ESULI NAPOLETANI A TORINO di Francesco Antonio Genovese – Numero 6 – Ottobre 2016
Nonostante la capacità di cimentarsi nella materia civile, sarà un’altra opera di dottrina penalistica a segnalare il suo nome, poiché solo un anno dopo pubblicherà l’opera, adesiva della tesi abolizionista, Sulla pena di morte (Napoli 1848), in seguito più volte ristampata e divenuta un vero e proprio cult ante litteram.
Mancini, che mentre frequentava i corsi di giurisprudenza nell’ateneo napoletano si sbizzarriva anche in esercitazioni letterarie e poetiche, si laureerà in giurisprudenza nel 1835, a soli 18 anni, avviandosi subito alla professione forense e, qualche anno dopo (1840), al pari di Pisanelli, anche all’insegnamento privato del diritto
– oltre che alla cura, fin dal 1838, di un periodico di divulgazione, Le Ore solitarie, che, dal 1842, mutata la testata in Giornale di scienze morali, legislative ed economiche, ospitava prestigiosi interventi di altri intellettuali (in particolare P. Galluppi, A. Scialoja, M. De Augustinis, K. Mittermaier), su temi giuridici e amministrativi, ed informava sulla cultura napoletana, sulla filosofia, ecc. e che, successivamente, si era sviluppata ulteriormente in una Biblioteca di scienze morali, legislative ed economiche, con argomenti concernenti i più vari rami del sapere giuridico, in una prospettiva nazionale.
Mano a mano, Mancini era venuto ad occupare un ruolo di primo piano nel dibattito nazionale nelle scienze giuridiche e morali, come ci si avvide quando, nel 1841 pubblicò la sua corrispondenza con T. Mamiani Della Rovere, in un volume, Intorno alla filosofia del diritto e singolarmente intorno alle origini del diritto di punire: lettere di Terenzio Mamiani e Pasquale Stanislao Mancini (Napoli, 1841), che ebbe una notevole eco.
Di tutto questo, ovviamene, la monarchia borbonica mostrava di non comprendere né la grandezza né il possibile beneficio per se medesima – come ha scritto, di recente, sulle colonne di questa stessa rivista Cesare Imbriani,
a proposito dell’esperienza del 1821 (cfr. C.I., La costituzione mancata a Napoli, in Myrrha, n. 3) -, diversamente da qualcun altro (il Regno del Piemonte), dove per merito di Cavour e dei suoi cooperanti, si stava acquisendo una ben diversa capacità prospettica ed egemonica, capace di saper bene utilizzare quegli ingegni e di coinvolgerli nell’opera riformatrice.
4. Accadde, infatti, che con l’avvio, nel 1847-48, dei moti costituzionali, i nostri tre intellettuali si immersero completamente nella vicenda politica.
Pisanelli, ad esempio, che pure si riconosceva nella costituzione concessa da Ferdinando II il 3 febbraio 1848, eletto nel primo Parlamento napoletano (nel maggio 1848) non vi poté svolgere un ruolo significativo perché lo stesso Parlamento venne sciolto subito, il 15 maggio dello stesso anno. Rieletto in giugno, cercò di dare il suo apporto innovativo con la proposta di legge per l’abolizione della pena di morte, quella per la riforma della legge comunale e provinciale e con il celeberrimo progetto per l’istituzione di un giurì (per i reati di stampa e quelli politici).
Ma, ancora una volta, Ferdinando II non capì e fu solo svelto a veder corto e sciogliere il Parlamento, nel marzo 1849, sopprimendo le libertà costituzionali.
– nel senso di intellettuali cresciuti e formatisi a Napoli, per quello che allora Napoli rappresentava per l’intero mezzogiorno continentale (Abruzzo incluso): Antonio Scialoja (1817), forse l’unico napoletano vero, essendo il discendente di una famiglia procidana, poi trasferitasi a S. Giovanni a Teduccio – oggi un popoloso quartiere di Napoli, ma allora un comune orientale confinante, da quel lato, con la città, assieme a Barra, Ponticelli ed altri piccoli casali che verranno inglobati definitivamente (e perderanno perciò la loro autonomia) solo con la riforma della città, con la creazione della Grande Napoli da parte del fascismo, nel 1925; Giuseppe Pisanelli (1812), un salentino – essendo nato a Tricase, ora in provincia di Lecce, ma allora nella provincia di Terra d’Otranto – e Pasquale Stanislao Mancini (1817), di origini irpine – essendo nato a Castel Baronia (Avellino) -, ma trasferitosi assai presto a Napoli, per gli studi.
Tutti avevano studiato a Napoli, nella medesima facoltà di giurisprudenza, traendone grande profitto e successo.
2. In particolare, il più grande dei tre,
Non c’è allora da meravigliarsi se troviamo Pisanelli attivo collaboratore nel processo di riordinamento delle Università di Modena e Bologna, coordinato, nel 1859-60, da Luigi Carlo Farini, il governatore provvisorio delle province dell’Emilia e, dall’estate 1860, a seguito della spedizione dei Mille e del tracollo della dinastia borbonica, tra quegli esuli napoletani ai quali Cavour si rivolge per contrastare Garibaldi nella transizione verso l’unificazione nazionale.