che indussero il poeta a non proseguire il viaggio per la Sicilia insieme al suo amico e la conseguente decisione di fermarsi, inizialmente per pochi giorni ma in realtà per oltre due anni, nella città partenopea.
Che la vita di Gabriele d’Annunzio sia stata inimitabile e sregolata lo sappiamo,
ma quel che visse a Napoli nei due anni di soggiorno sotto il Vesuvio
è ancora oggi dai critici considerato tra i momenti più esaltanti
e complicati della sua straordinaria esistenza.
Quello che possiamo dire è che d’Annunzio, già dal suo primo soggiorno all’Hotel Vesuve, è soggiogato e sedotto da quel mare e dallo spettacolo della natura:“In questi pochi giorni ho veduto mille spettacoli diversi e tutti stupefacenti” scrive a Barbara Leoni, sua amante romana dell’epoca, il 3 settembre: “Sono stato a Posillipo, a Pozzuoli, a Baja, a Sorrento, a Capri, per mare e per terra… Sono tornato a Napoli in barca, stasera, dal capo Miseno, costeggiando. E’stata una divina navigazione per un mare divino. Remigavo, come nelle acque di Anzio. Alla punta di Posillipo è caduta la sera; e tutta Napoli è sorta dal mare incoronata di lumi respirando come una creatura misteriosa, nel crepuscolo violetto”.
Neppure il discutibile “talismano” che Barbara gli aveva donato per legarlo a sé –
una ciocca intima – potrà fermarlo dal vivere questa totale e profonda immersione emozionale e quel turbinio di sensi che lo percorrerà nella città partenopea.
È lecito quindi chiedersi, con i critici, se il soggiorno napoletano fu di grande impegno culturale e letterario o si trattò di una breve parentesi nella vita del poeta, fatta di amori proibiti, di vita inquieta e appena segnata da sprazzi poetico-narrativi. Quel che è certo è che d’Annunzio pubblicò nel 1892 due romanzi: L’Innocente, uscito per i tipi di Bideri dopo il rifiuto di Treves, e il Giovanni Episcopo; concluse L’Invincibile con il nuovo titolo Trionfo della morte, mise insieme alcune delle sue migliori raccolte di poesie, come Odi Navali ed Elegie Romane, entrò nella redazione del quotidiano “Il Mattino” diretto dai suoi amici Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao e scrisse tredici “pezzi”, veri e propri saggi decisivi per la sua auto-formazione. Pubblicò con l’editore Luigi Pierro due libretti di novelle – I Violenti e Gli Idolatri – ascoltò Wagner, si invaghì di Nietzsche che legge in un primo momento nell’antologia curata da Lauterbach e da Wagnon, si innamorò della poesia simbolista che concorda con i versi che raccoglierà nel Poema Paradisiaco.Tutto questo e “molto altro” in poco più di due anni.
Il “molto altro” era fatto di continue incursioni a Roma per tacitare Barbarella, soddisfare i suoi appetiti sessuali e calmare le sue crisi di gelosia, ma anche della storia d’amore e di passione voluttuosa con Maria Gravina di Cruyllas, la slanciata ed elegante principessa di Ramacca che si era buttata nella vita mondana sotto il Vesuvio per reagire alle tante delusioni e che, con quella ciocca rossa che trafiggeva come una spada la sua chioma nera, era simbolo di sensualità e seduzione nei migliori salotti napoletani.
Come se non bastasse, il “molto altro” era anche l’avventura con Moricicca, ex amante di Scarfoglio; erano le varie sfide a duello intimate da mariti traditi; gli artificiosi espedienti per sfuggire ai debitori e i tanti episodi boccacceschi finiti nelle aule dei tribunali.
Il periodo napoletano, quello che d’Annunzio chiamò della “splendida miseria”,
fu però certamente il periodo più difficile dal punto di vista economico
nell’esistenza del poeta.
Questo sicuramente perché la sua vita privata si era particolarmente complicata, non solo per la nascita della piccola Cicciuzza, forse il frutto più delicato e desiderato di questa esperienza, ma soprattutto per la convivenza con Maria Gravina che cominciò presto a dare segni di insofferenza e instabilità psichica, e i quattro figli di lei; come pure per i continui spostamenti e viaggi a Roma fatti per tacitare gelosie e risentimenti della moglie, Maria Hardouin di Gallese, e dell’amante romana; e ancora per le tante necessità economiche che arrivavano da tutte le parti, oltre che da questa grande famiglia allargata anche dalla sua casa di origine, in particolare difficoltà dopo la morte del capofamiglia. Non ultimo, per i continui spostamenti di domicilio a cui era costretto, per vari motivi di opportunità e di comodità.
Non si contano gli aneddoti sorti intorno al suo eccentrico protagonismo. Troppo preso dalle vicende amorose, manca un appuntamento con Benedetto Croce, che gli sarà sempre ostile, non accettando tra l’altro l’attacco a De Sanctis per il quale il nostro aveva coniato il termine “intellettuale” mai usato prima in forma sostantivata. La verità è che
tutta la vita di Gabriele d’Annunzio è stata caratterizzata da un intrecciarsi
di situazioni che sembrano a volte soffocare e sommergere il letterato,
ma dalle quali però escono sempre vincenti il poeta e il romanziere.
E così a Napoli.
Il soggiorno napoletano, anche in condizioni di estrema indigenza, fu precursore di occasioni e proposte culturali future e soprattutto fu la testimonianza di come d’Annunzio riusciva ad essere contemporaneamente nella sua duplice immagine di vittima e di protagonista delle sue stesse vicende di vita. A Napoli d’Annunzio ha compiuto trent’anni, è diventato padre per la quarta volta, ha raggiunto una autorevole fama internazionale. Nella città partenopea ha pubblicato romanzi, raccolte, novelle, veri e propri saggi giornalistici tra i più interessanti della sua immensa carriera di scrittore. L’11 dicembre del ‘93 il poeta parte definitivamente da Resina diretto in Abruzzo, lasciandosi alle spalle un periodo sicuramente difficile e doloroso ma anche una esperienza esaltante e un turbine di successi. E quando, subito dopo la sua partenza, Franz Lecaldano un faccendiere dell’epoca, pone in vendita, negli uffici del “Mattino”, la pelliccia del poeta, uno dei tanti “pegni” che avevano permesso a d’Annunzio di sbarcare il lunario, si capì come quella folla di compratori, di curiosi, che si accalcava e accapigliava per entrarne in possesso lo faceva non per avere la spoglia di un vinto… ma il feticcio di un divo!
Il poeta, il grande poeta che aveva scritto le Elegie Romane, le Odi Navali,
il Poema Paradisiaco e che scriverà le Laudi, aveva forse composto
questi versi anche senza avere una… scrivania.
Così, infatti, ci racconta il giornalista Alberto Consiglio in un simpatico articolo sulla “Fiera Letteraria” uscito il 2 settembre 1928: un d’Annunzio che riesce a trovare una vena di ironia e di leggerezza anche in momenti oggettivamente difficili e scoraggianti per chiunque.
L’autore ci racconta che, nel dicembre del 1892, nella dimora di Villa Isabella a Resina, d’Annunzio è alla ricerca disperata di una scrivania consona alla sua importanza di scrittore e
per convincere la baronessa Marianna Cassitto della Marra, che lo aveva generosamente ospitato nella sua elegante abitazione, a comprare
una scrittorio adatto ad ospitare degnamente il grande poeta,
manda alla sua mecenate una supplica in versi.
Nulla sappiamo di questi versi che a Napoli circolavano di bocca in bocca e nei quali abbiamo difficoltà a riconoscere il futuro autore delle Laudi, quindi chiaramente lontani dai fasti letterari del Vate, ma se dobbiamo credere a questa attribuzione, possiamo considerarli utili per capire la condizione di “cattività” che il poeta sta vivendo.
La supplica si presenta in tutta la sua scanzonata leggerezza ed ironia con settenari un po’ ridondanti quasi a simulare quel mondo al quale il testo è indirizzato: un mondo di rituali, di consuetudini, di protocolli anche verbali che ci suggeriscono che il poeta non ha difficoltà a calarsi in quel ruolo adottando, con un sorriso stampato sulle labbra, un linguaggio apertamente forzato querulo e devoto!
Un d’Annunzio inedito in tutti i sensi, con una vena di comicità che ci stupisce per i tempi e le avventure che in questo momento sta vivendo.
Alla Baronessa Della Marra
SUPPLICA
Mia dolce baronessa,
non mi sarà concessa
dunque una scrivania
che in tutto degna sia
dello scrittor famoso?
L’animo generoso
non muoveranno i versi
supplici? Dunque apersi
invano la mia vena?
O amica, gratia plena,
non mi fate languire
per quelle cento lire
che l’antiquario chiede!
Voi sarete l’erede
del morituro sposo.
Domani un prodigioso
flutto d’oro le casse
v’empirà senza tasse…
Che sono dunque cento
lire buttate al vento?
Deh! Fate che domani
sera le belle mani
baronali io vi possa
baciare! Non vi ho mossa
la pietà nel pio cuore?
Orrore! Orrore!! Orrore!!!
È dunque un cor di pietra
che né pure la cetra
d’Orfeo discioglierebbe?
Ahi me, chi l’avrebbe
imaginato! Addio,
baronessa crudele.
Misero Gabriele!
Nella sua innocenza
egli resterà senza
la scrivania. Per cento
lire! Per sole cento
lire! Per cento lire
sole! Ah, meglio morire!
Il vostro cor m’ascolta?
Questa è l’ultima volta.
L’ultima volta sia.
Voglio la scrivania,
quella di cento lire;
o pur voglio morire…
Gabriele d’Annunzio
22 dicembre – sera
“È quasi fuor di luogo” commenta il giornalista, ”aggiungere che, al patriottico scopo di salvare all’Italia le Laudi, la Nave e i più grandi capolavori della letteratura italiana, la baronessa della Marra si affrettò ad acquistare la scrivania.” E la stessa sera il nostro Gabriele “poté baciare riconoscente le baronali mani, nel salotto della principessa di Ottajano, quelle mani che, educate da Sigismondo Thalberg, allietavano di musiche gli uditori”.