COSTRUIRE UN MEZZOGIORNO MIGLIORE di Carlo Borgomeo – Numero 2 – Ottobre 2015

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Il tema dello sviluppo del Mezzogiorno è una questione antica, ma sempre aperta, sebbene negli ultimi anni appaia particolarmente debole, quasi marginale rispetto al dibattito politico e istituzionale. 
Da sempre, siamo stati abituati a leggere il problema in termini di divario economico tra Sud e Nord, quindi sostanzialmente in termini di PIL. Ma visti gli esiti di questo approccio, sarebbe quanto meno auspicabile interrogarsi sulla natura reale del divario. Bisogna chiedersi se è soprattutto questione economica, di reddito, o non riguardi piuttosto il grado di coesione sociale, di senso comunitario, di cultura della legalità diffusa e, più precisamente, di qualità della convivenza civile. È evidente che le forti differenze in termini di ricchezza disponibile costituiscono una causa formidabile di differenziazione nelle condizioni di vita ed è sacrosanto ribadire che il Paese, nonostante tutto, ha un obbligo di solidarietà verso il Mezzogiorno.

COSTRUIRE UN MEZZOGIORNO MIGLIORE

 

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Dal secondo dopoguerra in poi lo sviluppo immaginato per il Sud è stato, di fatto, “eterodiretto”: poca rilevanza alle spinte locali, scarsa attenzione ai soggetti emergenti e una preoccupante disattenzione alla qualità. Al contrario, lo sviluppo è un processo lento che andrebbe costruito con il coinvolgimento di tanti soggetti che non possono essere considerati “beneficiari”, ma protagonisti.

Io credo di no. Penso che ormai nessuna credibile prospettiva di sviluppo sia possibile se non si parte dalla convinzione che la priorità vera, nel Sud, è la coesione sociale. La questione meridionale è diventata, se non è sempre stata, una questione sociale: di nuove povertà, di diversi bisogni, di frammentazione del tessuto civile.
Ha senso, quindi, immaginare politiche di attrazione di investimenti in territori a scarsissima cultura amministrativa e con una comunità fortemente disgregata? Ha senso “far girare un po’ di soldi” in incentivi ed agevolazioni varie, senza selezione e senza verifica (seria) dei risultati, con circuiti amministrativi ed istituzionali incapaci di spendere e, soprattutto, solo raramente in grado di farlo bene? E’ giusto, in una prospettiva di sviluppo, attuare svariate misure di sostegno del reddito, non in una logica di trasparente assistenza, ma in mille modalità, molte volte ambigue e clientelari, che spesso provocano ulteriori distorsioni nel mercato del lavoro? Ha senso ignorare che una quota consistente del PIL meridionale è fatto di economia sommersa (che non coincide per forza con quella criminale) e non tentare alcuna politica, se non cicliche e parzialmente efficaci misure repressive? 
Anche in questo caso credo di no. Bisogna partire, innanzitutto, dalla convinzione che

occuparsi seriamente del sociale è una forma di investimento per lo sviluppo di un territorio.

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E’ un aspetto determinante e non un appendice dello sviluppo. Solitamente nessuno è palesemente ostile o contrario alle politiche sociali, ma nei fatti notiamo che queste vengono praticate esclusivamente in condizioni di economia fiorente o in una fase di crescita. Di contro, assistiamo invece a disinvestimenti o tagli. Ma se non c’è una comunità coesa, non c’è amore per le regole e non può esserci sviluppo. 
Il consistente fenomeno della dispersione scolastica, la scarsa capacità di trattenere e attrarre i “cervelli” al Sud, l’abbandono e l’incuria dei beni comuni, l’incapacità di valorizzare il nostro patrimonio, sono solo alcuni esempi di una cultura politica miope che, oltre a provocare effetti diretti all’economia (basti pensare ai costi per gestire le “emergenze” o contenere i danni), privano il Sud e il Paese di un enorme potenziale di sviluppo. Un esempio su tutti è la gestione dei servizi all’infanzia, con un divario tra Nord e Sud e resto d’Europa così grande che dovrebbe essere la priorità di una politica minimamente attenta al “futuro” dell’Italia. In Calabria la copertura di asili nido è poco più del 2%, mentre in Emilia Romagna la percentuale di bambini presi in carico dai servizi per l’infanzia è del 27,3%. Un enorme scarto di opportunità che vale anche per tante altre aree del Sud rispetto a quelle del Centro-Nord. C’è da aggiungere, poi, che il Consiglio Europeo di Lisbona ha individuato per il 2010 l’obiettivo del 33% di copertura relativa al servizio asili nido in ciascun Stato membro. Un divario di cittadinanza, potremmo dire, che parte dalla tenera età e che prosegue, crescendo e intrecciandosi con altre criticità, fino alla maturità e oltre. Che senso ha, quindi, mettere a punto ricchissimi incentivi per attrarre investitori in territori dai quali molto spesso noi stessi vorremmo che i nostri figli andassero via?

Bisogna avviare una battaglia culturale e politica per il Sud che, in primo luogo, si ponga l’obiettivo di andare oltre il divario di PIL tra Nord e Sud e che cambi la gerarchia degli interventi, delle priorità, nella convinzione che la coesione sociale, l’affermarsi di una corretta logica comunitaria, non sono conseguenze, ma indispensabili premesse dello sviluppo.
Occorre riprendere a fare Politica (con la P maiuscola), premiando l’esercizio delle responsabilità, piuttosto che le dichiarazioni di fedeltà, sviluppando una permanente cultura della rete, del confronto, del dibattito, dell’ascolto. Insomma, bisognerebbe ritornare a investire sulle classi dirigenti. In questa sfida il terzo settore dovrebbe giocare un ruolo importante, perché – al di là degli eclatanti casi di cronaca – sa esprimere una possibile novità, portatrice di esperienze e buone pratiche che, nei fatti, sono pezzi di politica vera nei territori. E non mi riferisco solo agli aspetti solidaristici e inclusivi, pur importanti, ma anche alle dinamiche di rete che incrementano percorsi di economia civile e lo sviluppo di un welfare di comunità. 
Se abbiamo in testa un modello che non insegue a qualunque costo improbabili livelli di ricchezza, ma lo sviluppo ordinato e duraturo dei nostri territori, potremo costruire un Mezzogiorno migliore.

 

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