivano tutti.
Oggi non ci sono più alternative e dobbiamo gioco-forza spingerci verso questa terza via senza scordare gli insegnamenti del passato: IDEALITÀ, SOSTENIBILITÀ, COMPETIVITÀ.
Ci troviamo di fronte, per la prima volta, a dover agire in profondità nel nostro pianeta; i cambiamenti climatici, l’inquinamento, prodotto dalle fonti di energia tradizionali, ci spingono verso una grande rivoluzione, fondamentalmente verde…”Going green!” Senza perdere di vista l’occasione creata dall’apertura di enormi mercati, basati sull’anti-inquinamento, ed il risparmio energetico, un’occasione unica per tutti, una nuova globalizzazione del pensiero.
Diventeremo da consumatori, produttori individuali di energia, rimettendo in rete il surplus dei nostri consumi.

L.C., nella casbah di Algeri, un’altra tipologia urbana, ha a lungo studiato interazioni sociali, trovando una profonda armonia tra quel brulicare di popolo, di botteghe artigiane, di mercanti che accrescevano in modo esponenziale un’offerta di beni, che è alla base dello sviluppo di ogni comunità.

Una trasformazione epocale che muterà il globo nei prossimi decenni.

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Tamara, mia moglie, mi ha chiamato l’altro giorno dall’India, stava fotografando Chandigar, capitale dell’Utar Pradesch, voluta dal Pandit Nehru, presidente dell’India negli anni cinquanta e 

Addirittura la Cina, oggi la più grande inquinatrice, sta producendo velocemente nuove tecnologie per ridurre gli effetti negativi del suo sviluppo, in un frenetico gioco del “costruire e distruggere”!Riappropriarci, nel nostro paese, dei “Centri Minori”, per avviare prima che nelle grandi città questa trasformazione, sembrerebbe uno dei primi passi da compiere.
Quindi si prevede che entro il 2040, il 60% della popolazione mondiale graviterà e cozzerà come un asteroide intorno alle grandi megalopoli, e già questo impone una rilettura immediata di tutti i dati urbanistici fino ad ora considerati. Si va inevitabilmente verso una “Urban evolution”.
L’Urbanismo totale coinvolgerà come un gigantesco magnete tutta la nuova ricerca scientifica ed umanista, dall’economia, alla riorganizzazione e distribuzione delle nuove fonti energetiche, al processo dei rifiuti urbani, all’architettura sociale, alla riqualificazione urbana, alla viabilità…campagna che entrerà in città e viceversa, un gigantesco dentro-fuori, che conserverà in parte la cultura contadina, con orti e campi coltivati, con espressioni individuali e collettive della grande capacità di Arte in questo paese.
Alcuni esempi: Daniel Libeskind, parla di “People’s Power”, per sottolineare che non si parla più solo di edifici; gli architetti delle nuove “Green Cities” concentrano le loro attenzioni su 4 punti chiave: energia, acqua, rifiuti e trasporti, “Averting crisis”, di come le città stanno affrontando il problema dei cambiamenti climatici.
(Inserto del Financial Times, “The Future of Cities” del 8/8/2010).
Queste ricerche e questi nuovi parametri, serviranno soprattutto nell’importantissima battaglia da condurre in Italia, alla salvaguardia delle “Città Minori”(15-30mila ab.), serbatoi di vita da non svuotare ma da conservare e fare evolvere come beni preziosi per il nostro futuro. Un’attenzione quindi particolare a questi luoghi, spesso magie urbanistiche, sentinelle del territorio altrimenti esautorato.

Tra le miriadi di queste micro città nel territorio italiano, ne emergono due, in Sicilia, contrapposte storicamente ed esplosivamente, una all’altra: la neo razionalista “Gibellina Nuova”, ad occidente, dove le esperienze moderne italiane, si riallacciano
ad una architettura del mezzogiorno,

 immagine di un Mediterraneo non rovinato da geometri ed architetti analfabeti, ma sulle orme piuttosto di una tradizione già “cantata” ed espressa, nelle città minori della bonifica pontina, nelle architetture del dodecanneso ed in genere nelle colonie italiane…

e la tardo barocca Noto, nella Sicilia orientale, la cui nuova impostazione urbanistica fu affidata, agli inizi del 700, ad un nobile “sapiente”, l’arch. Giuseppe Lanza, duca di Camastra, che
riunì dalle famose scuole di Napoli, pensatori, scienziati,
architetti, ingegneri, artisti,

per disegnare lontano dalla città originale distrutta da un terremoto, un asse viario da est ad ovest che per quasi 2km, allineato sempre sulla stessa quota a metà collina, separa a monte (nord), i maestosi edifici del clero e della nobiltà, ed a valle (sud), l’amministrazione pubblica, il teatro, l’habitat popolare.
La città è circondata da centinaia di ettari di mandorleto, di vigne, vi cresce il carrubo, si vive quel dentro-fuori tanto auspicato dalle filosofie contemporanee. Ma oltre al turismo e all’agricoltura, non c’è niente, la gente vende e fugge.
A Gibellina nuova è l’Arte che fa da traino, attraverso progetti suntuosi di tanti artisti contemporanei, dal cretto di Burri, all’aratro di Pomodoro, al teatro di Consagra, felicemente sposati alle architetture e alle piazze di Samonà, Venezia, Ungers, Purini e tanti altri, ma ora i completamenti si sono tragicamente interrotti.
Rivitalizzare questi centri, e non solo con il turismo usa e getta, ma renderli “desiderabili”, quindi sostenibili e autosufficienti, anche per chi ci vive, attraverso analisi scientifiche precise e rigorose, è il compito delle amministrazioni pubbliche, del settore privato con i loro investimenti, e di questa nuova generazione che incalza irrequieta ma che va dotata di consapevolezza e di nuovo sapere.

Il principio base deve diventare salvare il “Centro Minore”, per creare nei luoghi stessi quelle premesse di stabilità e benefici equamente ripartiti, armonie per fortuna già raggiunte nel nostro paese da tanti insediamenti, e insistere nel mezzogiorno, luogo già così felicemente “speziato” in ogni ordine di sapori che aggiungervi la parola “Urbanistica” non dovrebbe rappresentare
un problema insuperabile.

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Il Belice come narra la storia, una volta era la vita, e come dice Lorenzo Barbera, si chiamava “Il fiume caldo”: era navigabile e vi fiorivano città e villaggi, un ecosistema armonico che i romani furono i primi a distruggere trasformando i delicati equilibri vigenti in monoculture a base di grano.
Nei 2 millenni successivi il Belice s’inaridì seccandosi nel periodo estivo e nacque tra la popolazione il sogno della diga che avrebbe ridato al territorio, con un nuovo regime delle acque, l’antico splendore.
Ma insieme, sempre ai romani, questa volta sotto forma d’invadenza statalista (vedi Ministri ed affini) in Sicilia e nel Belice in particolare, altre forze potenti, portatrici malsane di interessi privati, si erano messe di traverso per bloccare l’evoluzione sociale del popolo, ed il suo ingresso nel mondo contemporaneo.
Quella ricchezza che poteva derivare dalla natura “armonizzata” e che grande il pensatore contemporaneo Paul Hawken ha reso affermando che “Il capitalismo naturale è alquanto differente dal capitalismo tradizionale che ha sempre trascurato il valore monetario delle risorse naturali e dei servizi forniti dagli ecosistemi, senza i quali non sarebbe possibile alcuna attività economica oltre la vita stessa.
Il capitalismo naturale al contrario capitalizza le risorse e punta all’efficienza per riuscire a produrre di più con meno.
Ridisegna le logiche industriali sulla base di un modello che esclude gli sprechi e la produzione di rifiuti; sposta l’economia verso un flusso continuo di valori e di servizi, investe nella protezione ed espansione del capitale naturale esistente”… Era ben lontana da venire. Poi ci fu quell’attimo del 15 gennaio 1968, come racconta Lorenzo Barbera: “…il boato urta contro la crosta della terra e tutti i fili della luce del Belice si spezzano e la luce si spegne, il comò si inginocchia e la casa è una barca in balia delle onde…” Il terremoto del Belice!Tutti i sogni, i pensieri, le lotte, si sbriciolarono in un attimo e per le genti delle valli, che sognavano un mitico ritorno ad un passato felice, il destino cambiò per sempre.
Gibellina verrà ricostruita molti anni dopo (17 anni) tra incongruità, incompetenze, e vere e proprie vessazioni contro la popolazione, ora separandola, ora aggregandola, diversamente spostando i nuovi centri urbani lontani dagli antichi luoghi, quasi tutti.
Vi trionferà la nuova Urbanistica (Samonà, Quaroni, Gregotti e altri), ispirata alle new towns inglesi.
Ma nel Belice avviene qualcosa di sorprendente, soprattutto a Gibellina, dove il Sindaco dell’epoca (Ludovico Corrao), si batte affinché la ricostruzione fosse anche l’occasione per un grande rilancio culturale.

Decine di architetti, urbanisti, artisti, volontari, (Nicolin, Venezia, Ungers, Pomodoro, Consagra, Burri, Paladino, Purini, Attardi, Thermes, Schifano) e tanti altri…, si succedono negli anni dando a Gibellina quella fisionomia attuale

che la rende frammentaria ed incompiuta al suo interno, ma che lascia intravedere nel suo degrado, nel non finito, opere architettoniche ed artistiche straordinarie, che la pongono automaticamente, sulla via della rinascita, tra le eccellenze dell’avanguardia, europea e mondiale. Risorgere dalle ceneri e riscattarsi con l’Arte!
É su questa speranza che le nuove generazioni devono fondare le loro forze, almeno due dal ‘68 ad oggi si sono succedute, nel portare avanti progetti impossibili, contestati e spesso fatti abortire, ora è il momento di ripartire.

Il valore oggettivo di questo Parco Artistico è incalcolabile, vanno riprese le fila dei molti interventi, dalla manutenzione ai completamenti architettonici, dai servizi, alle attività collaterali e alla promozione su scala mondiale. Come spetta ad un luogo che
non è più solo “memoria”, ma incredibile museo-habitat a cielo
aperto.

Guardare nel futuro, come avrebbero desiderato, per l’oggi, i tanti Dolci, Barbera, Corrao per fare pace con il passato e le sue incredibili sofferenze.

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