I GIARDINI DEI POMI CITRINI di Giorgio Salvatori – Numero 10 – Marzo 2018

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 I GIARDINI DEI POMI
CITRINI

 

 

È “giardino” la parola più usata per descrivere gli agrumeti
di cui si ammantano, in un tripudio di sfumature dorate,
gli assolati declivi del Meridione.

 

Forse un legame inconsapevole con la leggenda o, secondo alcuni, la memoria degli anni in cui gli aranceti erano architetture arboree ornamentali, in Europa, poiché solo la varietà non edule del frutto, l’arancia amara, era conosciuta e coltivata in Occidente dopo la sua introduzione dall’Oriente. Quando e come questo avvenne, però, è storia ingarbugliata. Si sa soltanto che padre di ogni agrume è il cedro e che l’Asia è la sua patria d’origine. I romani lo conobbero ben presto, anche se ne facevano un uso officinale. Ogni altro agrume, secondo i botanici, deriverebbe da lui. Arance e limoni, però, trionfo di odori e di colori mediterranei, arriveranno più tardi. Prima come abbellimento di ville padronali, infine, ma è questa è storia relativamente recente, come frutti da gustare non soltanto con gli occhi, ma anche con il palato. Un amore non a prima vista, ma solido, quello del nostro Paese con i giardini delle Esperidi.

 

Strano, però, che le vicende legate alla introduzione e alla coltivazione degli agrumi in Italia siano state narrate da pochi e pazienti cultori 

della storia degli agrumi. Una lacuna colmata da una splendida pubblicazione delle Edizioni del Rosone 

e firmata da Nello Biscotti, 

 

pugliese, botanico, con al suo attivo già numerosi saggi sulla flora e la natura della sua regione. Il titolo è Storie di agrumi e paesaggi. I pomi citrini del Gargano. Se l’attenzione e la ricerca sono soprattutto focalizzati sui “giardini” del Gargano, appunto, terra di cui si sono nutriti il corpo e lo spirito dell’autore, la ricostruzione della penetrazione nel bacino del Mediterraneo dei leggendari pomi delle Esperidi è dettagliata e accurata. Biscotti non si limita a definire l’anno o il periodo in cui sulle tavole dei popoli del Mediterraneo si consumano le prime arance dolci (fine del diciottesimo secolo); narra la complessa genesi attraverso cui si giunge alla domesticazione dei pomi selvatici, all’acquisizione di questi frutti esotici nell’alimentazione quasi quotidiana delle nostre famiglie e alla scoperta delle loro proprietà di contrasto per numerose malattie umane.

 

Un lungo viaggio che comincia in Cina, in India, nell’odierno Bhutan, 

in remote regioni del Sudest Asiatico, e che si conclude
nell’esaltazione trionfale che, dei pomi citrini,
sanno celebrare 
i Paesi del Mediterraneo 

e l’Italia in particolare.

 

Non mancano le curiosità. Prima tra tutte la spiegazione del nome “portogallo” che, ancora oggi in alcune regioni, viene usato per riferirsi all’arancia dolce. Una traccia lessicale del periodo in cui si riteneva che questi pomi agrodolci provenissero dal Portogallo, Paese tra i primi a trarre profitto del loro commercio. Fin qui, però, il lavoro di Biscotti si inserisce nel novero delle ricerche dotte mettendo pazientemente insieme i tasselli di un mosaico fatto di richiami storici, citazioni di studi pregressi, elaborazione di dati desunti da fonti specialistiche. Il grande merito della sua opera risiede soprattutto altrove. Ed è duplice. Il primo merito risiede nella fresca lettura mnemonica che l’autore svolge tra i suoi vividi ricordi d’infanzia sul Gargano, l’affresco di un’Italia rurale identica ovunque. Val la pena di trascriverne alcuni: “Il giorno più bello (d’estate, n. d. r.) era quello in cui dicevamo: – Domani ci trasferiamo al giardino – (in corsivo). Si era a luglio e l’idea di poter vedere il mare era fortissima, ma vi era dell’altro e ancora oggi non riesco a decifrarlo fino in fondo.

 

Era probabilmente l’idea di una campagna vissuta, abitata
da tanti bambini, uomini, donne, pescatori che vendevano
alici, sarde, telline, tante volte barattate
con un cesto di arance. 

 

La sera si riunivano in tanti a suonare tarantelle e chiacchierare, discutere, raccontare favole ai bambini. La gioia era probabilmente quella di poter stare con zii, cugini, nonne, tutti insieme a condividere 15-20 metri quadri di una casetta che ogni anno si pitturava con la calce all’interno e di rosso pompeiano all’esterno. C’erano ancora le arance ed ogni momento era buono per mangiarne una e, se si aveva molta fame, bastava strusciarla su una grossa fetta di pane, il tutto condito con tanto olio di oliva che non mancava mai”. Suona lontana questa armonia per chi vive oggi un’infanzia o un’età matura immerse nella inconsapevole distopia del caotico universo digitale. Eppure si tratta di memorie degli anni sessanta del secolo scorso, non di protostoria dell’umanità. Il secondo merito è nella descrizione accurata, la prima, nel suo genere, delle tante varietà di pomi citrini coltivati nel Gargano, dalla loro età dell’oro, quando erano considerati i più pregiati e si esportavano agrumi perfino negli Stati Uniti, fino alla loro decadenza, negli anni dello spopolamento delle campagne, quelli in cui il “giardino delle Esperidi” si cercava in città, nelle metropoli del Nord Italia e addirittura nelle miniere del Belgio, dove morirono tanti nostri connazionali.

 

Ecco allora sfilare davanti agli occhi del lettore, attraverso descrizioni accurate o suggestive immagini fotografiche, arance forti, “femminine”, rugose, a spina, “toste”, limoni lustrini, sanguigni, incannellati,
melangoli bizzarri e tanti altri ancora, dai nomi stravaganti 

e misteriosi, che ci attraggono o ci lasciano perplessi. 

 

E oggi? Oggi qualcosa si muove. La richiesta di arance del Gargano è in ripresa. “C’è perfino un’azienda di bevande analcoliche del Nord che reclamizza alcune bibite come aranciate con succo di agrumi del Gargano” -dice con orgoglio Biscotti e racconta di come questa timida ripresa sia frutto di un lungo e paziente lavoro di ricostruzione della rete di coltivazione, raccolta e commercializzazione degli agrumi del Gargano. Una ricostruzione avviata anche con provocatorie esposizioni pubbliche di frutti abbandonati nei giardini negli anni ottanta e novanta, incontri con rappresentanti politici regionali e nazionali, partecipazione ad una edizione del Salone Internazionale del Gusto a Torino, nel 2000, sostenuta dal graduale interesse di testate radiofoniche e televisive.

 

Fino ad arrivare al riconoscimento IGP (indicazione geografica protetta) per due varietà tipiche, il limone femminello, nel 2006, 

e l’arancia bionda nel 2007.

 

Entrambe possono essere considerate eccellenze del Sud non soltanto perché uniche per colore, sapore, consistenza, resistenza alle avversità climatiche, ma perché rappresentano un mondo degno di essere conservato e tramandato per lo straordinario patrimonio di conoscenze che generazioni di agricoltori ci hanno consegnato. Un modello di coltivazione ammirevole, su terreni talmente impervi che sarebbe difficile ipotizzare altre produzioni agricole di eccellenza con le moderne tecniche di coltivazione. Ci sono tutti gli ingredienti perché “i pomi citrini del Gargano tornino ad essere risorse di qualità” -dice Biscotti, e si tratta dell’unica strada percorribile per salvare anche un paesaggio che resta ancora uno dei più belli e più intatti del Sud. Mutatis mutandis, si dovrebbe “tornare indietro per andare avanti’’. Era una frase, quasi un ossimoro che amava ripetere Tatanka Yotanka, alias Toro Seduto, il grande leader dei Lakota Sioux. Un insegnamento che sembra voler far proprio Nello Biscotti a proposito dei suoi pomi citrini dello Sperone d’Italia e che noi, di cuore, condividiamo.

 

 

 

 

 

LIBRO
AGRUMI

Tavola 1. Rappresentazione di un campione significativo della diversità che ha caratterizzato la storica agrumicoltura del Gargano. 1. Limone incannellato; 2. Limone ovale; 3. Limone fusillo lunario; 4. Limone tunno; 5. Limone sanguigno; 6. Limone lustrino; 7. Limone tondo vecchiarino; 8. Cedro liscio oblungo; 9. Limone tondo vecchiarino; 10. Arancia a pera; 11. Arancia scorciuta; 12. Arancia varlotto; 13. Mandarino meditteraneo; 14. Arancia sferica; 15. Arancia sanguigna; 16. Arancia virgata; 17. Arancia tosta depressa;18 Arancia Patrenostro; 19. Arancio forte; 20. Bergamotto.

in origine

sorvegliato da un drago e dalle figlie di Atlante: Egle, Eritea, Esperetusa, le Esperidi. Questa, in estrema sintesi, è la leggenda, anzi, una versione della leggenda. Una storia che nasce dalla mitologia greca, si intreccia con la leggenda dell’albero dell’immortalità e le vicende della guerra di Troia e giunge fino a noi, con i frutti dorati dei “giardini” del Sud. Pochi, infatti, dalla Sicilia alla Calabria, dalla Puglia alla Campania, usano il termine “agrumeto” per riferirsi alle coltivazioni di arance, cedri, limoni.

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L’ABRUZZO NON ESISTE di Marzio Maria Cimini – Numero 10 – Marzo 2018

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L’ABRUZZO NON ESISTE

 

sarebbe piaciuto a Giorgio Manganelli (1922-1990), che all’Abruzzo ha dedicato pagine terse e solenni, forse le più belle che siano state scritte su questa regione ascosa e spigolosa. Quando l’attraversò in lungo e in largo, nel 1987, scortato dall’automedonte Pino Coscetta, entrambi al soldo del Messaggero, trovò che l’Abruzzo fosse “specializzato nella produzione di freddo” e gli abruzzesi “bizzosi, protervi”, con collane di serpenti, latori di “qualcosa di acre e insieme di angolosamente elegante” 1 e gli piacquero non poco.

 

Non era nuovo alla scoperta dell’Abruzzo, Manganelli: l’attraversò con la sua Bakunina, un motorino anarchico, scendendo direttamente da Milano, sua città natale, dalla quale fuggiva, fuggendo da una madre ebrea convertita cattivissima (“qual è la differenza tra un condor e una madre ebrea? Entrambi ti mangiano il cuore, ma almeno il condor aspetta tu sia morto”), da una moglie che non lo amava, da una figlia in fasce, da un’amante un po’ matta che rispondeva al nome di Alda Merini, andando incontro al suo destino di grande scrittore, a Roma. Allievo, a Pavia, di quel Vittorio Beonio Brocchieri che alla guida di un monomotore solcava i cieli dei due emisferi puntando dritto ai Poli, Manganelli non era neppure minimamente progettato per il viaggio: pingue e nevrotico, attraversato da milioni di incubi e manie, manderà nondimeno corrispondenze mirabolanti e straordinarie dalle sue esplorazioni di mondi lontani e paradossali. Una volta che lasciò Roma per intraprendere uno dei suoi viaggi avventurosi disse che si sarebbe recato a Teramo.
 
In effetti l’Abruzzo è un luogo lontanissimo, per arrivarci senza valicare l’Appennino – che lì tocca i tremila metri del Gran Sasso d’Italia – bisogna compiere un giro intorno alla Terra, e non è detto che non sia 
la maniera più comoda e più veloce per raggiungerlo, se pure 
Boccaccio per indicare luogo nascosto e irraggiungibile 
scrive “più là che Abruzzi”2
 
E la sua distanza dal mondo, la sua albagia un po’ cisposa e un po’ voluttuosa ne fanno un oggetto strano, non pienamente definibile e tantomeno maneggevole. Anche chi v’è nato, solitamente attraversato da un amore selvatico e belluino per questa terra di “sassi, rocce, queste cose che hanno movimenti, spasimi e trasalimenti che durano millenni, e poi brividi di un secondo che fanno strage”3, ha sovente difficoltà a capire la sua terra, che si ostina ad osservare e dalla quale viene ricambiato solo da effimeri segnali d’amicizia, strette di mano calorose e fugaci. 
 
Non stupisce dunque che i foresti facciano fatica a comprendere la natura di questa terra di orsi, camozze e lupi. 
 
Che posto ha l’Abruzzo nell’Italia del XXI secolo? Anzitutto, 
ha un problema di collocazione. La storia del Novecento, curiosamente, l’ha fatta a poco a poco avanzare verso Settentrione: quanti sono oggi 
gli abruzzesi che definirebbero loro stessi pienamente meridionali? 
 
Temo pochissimi. L’Abruzzo d’oggi ha dimenticato i suoi mille anni sotto il Regno di Sicilia, poi quello di Napoli e infine sotto il Regno delle Due Sicilie. Eppure le bizzarre costruzioni degli uomini che appartengono all’ingegneria politica dopo il 1861 non hanno mai sottratto l’Abruzzo a questo suo pristino e antico legame con il Meridione della penisola. Regione più settentrionale del Regno duosiciliano e anzi irriducibile terra di confine (Civitella del Tronto, fortezza estrema posta sul confine col Regno Pontificio, resistette alle truppe sabaude duecento giorni, fino al 20 marzo 1861, ossia fino a tre giorni dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia da parte di Vittorio Emanuele II), l’Abruzzo regnicolo ha guardato cinquecento anni a Napoli quale suo riferimento morale e politico, mentre oggi pensa solo a Roma, a cui è velocemente collegata da due supersoniche autostrade, le più alte d’Europa, le più belle del mondo secondo la scrittrice premio Nobel Alice Munro, che le attraversò nel 2008 restandone incantata. Napoli e tutto il meridione sembrano oggi lontanissimi dall’Abruzzo, e non solo a causa della congenita difficoltà e lentezza dei trasporti su gomma e su rotaia che affligge il sud d’Italia, ma per ben più radicati sentimenti: l’Abruzzo d’oggi si sente appartenente ad un indefinito “centro Italia”, più simile alle Marche, all’Umbria, al Lazio che vantano tra loro apparentamenti storici assai vincolanti e illustri. 
 
Anche l’osservatore che abbia vaghe conoscenze dei popoli e delle terre aprutini – nessuno sa con esattezza i suoi confini e la sua toponomastica è flagellata dall’approssimazione – non è pronto ad ammettere l’Abruzzo tra le regioni del Mezzogiorno.
 
Ma se l’Abruzzo, meridionale e napolitano per storia, costumi, lingua, cucina, dimentica d’appartenere al Sud, ed è negletto e trascurato dal Centro, e alieno e giustamente inaccolto dal Settentrione, cessa d’esistere. Non so se l’Abruzzo sia effettivamente un dono del Sud, ma di certo del Sud è figlio legittimo e non scapestrato: del Meridione conserva la cucina sapida e ingegnosa, fatta di cibi rituali assai legati alla terra e alle stagioni, con una sostanziale distrattezza per i frutti del mare; del Meridione parla la lingua, la cui radice partenopea si avverte ovunque, inasprita dal passaggio dei monti; del Meridione porta i costumi, impreziositi dai lavori a tombolo e da arcaici schemi geometrici; del Meridione condivide, infine e soprattutto, la storia, una lunga storia fatta di seduzioni antiche e di furori ben temperati, a cui ha fornito acute intelligenze e non poche mani d’artista, che contribuirono non distrattamente a compiere i destini pre e post-unitari del Mezzogiorno d’Italia, con esiti quasi sempre felici. 
 
Non è possibile immaginare una storia d’Italia senza considerare il suo ingombrante Meridione, non è possibile immaginare 
una storia del Meridione senza l’Abruzzo.
 
E allora perché questa Regione di un milione e trecentomila abitanti, di poco più piccola della Campania e di poco più grande della Basilicata, è così desiderosa d’affrancarsi dal Sud, pronta ad abbracciare altre storie, altre tradizioni, altre lingue? Forse è il destino di tutte le terre di frontiera, mescolarsi agli altri, non definire con chiarezza i contorni della propria appartenenza, mimetizzarsi e confondersi per il timore di vedersi un giorno assaliti dall’altrui ferocia. È forse questo anche il motivo della sua atavica ospitalità nei confronti di quanti venivano dall’altra parte del Mare Adriatico, non temibili come i Saraceni in Puglia, ma contrappunto commerciale, sponda amica, portatore di Santi Patroni, come quel San Cetteo che protegge Pescara, Porta Aprutii e sera Regni, con ogni probabilità originario dei Balcani, così come dai Balcani viene quell’uso di mangiare le pecore, le stesse pecore che davano una lana di così alta qualità da essere gelosamente protetta e richiesta dai Medici di Firenze e che hanno rappresentato per secoli la maggiore fonte di ricchezza, sulla via del Tratturo Magno, per larghe porzioni della sua popolazione. 
 
Il Tratturo Magno, questa via antichissima, “quasi un erbal fiume silente”4 nelle parole del più abruzzese dei poeti, del più italiano 
dei cuori, Gabriele d’Annunzio, che milioni di pecore e migliaia 
di pastori, per mille anni e forse mille altri ancora, 
 
hanno percorso per fuggire i rigori invernali di questo esportatore netto d’inverno e di freddo che è l’Abruzzo, dai massicci del Gran Sasso e della Majella fino alle spiagge adriatiche e poi giù, ancora, verso i tepori del Tavoliere delle Puglie. È questa la via che conduce a Meridione, è questa la via che gli abruzzesi devono tornare a percorrere per ricongiungersi con la propria storia e andare fiduciosi incontro al destino. È questa la via che, “su le vestigia degli antichi padri”5, porta all’identità più profonda, segna una collocazione nell’Italia di oggi e in un Mondo dai confini sempre più sbiaditi e mutevoli, valica i confini politici delle regioni e conduce ad una nuova concezione degli spazi, costituendo entità spirituali e amministrative nuove e antiche al tempo stesso. Senza memoria delle sue appartenenze illustri l’Abruzzo non esiste.

 

1 -Tutti gli articoli che Giorgio Manganelli scrisse per il quotidiano “Il Messaggero” nel 1987 sono oggi raccolti ne La favola pitagorica, Adelphi, Milano, 2005, da cui sono tratte le citazioni riportate in questo scritto.

 

2 – V. G. Boccaccio, Decameron, Giornata ottava-Novella terza: «Disse allora Calandrino: “E quante miglia ci ha?” Maso rispose: “Haccene più di millanta, che tutta notte canta.” Disse Calandrino: “Dunque dee egli essere più là che Abruzzi.” “Sì bene” rispose Maso “sì è cavelle.»

 

3 –  Ancora G. Manganelli, op.cit., p. 106

 

4 –  G. d’Annunzio, I pastori, da Alcyone, Fratelli Treves, Milano, 1903.

 

5 –  Ibidem.

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E’ SAGGIO? TOTO’: “NO, IO SONO NAPOLETANO”. Cinzia Terlizzi – Numero 9 – Dicembre 2017

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E’ SAGGIO? TOTO’: “NO, IO SONO NAPOLETANO”.

 

 

“Totò è irripetibile, indefinibile, inimmaginabile… Non è un grande attore, è molto di più… è come una maschera, un Pinocchio…”Così Carlo Croccolo, che ha lavorato con Totò in diversi film ma soprattutto ha condiviso con lui vita professionale e personale, set ed amicizia… “Mi considerava suo figlio adottivo, il maschio che non aveva avuto… …io giovane e ribelle, lui severo ma affettuoso… in più Totò era l’asso dei tempi comici ed io gli stavo dietro… fra noi c’era una intesa perfetta”. Al punto che Croccolo è stato anche l’unico doppiatore che Totò, provato dalla malattia agli occhi, accettava… nelle scene esterne di film ad esempio I Due Marescialli con Vittorio De Sica. Incontriamo l’attore che ha da poco compiuto 90 anni a Castelvolturno, dove vive con la moglie Daniela… parlare con lui significa tornare indietro di 50 anni e più, da quando cioè il principe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Pofirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio in arte Totò ci ha lasciato il 15 aprile 1967, unico al mondo ad aver avuto tre funerali, due a Napoli e uno a Roma dove è morto.

 

E tante sono le manifestazioni, iniziative, incontri e spettacoli in tutta Italia che si svolgono in diversi mesi per rendere omaggio
al personaggio e all’uomo Totò.

 

Ovviamente Napoli la fa da padrona con Totò Genio la grande mostra antologica, recentemente allestita a Napoli in tre luoghi, il Maschio Angioino, la sala dorica di Palazzo Reale e San Domenico Maggiore …moltissimi materiali, anche inediti fra foto, disegni, scritti, abiti, il suo baule per far sentire ancora più – semmai ce ne fosse bisogno – Totò vicino a noi e noi vicini a Totò.   “È un sentimento viscerale, un amore fra Napoli e Totò, e Totò e i napoletani – sottolinea Valerio Caprara, storico e critico di cinema – anche se Totò è stato un personaggio universale, profondamente napoletano ma aperto al mondo… La sua grandezza si trova nel meglio della napoletanità, la napoletanità beffeggiatrice… Nessuno dei nuovi comici ha provato a imitare Totò – aggiunge – ce ne sono tanti ma tutti sono costretti a confrontarsi con lui senza poterne mai avvicinare l’eccezionalità, altrimenti si brucerebbero e farebbero brutte figure. 

 

Si può accogliere il testimone di Totò ma non si può replicarlo.”

 

Totò talmente grande e unico che c’è chi vorrebbe portarlo nelle scuole…è Giacomo Poretti del trio Aldo Giovanni e Giacomo… “Balbetto quando parlo di Totò – dice – è unico per l’uso straordinario del corpo proprio del comico e perché è un dinamitardo della lingua… Basti solo pensare alla lettera che detta a Peppino De Filippo in Totò Peppino e la Malafemmina. Lo porterei nelle scuole perché è l’enciclopedia della comicità, perché dobbiamo avere l’aggancio con la storia, conoscere da dove proveniamo e quindi conoscere Totò Charlie Chaplin e Buster Keaton che sono i caposaldi”. Conoscere l’artista, dunque, ma anche l’uomo… Fuori dal set schivo ma generoso… è nota la sua passione per i cani che, come gli aveva un giorno detto un americano, considerava a metà fra un angelo e un bambino. E frequentemente, come racconta Carlo Croccolo, la sera usciva per le strade di Roma con l’attore Francesco Mulè per raccogliere i randagi e portarli nel canile che aveva rilevato da un’anziana signora dove venivano ospitati duecento animali. Generoso anche con le persone “Per me è stato come un padre, un fratello maggiore – confida Ninetto Davoli – sul set mi insegnava alcuni trucchetti per stare davanti alla cinepresa. Era un uomo sensibile, semplice, buono”. L’attore ha iniziato la sua carriera con Totò, che Pier Paolo Pasolini aveva voluto come protagonista di Uccellacci uccellini prima, poi La terra vista dalla luna episodio del film Le streghe e di Che cosa sono le nuvole?, episodio del film Capriccio all’italiana, girato nel 1967 poco prima che Totò morisse e uscito postumo.

 

Con Pierpaolo non sono mai riusciti a darsi del tu – racconta Davoli –
e Totò all’inizio si è trovato in difficoltà perché lui improvvisava, con Pasolini questo non era possibile. Ma come ti vengono tutte ’ste parole? diceva Totò a Pasolini, e lui rispondeva…
ma non sono parole!”.

 

La generosità di Totò viene evidenziata anche dalla nipote Elena Anticoli de Curtis che non ha mai conosciuto il nonno, ma ha vissuto con la nonna Diana, la prima moglie di Totò. Racconta che tra i due l’amore è stato grande lui la adorava ma era molto geloso, eccessivamente geloso… E quando lei se ne è andata Totò ha scritto la canzone Malafemmena, dedicata appunto a colei che gli aveva fatto del male… Fu un grande successo e con i proventi ottenuti regalò una casa a Diana “perché – le disse – questa canzone è tua!”. Ma la generosità più grande, che certo non si è esaurita con la sua morte, è stata quella rivolta al suo pubblico che continua ad amarlo, a ridere e sorridere, a riflettere e ad emozionarsi ogni volta che vede un film, una sua partecipazione o intervista televisiva, o si ascoltano le sue poesie e le sue canzoni. Totò principe della risata, ma non solo, potremmo dire principe della gioia che

 

“ha unito il paese quando c’erano spinte alla divisione, ci ha consolato dopo il dramma della seconda guerra mondiale… ha consolato tutti,
il ricco e il povero, il Nord e il Sud”…

 

Sono parole di Renzo Arbore dette in occasione del conferimento della laurea ad honorem a Totò. Alla cerimonia che si è svolta ad aprile all’Università Federico II di Napoli, era presente anche la nipote Elena: “Nonno avrebbe detto alla faccia del bicarbonato di sodio”… Poi ha aggiunto commossa “Oggi gli viene restituita un po’ della gioia che lui da mezzo secolo regala a noi.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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IL SUD AGGANCIA LA RIPRESA di Francesco Serra di Cassano – Numero 9 – Dicembre 2017

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Il Mezzogiorno è in grado agganciare la ripresa, ma il suo passo è meno sostenuto di quello del resto del Paese. Secondo le stime Svimez, a ottobre 2017 il PIL italiano risulta in crescita dell’1,5%, conseguenza del +1,6% del Centro-Nord e del +1,3% del Sud. 

 

Il quadro è in costante movimento e, tra luci e ombre,
segnala uno stato di salute in leggero miglioramento.

 

Per il 2018, Svimez prevede che le esportazioni e gli investimenti cresceranno più al Sud che al Centro-Nord (rispettivamente +5,4% e +3,1% contro +4,3% e +2,7%) e anche la domanda interna sarà superiore, ma ci sono fenomeni in controtendenza: la fuga dei cervelli (che non si arresta) e la crescita della povertà rischiano di inficiare il consolidamento del processo di sviluppo. La situazione è comunque molto articolata. Nel 2016 il PIL della Campania è salito del 2,4%, quello della Basilicata del 2,1% e quello del Molise dell’1,6. Tutte le altre regioni hanno avuto una crescita inferiore all’1% fino al risultato negativo dell’Abruzzo che ha segnato -0,2%. Tra i settori economici, nel 2016 il Sud ha superato il Centro-Nord nell’industria, nelle costruzioni e nel terziario, mentre il valore aggiunto in agricoltura è tornato a diminuire dopo il boom del 2015. Secondo Svimez, l’aumento del PIL meridionale mostra primi segni di solidità a partire dal recupero del settore manifatturiero, cresciuto del 2,2%, e poi dalla ripresa dell’edilizia (+0,5%) e dal positivo andamento dei servizi (+0,8%), soprattutto nel turismo, anche grazie alla delicata situazione geopolitica dell’area del Mediterraneo che ha dirottato flussi verso il nostro Meridione. A trascinare poi l’evoluzione positiva del PIL nel 2017 e nel 2018 sarà l’andamento della domanda interna, che al Sud registrerà, rispettivamente, +1,5% e +1,4%. 

 

Il dato più interessante del rapporto Svimez riguarda però la pubblica amministrazione, che nel Mezzogiorno sconta un forte ridimensionamento, un dato che sembra in parte sconfessare il luogo comune del Sud
quale fonte di sperpero di denaro pubblico.

 

Tra il 2011 e il 2015 si è avuta una diminuzione di dipendenti pubblici (- 21.500) superiore al Centro Nord (- 17.954) e una spesa pro capite corrente consolidata della PA pari al 71,2% di quella del Centro-Nord, con un divario assoluto di circa 3.700 euro a persona. Tuttavia, secondo il rapporto, la sfida di una maggiore efficienza della macchina pubblica al Sud “passa per una sua profonda riforma, ma anche per un suo rafforzamento attraverso l’inserimento di personale più giovane a più alta qualificazione”. Le emergenze sociali rappresentano il problema più grave del Mezzogiorno. Oltre alla crescente povertà (10 meridionali su 100 risultano in condizioni di povertà assoluta),

 

il rapporto indica come il tasso di occupazione nel Mezzogiorno sia ancora il più basso d’Europa (35% inferiore alla media UE), nonostante nei primi 8 mesi del 2017 siano stati incentivati oltre 90 mila rapporti di lavoro nell’ambito della misura denominata “Occupazione Sud”.

 

La povertà e le politiche di austerità “deprimono i consumi”, soprattutto in terre non più giovani, né tantomeno serbatoio di nascite del Paese: “si sta consolidando- dice Svimez – un drammatico dualismo generazionale, al quale si affianca un deciso incremento dei lavoratori a bassa retribuzione, conseguenza dell’occupazione di minore qualità e della riduzione d’orario, che deprime i redditi complessivi”. Il Sud, infine, a differenza delle altre aree del Paese, resta un luogo di emigrazione che non riesce ad attrarre persone da fuori. La dinamica demografica negativa del Centro-Nord è compensata dalle immigrazioni dall’estero, dallo stesso Sud e da una certa ripresa della natalità, mentre il Mezzogiorno è ancora terra d’emigrazione selettiva (specialmente di qualità), interessata da un progressivo, ulteriore calo delle nascite, due dati che segnalano una difficoltà sistemica dell’economia del Mezzogiorno.

 

 

 

 

 

IL SUD AGGANCIA LA RIPRESA

 

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CRONISTA D’ECCEZIONE: QUASIMODO ALL’AJA 1948 di Carlo Curti Gialdino – Numero 8 – Luglio 2017

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CRONISTA D’ECCEZIONE: QUASIMODO ALL’AJA 1948

 

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I fotografi di tutte le agenzie giornalistiche del mondo facevano scattare gli obiettivi delle loro macchine. Ero accanto a Churchill, all’uomo della guerra, io italiano. Non l’ho saputo ringraziare, io europeo, che sogna un’Europa veramente unita, senza discorsi preliminari, dove ad ogni parola, s’ode il rumore d’uno scoppio lontano, d’un nuovo scoppio che potrebbe bruciare perfino le acque della terra”[1].

 

 
Così Salvatore Quasimodo (Modica, 20 agosto 1901 – Napoli,
14 giugno 1968) chiude la breve, seppur intensa, testimonianza 
della sua partecipazione ad una iniziativa di tutto rilievo fra le
molteplici che hanno contribuito alla nascita della collaborazione
fra gli Stati europei, dopo il secondo conflitto mondiale 
e nel pieno della guerra fredda.
 
Ci si riferisce al Congresso dell’Europa, svoltosi a L’Aja dal 7 al 10 maggio 1948[2], presieduto da Winston Churchill ed ospitato nella sede del Parlamento olandese. Il congresso, che fu definito dal federalista francese Alexandre Marc gli États généraux de l’Europe, aveva l’obiettivo di dimostrare che esisteva una corrente di opinione favorevole all’unità dell’Europa, di discutere dei passi da compiere per realizzarla e di proporre ai governi delle realizzazioni concrete. La salvezza dell’Europa nel 1948, nelle intenzioni degli organizzatori, era vista nella creazione di una federazione degli Stati europei, possibile mediante la creazione d’un organismo internazionale capace di offrire un vasto mercato interno, base d’una solida prosperità; e questo con la ricostruzione tecnica, con la comunità delle risorse, con la divisione dei lavori tra i popoli. Ed in effetti quelle realizzazioni poi ci furono. Tra di esse possiamo ricordare, nell’immediato, la nascita del Consiglio d’Europa nel 1949, associazione di Stati con sede a Strasburgo, che oggi conta 47 membri e la firma a Roma il 4 novembre 1950 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Agli inizi degli anni Cinquanta seguirono la Dichiarazione del Ministro degli esteri francese Robert Schuman (9 maggio 1950), la conseguente istituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA, Parigi 18 aprile 1951), primo ente sovranazionale europeo, progenitore delle Comunità europee (CEE ed Euratom) istituite, come noto, dai Trattati firmati a Roma il 25 marzo 1957, dai quali è nata l’attuale Unione europea.
 
Al Congresso dell’Aja parteciparono circa 800 personalità: uomini di Stato, parlamentari, religiosi di tutte le confessioni, industriali, dirigenti sindacali, economisti, docenti universitari, scrittori, poeti e artisti.
 
Della delegazione italiana, presieduta da Nicolò Carandini, diplomatico e politico, e composta, tra gli altri, da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi[3], Giuseppe Ungaretti e Ignazio Silone, fece parte, per l’appunto, Salvatore Quasimodo[4]. Il poeta ci ha lasciato una vivace e salace descrizione dell’incontro nel saggio Europa één, (Europa unita), pubblicato postumo nel volume A colpo omicida ed altri scritti, apparso nel 1977[5].
 
Con occhio tagliente di osservatore critico, Quasimodo inizia rilevando che “pare che tutte le delegazioni italiane ai congressi internazionali arrivino, per tradizione, nel luogo stabilito per gli incontri,
con ventiquattro ore di ritardo”.

 

Ed anche in questo caso gli italiani arrivarono all’Aja alla fine della prima giornata dei lavori quando le “questioni preliminari” erano state regolate, Churchill aveva pronunciato il suo discorso e le presidenze delle commissioni erano state decise. Per arrivare all’Aja, gli italiani, che viaggiavano in treno su una vettura speciale, avevano dovuto superare cinque frontiere (Svizzera, Francia, Lussemburgo, Belgio e Olanda), quelle stesse frontiere che, dalla fine degli anni Novanta, dopo gli accordi di Schengen, non prevedono più la visita doganale dei viaggiatori. Quasimodo, a beneficio del lettore, ricorda che L’Aja (Den Haag in olandese) deve il suo nome alla Haghe, l’antico terreno di caccia del conte Guglielmo II di Olanda che fece costruire in questi luoghi, nel 1280, il castello ‘s-Gravenhage (L’Aja dei Conti). Nella Sala dei Cavalieri (Ridderzaal) si svolsero le sedute plenarie del Congresso. Con molta ironia, se non sarcasmo, Quasimodo ricostruisce i primi incontri della delegazione italiana con gli altri congressisti: in un albergo di Scheveningen, che è la spiaggia dell’Aja, in cui gli olandesi si difendono dal forte vento “stando seduti sulla sabbia dentro un curioso riparo di vimini, rannicchiati in una specie di culla verticale” e dove ancora oggi il turista ammirato non può sottrarsi al richiamo sorprendente dei rosseggianti tramonti sul Mare del Nord. Ma quella sera l’attenzione degli ospiti riuniti presso il grande salone dell’albergo ristorante “Kurhaus” fu tutta per la delegazione italiana che, essendo anche in questa circostanza giunta in ritardo, “per ragioni di orientamento” (sic!) ed essendo tutti i tavoli occupati, fu fatta accomodare sul palco; il che provocò un lungo applauso dei congressisti, convinti che fossero entrati Churchill o l’Altezza Reale Giuliana… Nella cena offerta, in cui la pastasciutta o la bistecca ai ferri, annota Quasimodo, “erano lontane esattamente ventotto ore di ‘Express’” ed il calice di vino era a pagamento (250 lire di allora, che, rivalutate, corrispondono agli odierni 3,67 euro), le sigarette, confezionate per l’occasione, erano gratuite.

 

Quasimodo partecipò ai lavori della commissione culturale,
presieduta dallo spagnolo Salvador de Madariaga[6], che propose
un Centro europeo della cultura, poi istituito nel 1949 a Ginevra
ed un progetto 
di una università europea, che fu poi alla base
del Collège d’Europe di Bruges, una istituzione post-universitaria
pure creata nel 1949 e divenuta rapidamente un noto centro
di formazione per la futura classe dirigente europea.

 

Quasimodo stronca il discorso di de Madariaga in plenaria, definito “gonfio e retorico, degno di un collaboratore d’una di quelle riviste letterarie che vedono la luce in ogni provincia degli Stati europei”. Ricorda, pure, che l’unico emendamento che la delegazione italiana riuscì a far approvare fu “accessorio, di carattere linguistico: la sostituzione d’un ‘europeo’ al posto d’un ‘occidentale’” e commenta, con le parole del Petrarca, “Italia mia, benché il parlar sia indarno…”. La seduta finale del Congresso si svolse ad Amsterdam nel corso di una grande riunione pubblica sulla piazza antistante il Palazzo reale. Quasimodo ricorda il risuonare dell’inno per l’Europa Unita (Europe united, Europe Unie, Europe èèn), con testo del poeta olandese H. Joosteen e musica del Maestro Louis Noiret, anch’egli olandese e lo sventolio di bandiere bianche con la E di Europa in rosso (vessillo allora del Movimento europeo, disegnata da Duncan Sandys, genero di Churchill, che poi, dopo la riunione dell’Aja[7], pretese che la E fosse colorata di verde). “Addio Amsterdam: il ritorno fu una corsa verso la stazione”. Il bilancio è amaro. Le parole di Quasimodo, che siamo abituati a conoscere quale poeta del dolore umano, sembrano indicare un atteggiamento di sfiducia verso le troppe parole roboanti e le poche conclusioni interessanti. Avrebbe, il poeta, preferito una visita alla città della pinacoteca e dei quattrocento ponti, dei settanta musei e delle due università, piuttosto che restare imprigionato al calar del sole nella ricordata piazza prospiciente il palazzo reale per una cerimonia sfiancante nel susseguirsi di discorsi non sempre pregnanti. Forse troppo provati, alcuni intellettuali, dalle vicende belliche, per coltivare la speranza. L’unico che sembra aver lasciato un segno nell’animo dello scrittore è proprio Churchill, “l’uomo della guerra”, per quel senso di gratitudine e riconoscenza che ogni uomo dell’epoca, ancora intimorito dallo spettro di una pace non duratura, era incline a tributargli. Settant’anni sono passati. La bandiera e l’inno dell’Unione europea non sono più quelli del Congresso dell’Aja del 1948. Sono stati sostituiti, rispettivamente, dalle 12 stelle dorate in campo azzurro e dall’Inno alla gioia della Nona sinfonia di Beethoven[8]. 

 

E, tuttavia, pur tra molte difficoltà e crisi ricorrenti, l’unità dei governi e dei popoli europei ci ha assicurato, dal 1945 ad oggi, il periodo di pace più lungo di sempre nella storia della nostra Europa. Non è poco. Occorre non dimenticarlo mai e ricordarlo sempre
alle nuove generazioni.

 

 

 

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 [1] S. Quasimodo, Europa een, in “A colpo omicida” e altri scritti, a cura di G. Finzi, A. Mondadori, 1977, p.61. [2] A. Varsori, Il Congresso dell’Europa dell’Aia, 7-10 maggio 1948, in Storia contemporanea, rivista trimestrale di studi storici, 1990, n. 3, pp. 463-493; J-M- Guieu & C. Le Dréau (dir.), Le “Congrés de l’Europe” à La Haye (1948-2008), P.I.E. Peter Lang, Bruxelles, 2009. 

 

[3] A. Spinelli, E. Rossi, Per un’Europa libera ed unita progetto d’un manifesto, più noto come Manifesto di Ventotene, scritto nell’inverno 1941 e pubblicato in edizione clandestina nel 1944, con prefazione di E. Colorni con il titolo Problemi della Federazione europea. [4] S. Paoli, The Italian Delegation to the Hague “Congress of Europe”, in J-M- Guieu & C. Le Dréau (dir.), op. cit., pp. 211-222. [5] S. Quasimodo, op. cit., pp. 51-61.

 

[6] La presidenza era stata originariamente offerta a Benedetto Croce, che rinunciò adducendo motivi di salute (S. Paoli, op. cit., pp. 214-215). [7] Riferisce R. Harmignies, Le drapeau européen, in Vexilla Belgica, n. 7, p. 77 che “Malheuresement, lorsque la cérémonie s’ouvrit au Binnehof et n’y avait pas un souffle de vent, tous les drapeaux pendaient mollement le long des hampes, formant ainsi un véritable mer rouge. Le viex Churchill vit rouge égalemen et Mr Sandys fut instamment prié de choisir un autre couleur pour l’emblème de son Mouvement!”. [8] C. Curti Gialdino, I Simboli dell’Unione europea. BandieraInno – Motto – MonetaGiornata, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 2005. 

 

 

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NAPOLI “SPAGNOLA” di Sergio Lambiase – Numero 8 – Luglio 2017

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Che è un paradosso, o una boutade, ma con un fondo irriducibile di verità, soprattutto alla luce della impetuosa “barcellonizzazione” che ha investito Napoli negli ultimissimi anni, nel senso della iridescenza turistica e dello spettacolo insolito delle strade colme di viaggiatori incantati e qualche volta turbati. 

Come la Napoli di trenta o quaranta anni fa, Barcellona una volta era una città grigia, perfino triste, e chi vi capitava, per lavoro o per diporto, a stento si accorgeva del fascino del Paseo de Gracia con i capolavori del modernismo catalano o del fulgore del barrio gotico intorno alla cattedrale sontuosa dedicata a Sant’Eulalia. Poi vennero le Olimpiadi del ‘92 e la città mutò pelle, non più la vita sonnolenta, le strade vuote, la tristeza ereditata dal passato, ma nuove prospettive architettoniche, alberghi eleganti e musei rimessi a nuovo, e via, manco a dirlo, le ciminiere, la caligine, le vecchie fabbriche, i palazzi slabbrati, il grigiore del porto.

 

I tempi nuovi entravano a vele spiegate nella città cara a Gaudí, suscitando il malumore dei vecchi catalani, ma esaltando lo spirito giovanile in chi vedeva nella palingenesi turistica (e sportiva)

della città il motore di una invocata modernità.

 

Nel 2004, il Forum delle Culture, che invano si sarebbe tentato di replicare a Napoli, e con scarsa fortuna, una decina d’anni più tardi, rappresentò un’altra tappa avventurosa della modernizzazione di Barcellona, anche se nel sostituire il nuovo all’antico, qualcosa andava irrimediabilmente perduto. Chi scrive è stato testimone, sia pure occasionale, delle metamorfosi della città delle ramblas ai tempi del Forum. La metropoli aveva la febbre. Il quartiere di Poble Nou, roccaforte della classe operaia barcellonese (quella che aveva impugnato le armi contro i franchisti ai tempi della Guerra Civile) entrava nel mirino degli urbanisti o degli urbanisti-speculatori. La rambla di Poble Nou da ritiro accogliente degli operai delle industrie conserviere si mutava in una strada modaiola, votata alle lusinghe della cucina spagnola e alle ebbrezze della movida. Il piccone demolitore. cominciò a cancellare, nell’antico quartiere, aggraziati edifici di fine Ottocento per sostituirli con arditi, ma allo stesso tempo, anonimi volumi architettonici. Vanamente gli abitanti cercarono di opporvisi, con le “lenzuolate”, i volantinaggi, i piccoli cortei improvvisati che la polizia puntualmente rintuzzava. “Oggi Barcellona è una città trasparente, colorata, vivace, dinamica che piace ai giovani!” disse a commento Joan Clos, in quegli anni applaudito sindaco della metropoli catalana, ignorando malumori e proteste.     

 

La “barcellonizzazione”, nel senso della rigenerazione urbana, in sé, comunque, non è un crimine. Va al più governata, “decelerata”, semmai ricollocata in orbita, se per un eccesso di energia o di spavalderia amministrativa debordasse dai confini che la metamorfosi turistica impone al tessuto e alle forme di vita proprie di una città storica.

 

 Ma come sta vivendo Napoli la sua tardiva “barcellonizzazione”,
e a quali mutamenti la costringe?

 

Napoli è da sempre una città “disfunzionale”, per definizione bella e impossibile, sregolata, orgogliosa della sua “diversità” e irriducibilità, quasi nazione nella nazione, con le sue “leggi”, i suoi capricci, le sua tentazioni di eterna ribelle. Sono cose che sappiamo tutti; ma la “barcellonizzazione”, qualsiasi forma finisca per assumere, invocherebbe anche una misura d’ordine, una “normalizzazione”, un adeguamento agli standard che la modernità, e in particolare la modernità turistica suggerisce nell’epoca dei tour operator, dei voli a basso costo, della sharing economy (nei trasporti, nella pratica delle case vacanza, ecc.). Partenope è in grado di farvi fronte?     

 

Certo è che la città, o per lo meno il paesaggio urbano sta mutando. Sia ben chiaro: a Napoli non è in atto alcuna trasformazione radicale, come è accaduto a Barcellona a tempi delle Olimpiadi. Vedi il caso di Bagnoli in qualche modo la Poble Nou napoletana che non è mai stata investita dalla rigenerazione urbanistica (buona o cattiva che sia), né diventata un Parco tematico come è accaduto nella zona della Ruhr, con il Landschaftspark, all’indomani della dismissione delle acciaierie Thyssen. Stessa musica per la zona di San Giovanni a Teduccio, sul confine orientale della città, rimasta un cimitero di vecchie fabbriche slabbrate, anche se di recente vi si sono insediati i padiglioni dell’Academy Apple. I mutamenti, se vi sono, riguardano per il momento soprattutto la street scene, la buccia della metropoli, con le vie e le piazze principali della città, al Vomero, a Toledo, sui Decumani, nel quartiere di Chiaia, trasformate in veri e propri distretti gastronomici, dove domina il cibo di strada, con le pizze fritte vendute dovunque e le lusinghe del finger food che attrae soprattutto i turisti. Tutto qui? 

 

Per fortuna Napoli, ancor più di Barcellona, è una città di grandi risorse artistiche e di straordinari giacimenti culturali che fanno da nobile contraltare ai fumi molesti delle friggitorie.

 

Mai come in questi ultimi tempi il centro storico è punteggiato di avvenimenti culturali, o di riscoperta di tesori per troppo tempo nascosti alla vista, grazie anche all’impegno di associazioni di volontariato. Qui valgano un paio di esempi.  Quello dei volontari del Touring Club Italiano per il Patrimonio Culturale che hanno messo in luce, con il loro impegno disinteressato, i gioielli artistici della Basilica dei Santi Severino e Sossio o di San Giorgio Maggiore e quello del gruppo “Respiriamo Arte” che ha ridato voce all’antica arte dei setaioli napoletani, guidando i turisti negli ambulacri misconosciuti della chiesa dei SS. Filippo e Giacomo sul Decumano inferiore di Napoli. Certo, ancora molto resta da fare per articolare una coerente narrazione del patrimonio monumentale della città. Basti pensare alla trama magnifica degli ipogei e delle catacombe del quartiere Sanità-Vergini, non sufficientemente valorizzati, a cominciare dall’ipogeo greco-romano dei Cristallini con le struggenti epigrafi greche delle tombe, come quella per Aristagora, sacerdotessa di Leucatea.

 

Uno degli aspetti più interessanti della rinascita turistica di Napoli
è indubbiamente l’attenzione per le arti figurative contemporanee.

 

Risalire la stazione del metrò di Piazza Dante passando in rassegna le opere e le istallazioni di Jannis Kounellis o di Joseph Kosuth è ancora oggi una straordinaria esperienza estetica. Il museo MADRE (il Museo d’arte contemporanea Donnaregina) dopo un periodo in ombra è ritornato a brillare con importanti esposizioni di artisti internazionali. Si deve a Peppe Morra la creazione recente di nuovo museo dedicato all’arte contemporanea, con una vasta collezione di opere sistemate nelle stanze dell’antico Palazzo Cassano Ayerbo d’Aragona, proprio a due passi dalla stazione “Materdei” del metrò progettata da Alessandro Mendini. È merito di Morra anche la nascita, qualche anno fa, del piccolo museo dedicato all’arte “globale” del pittore austriaco Hermann Nitsch. 

 

I tesori artistici di Napoli fanno del centro storico della città e dei quartieri a ridosso dell’antico tracciato delle mura aragonesi un unicum
nel panorama artistico italiano.

 

Resta il problema della sua tutela, nell’assedio della modernità turistica che il processo di “barcellonizzazione” determina col suo luccichio. Troppi negozi nuovi che sostituiscono vecchie botteghe artigianali, troppi micro-abusi nelle facciate e nei cortili di palazzi, troppi vandalismi che fanno a cazzotti col decoro urbano (basti guardare alle scritte che imbrattano mura medievali e reperti romani lungo i decumani), troppi bar, troppi gazebo, troppe pizzerie e friggitorie. Nel lungomare “liberato”, all’odore del mare si è sostituito da tempo quello delle carni alla brace e degli spiedini di pesce.      

 

Negli ultimi tempi è accaduto che il processo di “barcellonizzazione”, che ora investe, o contamina, Napoli, proprio nella metropoli catalana sia improvvisamente arrivata al capolinea. “Non vogliamo essere come Venezia” si è gridato nella città delle ramblas. “Via i turisti, meglio i rifugiati!”. Sono avvisaglie, o per il momento semplici sintomi d’un malessere, nel tentativo di far argine al “nemico alle porte”, leggi il turista, il barbaro moderno che mette i piedi nelle fontane o improvvisa picnic tra le rovine antiche. Ma il turismo di massa è anche un potente, e prepotente, motore economico, tanto più necessario, dopo la deindustrializzazione e la terziarizzazione che hanno investito, a cominciare dagli anni Ottanta-Novanta, Napoli come Barcellona. Che fare, allora? 

 

Chi amministra una metropoli attraente come Napoli (o Barcellona,
o Madrid, o Amsterdam) è come un funambolo
in equilibrio su un filo teso.

 

Basta un momento di distrazione per precipitare nel vuoto – un vuoto di idee e di politiche urbane – con la città abbandonata alle scorribande del turista “mordi e fuggi”. Non sarebbe auspicabile, per una delle più antiche e nobili città del mondo, che il numero delle friggitorie superasse quello degli ipogei o dei musei d’arte, lasciando i Decumani o Toledo preda delle “molestie olfattive”, così definite da una recente sentenza della Cassazione.   

 

 

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NAPOLI “SPagnola”

 

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PASQUALE SCURA – Di Michele Minisci – Numero 8 – Luglio 2017

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PASQUALE SCURA,

 

Un Arbëresh protagonista del Risorgimento Italiano

 

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Erano queste le chiare ed inequivocabili parole che chiamavano il popolo delle provincie continentali dell’Italia meridionale al plebiscito indetto l’8 ottobre 1860 per l’unificazione col resto d’Italia.

Parole coniate dal Guardasigilli Pasquale Scura e verbalizzate da lui stesso nel decreto che promulgava il plebiscito promosso da Vittorio Emanuele e dal Dittatore dell’Italia Meridionale, Giuseppe Garibaldi, controfirmato dal Prodittatore Giorgio Pallavicino Trivulzio, dal Segretario Di Stato degli affari esteri Francesco Crispi, da Luigi Giura – ministro dei lavori pubblici, da Amilcare Anguissola – ministro della guerra, da Raffaele Conforti – ministro dell’interno e dallo stesso Pasquale Scura, nella veste di ministro di grazia e giustizia.

 

Un personaggio, quindi, di primo piano nella storia del Risorgimento italiano, Pasquale Scura, nato nel piccolo paesino calabrese di Vaccarizzo Albanese, di origini arbëresh – gli albanesi arrivati in Italia 

a metà del ‘500-, e morto a Napoli il 12 gennaio del 1868.

 

E nel 150° anniversario della sua morte, a gennaio del 2018, il piccolo Comune arbëresh vuole rendere omaggio al suo illustre concittadino con tutta una serie di eventi politici e culturali, con il coinvolgimento dell’Università della Calabria, della Regione, del Ministero di Grazia e Giustizia e quello dei Beni Culturali, nonché di noti personaggi della cultura e di studiosi della storia d’Italia come Paolo Mieli e Stefano Rodotà, quest’ultimo proprio di origini arbëresh.

 

Un evento che vuole essere non solo testimonianza ma soprattutto analisi degli ideali e della cultura liberale che disegnava l’Unità d’Italia, magari anche in senso federalista, plurale, ma unita, come sognava il Cattaneo e non solo.

 

Un personaggio illustre, lo Scura, la cui conoscenza è oggi favorita dagli studi e dalle ricerche compiute da studiosi come Francesco Perri (autore di un volume a lui dedicato di 447 pagine) o Vincenzo Librandi, entrambi nativi di Vaccarizzo Albanese, i quali, avendo fatto luce su quelle parti della sua biografia che sono rimaste in disparte, trascurate o ignorate, hanno contribuito a ricomporre questa figura nella sua pienezza e complessità. 

 

Queste celebrazioni su Pasquale Scura possono e devono essere lette nelle sue variegate modulazioni, senza enfasi, dopo aver ricordato certamente le grandi speranze di una vera unità d’Italia, ma con compiutezza e severità, inquadrandole oggi anche nell’annosa “questione meridionale”, perché i difficili tempi che stiamo vivendo lo richiedono con forza. E vogliono in un certo qual modo riparare al torto subìto dalla figura dell’illustre personaggio. 

 

Ciò che accade molto spesso è che non sempre c’è chi mette in evidenza i meriti di personaggi importanti e spesso determinanti nella storia di una nazione, di un popolo. “Ma specialmente nell’ottica di quell’arduo progresso attuativo del nostro Mezzogiorno – come ci suggerisce il professore Pietro de Leo, ordinario di storia medioevale presso l’Università della Calabria – non semplice e facile, atteso che ancora oggi è plausibile chiedersi se Cristo sia ancora fermo sui binari…a Eboli o presso la contigua autostrada”.

 

 

 

 

 

 

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LA FABBRICA SALERNITANA DELL’INNOVAZIONE: di Maurizio Campagna – Numero 7 – Aprile 2017

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Il settore farmaceutico costituisce un motore trainante dell’economia nazionale: nel 2015 l’Italia è stata il secondo produttore nell’area UE, preceduta di misura soltanto dalla Germania e staccando la Francia per oltre 6 miliardi di euro nel valore della produzione totale. Quest’ultima ha superato i 30 miliardi. Secondo la Banca d’Italia, dopo la doppia recessione, il settore farmaceutico è l’unico ad aver aumentato la propria capacità produttiva1. Gli addetti superano le 63.000 unità alle quali devono essere aggiunti i 66.000 lavoratori dell’indotto.

LA FABBRICA SALERNITANA DELL’INNOVAZIONE

 

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Nel periodo compreso tra il 2010 e il 2015 l’export italiano del settore ha fatto registrare una crescita del 57% a fronte del valore medio UE del +33%. Anche il Sud fa la sua parte. L’industria farmaceutica, infatti, è presente in modo significativo anche nelle regioni meridionali: in Abruzzo, Campania, Puglia e Sicilia si contano complessivamente più di 13.000 unità tra addetti diretti e nell’indotto. In alcuni distretti, come ad esempio a Bari, Brindisi e Catania, l’industria farmaceutica copre un’elevatissima percentuale dell’exportcomplessivo. Tra le ragioni di questo “miracolo italiano”, un ruolo di primo piano deve essere riconosciuto agli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) che, negli ultimi due anni, sono aumentati del 15%.

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Lo sviluppo e la crescita del settore pharma, infatti, favoriscono virtuose sinergie tra comparti produttivi: si pensi, infatti, alle ricadute positive, anche in termini occupazionali, principalmente nell’ambito della meccanica o del packaging.

L’industria del farmaco è terza per spesa totale in R&S,

dopo quella dei trasporti e quella meccanica, e prima per volume di investimenti in rapporto agli addetti. Le domande di brevetto sono cresciute del 54% e sono più di 300 i prodotti biotech in sviluppo. Il settore farmaceutico ben rappresenta, dunque, quel modello di produzione che, da più parti, è indicato come l’unico in grado di traghettare la stanca economia italiana, al di fuori delle secche di una crisi ormai duratura. Si tratta, infatti, di una crescita economica basata sull’elevata professionalità dei lavoratori: il 53% del totale degli addetti nel settore è costituito, infatti, da personale laureato2. Il pharma, inoltre, più di altri comparti della produzione, vive e si alimenta di ricerca e innovazione. Il buon rapporto con l’Università è quindi cruciale, non soltanto perché gli atenei formano i professionisti che saranno impiegati nelle diverse realtà aziendali del Paese, ma anche perché l’innovazione farmaceutica non può fare a meno della collaborazione con l’industria se si vuole assicurare l’immediata trasferibilità dei risultati della ricerca sul mercato.

In questo contesto si inseriscono le attività del Dipartimento di Farmacia dell’Università degli Studi di Salerno (DIFARMA).

Istituito nel 2010 in applicazione della riforma universitaria Gelmini (l. n. 240 del 2010) che, come è noto, ha sostituito le Facoltà con i Dipartimenti, il DIFARMA riunisce l’esperienza e il lavoro della Facoltà di Farmacia e del Dipartimento di Scienze Farmaceutiche e Biomediche, oggi disattivati, e costituisce la sola struttura scientifica e didattica di riferimento sul “Farmaco”nell’Università di Salerno. Il Dipartimento può contare su una dotazione strutturale e strumentale competitiva e all’avanguardia: 3000 mq di laboratori e attrezzature per un valore superiore agli 8 milioni di euro. Per il completamento della ricerca biologica, farmacologica, medica e farmaceutica è stato creato un moderno stabulario per il mantenimento e l’utilizzazione degli animali da laboratorio per la ricerca in vivo. Il suo funzionamento risponde ai criteri della Good Laboratory Practice e le attività di ricerca al suo interno sono condotte nel rispetto delle disposizioni recate dal d.lgs. n. 116 del 1992 di attuazione della direttiva (CEE) n. 609/86 in materia di protezione degli animali utilizzati a fini sperimentali o ad altri fini scientifici.

Le attività di ricerca del DIFARMA non sono limitate al farmaco, ma si estendono anche ai medicinali di origine biotecnologica e ad altri prodotti salutistici.

Istituito Gli oggetti degli studi condotti dai ricercatori salernitani spaziano dai meccanismi fisiopatologici alla base della malattie acute e croniche, alla loro epidemiologia e prevenzione; dai meccanismi di azione dei farmaci, alle nuove metodologie di valutazione dei medicinali. La ricerca, tuttavia, non è volta soltanto ai prodotti, ma anche all’innovazione dei processi tecnologici di produzione dei medicinali nonché alla scoperta di nuovi metodi intelligenti di somministrazione dei farmaci. Di assoluto rilievo è la produzione di pubblicazioni scientifiche che ha permesso al DIFARMA di ottenere un’ottima valutazione da parte dell’Agenzia Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR).

L’innovazione e la sperimentazione investono anche la formazione: di recente è stato proposto e attivato un nuovissimo Corso di Laurea di primo livello in Gestione e Valorizzazione delle Risorse agrarie e delle aree protette.

Si tratta di un’offerta formativa multidisciplinare che si avvale della collaborazione di altre strutture dell’Ateneo salernitano che fornisce “strumenti tecnico-scientifici tesi a massimizzare l’efficienza delle agrotecniche, migliorare e valorizzare la qualità delle produzioni ottimizzando i costi, intervenire nella compatibilità ambientale delle produzioni e dell’agrosistema, con riduzione degli sprechi e dell’impatto ambientale”. Il nuovo Corso di Laurea è stato pensato e costruito in un’ottica di sviluppo del territorio locale mediante l’inserimento di professionisti agronomi dotati di competenze tecnico-scientifiche, ma anche gestionali e, per questo, in grado di valorizzare le ricchezze paesaggistiche e agricole. L’attenzione al mondo del lavoro e al futuro placement dei neolauereati è testimoniata dal lunghissimo elenco di aziende convenzionate con il DIFARMA per il tirocinio pree post lauream. L’eccellenza nella formazione e nella ricerca rappresentano la via d’uscita da una crisi ormai di lungo corso. L’elevata preparazione dei lavoratori di domani è la soluzione concreta alla fine del lavoro e al lento declino di un sistema di produzione superato e obsoleto. Il DIFARMA rappresenta un esempio di come l’università possa cambiare e adeguarsi alle esigenze del nostro tempo. Il successo di questa realtà, però, sta anche e soprattutto nei valori che ne ispirano l’attività. Il Dipartimento si presenta al pubblico come idealmente collegato alla Scuola Medica Salernitana di cui condivide i principi ispiratori, moderni e attuali:

il laicismo, la tolleranza e l’internazionalità, la collocazione non solo geografica, ma anche culturale, al centro del Mediterraneo, la tutela della salute dell’uomo intesa anche come promozione di uno stile di vita sano, la centralità dell’insegnamento e del rapporto tra docenti e studenti, la tutela delle pari opportunità.

Come non vedere in questo manifesto dei valori non solo una ricetta valida per un Dipartimento universitario, bensì il programma per il rilancio di una società stanca e afflitta dalle sue paure che proprio nella conoscenza potrebbe trovare la sua salvezza?

1 Cfr., L. Monforte, G. Zevi, Un’indagine sulla capacità manifatturiera in Italia dopo la doppia recessione, Questioni di economia e finanza, Occasional Papers, 302, Banca d’Italia, 2016 

2 La fonte dei dati riportati nel testo è il Rapporto Annuale curato dal Centro Studi di Farmindustria Indicatori Farmaceutici, giugno 2016, consultabile al sito www.farmindustria.it

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Bottles of medications and a bowls of weights. Manufacture of me

 

A TRANI SI RESPIRA IL SUD CHE TI AMMALIA di Giorgio Salvatori – Numero 7 – Aprile 2017

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Ciò che, per brevi cenni, qui raccontiamo è la bellezza, il fascino intatto di una città che, per armonia architettonica del suo centro storico, giacimenti culturali ed artistici e ordine urbano, si presenta al visitatore come uno straordinario esempio di Sud da conservare ed imitare.

 

Non soltanto da quell’altro, opaco Meridione, urbanisticamente e socialmente degradato, che ci viene quotidianamente offerto in pasto da impietose cronache televisive e articoli di giornali, ma anche da molte città del più prospero e celebrato Nord italiano.

 

Abbiamo scoperto Trani, l’antica Turenum, grazie all’incontro, organizzato nel suo splendido polo museale, per presentare la sesta edizione del nostro trimestrale. 

 

Non vogliamo autoincensarci descrivendo nei dettagli la cronaca del successo di una manifestazione che ha avuto la regia, questo va detto, di un autorevole personaggio della terra che ci ospitava, il magistrato Giannicola Sinisi. 

 

Va ricordata con calore, invece, la lieta memoria che tutti custodiamo dell’apparire improvviso di una visione stupefacente: il porto incastonato in una cornice impeccabile, il mare luminoso che lo bagna, le mura e il castello federiciani, la chiara cattedrale, l’allegro sciamare di visitatori di ogni lingua e nazionalità, la disciplinata attesa dei pescatori, sul molo, intenti a sciorinare, senza fretta, la propria merce.

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Trascuriamo volontariamente le crude cifre che mostrano come anche Trani (perché è di lei che stiamo parlando) non sia stata risparmiata dalla recente crisi economica internazionale e dal più antico, lento declino del nostro Meridione. 

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SANDRO RUOTOLO di Gaia Bay Rossi – Numero 1 – Luglio 2015

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e nella denuncia delle illegalità in Campania, sua terra d’origine.
Recentemente i suoi importanti servizi sulla terra dei fuochi hanno fatto infuriare il boss camorrista Michele Zagaria che è arrivato a minacciare di morte il giornalista. Per questo, dal mese di maggio 2015, il prefetto di Roma, Franco Gabrielli, ha deciso di assegnargli un servizio di scorta.

SANDRO RUOTOLO

 

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Chiediamo a Sandro Ruotolo un punto di vista, dalla sua esperienza, sulla situazione di Napoli e del sud Italia.

Napoli mi ha trasmesso tutto, soprattutto dal punto di vista professionale: ho infatti iniziato lì la miacarriera e la cosa straordinaria è stata la cronaca, nel senso che tu potevi seguire l’efferato omicidio di camorra e poi avere il summit dei ministri della cultura europei. Quindi è stata una formazione che mi ha consentito di spaziare a 360 gradi. Mi ricordo quando ci fu il colpo di Stato in Libia, con gli americani che intervennero con la portaerei Nimitz, una delle imbarcazioni di guerra più imponenti mai costruite, e questa, dal Golfo della Sirte, passò poi per Napoli e noi ci occupammo dell’avvenimento. Napoli è una città che professionalmente ti dà tante occasioni. Abbiamo avuto l’opportunità di seguire la cronaca ma anche tutti i processi importanti, Enzo Tortora, Elena Massa, che era una giornalista del Mattino, e poi tutti i processi alla camorra. Però, differentemente da tutta quella generazione di giornalisti che oggi sono i “giornalisti per eccellenza”, come Luigi Ferrarella del Corriere della Sera o Peter Gomez che è diventato direttore del Fatto Quotidiano.it, noi abbiamo avuto una formazione più a 360 gradi, e questa è stata la scuola di Napoli.

Napoli certamente dà delle opportunità, anzi proprio in una realtà del genere il talento è piùvirtuoso, cioè emerge di più. Il problema di Napoli, ma non solo di Napoli, è che oggi le intelligenze espatriano, per cui hai ricercatori straordinari che girano il mondo, anche se questo è un problema che riguarda tutto il Paese Italia. Poi, certo, ci sono delle eccellenze: pensa al marchio Marinella nel settore della moda, ma anche all’importanza del settore industriale. Napoli ti dà la possibilità di emergere anche nella complicazione dello stato di fatto. Ricordo Luigi Compagnone, che era uno scrittore e giornalista napoletano, che dava questo quadro di Napoli: un grande arcipelago di isole, dove però non c’è la connessione. Quindi ci sono delle eccellenze che però o emigrano o restano isolate perché non c’è un tessuto industriale. Nel dopoguerra c’è stato al nord lo sviluppo industriale, poi negli anni ’60/’70 qui si è pensato di realizzare le famose cattedrali nel deserto senza valorizzare il territorio meridionale. Si pensava che l’industrializzazione portasse benessere e poi, invece, abbiamo visto i suoi effetti tipo l’acciaio a Taranto e a Bagnoli. Abbiamo visto anche che cosa significa l’industria pesante per l’ambiente, per lo sviluppo e l’ecologia. Oggi c’è una sensibilità completamente diversa anche nel sud Italia. Però, sicuramente, delle eccellenze ci sono e sono molto più diffuse di quello che non traspare dai mezzi di informazione.

Come si può descrivere Napoli senza rimanere intrappolati negli stereotipi?

Andando nella sua periferia. Perché sicuramente Napoli è Piazza Plebiscito, il Maschio Angioino,Mergellina e tutte le altre bellezze mozzafiato che costituiscono il patrimonio di Napoli. Però la bellezza vera di Napoli la devi avere risolvendo le problematiche che ci sono in periferia. Non dobbiamo più pensare che tutto si risolva nei vecchi centri urbani, oggi le città si sono allargate e nelle periferie vive quello che definiamo il ceto popolare, che una volta era anche il ceto operaio. Beh, anche quella è la vera Napoli e solo risolvendo i problemi di quelle persone puoi risolvere una città e farla progredire.

Chi e quali sono le eccellenze di Napoli e della Campania?

Sei nato a Napoli, cosa ti ha trasmesso questa città durante la tua crescita e formazione?

Braccio destro di Michele Santoro a “Servizio Pubblico”, Sandro Ruotolo è un giornalista napoletano di grande esperienza. Ha iniziato la sua professione nel 1974 per il quotidiano Il Manifesto, entrando poi alla RAI e passando successivamente a Mediaset e a La7. Ha collaborato con numerosi programmi televisivi d’inchiesta tra cui Samarcanda, Il rosso e il nero, Tempo reale, Moby Dick e Anno Zero. Giornalista vero a 360 gradi, è stato spesso impegnato in prima linea nelle indagini 

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Quindi Napoli dà delle possibilità ai giovani che vogliono in qualche modo emergere?

Cosa sta facendo Napoli per risolvere i problemi delle periferie?

Il punto è che noi stiamo vivendo la peggiore crisi del dopoguerra. Dalla crisi finanziaria americana del 2007 i segnali di crescita sono minimi e, quindi, sono necessari nuovi forti investimenti. Dopo la grande depressione del 1929 ci fu Roosevelt e il New Deal. Oggi abbiamo bisogno di un altro New Deal. Abbiamo bisogno di investire sul territorio. Si dice che l’edilizia sia il volano dell’economia: quindi ristrutturando i centri storici, ridisegnando l’assetto idrogeologico, potremmo creare lavoro e risolvere ancora altri problemi. Alla base del boom economico degli anni Sessanta ci fu proprio il settore edile. Oggi, come allora, potremmo programmare l’impiego del lavoratore edile per risanare il territorio e ridurre i costi e l’impatto delle emergenze.

Io un’eccellenza la vedo nella risposta dei cittadini al tema della salute e dell’ambiente, sia per quanto riguarda la terra dei fuochi sia per questo movimento Rifiuto Zero. Quella per me è un’eccellenza, con questa idea della salute, del ripristino dell’ambiente e della bonifica del territorio. Questa che protesta e si attiva è una vera eccellenza. In ogni caso, le industrie del nord che per risparmiare soldi hanno interrato i rifiuti nella mia terra, in Campania, lo hanno fatto in ben 19 regioni italiane. Ma noi abbiamo altre eccellenze, sia nei segmenti industriali, sia nelle intelligenze: pensiamo all’università di Napoli che è un polo straordinario. Poi abbiamo anche il settore aerospaziale e l’agricoltura. Esperienze di eccellenza le abbiamo noi, ma ci sono anche in Puglia, in Calabria, in Sicilia. Una nostra eccellenza è anche il turismo, con i territori strepitosi che abbiamo, perché dobbiamo finirla con questa idea malsana dell’industrializzazione e del PIL che deve aumentare a tutti i costi. Oggigiorno l’industria pesante ce l’hai in India piuttosto che in Indonesia: oggi non ha senso fare qui un’acciaieria con le materie prime che debbono arrivare da fuori per nave ecc.; ormai ci si deve specializzare nella qualità e nel recupero energetico.

Papa Francesco, andato a Scampia, ha detto: “La vita a Napoli non è mai stata facile ma non è mai stata triste. È questa la vostra grande risorsa: il cammino quotidiano in questa città produce una cultura di vita che aiuta sempre a rialzarsi dopo ogni caduta”. Quali valori insegna Napoli ai giovani?

La mia immagine di Napoli è Scampia: se io vinco la battaglia di Scampia, che è il famoso quartieredi Gomorra, allora avrò l’immagine vera di Napoli, perché solo lì vivono oltre 100 mila persone.Napoli è sempre stata una città che ha sofferto, dai bombardamenti della guerra al dopoguerra, però ha avuto sempre una grande risorsa, che io sto ritrovando ora: una sua straordinaria identità. Napoli si è ammalata poi con il terremoto – cioè l’identità della città è venuta meno – i napoletani sono cambiati. E’ stata traumatizzante quella scossa di terremoto il 23 novembre dell’80 anche se oggi ci sono stati due avvenimenti che invece hanno ridato a Napoli una certa identità. Che non è folkloristica, non è neo borbonica. Sono la morte di quel tifoso napoletano a Roma, Ciro Esposito, e anche la morte di Pino Daniele: sono stati due shock che hanno messo al centro non la “napoletanità”, ma questa idea di identità, di colleganza, di solidarietà, di stare insieme e di riscoprire questi valori.

Per te sempre ‘Forza Napoli’? Il calcio a Napoli aiuta a dimenticare i problemi che ci sono o è un motivo di orgoglio cittadino?

Il calcio è un motivo di divertimento. Il calcio non è l’oppio dei popoli, ma è un elemento di comunità, è divertente. Io in realtà non sono mai stato tifosissimo di calcio, ne capisco ad un livello minimo, ma devo dire che soprattutto per chi vive fuori, è un legame che hai con la tua città. Io ho i figli che purtroppo non parlano il napoletano, però sono tifosi del Napoli, per cui c’è un elemento che ci unisce. Non è che si recupera l’identità della città attraverso il calcio però è un elemento di coesione. L’identità si recupera attraverso la cultura che a Napoli c’è ed è molto forte. Che piaccia o no Napoli ha un posto importante nella storia d’Italia.

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