DOMENICO STARNONE. IN VIA GEMITO FINISCE IL NOVECENTO
Un fiume in piena e vigoroso, che conserva sempre fresca, genuina e chiara la sorgente.
Nel suo corso ha portato a compimento un’idea novecentesca di Letteratura, culminata in Via Gemito, pubblicato per la prima volta nel 2000 da Feltrinelli, che gli valse
Premio Strega nel 2001,
e ristampato da Einaudi nel 2020, nella collana Supercoralli, riportando in copertina il quadro paterno dei Bevitori, perduto, invano cercato e finalmente ritrovato, di grande rilevanza, nel corso della narrazione, per la relazione complicata e conflittuale tra padre e figlio, che è il fulcro centrale del romanzo: Federico, il padre, considerava il quadro l’apoteosi del suo successo, millantato e inseguito spasmodicamente, in campo pittorico; il figlio, Mimì, voce narrante del romanzo, si era prestato per ore interminabili a fargli da modello, con l’illusione che la fama del padre si sarebbe riverberata su di lui e avrebbe mutato l’indifferenza paterna nei suoi confronti, come per il resto della famiglia.
Nella mia soggettiva percezione di lettrice, Via Gemito chiude
il Novecento letterario italiano con un significativo sbatter di porta,
come avveniva spesso nella casa napoletana di Via Gemito,
in una delle tante furiose litigate con le quali
il padre dava sfogo alla sua irruenza.
Domenico Starnone è un fiume a delta. Il suo sfociare nel mare del nuovo Millennio è un’apertura ampia e fluida in nuove prospettive letterarie, che investono non tanto il contenuto, quanto la forma. Continuando nella metafora del fiume, se le acque delle opere più recenti conservano la stessa composizione per quello che riguarda i temi rispetto a Via Gemito – le relazioni familiari, il peso della memoria, la forza metamorfica del tempo -, pur essendo mosse e agitate da declinazioni e sfumature diverse, è nel vigore e nella capacità dello scorrere, nel fluire delle parole sulla pagina, nello stile che lo scrittore,
nato a Napoli nel 1943, riapre la porta chiusa in faccia al Novecento
con Via Gemito su un nuovo, intenso, esaltante paesaggio letterario
che guarda diritto negli occhi il nuovo Millennio, e scopre
una diversa, turbolenta, cangiante dinamica relazionale.
All’interno di un’ideale percorso della Letteratura italiana – perché la produzione di Domenico Starnone è pienamente Letteratura -, l’importanza dello scrittore napoletano, che tale resta per ritmo della prosa e orecchiabilità della voce, nella mia prospettiva personale, è quella di portare a valle e di lasciar sedimentare il Novecento letterario in un’opera composita, soprattutto a livello stilistico e linguistico, come Via Gemito, e di proseguire il suo percorso nel mare aperto del XXI secolo, con uno stile che si è fatto essenziale, aforistico, pregnante e a livello strutturale condensato e compatto.
Prova di questo nuovo modo di narrare sono le opere recenti:
Lacci, Scherzetto e Confidenza, tutti pubblicati da Einaudi a partire dal 2014, legati in una trilogia libera per indagare con acume e introspettiva perspicacia le relazioni sentimentali e familiari, non più sulla base della testimonianza, incerta e traballante, del figlio di Via Gemito, ma dall’interno della relazione stessa come marito e compagno in prevalenza, senza però acquisire una maggiore stabilità, ma conservando quel tratto malfermo e incerto che è una delle caratteristiche più pregnanti della voce del narratore, scelta consapevole e feconda dello scrittore; per poi confluire e trovare una sintesi, che diventa una pietra miliare a segnare non tanto il percorso fatto, quanto quello che può essere ancora percorso, in Vita mortale e immortale della bambina di Milano, edito nel 2021 da Einaudi sempre nella collana Supercoralli, ma nel divertito formato ridotto.
Quello che lega e differenzia i libri più recenti da Via Gemito
è la domanda “sbagliata” che il lettore si ritrova a porsi nel primo
e che gli si ripropone nei nuovi:
l’intreccio e la confusione tra narratore o protagonista con lo scrittore, tra vicende narrate e personale biografia. Questo mi appare il patto, o forse il tranello, che Domenico Starnone ha messo in campo, con sorriso sornione e accattivante, da Via Gemito e che ha ribadito con conseguenze importanti e fondative per il nuovo Millennio nella trilogia, per poi esplicare in termini pienamente poetici, nel senso di farsi del suo modo di scrivere e di strutturare il racconto, in Vita mortale e immortale della bambina di Milano, già dal titolo nell’endiadi fortemente ossimorica e nell’errore, perseverante e persistente e così incisivamente letterario, del dato anagrafico.
È questo il filo, o meglio la catena, con la quale Domenico Starnone
ha imprigionato i suoi lettori, trascinandoli in un percorso letterario
affabulante e innovativo,
che viene svelato senza più giochi di infingimenti, che pure sono il sale della Letturatura, in Vita mortale e immortale della bambina di Milano, dove la forza delle parole e il vigore dell’immaginazione, la dimensione sfuggente della memoria e la capacità dei ricordi di creare mondi paralleli, la dicotomia, quasi sanata dalla Letteratura quando è vera e mitopoietica, tra vita e morte, tra mortalità e immortalità diventano lampanti, visibili e vissuti, fulcro stesso della narrazione. Tema e struttura, immanenza e trascendenza dell’opera.
Domenico Starnone lo affermava già per Via Gemito in un’intervista:
“Non è importante che ciò che raccontiamo sia tutto realmente accaduto.
L’essenziale è che, di ciò che è accaduto, sia riportata la vita vera,
la vita intensa delle persone conosciute, che ci hanno amato,
ma anche ferito, aiutato a crescere, ma anche tormentato
e che questo miscuglio di odio, amore,
conflitti alla fine, dalla pagina scritta,
venga fuori.”
Leggete alla luce di questa riflessione Vita mortale e immortale della bambina di Milano e vi sarà chiaro su quale “fossa dei morti” lo scrittore vi ha condotto come ingresso nel più autentico antro della Letteratura:
“La cosa migliore, mi aveva suggerito, era che restassi vivo sempre, senza distrarmi e finire per sbaglio sottoterra. Fu allora che, allo scopo di farmi capire che sottoterra non si stava bene, mi parlò per la prima volta della fossa dei morti.”