ELEONORA DE FONSECA PIMENTEL. INTELLETTUALE E PATRIOTA di Gianluca Anglana numero 28 maggio giugno 2023 Ed. Maurizio Conte
ELEONORA DE FONSECA PIMENTEL
INTELLETTUALE E PATRIOTA
Un esperimento fallito. L’eroismo di coloro che lo vollero ebbe a che fare con l’ingenuità, la purezza dell’idealismo, l’inconsistenza del sogno.
Utopie annichilite dalla reazione del regime, dalla rapacità francese, dall’ostilità della Chiesa e dalla diffidenza della plebe. Tra i protagonisti di questa pagina cruenta e luminosa della storia del Mezzogiorno, una donna.
Si chiamava Eleonora de Fonseca Pimentel, pensatrice,
intellettuale, tra le prime giornaliste d’Europa.
Nacque a Roma il 13 gennaio 1752. La sua famiglia, di nobiltà portoghese, traslocò a Napoli: a causa di tensioni diplomatiche con la Santa Sede, da Lisbona arrivò l’esortazione agli espatriati lusitani a lasciare la città eterna per sottrarsi alle possibili ritorsioni pontificie.
Durante la parentesi rivoluzionaria, le fu affidato il compito di gestire l’organo di stampa che, nelle intenzioni dei rivoltosi, avrebbe dovuto diffondere le ragioni dell’insurrezione. Accettò, sebbene con perplessità, dubbi, titubanze.
Il “Monitore napoletano” ambiva a inoculare le nuove idee nel corpo stanco dello Stato borbonico, scongiurare che restassero intrappolate nei salotti degli aristocratici e dei borghesi insubordinati. Nella realtà il giornale ebbe poca fortuna e nessuna presa tra le masse incolte, che prestavano orecchio con sospettoso sarcasmo a quelle teorie bislacche sulla libertà, sull’uguaglianza, sulla fraternità. La plebe della capitale era anzi incline alla conservazione dello status quo, mentre le istanze dei ribelli faticavano a penetrare nelle remote province del regno.
Come i suoi fratelli di lotta, anche Eleonora immaginava un mondo diverso: più equo, meno oppresso, orientato dalla conoscenza e dall’emancipazione,
attraverso l’istruzione, degli strati inferiori della società.
Aveva intuito che il potere teme il dissenso colto, disinveste sul sapere per un’elementare esigenza di autoconservazione: «educare il popolo» ripeteva, ribadiva, si illudeva. Poetessa del suo tempo, sognava di trasformare i sudditi in cittadini liberi e responsabili. Sognava.
La disillusione parlava invece la lingua scabra di Vincenzo Cuoco: «il popolo non è obbligato a sapere la storia romana per essere felice». E tradiva le divergenze e i contrasti tra i patrioti.
Era già siderale la distanza che, come un abisso, separava un manipolo di intellettuali visionari dal popolo rassegnato a una quotidianità insozzata dal lerciume di stenti, soprusi, espedienti come all’unica opzione possibile. C’era il padre che provvedeva ai figli suoi: «viva lo re, lo pate, tata nostro». Eleonora era doppiamente straniera: per stirpe e per convinzioni.
Era stata una bambina dalla curiosità vorace, precoce nell’apprendere.
Quindi una ragazza affamata di conoscere, conscia dei propri talenti
al punto di guadagnarsi l’accesso all’Accademia dell’Arcadia
e intessere un rapporto epistolare con Metastasio e con Voltaire. Infine la dama ammessa a Palazzo, dove i suoi sonetti e i suoi epitalami in omaggio alla coppia regnante furono accolti con burocratica gratitudine e il riconoscimento di un sussidio in denaro: in una Corte che concedeva credito alle novità filosofiche del Settecento, alle arti e alle scommesse della “monarchia illuminata”, i suoi meriti letterari trovarono accoglienza.
Ma poi tutto andò in pezzi.
Ogni velleità di cambiamento naufragò nell’onda di orrore e violenza vomitata su tutto il Continente dalla Francia regicida: il re di Napoli, Ferdinando IV di Borbone, si trincerò in un dispotismo torvo. Verso i Giacobini che le avevano ghigliottinato la sorella nel 1793, la regina Maria Carolina d’Asburgo sviluppò un odio implacabile, caparbio, paranoico. I progetti dei rivoluzionari, i loro entusiasmi, tutto fu travolto dalle armate sanfediste del Cardinale Ruffo e dalla caduta di Sant’Elmo. Napoli. 20 agosto 1799. Piazza Mercato. Epilogo.
È deciso che la sua sia l’ultima delle esecuzioni. Il sadismo della vendetta regia
esige che Eleonora veda morire tutti prima che tocchi a lei:
Gennaro Serra di Cassano, Monsignor Natale,
Nicola Pacifico.
È ormai senza scampo, stritolata nella morsa tra l’avversione dei monarchi, che le negano il privilegio aristocratico della decapitazione, e il rancore dei lazzari e delle popolane, per i quali aveva sognato un futuro di riscatto. Nel vicolo Sospiro de ‘mpisi, sulla strada verso il patibolo incontra il dileggio, l’umiliazione, l’acredine, la rabbia. È riconosciuta: «a signora ‘onna Lionora che cantava ‘ncopp’ ‘o triato… mo la facimm’ abballà mmiezz’o Mercato».
La piazza del Mercato è ora una fiera pronta a divorarla, un palcoscenico mostruoso, un San Carlo orribilmente sconfinato.
E l’ultimo atto è proprio il suo, fine della sua vita e di un secolo intero.
Mentre sale sullo scaletto, guarda in faccia la città che ha amato, il microcosmo dove realtà e recita si mescolano da sempre in un intrico irresolubile. Mormora poche sillabe.
Si arrende al cappio.
E poi la spinta di Mastro Donato, boia della forca.
E il rumore sordo della corda attorno al collo.
E le urla festanti del popolo sulla piazza, le risate sguaiate, gli insulti, le oscenità.
Donna Eleonora, intellettuale e patriota, poetessa e scrittrice, esce di scena così. E svanisce.
Come al risveglio svanisce la materia effimera, e impalpabile, dei sogni.