ERBE SELVATICHE TRADIZIONE ALIMENTARE IN PUGLIA di Nello Biscotti – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021
ERBE SELVATICHE TRADIZIONE ALIMENTARE IN PUGLIA
Esplorare il mondo dei saperi in cui occupano un ruolo alimentare foglie, steli, fiori di piante selvatiche è quasi un viaggio tra memorie e esperienze dirette.
Un ruolo che ha origine nello stretto rapporto con la terra, gli ambienti, la Natura, per cui con questa tradizione che ha coinvolto le comunità umane a scala di Pianeta, si entra in una conoscenza che abbraccia più ambiti disciplinari (botanica, sociologia, ecologia, storia del territorio, antropologia culturale).
In questi ultimi cinquant’anni, però, ovunque questa tradizione è stata abbandonata (benessere, cambiamenti stili di vita);
in gran parte dell’Europa settentrionale e orientale queste pratiche si limitano oggi
a frutti e funghi; ancora forte è soltanto la tradizione di raccolta di piante medicinali. Essa sopravvive, invece, in molti paesi del Mediterraneo
e in alcuni paesi dell’est (Croazia, Estonia, Bielorussia); per ciò che riguarda in generale l’Europa si possono documentare oggi utilizzi alimentari di piante spontanee in Polonia, Francia, Austria, Spagna, Portogallo, Grecia, Bosnia-Erzegovina, Slovacchia, ed ovviamente in Italia e nell’intera area mediterranea. La raccolta di vegetali spontanei, pertanto, è stata praticata da sempre, ha costituito l’attività quotidiana delle comunità umane, anche se dalla repertazione preistorica (Paleolitica e Neolitica) sembra prevalere (raffigurazioni, materiali litici) l’immagine dell’uomo cacciatore.
Il libro “Vie erbose. Le erbe selvatiche nelle bioculture alimentari mediterranee” affronta su basi scientifiche la tradizione, quella su cibi selvatici,
partendo da ricerche etnobotaniche condotte in Puglia, contestualizzate nel panorama della letteratura italiana ed europea.
Ovunque con le erbe selvatiche la povera gente, e non solo, ha fronteggiato carestie, periodi di guerre sempre più devastanti. Le erbe selvatiche hanno rappresentato cibo prezioso durante le guerre mondiali, anche in quelle che abbiamo imparato a vedere in diretta in televisione (Bosnia-Erzegovina, 1992-1995). Erbe selvatiche hanno mangiato in Siria gli abitanti di Aleppo assediati per oltre un anno, come si è potuto ascoltare nei servizi televisivi di qualche anno fa.
Si tratta di una tradizione mai scritta perché da sempre trasmessa per via orale,
di qui la crescente attività di ricerca che in Italia, ha portato a documentare
fino ad oggi circa 800 specie;
ne risultano coinvolte tutte le regioni, ognuna con proprie caratterizzazioni in termini di specie e preparazioni culinarie. Ma è questa solo una rappresentazione parziale di questa tradizione, il dato, infatti, viene da indagini frammentate, condotte in tempi diversi oltre che con logiche diverse. Mancano dati soprattutto a scala di regioni
La ricerca in Puglia, oltre a darci un quadro più aggiornato
(604 specie escludendo frutti e aromatiche) fornisce per la prima volta in Italia
dati etnobotanici per una intera regione, ancora più preziosi per il contesto mediterraneo ove la raccolta delle erbe selvatiche
conserva una evidente importanza.
Proprio nella mediterranea Puglia emerge con più forza che nell’uso popolare di cibi selvatici non vi è un confine netto tra cibo e medicina, la tossicità è un concetto del tutto relativo come quello della stessa edibilità. Evidentemente la tematica è realmente complessa e non è una questione solo biologica, o chimica. Vi è un’altra biodiversità che le stesse esprimono nel loro uso, da conoscere, salvare, ed è quella bioculturale (fattori biologici e culturali che influenzano il comportamento umano), altrettanto importante perché interconnessa con quella naturale.
Le bioculture sono tante, diversissime, poiché si sono sviluppate in luoghi
e in condizioni diverse, per cui salvando le bioculture salveremo forse
anche la Natura e viceversa.
La diversità di conoscenze può essere una chiave per la sostenibilità e la resilienza dell’umanità. Le continue perdite di biodiversità con cui ci misuriamo sono anche il vero problema per la conservazione della natura, che è stata sempre perseguita separatamente dal patrimonio culturale che include anche le tradizioni orali ereditate dai nostri antenati. Nell’uso popolare di queste piante in Puglia sono emerse, inoltre, consapevolezze di alimenti che “fanno bene” al corpo, alla salute.
Cibo o medicina allora? Altra questione complessa che l’etnobotanica configura
in “cibi-medicina” e che trovano conferme scientifiche per la presenza di importanti di principi nutraceutici (polifenoli, antiossidanti e vitamine) alla ricerca dei quali siamo ormai tutti coinvolti.
Ma questi cibi possono raccontarci altro: l’uso crudo di apici e germogli di piante diverse, che ancora oggi caratterizza la tradizione pugliese, può essere visto come un’importante traccia dell’antica e prolungata attività pastorale che ha contraddistinto questa regione o l’Italia meridionale in generale.
Con questa tradizione pertanto si possono ripercorrere le fasi ancestrali
del rapporto dell’uomo con il cibo, a partire dalle difficoltà nello scegliere
le piante, alle prime elaborazioni “culturali” su come e dove trovarle;
e poi il modo di utilizzarle,
dalle forme crude (germogli, frutti, steli) agli arrosti (bulbi, steli) che in tutte le società sono state le prime forme di cottura, quelle più vicine all’ordine naturale ma che si sono mantenute nel tempo.
La cultura sul cibo selvatico era molto diffusa nel basso Medioevo ed era frutto di esperienze legate alla conoscenza del territorio e agli insegnamenti che potevano venire solo da pastori, cacciatori e boscaioli, le uniche figure che vivevano intimamente il territorio. Parliamo di un tempo in cui il confine tra selvatico e domestico è molto labile.
Le piante cibo erano tali, al di là se crescevano allo stato spontaneo o coltivato, una visione di cibo ancora diffusa tra i raccoglitori di erbe della Puglia oggi, quando attribuiscono ad un’erba selvatica il valore di verdura.
È solo nel XI secolo che in Italia le cose si fanno più chiare, perché è già avviata una massiccia colonizzazione fondiaria e agraria a spese di pascoli e boschi: in Puglia continua a dominare il pascolo e la maggior parte della gente non ha niente, perché privata di praticare l’attività fondamentale di coltivare la terra, che invece deve servire agli allevamenti bradi, per i quali servono superfici ampie, prive di alberi (gli stessi boschi si trasformano in pascoli) e incolte, per riuscire a foraggiare gli animali di erbaggi spontanei.
In questo scenario nasce il Terrazzano (in altre terre di Puglia
assumerà nomi diversi) capace di costruirsi la propria esistenza
sulla raccolta dei prodotti spontanei,
ma obbligandolo a vagare quotidianamente “per le immense pianure pascolative – scrive Lo Re in “Capitanata triste (1902) – aiutato in ciò dalle donne…; vendendo il supero su la piazza o per le vie”. Ciò li pone in una condizione di assoluta autonomia di sostentamento, e non saranno mai loro a “domandar il pane” o “assaltare forni e panetterie” nelle ripetute carestie che attanagliano il Tavoliere delle Puglie.
Cosa può trovare in una immensa pianura di terre incolte delle quali gli è impedito l’uso? Sterpi, spini, rami e frutti di perastri, ferule, asfodeli, funghi, cicoriette,
cardi, nocchi, asparagi selvatici, lumache, rane.
Aspetto di grande interesse antropologico è che i Terrazzani in Puglia non si sono estinti, continuano a trovare occasioni di reddito dalla raccolta di erbe selvatiche (oltre a lumache, origano, funghi) e a suscitare interesse per le loro competenze di esperti conoscitori di questo mondo; in molti continuano a vendere le loro erbe spontanee nei mercati, ai margini di strada su bancarelle improvvisate in quasi tutti i comuni pugliesi; sono cercati dall’impiegato al notabile, nella consapevolezza di cibo “naturale”, garanzia di genuinità, sicurezza alimentare e soprattutto certezza di sapori.
Ancora oggi almeno 34 specie sono stagionalmente vendute come comuni
verdure e dunque una tradizione capace anche di produrre reddito,
non poca cosa nella prospettiva di salvaguardare culture e economie locali e non con le note rappresentazioni o spettacolarizzazioni delle tradizioni a fini turistici.
Le piante selvatiche che si raccolgono ancora oggi sono strettamente imparentate (progenitrici) con le verdure coltivate, di qui probabilmente anche la ragione di fondo che fa della Puglia la prima regione italiana per la produzione di verdure e ortaggi.
Le erbe selvatiche hanno in questa regione una stretta relazione con il cibo convenzionale (carne, pesce, pasta). In generale lo sostituiscono ma spesso sono complementari o costituiscono un elemento di diversificazione, sul piano gustativo (cibo sfizioso), del pasto quotidiano che si esalta nel piatto con la pasta, o con i legumi (fave).
In queste logiche l’erba selvatica entra a pieno titolo nel costume
alimentare della Puglia, arricchendolo e rafforzandolo
nel suo impianto vegetariano di dieta mediterranea.
Nella piramide alimentare che può̀ rappresentarla trovano ancora posto i blocchi classici (cibo vegetale, ridotto consumi di carni e dolci), ma alla base sempre meno vi sono le attività̀ fisiche (quello che una volta era il lavoro nei campi), il riposo adeguato, la convivialità̀ e la stessa attività̀ culinaria, che impegnava non poco, dalla raccolta alla produzione e alla preparazione del cibo.
Le indagini dimostrano il peso rilevante che ha ancora oggi il verdume selvatico nella dieta mediterranea pugliese, ovviamente nella sua formula di gastronomia tradizionale contribuendo, senza ombra di dubbio, ai benefici salutistici di questa dieta.
Tra gli stili di vita della dieta mediterranea rimane oggi in Puglia la raccolta
e la preparazione culinaria delle erbe selvatiche, pratica che ha “resistito” come condizione di vita del “fare” intorno al cibo (raccogliere, pulire, preparare)
che è un fondamento di base di questa dieta.
E il fare è tanto, poiché bisogna uscire, andar per campi, e soprattutto scegliere quale pianta raccogliere e come prepararla. Nel libro, sono raccolte in un repertorio le specie documentate (206), un numero che pone la Puglia tra le regioni italiane a più alta diversità di specie utilizzate. Di ogni specie si forniscono i dati etnobotanici fondamentali che vanno dall’inquadramento botanico, ai nomi dialettali, alle parti utilizzate, e alle modalità di preparazione culinaria che si può spendere oggi anche sul piano dell’offerta gastronomica. Questo quadro descrittivo “olistico” conferisce all’opera una caratura particolare che arricchisce ulteriormente il valore didattico e divulgativo del saggio.
È nella diversità culturale che si struttura questa tradizione in Puglia, nelle specie e nelle parti utilizzate, nelle preparazioni culinarie.
A dare forza a queste identità culturali vi sono poi gli aspetti etnolinguistici;
con i “Marasciuoli” siamo in Capitanata, con “Cristalli e “Sivoni”
nella Terra di Bari, “Cecoria restu” e “Paparine”
ci proiettano nel Salento.
Non si tratta solo di suoni o di cadenze dialettali, ma di strutture lessicali, etniche, tipiche di una lingua, che proprio i fitonimi popolari, forse più di altri, riescono a esprimere quanto resta di bioculture oggi.
Salvare queste bioculture è strategico per difendere la sovranità alimentare delle comunità locali, innescare dinamiche di recupero delle economie locali, fondamenti teorici ma anche pratici, di sviluppi sostenibili di cui da anni si sente parlare. Nelle bioculture si gioca il futuro dell’Italia dei paesi e dei borghi.
Ma le narrazioni sulle erbe selvatiche sono altre nelle tendenze “green”: mercati delle erbe, cucinare con i fiori, simboli di “mangiar selvatico”, “mangiare spontaneo”. Nuove bioculture? O semplicemente mode? Il libro nato nel solco della ricerca etnobotanica vuole essere un contributo divulgativo di approcci scientifici su quanto abbiamo banalizzato come tradizione.
Il libro
“Vie erbose. Le erbe selvatiche nelle bioculture alimentari mediterranee” di Nello Biscotti e Daniele Bonsanto Ed. Centro Grafico Foggia 560 pagine che strutturano: introduzione,
13 capitoli, integrati di 58 foto (contesti, piante, personaggi), grafici, 25 figure.