QUESTO SUD di Giuseppe Soriero – Numero 15 – Dicembre 2019

cat-sud

QUESTO SUD

 

Giuseppe_Soriero_sud

“Rete delle infrastrutture” e “Rete dei talenti” – Due obiettivi impellenti.
“In particolar modo è necessario ridurre il divario che sta ulteriormente crescendo tra Nord e Sud d’Italia.  

A subirne le conseguenze non sono soltanto le comunità meridionali ma l’intero Paese, frenato nelle sue potenzialità di sviluppo” – ha proclamato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel messaggio per il nuovo anno 2020.

Avevamo colto già codesta sua sensibilità quando, il 14 novembre scorso, la delegazione Svimez ha illustrato al Quirinale il recente Rapporto 2019,

 

presentato alla Camera dei Deputati il 4 novembre, alla presenza del Presidente del Consiglio Conte. La rivista Myrrha, presente alla Camera, adesso lodevolmente apre le proprie pagine a commenti sul tema, per ispirare ulteriore fiducia nei doni del Sud. 

 

A ben pensarci,

 

la fiducia nelle proprie energie è stato il filo conduttore del discorso 

del Presidente Mattarella,  

 

poiché a suo avviso “per promuovere fiducia, è decisivo il buon funzionamento delle pubbliche istituzioni che devono alimentarla, favorendo coesione sociale…. La democrazia si rafforza se le istituzioni tengono viva una ragionevole speranza”.  

E’ questo il sentiero irto e stretto lungo cui si muove da anni la valutazione periodica del Rapporto Svimez: nutrire di speranza la battaglia meridionalista, aggiornando continuamente la lettura critica delle difficoltà meridionali la cui soluzione è elemento strategico per il futuro dell’Italia. Il Nord da solo non ce la può fare, l’Italia ha bisogno dello sviluppo del Sud. Non a caso la descrizione quest’anno paventa i caratteri di un nuovo divario tra l’Italia e l’Europa.

Insomma, negli ultimi dodici mesi è aumentato non solo il dualismo tra Nord e Sud, 

ma l’affanno dell’intero sistema Italia rispetto al resto d’Europa. 

 

“Ristagnano soprattutto i consumi (+0,2%), ancora al di sotto di -9 punti percentuali nei confronti del 2018, rispetto al Centro-Nord, dove crescono del +0.7%, recuperando e superando i livelli precrisi”. 

Tuttavia il Nord Italia non è più tra le locomotive d’Europa dacché talune regioni dei nuovi Stati membri dell’Est superano per PIL alcune regioni ricche italiane, essendo quelle “avvantaggiate dalle asimmetrie nei regimi fiscali, nel costo del lavoro, e in altri fattori che determinano ampi differenziali regionali di competitività”  

 

Fatto 100 il Prodotto interno lordo dell’ Area europea (dei 28 Stati membri), dalle ricerche Svimez si desume che tra il 2006 e 2017 il valore della  Lombardia cede da 138 a 128; il Veneto da 121 scende a 112, l’Emilia scivola da 131 a 119; ad Est il PIL sale: a Praga da 170 a 187, a Bratislava da 147 a 179, a Bucarest da 87 a 144.

Queste cifre hanno indotto subito alcuni importanti giornali a titolare che “Il Nord spegne i motori dell’industria e si ferma anche la locomotiva Italia”, 

 

narrando essi anche il raffreddamento dei ritmi di crescita in Germania, il prevalere della Brexit in Gran Bretagna, il crollo dell’export UE che arriva a lambire aree sicure che finora avevano trainato l’economia italiana, dalla Brianza ad alcune zone dell’Emilia.  

 

La crisi internazionale insomma ha clamorosamente squarciato il velo rendendo lo scenario più netto: o le due aree del Nord e del Sud cresceranno insieme o la ripresa dell’Italia rimarrà sempre più tiepida proprio mentre il Mediterraneo è in ebollizione e spinge comunque verso la modifica di secolari equilibri con protagonisti del tutto inediti: la Cina, con ambiziosi investimenti lungo “La via della seta”; la Russia, che impone un ruolo primario nello scacchiere geopolitico; e adesso anche la Turchia, che vota rapida l’intervento militare in Libia per pesare di più nelle acque del Mediterraneo.

 

E l’Italia che fa ?  

 

Mentre le grandi potenze del mondo si misurano su programmi internazionali d’investimento a fini bellici, militari, di egemonia industriale e commerciale, qui da noi continuano le crociate ideologiche sugli egoismi territoriali e prevalgono le polemiche localistiche sul cosiddetto “regionalismo differenziato” e su ipotesi di sviluppo “ a geometria variabile”. E’ questo il portato di una dissennata dispersione della coscienza unitaria della nazione che si frantuma lasciando ampi varchi al sentimento del “rancore” indentificato dal Censis come elemento coagulante di nuovi egoismi territoriali. E’ appena il caso di ricordare che, nell’inerzia del Sud, ripiegato nel trascinamento prevalente di misure economiche assistenziali, la bulimia nordista è riuscita a concentrare solo per le infrastrutture ben 47,5 cinque miliardi nelle aree del Nord, relegando solo 5,7 miliardi alle aree dell’anoressico Mezzogiorno.

Emblematica in tal senso la foto Svimez del dualismo ferroviario. 

 

Adesso finalmente si comincia a discettare da più parti sul rispetto del criterio del 34% nella ripartizione della spesa statale, ma ancora siamo terribilmente indietro. I dati fermi al 28,4% fotografano gli effetti di quella che alcuni commentatori, ironicamente, hanno definito la “Secessione light”, un paradossale gioco delle parti perpetrato cinicamente ai danni della coesione e della comunità nazionale.  

Proprio la ricognizione sull’uso delle risorse europee del QCS 2000-2006 e del QSN 2007-2013 ha messo in evidenza le fragilità del modello. Quanto il meccanismo italiano fosse inceppato è stato, anni fa, ad esporlo il primo Rapporto Fondazione Hume-Sole 24 Ore:

mentre complessivamente, a partire dal 1992, le disuguaglianze nel mondo 

si riducono il differenziale interno nel caso italiano cresce.  

 

E all’origine degli squilibri italiani c’è non solo il divario del PIL, ma “la fisiologia di un sistema economico che non riesce a trovare una via autonoma di creazione e di distribuzione della ricchezza attraverso il mercato, e che dagli anni ’90 resta vincolato a meccanismi di trasferimento della spesa pubblica in via di assottigliamento”.  

 

Non riuscendo lo Stato ad affrontare questi nodi strutturali del modello, solo in Italia, rispetto ad altre esperienze europee,

ogni 3 anni si è preteso di cambiar nome, tipologia e finalità dell’intervento pubblico con la chiusura e la riapertura di Ministeri e Agenzie,  

 

oscillando tra audaci sperimentazioni di funzioni e di poteri che però non sono riusciti a sradicare il pervicace “gattopardismo” diffuso negli apparati burocratici. Hic Rhodus, hic salta! A 160 anni dall’Unità d’Italia, 25 dopo l’abolizione dell’intervento straordinario e della Cassa per il Mezzogiorno, 50 anni dopo l’entrata in funzione delle Regioni e dopo 10 anni di esaltazione acritica della riforma federalista (legge 42/2009) non si riesce ancora a correggere le visioni contrapposte tra le pretese dell’ egoismo “nordista” di riservare per quei territori ingenti risorse e l’autoisolamento che il Mezzogiorno stesso si è inflitto, incapace di debellare il degrado istituzionale, la gestione clientelare dei fondi pubblici e le incursioni del poteri mafiosi in tutti i gangli dello sviluppo economico.

A questo punto un interrogativo è d’obbligo: come è plausibile stoppare 

lo stucchevole conflitto tra Nordisti e Suddisti, in breve tra gli epigoni 

del “Sacco del Nord” e i cantori dello “Scippo del Sud? 

 

Per intanto Svimez si è recata in Parlamento a documentare che le pretese di alcune Regioni del Nord di trattenere per sé il cd. residuo fiscale era non solo culturalmente, ma anche tecnicamente infondato (audizione Commissione Finanze, Camera dei Deputati, 10/12/2019). Le Regioni meridionali finora hanno solo balbettato; Governo e Parlamento si trovano in questi giorni impelagati a dirimere un contenzioso non facile, per correggere, con le proprie funzioni d’indirizzo e di controllo, i guasti indotti sia dal potere centrale che dalle classi dirigenti meridionali.  

 

Il Rapporto Svimez quest’anno, esaminando i costi enormi del divario italiano, insiste segnatamente sul bisogno di strategie di sviluppo che sappiano competere a livello internazionale.

 

E indica tra le priorità almeno due proposte strategiche che attengono 

alla dotazione di nuove infrastrutture materiali e immateriali, 

per rafforzare l’armatura urbana e per connettere in rete 

le tante competenze giovanili. 

 

Il Sud diventa così l’emblema dell’Italia che può innovare, se si considerano le potenzialità incommensurabili delle condizioni logistiche e territoriali, innanzi nell’utilizzo pieno dei grandi porti, da Gioia Tauro a Napoli a Taranto, a Palermo  che consentirebbero al Sud di essere davvero utile anche al Nord e all’Italia, di essere preziosa cerniera tra l’Europa ed il Mediterraneo.

Il Bel Paese dunque non può indugiare oltre in politiche di corto respiro, 

 

deve saper debellare l’arroganza della mafia, ed anche la complice vischiosità di qui settori della pubblica amministrazione che hanno messo a dura prova la voglia di tanti giovani di vivere e lavorare nelle città meridionali. 

 

Solo così forse sarà possibile risvegliare davvero l’anima del Sud e suscitare fiducia tra le forze più innovative.  

 

Quella fiducia che va trasmessa ai giovani – ha ricordato tuttora il Presidente Mattarella “ai quali viene sovente chiesta responsabilità, ma a cui dobbiamo al contempo affidare responsabilità”.   

 

E’ questo un aspetto di evidente rilievo! La rivendicazione di un ruolo da protagonisti scaturisce proprio da una recente indagine Svimez su un campione significativo di circa 400 allievi che studiano nelle tre università della Calabria. La risposta prevalente e perciò confortante è che

 

essi non vogliono scappare; sono pronti anzi a misurarsi, producendo idee 

per lo sviluppo, cooperando tra loro per delineare 

una vera e propria “Rete dei giovani talenti”.  

 

Una struttura cioè che, attraverso l’uso delle nuove tecnologie, sappia fare leva su tutto ciò che di positivo riescono ad esprimere adesso le università meridionali.  

 

Potrà essere una novità di assoluto rilievo, se finalmente Parlamento, Governo e Regioni decideranno di concentrare, per alcuni anni, ingenti risorse, indirizzando così un uso più virtuoso di fondi europei e nazionali. 

 

La rivista Myrrha saprà approfondire questo confronto e già altri commenti in questo numero cominciano a riflettere efficacemente sull’esodo devastante dei giovani e sull’impellente necessità della tutela dell’ambiente. Io concludo con una solo interrogativo a proposito di giovani, formazione e innovazione. L’anno 2020 si apre proprio con la istituzione di un nuovo Ministero per Università, ricerca, alta formazione; e un Ministero certo da solo non può bastare!

Può comunque indicare la direzione di marcia per una incisiva
competizione italiana, culturale e civile, a livello europeo? 

 

 

 

 Correlato Carmen Lasorella

 Correlato Roberta Lucchini

 Correlato Giorgio Salvatori

simbolo2
ANTEPRIMA3
tra_crisi_europea_bis

 

IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI Parte IV di Francesco Avolio – Dicembre 2019

 

cat-cultura-1
cat-storia
cat-sud

IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI

 

 Parte IV

francescO_avolio

 Correlato parte I

 Correlato parte II

 Correlato parte III

 

1 – Il lessico siciliano e i dialetti “galloitalici”


Raggiunto il 
Lilibeo, si può forse rimanere sorpresi nel ritrovare, un po’ ovunque in Sicilia, voci assai particolari come agugghia ‘ago’dumani ‘domani’, òrbu ‘cieco’, tuma tumàzzu ‘formaggio’, badagghiari ‘sbadigliare’, maritari ‘sposarsi, prender moglie’, scannari ‘uccidere’, tùnniri ‘tosare’, vùgghiri ‘bollire’ e altre ancora. Queste, infatti, oltre a individuare inattese concordanze con il Nord Italia (cfr., ad esempio, il piemontese tumatüma ‘formaggio’ o il ligure tùndar ‘tosare’), si oppongono con una certa evidenza alle corrispondenti voci calabresi settentrionali (e dell’alto Mezzogiorno) acucraicecàtucasualànźuràacciderecarosàvùlleresicuramente più arcaiche.

Il lessico siciliano (e calabrese meridionale), insomma, ci si mostra non di rado più innovatore e anche meno “tipico” di quello del Mezzogiorno continentale.


Come può spiegarsi una simile situazione? Nella testa di molti di noi, infatti, c’è l’immagine (o, se si vuole, lo stereotipo) di una Sicilia regione isolata e conservatrice. Sfrondando di molto un dibattito scientifico ormai annoso, possiamo dire che anche in questo caso c’entrano – sia pure indirettamente – gli Arabi, i quali, dopo la conquista normanna della Sicilia nell’XI secolo, furono spinti, a più riprese, ad abbandonare l’isola, lasciando dietro di sé ampie zone deserte. Per ripopolarle (e ricristianizzarle) alcuni feudatari, provenienti dal Monferrato ed imparentati con la nuova casa regnante, fecero venire coloni dai propri possedimenti (a quel tempo ritenuti generalmente parte della Lombardia), concedendo loro privilegi ed assegnando terre situate in maggioranza nelle zone più elevate, verdi e salubri dell’isola (le più simili a quelle d’origine).

Questi diedero così vita ad una (per noi, oggi) singolare e sconosciuta emigrazione 

dal Nord al Sud – vera anticipazione dell’unità d’Italia – 

e alla cosiddetta Lombardia siciliana;


i loro discendenti sono ancora lì, ad esempio a Novara di Sicilia e a San Fratello (ME), ad Aidone, Nicosìa, Piazza Armerina e Sperlinga (EN), ed hanno conservato, a volte per quasi 900 anni, lingua, costumi, e perfino specialità delle terre di provenienza. Ma un fatto altrettanto eccezionale è che i paesi citati sono solo, come si dice, la punta dell’iceberg: un tempo, infatti, essi – come dimostrano le ricerche storiche e linguistiche recenti svolte, fra gli altri, da Giovanni Tropea, Salvatore C. Trovato e Giovanni Ruffino – erano molti di più, e ciò spiega come mai il lessico siciliano sia stato profondamente permeato da voci di origine settentrionale, o, come dicono gli studiosi, “galloitalica”. Per dare un’idea più concreta della perdurante somiglianza tra i dialetti “galloitalici” di Sicilia e quelli attuali del Nord Italia, citiamo due versi di una filastrocca nella parlata di San Fratello: “Mi côc mi sti det, cu Maria sovra u pet” (mi corico in questo letto con Maria sopra il petto), in cui si osservano, ad esempio, la caduta sistematica delle vocali atone finali delle parole (tranne –a), la semplificazione delle consonanti intense (entrambi i fenomeni si vedono in det e pet) e il passaggio di -p- a -v- (in sovra), tratti assenti in Sicilia e in tutto il Sud, ma ancora oggi riconoscibilissimi dal Piemonte alla Lombardia e all’Emilia-Romagna (ma in det ‘letto’ troviamo anche una spia del contatto plurisecolare col siciliano, e cioè il passaggio della consonante -l-, originaria o ridotta da un precedente -ll-, fino a -d-; cfr. il siciliano bbèddu ‘bello’).

2 – Le radici della presenza greca in Calabria


Varcato di nuovo lo stretto di Messina, se ci spingiamo dopo Reggio Calabria, dapprima seguendo la litorale jonica verso Sud, e poi inoltrandoci lungo la strada che sale verso Bova superiore,

 

entriamo nella zona dove, come si è già accennato, è ancora parlata 

(ma forse, purtroppo, ancora non per molto) una varietà di greco 

(chiamata, sul posto, grico), e che comprende oggi solo gli isolatissimi 

e in parte abbandonati paesi aspromontani 

di Gallicianò e Chorìo di Roghùdi.  

 

Ancora qualche decennio fa, però, erano di parlata greca anche Bova e Roccaforte del Greco, Condofùri, Amendolèa e Roghùdi (paese evacuato nel 1970 in seguito a continue frane e smottamenti), ancora prima (sec. XIX) Cardeto e Montebello, nel XVIII secolo San Pantaleone, Pentedàttilo (che significa ‘cinque dita’), Bagalàdi, San Lorenzo, nel XVI secolo diversi altri centri posti a Nord dell’Aspromonte (Delianuova, Scido, Sinopoli; cfr. Figura 1), mentre ai tempi del Petrarca l’area grecofona includeva pressoché tutta la Calabria meridionale, fino a Squillace e Catanzaro (il suo maestro di greco, madrelingua, era infatti il monaco Barlaam, nativo di Seminara, RC).  

 

Una tale distribuzione, compatta, e indubbiamente diversa da quella, puntiforme, generata da tutte le immigrazioni tardomedievali e rinascimentali che hanno riguardato il Mezzogiorno (come quella albanese, croata, provenzale ecc.),

è stata uno degli elementi alla base dell’affascinante ipotesi di un collegamento

di questi dialetti ellenici – arcaici, ma privi di precisi riscontri nella 

Grecia continentale e insulare – con il greco 

delle antiche colonie della Magna Grecia


(lingua che, va detto, proprio nella Calabria meridionale si mantenne, a livello popolare, ben oltre l’epoca della conquista romana), ipotesi avanzata e sostenuta per decenni dal grande linguista tedesco Gerhard Rohlfs, con il consenso di quasi tutti i colleghi greci, ma avversato, al tempo stesso, da gran parte degli studiosi italiani, con i quali la polemica fu a tratti molto aspra.

3 – Tra Calabria e Lucania


Continuando a risalire la penisola, arriviamo in vista del massiccio del Pollino, tra Calabria e Lucania. Qui, e per l’esattezza a Mezzogiorno dei fiumi Sauro e Agri, e nella Calabria contigua a Nord del Lao e del Crati, si trovano alcuni fra i dialetti più conservativi del gruppo “meridionale”, dove sono rimasti sedimentati fenomeni rari anche nel resto del mondo neolatino o romanzo (i quali, però, è bene sottolinearlo, non danno luogo a drastiche rotture nei confronti delle parlate circostanti).

Questa zona è nota oggi agli specialisti come “area Lausberg”, dal nome 

dello studioso tedesco, allievo di Rohlfs, che la individuò nel 1939, 

descrivendola a fondo


(cfr. Figura 2). Tra le sue caratteristiche conservative ricordiamo un sistema di vocali accentate ancora molto vicino a quello del latino classico, e con precisi riscontri in Sardegna (filë ‘filo’ < FĪLUM, come nivë ‘neve’ < NĬVEM, stèllë ‘stella’ < STĒLLA, come bbèllë ‘bella’ < BĔLLAM, mòrtë ‘morta’ < MŎRTUAM come sòlë ‘sole’ < SŌLEM, crucë ‘croce’ < CRŬCEM come lunë ‘luna’ < LŪNAM), e il mantenimento delle consonanti finali latine -S e -T in alcuni modi, tempi e voci verbali, grazie allo sviluppo di una vocale finale d’appoggio: ad Aliano (MT) vìdësë ‘vedi’, a Teana (PZ) tènëdë na casë ‘ha una casa’, a Oriolo (CS) u sàpësë? ‘lo sai?’, a Maratea (PZ) tènisi ‘tieni, hai’, mi piàciti ‘mi piace’, cu ccapèrati ‘chi capirebbe’ ecc. La conservazione è tanto più rilevante se si fa caso al fatto che la caduta di -S e -T finali latine è molto ben testimoniata già nel I secolo d. C. proprio nel cuore dell’area meridionale, in numerose scritte e graffiti rinvenibili sui muri di Pompei.

4 – Dove finisce il Sud… verso Nord?


Ma, se continuiamo la nostra risalita, e, superando Napoli e la Campania, ci attestiamo nel Lazio meridionale, possiamo chiederci dove finisca il Mezzogiorno dal punto di vista linguistico. I confini amministrativi, infatti (peraltro in questa zona recenti, non anteriori al 1927; Gaeta e Cassino, oggi località laziali, appartenevano infatti alla Campania), non danno indicazioni chiare, e comunque – come si è già detto – non corrispondono mai, nemmeno altrove, a quelli linguistici.  

 

Nella seconda puntata abbiamo parlato di una fascia che unisce il Circeo, sul Tirreno (LT), alla foce dell’Aso (AP) sull’Adriatico, come limite settentrionale dell’area linguistica “meridionale intermedia” o “alto-meridionale”;

ora possiamo precisare che in realtà tale limite, come del resto altri, 

è solo approssimativo (è in buona sostanza quello della chiara e costante presenza della vocale -ë in posizione finale), essendo parecchi i paesi posti a Nord di esso che rivelano ancora tratti tipici del Mezzogiorno.


Come esempio possiamo prendere il dialetto del comune di Sonnino (LT), situato fra Terracina e Priverno, subito a Nord dello storico confine fra Regno delle Due Sicilie e Stato Pontificio (al quale ultimo apparteneva), che, pur mostrando già una fonetica tipica dell’area “mediana” (cioè quella che si estende a Settentrione dei dialetti “meridionali intermedi”), si presenta al tempo stesso fortemente permeato di meridionalismi al livello lessicale e non solo: accattà ‘comprare’ (nel Lazio prevale crombà), accìte ‘uccidere’ vs. ammazzàfatijà ‘lavorare’ vs. lavorà, ’ncignà ‘cominciare, iniziare (ad es. a tagliare un salame)’ vs. comenzà, e ancora dimméllodiccéllo ‘dimmelo, diglielo’ (nap. rimméllë, ringéllë), me sèndo bbóno ‘mi sento bene’ (nap. më sèntë bbuónë) ecc.

Ma anche se continuiamo verso Nord, i tratti meridionali non ci abbandonano 

del tutto, giungendo anzi in prossimità di uno dei due principali 

“spartiacque” linguistici della penisola: la linea Roma-Ancona.


Questa, come del resto l’altra grande demarcazione dialettale, e cioè la linea La Spezia-Rimini, è formata dal sovrapporsi e intrecciarsi di più “confini linguistici” o isoglosse, cioè da linee tracciate, su di una carta linguistica, unendo tutti i punti che, sulla carta stessa, si trovano all’estremità dell’area di diffusione di un certo fenomeno (fonetico, morfologico, sintattico, lessicale ecc.). Sulla linea Roma-Ancona, confluiscono quindi i limiti settentrionali dei tratti più tipici del Centro-Sud (comuni cioè ai dialetti meridionali e a quelli “mediani”), che a sua volta viene così distinto dall’area linguistica toscana o toscanizzata. Si arrestano qui, infatti, fenomeni importanti che abbiamo già incontrato come la metafonesi, il possessivo enclitico, il betacismo, il genere neutro, e antiche voci latine come femmina per ‘donna’ o frate per ‘fratello’ (cfr. Figura 3).

Ma perché questo confine batte proprio qui, e non altrove?


Possiamo concludere con le parole di uno studioso che si è occupato a fondo della questione: la linea Roma-Ancona è infatti

«un confine linguistico antichissimo, in quanto ricalca ancora abbastanza fedelmente la linea che diversi secoli prima di Cristo divideva nell’Italia preromana i territori 

delle popolazioni di lingua etrusca da quelli dei popoli del gruppo linguistico indoeuropeo, italici (Umbri, Sabini) e latini.


Per quanto concerne la Sabina poi, la bassa valle del Tévere da Amelia e Narni fin verso Farfa e Passo Corese segnò anche, nell’alto Medioevo, il limite occidentale dell’espansione del ducato longobardo di Spoleto.»1  

 

Torniamo, insomma, al punto da cui eravamo partiti: non una “arcaicità” linguistica disarmante e anche inspiegabile, ma, semmai, un sinuoso, seducente “filo della continuità”. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

mappe_avolio
risalendo_verso_nord
decoro-cultura

 

RENZO ARBORE E IL SUO SUD PREDILETTO di Gaia Bay Rossi – Numero 15 – Dicembre 2019

cat-arte
cat-cultura
cat-sud
intervist_a_renzo_arbore

 RENZO ARBORE e il suo sud prediletto 

Gaia-Bay-Rossi-arte

nella sua bella casa romana, immersa nel verde, con la vista sulla città e naturalmente piena di oggetti dallo svariato grado di utilità, e poi libri, vinili, fotografie, il tutto condito da un mix di pop e colore. 

Renzo Arbore è un vero, completo, poliedrico artista, termine che, oggi così abusato, appare come una deminutio capitis per un personaggio come lui. E nello stesso tempo è un gran signore, un gentiluomo del Sud, colto, sensibile, aggraziato ed elegante anche nel pensiero e nelle parole, che riporto integralmente così come da lui espresse.

Myrrha, come ha letto, si dedica a dare rilievo a tutto ciò che di bello, 

importante e meritevole di divulgazione viene prodotto nel Mezzogiorno d’Italia. 

In primo luogo lo chiedo a lei, perché è lei stesso un’eccellenza del Sud: 

c’è qualcosa che vorrebbe sottolineare del nostro Sud 

per iniziare questa intervista?  


Beh, se vai sfruculiando un artista, non può non dirti che il Sud – lo dico senza nessun campanilismo – dal punto di vista artistico è forse più produttivo del Nord, ma non solo in Italia. Nel Sud del mondo, aiutati dal sole, c’è una vitalità artistica forse più ampia, più abbondante, non voglio dire migliore, di tutta la restante parte. Pensiamo alla cultura napoletana, alla cultura siciliana, e poi da tutti i punti di vista, anche musicale, umanistico, giuridico, il Sud è veramente un’eccellenza italiana che va fatta conoscere. Tutto questo riconoscendo che il Nord è sicuramente più produttivo dal punto di vista economico e che è molto ospitale nei nostri confronti, perché noi del Sud dobbiamo andare al Nord e far sposare la nostra creatività con l’operosità del Nord. Tutto questo naturalmente ricordando che la Capitale d’Italia è al centro e che ci sono due isole bellissime che sono la Sicilia e la Sardegna.

Con l’Orchestra Italiana ha girato sud e nord non solo dell’Italia ma del mondo.  

 

Devo dire che io ho veramente girato il mondo con la mia Orchestra Italiana, che da 28 anni è diventata l’orchestra stabile più longeva nella storia della musica, e sottolineo “orchestra stabile”. Più lunga, nel jazz, di quella di Duke Ellington che è durata quindici anni. E io con ‘sti napoletani duriamo da 28 anni e siamo andati per il mondo con le canzoni napoletane arrangiate da me.

 

Come Caravaggio, che non era di Napoli ma ha lavorato a lungo a Napoli 

ed è stato determinante per la formazione della pittura napoletana, 

così lei con l’Orchestra Italiana ha in qualche modo consolidato, 

accresciuto e creato una nuova memoria della canzone napoletana 

in Italia e nel mondo.  

 

Ti ringrazio che me lo riconosci, perché c’era un grande equivoco in cui erano caduti persino gli artisti napoletani. Gli artisti napoletani che avevano solo due maître à penser, vendevano la Napoli antichissima popolare e snobbavano la canzone napoletana borghese. C’era un’antipatia da parte di questi due personaggi che non nomino per le canzoni napoletane borghesi, perché queste canzoni bellissime, tranne in pochissimi casi, uno o due, sono state scritte tutte da borghesi, intellettuali finissimi, professori, dirigenti, avvocati e cantavano la Napoli popolare ma erano borghesi, e questo per loro era l’handicap. Così gli artisti napoletani, suggestionati da questi maître à penser così autorevoli, hanno creduto che queste canzoni fossero canzoni del passato. È come credere che la Traviata o la Toccata e fuga di Bach siano pezzi del passato. Non si accorgevano che queste canzoni hanno delle melodie, nelle quali noi italiani, e in particolar modo i napoletani, eccelliamo, che sono le più belle del mondo e le poesie, perché non le chiamiamo soltanto parole, le poesie più belle del mondo. Perché se uno prende Salvatore Di Giacomo, e quindi i grandissimi, come anche Ernesto Murolo, hanno scritto delle liriche meravigliose, sposate a una musica meravigliosa. Io non esito a dire, da colui che ha conosciuto e pratica tutta la musica del mondo, che le canzoni eterne più belle del mondo sono le canzoni napoletane. Poi ci sono le canzoni americane degli anni Trenta, ma sono canzoni molto più commerciali, molto meno profonde, sempre bellissime, Gershwin, Cole Porter; poi ci sono le canzoni brasiliane degli anni Cinquanta, ma quelle popolari forse più importanti dopo le canzoni napoletane sono le canzoni messicane, che tutti ritengono siano cubane o argentine, e invece no, sono messicane. Lì c’è un patrimonio bellissimo, ignorato dalla cultura mondiale, non si sa perché. Come lirica e come melodia le canzoni messicane sono fortissime, però quelle napoletane sono molte, ma molte, ma molte di più.

Le canzoni napoletane parlano spesso di amori tormentati o sofferti. 

 

Sì, è lo stesso soggetto delle canzoni messicane, anche quelle napoletane parlano di amori tormentati, gelosie, morti.

 

Quindi è vero quello che Einstein ha scritto alla figlia e cioè che l’amore
è “la più invisibile e potente delle forze, […] la quintessenza della vita”. 

 

Certo. Queste canzoni parlano d’amore, perché l’amore perbacco è quello lì, meraviglioso, che poi ha mille e mille sentieri. Perché io stesso mi meraviglio, ascoltando le canzoni napoletane antiche, ma non solo le più famose, di come sono andati a scovare certi tic di innamorati, certi momenti, certi vizi. Io ho fatto un film che si chiama Che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene, anche questa è un’intuizione bellissima. Lei lo sta lasciando e lui si lamenta e dice: “Perché mi hai portato in questo posto magico, meraviglioso, degli innamorati, se non mi vuoi più bene”. Ecco, nelle canzoni napoletane ci sono mille di queste idee, anzi di più. Questa è la bellezza di queste canzoni del Sud che adesso sto tentando di far apprezzare dall’Unesco, sperando di farle riconoscere come Patrimonio dell’Umanità. È stata riconosciuta la pizza, che è una cosa straordinaria, spero anche nel valore aggiunto delle canzoni napoletane che sono cantate anche in Cina o in Corea dai loro tenori e soprani, peraltro con accenti meravigliosi. Dovunque sono andato in Cina, ho sempre trovato delle persone a cui ho fatto cantare ‘O sole mio e non puoi immaginare con quanta dedizione ed entusiasmo. Ma poi non solo in Estremo Oriente, anche arabi, tunisini, li ho visti cantare ‘O sole mio. Questa è, non la canzone napoletana più famosa del mondo, ma proprio la canzone più famosa al mondo. Dopo viene Summer Time, e dopo Let it be.

Il suo grande amico Luciano De Crescenzo, da me intervistato qualche anno fa 

per Myrrha, mi raccontò che ‘O sole mio non è stata scritta a Napoli, 

come tutti pensano, ma a Odessa. E questo spiega il perché 

di questa ode al sole, mentre se fosse stata scritta a Napoli, 

dove il sole c’è sempre, non si spiegherebbe. 

 

Sì, ma te lo dico da foggiano, che ha vissuto sette anni a Napoli e ci va spesso: a Napoli loro non capiscono che sono baciati dal sole in quella maniera straordinaria. Napoli è esposta completamente a sud, quindi dal porto, da Castellammare fino al monte di Procida è esposta a sud, così come anche Amalfi e Positano. Quindi il sole quando c’è, quasi sempre, bacia quella città in maniera totale e straordinaria.

A Napoli anche lei è rimasto incantato dal Cristo velato? 

 

È bellissimo. Io ci andavo quando ancora non lo conosceva nessuno. Pensa che mi portò uno studente di medicina. Mi disse: “Devo andare a vedere i due scheletri” (le macchine anatomiche esposte nella cavea sotterranea ndr). Perché in quelli il principe di Sansevero aveva fermato tutto l’impianto circolatorio, non si sa come. Aveva iniettato qualcosa che avrebbe dovuto fermare il sangue e invece era rimasto tutto, c’erano persino i capillari.  Comunque, a Napoli ci sono dei capolavori. Come dice Sgarbi, Napoli è una città che è già cultura. È la verità, Napoli con tutte le dominazioni, con quello che ha avuto, la Napoli sotterranea, è una città che trasuda cultura da tutte le parti e la trasmette. Poi ci sono altre cose meravigliose che i napoletani non sanno e che io individuo da pugliese. A Napoli, siccome non hanno molto il senso pratico come noi pugliesi, o come i romani, i milanesi ecc., fanno anche delle meravigliose cose superflue, inutili. E questo è il segreto della creatività! Perché uno dice: “Io sono appassionato di piante e voglio fare un innesto, voglio fare una cosa particolare”, e da quella semplice azione magari salta fuori una scoperta eccezionale. Non hanno quella cosa tipicamente italiana del “a che serve? Come ci guadagniamo? A chi lo vendiamo?”, loro non partono da questo criterio, ma dalla passione. Ho la passione di dipingere Napoli capovolta? Non venderò mai un quadro, ma lo faccio perché mi piace. Questo è molto singolare e bellissimo.  Ma finiamo di parlare di Napoli se no poi si incavolano i miei amici pugliesi. Anzi, a questo proposito ti racconto una cosa che abbiamo rilevato con il mio amico Lino Banfi, pugliese come me. Noi naturalmente, essendo pugliesi ma innamorati della cultura napoletana come tutti i pugliesi, abbiamo notato una cosa. Banfi, che è curioso, ha detto: “Sai perché i napoletani ridono più di noi? Perché noi pugliesi un po’ invidiamo quelli che stanno meglio di noi”. Noi diciamo: “Oh, guarda che bella moglie che ha il mio amico”, e la guardiamo con invidia, o anche quello che ha la macchina più grande, quello che ha successo ecc. Mentre i napoletani indulgono di più al sorriso perché guardano quelli che stanno peggio di loro. Il napoletano dice: “Meno male che non dormo nell’automobile come questo poveretto”. Hanno questo atteggiamento di essere contenti del loro stato e sono abbastanza soddisfatti rispetto a quelli che stanno peggio di loro. Hanno sempre avuto a che fare con la miseria, con le disgrazie, con le dominazioni, quindi hanno un atteggiamento che la rende una città sorridente, come dico io.

 

Prima di Napoli c’è stata Foggia. 

 

Sì, ho parlato bene di Napoli ma voglio parlare bene anche della mia fucina, Foggia, “reale e preferita dimora di Federico II”. Noi avevamo una proprietà che abbiamo venduto nel dopoguerra, che era proprio la tenuta di caccia di Federico II, in località Cervaro. È una città che non ha grandi vestigia dell’antichità, ma la provincia rispetto alla grande città ti permette di stare per strada e di conoscere tutti: il figlio del ricco, quello che scappa di casa, il delinquente, il poliziotto, il venditore di nocelle, il corteggiatore, la ragazza generosa, tutta una fauna umana. Io poi ho ancora la mia casa in centro, scendo e incontro dei passanti che sono già miei amici, che sono quelli del tennis o quelli con cui ho studiato, mi accodo e si fa la famosa passeggiata per il corso parlando di cose inutili. Che però ti educano, perché incontri quello che ti racconta come si smista la corrispondenza nei vagoni postali delle ferrovie e quell’altro che invece faceva il pilota degli aeroporti militari ad Amendola, il più grande aeroporto militare d’Italia. Insomma, tutte conversazioni interessanti e anche a volte totalmente inutili come quelle del bar notturno, che poi io ho messo anche in Quelli della Notte: “È meglio il mare o la montagna?” Quelle conversazionacce inutili… Così in quegli anni ho conosciuto un campionario umano molto, molto vasto. Dovevo, per sconfiggere la noia, organizzare delle cose culturali, ma anche degli scherzi notturni, quindi una maniera goliardica di passare la sera, perché senza le ragazze che andavano a casa alle otto noi ci ritrovavamo che non sapevamo che fare. Quindi la provincia è diventata una palestra e poi c’era il carattere di noi pugliesi, che abbiamo la grande voglia di sprovincializzarci. Sai, quello che si dice a Bari, “se Parigi avesse lu mare sarebbe una piccola Bari”, è in realtà una spia popolare della nostra voglia di sprovincializzarci. Abbiamo un po’ il complesso di appartenere al profondo Sud, anche se non è poi così profondo come la Sicilia.

Come diceva saggiamente Luciano De Crescenzo, 

“si è sempre meridionali di qualcuno”. 

 

Già. Il pregiudizio che si ha sul Sud in generale è inutile e dannoso. Tu di una persona puoi vederne i difetti e non calcolarne i pregi. Persino di Leonardo da Vinci puoi dire male, puoi dire che non portava a termine le cose, che era vanitoso perché si è autoritratto ecc.

Come vi siete conosciuti e riconosciuti (tra persone fuori del comune ndr

con Luciano De Crescenzo? 

 

Noi ci siamo conosciuti perché avevamo la stessa fidanzatina. Io stavo a Sorrento e avevo ‘sta fidanzatina, Luciano stava a Napoli e aveva ‘sta fidanzatina. La mia fidanzatina diceva: “Vado a Napoli perché sono amica di Luciano De Crescenzo, ingegnere”. Io le chiedevo: “Ma siete fidanzati?” “No”. E la stessa cosa diceva a Luciano su di me. Poi in seguito ci siamo conosciuti, ci siamo confrontati e da lì siamo diventati amici. Naturalmente, siccome era una fidanzatina occasionale estiva, è diventata la prima risata con Luciano, e sul piano della risata ci siamo intesi subito. Noi avevamo una matrice goliardica tutti e due. La goliardia che era ed è considerata una cosa deteriore, perché naturalmente c’è anche una goliardia deteriore, però era una fucina di risate da parte di intellettuali o di futuri intellettuali, che appartenevano tutti all’Unione Goliardica Italiana, pensa a Eugenio Scalfari, Luciano De Crescenzo, Bettino Craxi, Pannella, erano tutti UGI, e tanti altri intellettuali. Erano i ragazzi svegli di quella generazione, prima della mia, che stando all’università aderivano a questo movimento goliardico, per cui mescolavano il basso con l’alto, le leggi della chimica con le parolacce o la religione ecc., ma la matrice era quella ridanciana della goliardia. Questa era la matrice anche per me e Luciano. Poi coincidevano le passioni per la cultura napoletana e per la canzone napoletana che avevo praticato e bazzicato nei sette anni della mia permanenza napoletana. Perché io mi sono laureato in giurisprudenza, ma invece di metterci quattro anni ce ne ho messi sette, perché suonavo anche, frequentavo gli americani, dirigevo il circolo napoletano del jazz, frequentavo Roberto Murolo, Sergio Bruni, tutti i cantanti napoletani, e in più gli studi. Questa cultura con Luciano l’abbiamo condivisa, lui era di una generazione precedente, generazione straordinaria, perché era quella di Raffaele La Capria, di Antonio Ghirelli, di Giorgio Napolitano, di Franco Rosi, grande regista, di Domenico Rea, di Giovanni Ansaldo direttore del “Mattino”. C’era una cultura napoletana meravigliosa, tradizionale, c’era un grande rispetto tra il popolo e la cultura borghese napoletana, che poi è stata cancellata ed equivocata col laurismo. Con Luciano siamo stati amici fino alla fine. È stato sottovalutato dalla critica snob dei “non venditori di libri”, perché Luciano li vendeva. Ha venduto più di venti milioni di libri in tutto il mondo, è lo scrittore che ha venduto più libri al mondo, più di Umberto Eco. E comunque le vendite sono una cosa e il valore un’altra, e Luciano è sicuramente da approfondire. Ora sto rileggendo i suoi libri e ci sono tantissime idee e pensieri profondissimi.

Cosa sta preparando adesso?  

 

Adesso sto preparando due revival, uno con Banfi e Mirabella, un programma pugliese, e poi un programma napoletano ricordando i cento anni dalla nascita di Renato Carosone che ricorrono quest’anno. Speriamo di farlo con Stefano Bollani che è un grandissimo pianista, un’eccellenza italiana anche lui.  Poi mi sto dedicando molto al mio canale: renzoarborechannel.tv dove h24 vengono passate sia cose mie, sia programmi che mi piacciono, che condivido o che sono nelle mie corde: Edith Piaf, Yves Montand, Aretha Franklin, io praticamente faccio il video jockey, mi diverto a mettere dei video che poi servono sia per i millennials, che non li conoscono, ma anche per i nostalgici, Aldo Fabrizi, Lulù, Sandra e Raimondo. Questa è la cosa che più mi affascina, fare il video jockey.

 

Prima mi raccontava una cosa interessantissima sulle origini del jazz. 

 

Sì, ho fatto con Riccardo Di Blasi un programma di un’ora e mezzo per Rai 2 sulle origini siciliane del jazz che vengono sottaciute dagli americani. In realtà, il primo disco nella storia del jazz è stato scritto e composto da un siciliano, Nick La Rocca, trombettista di genitori siciliani, padre di Salaparuta e madre di Poggioreale (entrambe in provincia di Trapani ndr) che, con alcuni altri siciliani trapiantati a New Orleans, fondarono l’Original Dixieland Jass Band (poi trasformato in Jazz) che servì di ispirazione perfino ad Armstrong che lo dice nella sua biografia. Nick La Rocca ha fatto il primo disco nella storia del jazz che si chiama Livery Stable Blues e ha fatto un celeberrimo brano che si chiama Tiger Rag, uno standard che ha fatto il giro del mondo. Ma la verità è che il contributo dei siciliani, così come quello dei neri, dei francesi e dei canadesi che stavano a New Orleans in quel periodo è stato determinante per l’invenzione della musica jazz. A New Orleans c’è un museo italo-americano e c’è anche la più antica gastronomia italiana dove si va a mangiare gli anelletti e le cose siciliane. A New Orleans nel 1835 cominciarono ad arrivare gli italiani perché il governo americano, che aveva comprato la Louisiana dalla Francia, offriva dei terreni gratis a chi era disposto a coltivarli e quindi da Palermo, ma soprattutto dalla zona di Salaparuta, si trasferirono in tanti. Quindi lì c’è una cultura antichissima, perché non erano neanche emigranti, erano coloni. Grazie a questa trasmissione sulle origini siciliane del jazz sono diventato palermitano ad honorem!

Una chicca meridionale per chiudere? 

 

Voglio ricordare che l’America ha avuto i primi italiani amati dagli americani, come Rodolfo Valentino, un attore meraviglioso, che era pugliese di Castellaneta, e un altro pugliese di Foggia, anzi di Cerignola, che è amatissimo dagli americani, che lo fecero sindaco di New York e gli intestarono anche un aeroporto, ora il secondo a New York, che era Fiorello La Guardia. Spero sempre che qualcuno possa decidere di fare una fiction, perché è una storia bellissima, su questo personaggio che fu tanto amato dagli americani.

 

Bene caro Renzo Arbore, ci aspettiamo tante altre belle sorprese da parte sua! 

 

 

Azzurra Primavera
ho_incontrato_uno_dei_pilastri
fine-t-blu

 

DICI SIBARI E SEI NELLA MAGNA GRECIA di Michele Minisci – Numero 15 – Ottobre 2019

cat-storia
cat-arte
cat-sud

DICI SIBARI        E SEI NELLA MAGNA GRECIA 

 

michele_minisci2
Sibari-toro cozzante in bronzo originale

oggi frazione del comune di Cassano allo Jonio, in provincia di Cosenza, ieri tra i centri più importanti e floridi della Magna Grecia, fu fondata tra il 720 e il 708 a.C. da un gruppo di Achei provenienti dal Peloponneso.  

In breve tempo, divenne la meta di migranti provenienti 

anche da altre aree dell’Ellade, 

a cominciare dalla città di Trezene, antico centro dell’Argolide orientale. Sull’origine e la fondazione della polis scrissero Aristotele e lo storico Strabone, che ancora costituiscono le fonti principali per gli studi in materia. 

 

Ci si è chiesti, spesso, quali potessero essere state le motivazioni che spinsero quegli uomini e quelle donne a lasciare i propri luoghi natii per approdare in terre sconosciute. Molto probabilmente, alla base della decisione, anche allora, c’erano ragioni di natura economica e sociale.

 

Migrazione economica ante litteram, insomma, che coinvolse, 

nell’arco di più decenni, molte migliaia di persone.

 

Le spedizioni erano precedute, solitamente, da una chiamata pubblica, rivolta a tutti coloro che desiderassero imbarcarsi. Attraverso una serie di proclami, gli abitanti di una città venivano informati delle prossime partenze e chi voleva far parte della spedizione andava a registrarsi, lasciando il proprio nominativo ai magistrati.   

 

Scrive lo storico Strabone:

 

«La città raggiunse anticamente tanta fortuna che esercitò il suo potere 

su quattro popoli vicini; ebbe assoggettate 25 città; inoltre con le sue abitazioni, riempiva tutt’intorno lungo il fiume Crati un cerchio di 50 stadi 

(ogni stadio corrisponde a 178 m)».

 

Un contributo notevole alla crescita ed allo splendore di Sibari lo diede senz’altro il territorio. La vasta pianura, vocata per la coltivazione dei cereali, e le colline circostanti, ambienti ideali per i vigneti; i monti, da cui attingere materie prime, come legno e argento, ma anche prodotti come miele e lana.  

 

La città della dolce vita (Triphè), passata alla storia per gli interminabili banchetti, per il sofisticato e ricco abbigliamento, per i giochi in onore degli Dei, per il “culto della tranquillità”. A proposito di quest’ultima, si narra che a Sibari le case erano coperte da teli per impedire ai raggi del sole di disturbare il dolce sonno degli abitanti e che dentro le mura della città erano vietati lavori rumorosi!  

 

Nondimeno, stando alle cronache dello storico Diodoro Siculo, Sibari fu anche protagonista di un’intelligente politica di integrazione a favore dei migranti, prevalentemente italici. A proposito di integrazione, oggi tanto problematica!  

 

Grazie all’accoglienza ed all’inclusione di un numero molto alto di persone, accrebbe, infatti, la sua forza e la sua capacità di espansione, potendo contare su un esercito molto potente e motivato.

Nel massimo del suo splendore, Sibari arrivò a controllare un territorio 

che si estendeva a sud fino alla foce del fiume Traente, 

al confine con Crotone, e a nord fino alla piana del fiume Sinni

 

Sul versante tirrenico la sua influenza arrivò fino a Temesa e Terina, tra le attuali Amantea e Lamezia Terme. Fu proprio per la sua politica espansionistica, evidentemente, che intorno al 520 a.C. entrò in conflitto con Crotone, città guidata da un forte spirito moralista, sotto l’egida della scuola di Pitagora.

All’origine degli attriti tra i due centri, secondo la tesi prevalente, ci sarebbe 

la cosiddetta “questione tirannica”, ovvero l’evoluzione democratica 

del regime sibarita, ad opera di Telys, l’ultimo tiranno di Sibari, 

e del suo impero. 

 

Telys è stato definito «un tiranno di stampo o estrazione democratica», giunto al potere con una rivolta popolare, dunque in maniera diversa dai dittatori tradizionali, che generalmente conquistavano il potere con un colpo di Stato, appoggiandosi all’esercito.

 

La sua politica fu di scontro totale con il potere oligarchico, tant’è che scacciò 

dalla città 500 ricchi aristocratici, confiscandone i beni,

 

ed avviò una vera e propria rivoluzione sociale su basi anti-plutocratiche. Gli esuli, com’è noto, trovarono rifugio a Crotone e questo costituì il casus belli che fece esplodere il conflitto tra le due città. 

 

La battaglia finale sarebbe avvenuta nel 510 a.C., in un’area compresa tra la città di Lacinia e l’attuale Piana di Sibari, nei pressi del fiume Traente.

Crotone si impose con le sue armate guidate da Milone, 

l’atleta olimpionico plurivittorioso divenuto stratega dell’esercito.

 

La città viene distrutta e cancellata definitivamente con la deviazione del letto del fiume Crati sull’abitato. 

La sconfitta di Sibari fu dovuta senza dubbio ad interventi esterni. In occasione della battaglia, fu chiamato infatti Dorieo, figlio della prima moglie di Anassandrida, re di Sparta, che giunse con le sue truppe su esplicita richiesta d’aiuto di Crotone.

Il sito archeologico di Sibari 

 

Il sito archeologico di Sibari è ubicato sulla costa Ionica della Calabria a breve distanza dalla foce del Fiume Crati.

Questa parte del territorio calabro, nota topograficamente come Sibaritide vide 

il sorgere, lo sviluppo, l’espansione e poi il declino della grande polis di Sibari; 

qui furono impiantati, in epoche successive alla distruzione della città greca, sovrapponendosi in parte alle sue rovine, prima il centro ellenistico di Thurii 

e poi quello romano di Copia.

 

Questa eccezionale stratificazione fa di Sibari uno dei siti più estesi ed importanti del Mediterraneo di età arcaica e classica.   

 

L’area del parco archeologico è divisa in settori, ognuno dei quali è identificato con il nome del cantiere di scavo: Parco del Cavallo, Prolungamento Strada, Casabianca, Stombi. Tutti i settori, tranne quello di Stombi, sono visitabili.

La visita al Parco Archeologico della Sibaritide rappresenta un percorso a ritroso 

nel tempo che dalla tarda antichità e dall’età romana scende 

ai livelli della Sibari arcaica dell’VIII secolo a.C.; 

 

bisogna però tener presente che, tranne poche eccezioni, i livelli più profondi e quindi più antichi non sono visibili e che quanto è in luce rappresenta la fase più recente, cioè quella della città romana di Copia. 

Il Museo 

 

Inaugurato nel 1996, il Museo della Sibaritide ospita interessanti reperti di epoca greca e romana (vasellame, lamine d’oro, sculture e decorazioni in terracotta), ma anche materiali recuperati in tombe indigene dell’età del Ferro e manufatti di provenienza greca, fenicia ed egiziana a testimonianza degli intensi traffici marittimi dell’epoca. Nel 2013 un’alluvione ha coperto di fango larga parte degli scavi, oggi fortunatamente recuperati.

La città di Sibari lascia una traccia importantissima nella Storia 

come una delle più importanti e sfarzose città del mondo occidentale,

il cui periodo storico di oltre duecento anni trascorsi proprio qui, nella nostra Calabria, onorano così questa regione bellissima e sventurata allo stesso tempo.  

 

Recentemente il sito Casa Bianca ha ricevuto dalla Unione Europea un contributo di 500.000 € per ampliare l’accessibilità del sito e i percorsi pedonali – come mi dice la dottoressa Adele Bonofiglio, direttore del Museo Archeologico della Sibaritide, e un altro milione di euro per la predisposizione di nuove vetrine per accogliere altri importanti ritrovamenti oltre all’ormai noto reperto bronzeo del 5° secolo a.C. il Toro cozzante.  

 

 

 

 

 

 

fine-t-storia
sibari_di_fronte_al_mare

Credit foto: gentile concessione Direzione Museo e Parco Archeologico di Sibari

 

LA LEGGEREZZA DELLA CULTURA di Francesco Festuccia – Numero 15 – Ottobre 2019

cat-cultura-1
cat-sud

 

 

LA LEGGEREZZA DELLA CULTURA

 

festuccia_cultura

Se insomma, per chi vive più su dell’Appennino e del Po, l’Italia peninsulare appare spesso come un territorio omogeneo, senza grandi articolazioni interne, tuttavia la consapevolezza di una qualche differenza, anche linguistica, tra le due più note e popolose realtà del Mezzogiorno non può dirsi rara o poco comune.

 

Scomodiamo Calvino per parlare di una realtà particolare e forse unica, che della leggerezza fa il suo marchio di fabbrica.

Siamo andati in Calabria a stanare un gioiello di imprenditoria culturale,


un dono del Sud all’Italia, che parte da un piccolo centro nel 2004 per diventare oggi una realtà affermata a livello nazionale e oltre. 

Coccole Books, casa editrice specializzata nella letteratura per l’infanzia, decolla da Belvedere Marittimo, provincia di Cosenza, con il mare davanti e la natura selvaggia del Pollino dietro. Nasce dalla passione di una coppia (nella vita prima, nel lavoro poi) che sceglie di lasciare le proprie professioni originarie (lui ispettore assicurativo, lei avvocato) per fare insieme qualcosa di nuovo e creativo. In un settore meraviglioso, complesso, avventuroso: quello dei libri per bambini e ragazzi, dagli albi illustrati per i più piccoli alle prime storie per le elementari fino ad entrare nel mondo dei romanzi per adolescenti.  

 

Parliamo di leggerezza: all’inizio il loro progetto prende il nome irriverente di Edizioni Coccole e Caccole. Il nome poi si è trasformato, la casa editrice è cresciuta e si è allargato anche il target dei lettori. Ma lo spirito resta scanzonato.

Si parla di libri per bambini e ragazzi,

 

dove la seriosità (attenzione, non la serietà!) non deve mettere radici, perché delle cose importanti si può e si deve parlare in modo accessibile.  

Dalle finestre degli uffici della casa editrice si vede il mare, anche se, impegnati come sono, loro non riescono spesso a goderselo. Il lavoro di Ilario e Daniela conosce pochi orari e poche pause, immune ai ritmi pigri di Belvedere Marittimo al di fuori della stagione balneare, quando invece si popola di turisti attratti sì dalle spiagge della Riviera dei Cedri, ma anche dall’indimenticabile tradizione gastronomica, e dai moltissimi itinerari di mare e di montagna, di natura e di storia.  

 

Da questo sfondo ricchissimo prende le mosse il loro progetto: “Coccole Books è e vuole restare un editore indipendente, che vuole essere solidale a tematiche del territorio a cui appartiene e che vuole

 

raccontare con leggerezza e senza mai essere banale la verità anche ai ragazzi: integrazione, disabilità, mafie, scelta partigiana,
parità di genere, diritto al lavoro”.


La scelta dei titoli è curatissima, ogni libro e albo si inserisce in un progetto come tessere di un puzzle, che alla fine va a comporre l’identità della casa editrice.  

 

Ci sono i grandi personaggi raccontati in modo spesso originale, diverso, come Martin Luther King, Papa Francesco, Tina Anselmi, Samantha Cristoforetti, rivoluzionari che parlano ai ragazzi e ai bambini di scelte coraggiose e controcorrente, dell’inseguire i propri sogni e fare la cosa giusta anche quando sembra la più difficile. Ci sono le storie piccole e quotidiane rivolte ai bambini delle scuole elementari, con al centro il loro mondo e la loro lingua. E i libri rivolti al target più complesso ed esigente di adolescenti e preadolescenti, per affrontare temi più o meno intimi, più o meno universali.  

 

Un catalogo ricco e accuratamente selezionato, con uno scopo preciso:

“Pensiamo che fare libri per ragazzi possa rappresentare una concreta 

azione politica in grado di produrre cambiamento”, spiegano i due editori: 

“Una piccola rivoluzione, un segno per guardare in modo diverso le cose della vita, ma anche gli aspetti a volte complicati di un territorio”.  

 

Un’identità tenace, quella legata al territorio, che si riflette anche nel modo di lavorare, moltiplicando le buone prassi come il rispetto dell’ambiente e del lavoro. Coccole Books stampa rigorosamente in Italia e su carta riciclata, perché non sono solo le storie a fare la differenza, ma anche i professionisti che ci sono dietro, e le loro scelte, nella filiera del libro per ragazzi che è un settore diverso da quello del libro tout court.  

 

Ma per Ilario e Daniela essere editori non si consuma solo nel lavoro di selezione, produzione e promozione dei titoli. Da due anni lavorano a stretto contatto con le scuole con le Olimpiadi del Libro, che per l’edizione 2019 hanno coinvolto 13 scuole e 130 classi: circa 2500 ragazzi. E per il 2020 si replica, con già 18 istituti iscritti. Le Olimpiadi portano i libri nelle scuole attraverso il gioco, la scoperta e un po’ di sana competizione. Ogni classe sceglie un libro dal catalogo, gli alunni lo leggono e a fine progetto lo rappresentano, come spettacolo, cartelloni, canzone, progetti grafici, e nel giorno finale delle Olimpiadi la classe incontra anche l’autore scelto.

Un contesto territoriale che resta il fulcro della loro attività, portando il meglio 

della Calabria nel mondo e il meglio del mondo in Calabria

 

“Nascendo in Calabria e scegliendo di restare in questa terra, la nostra prima esigenza è stata quella di emanciparci da un contesto provinciale e proiettarci da subito in una dimensione nazionale, sia nella scelta di testi e autori che dei destinatari delle nostre pubblicazioni. Avevamo ed abbiamo ancora la necessità di raccontare quello che siamo ma anche quello che vogliamo essere e diventare”. 

 

 

 

 

decoro-cultura

 

LE DONNE E LA TRADIZIONE MUSICALE ORALE IN CALABRIA E LUCANIA di Innocenzo Cosimo de Gaudio – Numero 15 – Ottobre 2019

cat-cultura
cat-storia
cat-sud

LE DONNE E            LA TRADIZIONE MUSICALE ORALE IN CALABRIA            E LUCANIA      

PARTE Ii

 

 

INNOCENZO_COSIMO_DE_GAUDIO
le_pie_donne

In molte comunità calabro-lucane, specie nei Riti del Venerdì Santo, il canto femminile si sostanzia in spazi e forme antagonisti, sia rispetto all’ufficialità della Chiesa sia a quelli degli uomini. 

Riportiamo, a titolo d’esempio, alcune esperienze in contrasto, rilevate a Cassano allo Jonio e a San Benedetto Ullano1. Nel primo caso,

le donne fanno gruppo a sé: estranee alla organizzazione coreografica 

della processione, procedendo secondo i propri tempi, con numerose soste, 

cantando in cerchio, quasi abbracciate,


marciando spesso a ritroso, apparentemente incuranti di quel che accade nel lungo corteo davanti a loro e, di fatto, al di fuori di ogni controllo da parte della gerarchia ecclesiastica (Foto 1 – 3).  

 

Quasi una processione autonoma dell’Addolorata, all’interno della processione ufficiale2.  

 

La voce delle donne, lacerata e ricca di pathos, vìola lo spazio sonoro circostante, contrappuntando e sovrastando la composta e austera banda e gli acuti suoni delle tube, in uso agli inquietanti flagellanti incappucciati (Foto 4 – 6).

Le piccole Addoloratine, compitissime bambine, agghindate 

con il manto dell’Addolorata dalle Sette Spade

sembrano osservare, sgomente, la scena (foto 7).

 

S. Benedetto Ullano 

 

La kalimera3 costituisce, per tutte le comunità italo – albanesi, un’antichissima tradizione di rilevante interesse storico-letterario, religioso e tradizionale4.

Fra le kalimere più note della raccolta di Variboba5

facciamo riferimento a quella che, nella comunità di San Benedetto Ullano, 

è nota come E keqe penë6, intonata prevalentemente da donne.

 

La struttura quasi sillabica del testo musicale e il fine catechistico (quindi, la tassativa intelligibilità del testo verbale) non rende necessaria alcuna manipolazione e obbliga a minori adattamenti, perché possa aderire al modulo musicale tradizionale, al contrario di come avviene, invece, per altre pratiche di canto femminile7 nell’area (foto 8).

 

In questo caso, l’opposizione è rovesciata:

lmentre a Cassano sono le donne a gestire i tempi e gli spazi della processione, in autonomia e quasi in antitesi ai dettati delle gerarchie ecclesiastiche, qui, 

al contrario, è il gruppo maschile che sembra allontanarsi dai precetti, 

 

mentre intona un canto processionale, il cui testo verbale è tratto dagli Inni Sacri del Manzoni8. A causa di tali comportamenti, il gruppo maschile, è osteggiato o appena tollerato dal clero locale (foto 9). 

 

Tuttavia, specie in queste occasioni solenni, il panorama sonoro della piccola comunità sanbenedettese si complica alquanto. Il particolare assetto urbanistico, organizzato sull’impianto tradizionale in ghitonje, articolate in stretti e angusti vicoli, genera, talvolta, un vero e proprio scambio di ruoli fra i due cori, quello femminile e quello maschile, con interessanti sovrapposizioni e sostituzioni che, inevitabilmente, si riflettono sull’articolazione di entrambi i canti. In alcuni casi, infatti, la più acuta e potente tessitura femminile riesce persino ad oscurare la voce, pur potente e lacerata, del solista maschio.

lelemento che colpisce è la presenza di una dicotomia fra l’atteggiamento penitenziale – espresso in maniera evidente dai flagellanti e dal clero, 

nel primo caso; dalle pie donne, nel secondo –

 

e l’elemento godereccio e/o autonomo del popolo (in entrambi gli esempi, a parti rovesciate), che ci riporta alla mente il celeberrimo Combattimento fra Carnevale e Quaresima di Bruegel il Vecchio9: Battaglia simbolica fra il Carnevale (metà sinistra del quadro) e la Quaresima (metà di destra). Se la parte sinistra del quadro è dominata dall’osteria e dalla crapula dissoluta, la destra è occupata dall’austera mole della chiesa, nella quale entrano ed escono i fedeli: due edifici-simbolo che incarnano stili di vita e visioni del mondo antitetici: un “mondo alla rovescia”10.

 

 

 

 

 

 

 

 

incappucciati

 

simbolo-art-marr-pall

 NOTE

 

1 Entrambe in Provincia di Cosenza. S. Benedetto Ullano, comunità arbëreshë. 

2 Adamo G. (2016)  

3 Dal greco, Buongiorno. 

4 La Chiesa italo-albanese, dal ‘700 in poi, si è largamente servita dei Canti Sacri popolari per impartire la catechesi, alimentare la fede e inculcare la pietà religiosa. 

5 Molte di queste composizioni sono attribuite a un sacerdote di rito greco di San Giorgio Albanese (CS), Giulio Variboba (1704 – 1788), che, sul modello di Jacopone da Todi, nella sua opera, Gjella e Shën Mëris Virgjër, si serviva di questi canti per istruire ed evangelizzare il popolo.  

6 “Tremenda pena”: i vari momenti della passione, il tradimento, l’arresto, la flagellazione, il percorso verso il Calvario e, infine, la crocifissione e morte del Cristo sono vissuti attraverso il riflesso degli stati d’animo di Maria, che, all’acme della sofferenza, emetterà uno straziante vajtim (lamento). 

7 Cfr., De Gaudio, I.C. (1993). 

8 Non è raro rilevare una certa euforia (indotta probabilmente dall’assunzione di alcolici) nei cantori che, a turno, con tanto di corona di spine, portano la Croce durante la Processione; così come non è sporadico osservare piccoli gruppi di cantori che, nelle pause, fra una Stazione e l’altra, consumino, non visti, qualche ‘spuntino’ a base di salumi…  http://leavlab.com/portfolio/diaspora-albanese/ 

9 https://goo.gl/images/AXLJDD Jan Bruegel il Vecchio, Combattimento fra Carnevale e Quaresima, 1559, Vienna, Kunsthistorisches Museum 10 Cfr. Bachtin, M. (2001). 

BIBLIOGRAFIA

 

Adamo, G. (2016) Il rapporto tra gerarchie ecclesiastiche e devozione popolare in Calabria. Un resoconto etnografico e qualche considerazione; in Caliò T. e Ceci L. (a cura di ). L’immaginario devoto tra mafie e antimafia: 1. Riti, culti e santi. Sanctorum. Rieti. Scritture, pratiche, immagini – (AISSCA) Adkins Chiti, P. (1982). Donne in musica. Bulzoni. Roma. 

Amalfi, G. (1994). Cento canti del popolo di Serrara d’Ischia. Ranisio, G. (cur.). Napoli (Iediz.1882)  

Apolito, P. (2014). Ritmi di festa. Corpo, danza, socialità. Bologna. Il Mulino Bachtin, M. (2001). L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Torino. Biblioteca Einaudi Barrio, G. (1979). Antichità e luoghi della Calabria, rist. Cosenza, Brenner Biagiola, S. (1989). Per una classificazione della musica folklorica italiana. Studio sulle ninne nanne. “Nuova rivista musicale italiana”. 1-2: 113-140 Caliò T. e Ceci L. (a cura di ). (2016). L’immaginario devoto tra mafie e antimafia: 1. Riti, culti e santi. Sanctorum. Rieti. Scritture, pratiche, immagini – (AISSCA)  Casetti, A. – Imbriani, V. (1871-72). Canti popolari delle province meridionali. Firenze. E. Loescher. (rist. anastatica Bologna 1968) De Gaudio, I (a cura di), (1990).  Gli Albanesi di Calabria, vol. 1. Università degli Studi di Bologna – ICTM (UNESCO), (libretto e trascrizioni allegati al disco Albatros VPA 8501)  De Gaudio, I.C., (1993). Tecniche polifoniche in un repertorio polivocale di tradizione orale: i Vjersh nelle comunità albanofone della Calabria, (Premio Internazionale Latina di studi musicali – sez. etnomusicologia -), “Quaderni di Musica/Realtà”. Modena. Mucchi Editore De Leo, P. (a cura di). (1988). Minoranze Etniche In Calabria e In Basilicata. Cava de’ Tirreni. Di Mauro. Donato, G. (a cura di), (1985) Polifonisti calabresi dei secoli XVI e XVII – Testi della Giornata di Studi su La Polifonia sacra e profana in Calabria nei secoli XVI e XVII – Reggio Calabria, 26 novembre 1981. Roma. Torre d’Orfeo. Duby, G. – Perrot, M. (2003) Storia delle donne in Occidente. Roma-Bari. Laterza.  Ricci, A. – Tucci, R. (a cura di) (2006). Musica arbëreshe in Calabria. Le registrazioni di Diego Carpitella e Ernesto De Martino. Roma, Squilibri Ricci, A. (2002). I suoni della poesia popolare: “poetiche” e “politiche” nel canto tradizionale calabrese, in Scafoglio, D. (cur). Le letterature popolari: Prospettive di ricerca e nuovi orizzonti teorico-metodologici). Napoli: 489-507 259 Saffioti, T. (1981). Ninne nanne: Condizione femminile, paura e gioco verbale nella tradizione Spera, V. M. (2002). Vedere le parole, ascoltare le figure. In Scafoglio, Domenico (cur.). Le letterature popolari. Prospettive di ricerca e nuovi orizzonti teorico-metodologici. Napoli. ESI Valente, G. (A cura di), Il Viaggio in Calabria dell’Abate Pacichelli, Messina, La Sicilia, s.d.

 

“CARO GIORGIO HAI RAGIONE” LETTERA A MYRRHA di Carlo Pilieci – Numero 15 – Ottobre 2019

cat-sud
cat-cultura

LETTERA A MYRRHA

 

Caro Giorgio, hai ragione. Dobbiamo uscire dall’angolo, lo possiamo fare, non dobbiamo rassegnarci.   

 

Sono nato in Calabria, dove ho trascorso la mia infanzia. E col trascorrere degli anni, vivendo lontano, ho imparato ad apprezzare ricchezze e risorse del Sud, i valori anche di accoglienza e solidarietà che in quelle terre si tramandano. Una volta per tutte va imboccata la strada del riscatto.   

 

Abbiamo un patrimonio naturale, artistico, archeologico, storico che deve essere ancora in gran parte “scoperto” e valorizzato. Sono convinto che turismo e impresa legata al territorio possano essere armi vincenti per ridurre finalmente il divario con il resto d’Italia, battere su questo terreno la criminalità. Matera, il riconoscimento come Capitale Europea della Cultura, l’afflusso di turisti cresciuto negli ultimi anni in questa città in modo esponenziale, è un esempio.   

 

Ma c’è anche da chiedersi quali e quante potenzialità’ ancora vengono bloccate dalla cronica mancanza di infrastrutture e collegamenti adeguati. Pensiamo solo a come si sviluppa in Italia la rete dell’alta velocità. E iniziative come quelle di “Myrrha”, che raccoglie e racconta grandi risorse e ricchezze e grandi problemi ancora da risolvere, possono essere uno strumento decisivo per indicare la strada giusta.   

 

Da cronista vorrei indicare anche l’esempio virtuoso e silenzioso di un’impresa agro-alimentare che a Gioiosa Ionica, il paese in cui sono nato, da anni dà lavoro a decine di persone esportando tutti i suoi prodotti di alta qualità in venti paesi del mondo, spediti all’estero attraverso i container dal porto di Gioia Tauro. Chi l’ha creata non si è fatto intimidire dalle minacce delle cosche. Il Sud può ripartire, e può far ripartire l’Italia.   

 

Un caro abbraccio a tutti, Carlo Pilieci. 

simbolo2
carlo_pilieci_2

 

CARAVAGGIO A NAPOLI di Stefania Conti – Numero 14 – Maggio 2019

cat-arte
cat-storia
cat-sud

CARAVAGGIO A            NAPOLI 

 

stefania_conti

provenienti da istituzioni nazionali e internazionali, e di ventidue quadri di artisti napoletani influenzati o, forse è meglio dire, travolti dalla sua forza innovativa.

Come si sa, Caravaggio visse per qualche tempo a Napoli. La sua fama lo aveva preceduto ed ebbe importanti commissioni. Non solo,

è proprio nel capoluogo partenopeo che inaugurò 

un suo nuovo modo di dipingere, 

più tormentato.


Fu una grandissima affermazione, un successo che non solo lo fece conoscere nei circoli culturali più innovativi e ricettivi, ma gli fece guadagnare un bel po’ di soldini. La tela delle Sette opere di Misericordia (che faceva parte del percorso della mostra), eseguita per il Pio Monte, dove ancora si trova, gli verrà pagata ben 400 ducati. Una cifra stratosferica per l’epoca.

Nell’archivio storico del Banco di Napoli – uno scrigno fondamentale per gli storici: contiene 450 anni di storia della città e del regno borbonico – sono conservati 

i documenti che ci fanno vivere istante per istante, quasi fosse un film, 

il momento in cui il giovane Merisi riceverà la somma. 


In un foglietto di carta, Tiberio del Pezzo, economo del pio Monte, dà le disposizioni e le spiegazioni del perché si deve pagare l’onorario. 

“Banco di Pietà, 9 gennaio 1607. A Tiberio del Pezzo ducati 370. et per lui a Michelangelo da Caravaggio – si legge negli antichi bancali -, dissero a compimento di ducati 400, dissero per un pezzo di un quadro che ha depinto per il Monte della Misericordia, in nome del quale esso Tiberio li paga. Et per noi il Banco del Popolo”. Senonché quella mattina il Banco della Pietà non ha in cassa i fondi per liquidare Caravaggio. Quando la storia da grande diventa minuta, quotidiana! 

 

Il pittore era noto per non avere esattamente un buon carattere (ma intanto aveva già ricevuto l’acconto di 30 ducati). Non ci è dato sapere come l’abbia presa, ma non è difficile immaginarlo. Fatto sta che – dopo le proteste dell’artista – per ricevere i soldi, il Banco di Pietà lo manda al Banco del Popolo. Anche di questo evento abbiamo memoria nell’archivio storico del Banco di Napoli.

“Banco di Santa Maria del Popolo. Pagate per noi – annotano i ligi scrivani – 

a Michelangelo da Caravaggio ducati 370 al quale si pagano 

per polizza de Tiberio del Pezzo”.


Siamo sicuri che questa volta l’inquieto pittore se ne andrà soddisfatto. 

 

Ma vogliamo parlarvi anche di un altro quadro. In realtà un mistero, uno dei tanti enigmi che hanno costellato la vita del grande Merisi.

Sempre nell’archivio storico si trova una disposizione di pagamento 

di una cifra altrettanto favolosa per una grandiosa pala d’altare,


questa volta commissionata da un privato, un mercante d’origine balcanica, tal Nicolò Radolavich. L’opera è descritta con molta precisione dai “ragionieri” del Banco.

“6 ottobre 1606. A nicolò radovich ducati 200. E per lui a Michel Angelo Caravaggio dite per il prezzo de una cona de pittura che l’ha da fare et consignare per tutto dicembre prossimo venturo d’altezza palmi 13 e mezzo 

et larghezza di palmi 8 e mezzo”.


Deve raffigurare la Madonna col Bambino, insieme ad un coro di angeli e a una serie di santi, tra cui San Domenico e San Francesco. Ebbene, di questa pala non c’è più traccia. Forse non è mai stata finita, forse è stata distrutta in un tumulto popolare, o tagliata e venduta in più pezzi. O chissà cos’altro.

A oggi l’unico indizio di uno dei primi capolavori partenopei di Caravaggio è contenuto solo nel prezioso archivio storico del Banco di Napoli.

 

Conclusa_mostraCaravaggio
fine-t-blu
caravaggio_a_napoli

 Photo credit giuseppemasci  © 123RF.com

 

IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI Parte III di Francesco Avolio – Maggio 2019

cat-cultura
cat-storia
cat-sud

IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI

Parte III

 

 

francescO_avolio

 Correlato parte I

 Correlato parte II

Tutti sanno, più che altro per esperienza diretta, che tra il napoletano e il siciliano ci sono parecchie differenze linguistiche, al punto che è difficile confonderli, anche per una persona che abiti nel profondo Nord e che non abbia mai messo piede da quelle parti.

Se insomma, per chi vive più su dell’Appennino e del Po, l’Italia peninsulare appare spesso come un territorio omogeneo, senza grandi articolazioni interne, tuttavia la consapevolezza di una qualche differenza, anche linguistica, tra le due più note e popolose realtà del Mezzogiorno non può dirsi rara o poco comune.

Ma perché napoletano e siciliano sono diversi? E dove si colloca, nello spazio, 

la transizione dall’una all’altra di queste aree dialettali?


Cerchiamo di rispondere in breve a queste due domande, partendo, per comodità, dalla seconda, che ci dà elementi utili anche per rispondere alla prima.

2 – Il “ponte” calabrese


Uno dei maggiori motivi di interesse della posizione linguistica della Calabria sta nel fatto che essa appare solcata, nella sua interezza, da una serie notevole di “confini” linguistici, e proprio da quelli che distinguono i dialetti meridionali dal siciliano. Vediamoli più da vicino, muovendo da Nord verso Sud (cfr. anche la Fig. 1): 

1) il limite del vocalismo “siciliano” (linea I), che compare, in Calabria, a Sud di un discrimine che va all’incirca da Diamante, sul Tirreno, a Cassano, sullo Jonio (ma che in realtà esiste anche nel basso Cilento, in provincia di Salerno, a Sud di una linea che collega più o meno Ascea a Vallo della Lucania). Si tratta di un sistema di sole cinque vocali accentate, nel quale mancano le vocali chiuse é ed ó, e diversi suoni vocalici latini originariamente distinti si sono fusi tra loro: filu ‘filo’ < FĪLU(M), come nivi ‘neve’ < NĬVE(M) e come tila ‘tela’ < TĒLA(M) (nap. filënévë, télë), ma bbèddha ‘bella’ < BĔLLA(M); luna < LŪNA(M), come cruci ‘croce’ < CRŬCE(M) e suli ‘sole’ < SŌLE(M) (nap. lunë, crócë, sólë), ma mòrta < MŎRTUA(M). Secondo ricostruzioni ormai accettate dalla maggior parte degli studiosi, un simile sistema sarebbe il frutto del prolungato contatto, in epoca altomedievale, tra le varietà dialettali neolatine e il greco bizantino, una lingua che è stata, per secoli, di notevole prestigio e di largo uso in tutta la nostra area, e che presentava, fra l’altro, come il greco moderno, proprio un notevole conguaglio di vari suoni vocalici sulle vocali estreme i e u

2) la vocale finale neutra -ë per la maggior parte delle vocali finali (come abbiamo visto nello scorso numero), che in genere non va oltre la linea Cetraro-Bisignano-Melissa (linea H); 

3) le assimilazioni dei nessi consonantici -ND- e -MB- (quannu ‘quando’, chiummu ‘piombo’), sconosciute a Sud della linea Amantèa-Crotone (linea G); 

4) l’uso di tenere per ‘avere’, non con il valore di ausiliare: tène e spalle larghe ‘ha le spalle larghe’, diffusissimo dal Lazio in giù, è ignoto già a Nicastro e a Catanzaro (dove si dice ndavi i spaddi larghi e simili; linea F); 

5) il passato remoto come tempo perfettivo quasi unico, ormai evidente a Sud di Nicastro e Catanzaro (capiscisti? o capisti? ‘hai capito?’; linea D); 

6) la scarsa popolarità dell’infinito in diversi tipi di frasi (cfr. oltre, § 3), che comincia a Sud della stessa linea (la E); 

7) i dittonghi metafonetici (vedi il numero precedente), ignoti a Sud della linea Vibo Valentia-Stilo (fèrru vs. fiérru, bbòni vs. bbuóni; linea C); 

8) l’uso del possessivo enclitico, nelle prime due persone, con molti nomi di parentela e affinità (fìgghiuma ‘mio figlio’, fràttita ‘tuo fratello’), che raggiunge la piana di Rosarno e la Locride, ma non lo stretto di Messina (dove si dice, alla siciliana, mè figghiu, tò frati ecc.; linea A). 

Uno dei dibattiti dialettologici più vivaci della prima metà del Novecento – che ha contrapposto la scuola tedesca di Gerhard Rohlfs a quella italiana di Carlo Battisti, Giovanni Alessio e Oronzo Parlangèli – ha riguardato la persistenza e i caratteri della grecità in Calabria, del resto ancora testimoniata, con una varietà di greco arcaica ed assai particolare, ma ormai moribonda, in alcuni piccoli centri dell’Aspromonte meridionale (Gallicianò, Chorìo di Roghudi, Bova). Di tale dibattito e di queste residue comunità grecofone ci occuperemo, però, nel prossimo numero.

 

3 – Il “tacco d’Italia”


La disputa sulla persistenza del greco ha coinvolto anche i dialetti del Salento (parlati a Sud della linea Taranto-Brindisi, cfr. Fig. 2), che, come del resto quelli della Calabria meridionale, mostrano non solo elementi fonetici e grammaticali molto simili al siciliano, ma anche, per l’appunto, un fondo lessicale e tratti sintattici di ascendenza ellenica.

 

Anche al centro della penisola salentina, infatti, esiste ancora oggi un’enclave 

di lingua greca, la cosiddetta Grecìa, di cui fanno parte diversi comuni 

della provincia di Lecce (fra i quali Calimèra, Castrignano dei Greci, 

Corigliano d’Otranto, Sternatìa);

 

qui la parlata locale, detta usualmente grico, seppure in regresso anche netto, non è ancora nelle condizioni preagoniche riscontrabili, purtroppo, in Aspromonte. Fra i costrutti più sicuramente imputabili all’influsso e/o al diretto contatto con il greco, possiamo ricordare la mancanza di avverbi di luogo atoni corrispondenti agli italiani ci e vi (salentino sciamu crai, calabrese merid. jamu dumani ‘ci andremo domani’) e la già vista, scarsa popolarità dell’infinito, che, dopo verbi esprimenti volontà, intenzione, movimento viene sostituito da cu (erede di QUOD) nel Salento, o da mu, mi, ma (dal lat. MODO) in Calabria e nel Messinese, più il verbo al presente indicativo, coniugato in accordo con il soggetto della reggente (cu e mu, insomma, hanno le stesse funzioni che ha in greco (i)nà): nel Salento ulìa cu ssacciu ‘volevo sapere’ [lett. ‘volevo che so’], m’aggiu dimenticatu cu ddumandu ‘mi sono dimenticato di chiedere’, in Calabria vògghiu mu bbìu ‘voglio bere’ (gr. thèlo nà pìo), jìru mi jòcanu ‘sono andati a giocare’, pinzàu mi parti ‘ha pensato di partire’ ecc. Voci salentine del lessico quotidiano, di carattere conservativo, sono fitu ‘trottola’, sòcru ‘suocero’, spècchia ‘mucchio di sassi’, truddhu ‘trullo, casa rurale con copertura in pietra a falsa cupola’, nazzicare ‘cullare’ e altre.

4 – Le parlate siciliane

 

E torniamo ora a rispondere alla prima delle nostre due domande iniziali: perché il tipo linguistico siciliano è così particolare? Uno dei primi dati di fondo da sottolineare è che

 

i dialetti della Sicilia non sono facilmente classificabili, dato che molti fenomeni 

vi si presentano con una distribuzione “a macchie di leopardo”,


conseguenza, fra l’altro, della particolari vicende storico-demografiche dell’isola, caratterizzate da frequenti calamità naturali (terremoti), immigrazioni e anche rimescolamenti e fusioni di popolazioni diverse. 

Una delle poche distinzioni chiare, individuata nel 1951 dallo studioso 

Giorgio Piccitto, è rappresentata dalla diffusione del già visto 

dittongamento metafonetico di -è- ed -ò- ,


per influsso dei suoni originari latini -I ed -U in fine di parola (cfr. Fig. 3 e quanto detto nel numero precedente): questo, assente nelle maggior parte delle parlate occidentali, dal Trapanese all’Agrigentino occidentale (vèntu ‘vento’, pèri ‘piedi’), nonché nel Messinese e in parte del Catanese, è invece ben noto a molte di quelle centrali (Enna, Caltanissetta) e nella cuspide Sud-orientale (vièntu, pièri e simm.). Palermo, con una lunga fascia costiera circostante, che va all’incirca da Terrasini a Cefalù e a Corleone, presenta invece dittonghi non dipendenti dalla vocale finale, come in cuòsa ‘cosa’ e fièšti ‘feste’. I dittonghi metafonetici sono pure assenti in tutta la Calabria meridionale e nel basso Salento, mentre Lecce e Brindisi conoscono l’esito dittongante in –– da – originaria (bbuènu, bbuèni ‘buono, -i’, ma bbòna, bbòne ‘buona, -e’). 

Secondo gli studi condotti negli ultimi quarant’anni da Giovanni Ruffino, fra i pochi fatti tipici delle parlate della Sicilia nord-orientale ci sono la pronuncia rafforzata di b- iniziale (bbucca anziché vucca ‘bocca’), la conservazione dei nessi -ND- e -MB- (quandu ‘quando’, palùmba ‘colomba’, piuttosto che quannu, palùmma) e grecismi lessicali come armacìa ‘muro a secco’ < gr. ermakìa, còna ‘edicola sacra’ < gr. èikon, grasta ‘vaso’ < gr. gàstra, salamìra ‘geco’ < gr. samamìthion

I dialetti del centro dell’isola, ritenuti in genere più conservativi (ma non sempre ciò è vero), appaiono soprattutto caratterizzati dal passaggio di –l- a –n– prima di consonante dentale o palatale (antu ‘alto’, fanci ‘falce’), da quello di nf- a mp– (mpilàri ‘infilare’, mpurnàri ‘infornare’) e da verbi come riiri ‘sollevare’ < ERIGERE, sdruvigliàrisi ‘svegliarsi’, tiddhicàri ‘solleticare’. 

La Sicilia occidentale, infine, si distingue dalle altre zone dell’isola per la presenza di numerosi arabismi, come caddhu ‘secchio’ < ar. qādūs, casiria ‘vaso da fiori’ < ar. qasrīya, e grecismi come mira ‘cippo confinale’ < gr. mòira. Altri termini di origine araba, di più ampia estensione (spesso sono presenti anche in Calabria) e riguardanti soprattutto l’agricoltura, sono poi, tra i tanti, cirana, giuranna ‘raganella, rana’ < ar. ğarān, gèbbia ‘grande vasca’ < ar. ğābiyah, màrgiu ‘acquitrino, terreno non coltivato’ < ar. marǵ, źźagarèddha ‘nastro’ < ar. zahar. 

Dal punto di vista lessicale, i dialetti siciliani, oltre a mostrare interessanti francesismi (custurèri ‘sarto’ < fr. ant. costurier, racìna ‘uva’ < fr. raisin) e ispanismi (criata ‘serva, domestica’ < sp. criada, ormai arcaico, carnizzèri ‘macellaio’ < sp. carnicer, nella zona di Palermo), appaiono dotati, nel loro complesso, di un certo grado di innovatività rispetto alla maggior parte del Mezzogiorno (compresi il Salento e la Calabria settentrionale). Ma su questo dato di fondo – che è, in effetti, alquanto sorprendente, ed ha suscitato anch’esso vivaci discussioni e polemiche – ritorneremo nel prossimo numero.

 

immagini

Le tre carte geolinguistche sono tratte da: F. Avolio, Bommèspr∂. Profilo linguistico dell’Italia centro-meridionale, San Severo, Gerni Editori, 1995, pp. 142-144. 

decoro-cultura
rotolando_verso_sud

 Correlato parte IV

 

DONNE E TRADIZIONE MUSICALE ORALE di Innocenzo Cosimo de Gaudio – Numero 14 – Maggio 2019

LE DONNE E LA MUSICA DI TRADIZIONE ORALE IN CALABRIA E LUCANIA

PARTE I

 

 

La musica e i canti tradizionali delle, con e per le donne calabresi e lucane, troppo spesso relegate nel ruolo di «madre e angelo del focolare domestico», in un panorama sonoro considerato, evidentemente, «muto» e «immobile»1.     

La ricchezza culturale nel complesso mosaico di popoli, calabrese e lucano, ha determinato profonde diversificazioni nelle espressioni musicali e coreutiche. Attraverso i canti d’amore, come nel caso citato delle comunità ellenofone, o nella danza, ad esempio, si percepisce, la differenza dei ruoli di genere all’interno della specifica comunità. 

 

Siamo in presenza, infatti, di culture aurali fra le più copiose del Mediterraneo, che si tramandano da bocca a orecchio, mediante complessi e impalpabili meccanismi, ricorrendo alla ri-elaborazione creativa di codici e grammatiche superindividuali. Tali codici si esprimono anche al femminile in tutto il ciclo della vita: nelle ninnenanne, nei canti d’amore e di sdegno2, nelle raffinate pratiche di canto polivocale, nei repertori paraliturgici della festa e della fede, nelle danze e nei canti della (e sulla) emigrazione; nelle rapsodie epiche e, persino, nel pianto rituale. 1Magrini T., 1986.

 

In questo variegato e ricco panorama, le donne si stagliano 

quali protagoniste straordinarie della Sapienza popolare. 


Nel seguire l’articolazione ciclica dei canti che accompagnano la vita, invadiamo lo spazio domestico più intimo, già richiamato. Al suo interno risuona, con la sua melopea ipnotica di versi, suoni e movimento, la figura materna, che conserva e trasmette valori e Saperi. 

 

Le ninnenanne, così come le filastrocche e altri giochi e rime infantili, sono componimenti a gestione prevalentemente femminile. Spesso fondati sulle tecniche del nonsense, dell’onomatopeia, sono adattati (e ri-composti) nella specifica performance, con le tecniche dell’oralità: stereotipie e cellule-tipo; brevi incisi o persino interi schemi-traccia con epiteti formulaici, rielaborati secondo esigenze di rima e di ritmo, accompagnati dal moto iterativo del corpo, che placa e sviluppa anche il senso della coordinazione motoria.

Le Prefiche/Reputatrici in Calabria e Basilicata 


“Bene fu osservato […], che la donna fin dai tempi remotissimi dell’antichità, ebbe la parte principale nella pietà verso i defunti”
3. Le prefiche non si estinsero col paganesimo, ma perdurarono nel medioevo, col nome di reputantes, reputatrices, cantatrices o computatrices, nonostante i divieti nelle persecuzioni delle autorità civili ed ecclesiastiche, poiché bollate quali sopravvivenze di pagana empietà.

Occorre dire che i modi della crisi del cordoglio nel mondo rurale calabrese 

e lucano si avvicinano sensibilmente ai modi spettacolari 

riscontrabili nel mondo antico,


serbandone con assoluta fedeltà alcuni tratti, compresi i momenti performativi, che vedono donne vestite di nero strapparsi i capelli ed intonare lamenti funebri per e sul defunto, con la premura di farlo per bene, di saper piangere, poiché non è meno importante il modo in cui è eseguito.

 

Il caso di Longobucco 


Ancora oggi, nel versante jonico della Provincia di Cosenza, è molto diffuso l’antico adagio: “Chi ti vuonn’ c̣hiàngere quaṭtru lannivucchise”4: le prefiche/reputatrici per antonomasia! Tale fama è giustificata dalla constatazione che, in passato, tale attività aveva raggiunto livelli particolarmente raffinati nella comunità di Longobucco, per quel che concerne tecniche esecutive e performative. L’intonazione si sviluppava secondo una forma canonica, iniziando dal grave, per poi muoversi verso l’acuto, seppur in un ambitus melodico piuttosto ridotto, cromaticamente o in glissando, per poi ritornare verso il grave.

 

In ultimo, un gemito più acuto: un urlo lacerato, di disperazione assoluta.


Il corpo era ripiegato su stesso e si abbandonava ad un dondolio cadenzato (come per le ninnenanne), accompagnando col movimento il canto/nenia; i capelli erano sciolti, per poter dissimulare l’atto di strapparli per la disperazione (anche se, in taluni casi, ciò avveniva veramente). 

 

Oggi, mentre scrivo queste poche righe, il rintocco di campane a morto m’informa del passaggio di un corteo funebre. Probabilmente suggestionato dalle recenti letture di saggi e testi afferenti a questo tema, non posso fare a meno di concentrarmi sul panorama sonoro che mi circonda. Il corteo è di tipo tradizionale: banda, corone di fiori e lamentazioni meste e a mezza voce, lungo tutto il tragitto, che si snoda, partendo dalla casa dell’estinto, verso la chiesa.

Prima dell’ingresso, un urlo disperato della vedova del de cuis 

squarcia il silenzio del piccolo borgo nel quale vivo e lavoro.


Il pianto rituale, almeno in Calabria, non è del tutto scomparso! 

Il nero è il suo colore. Il lamento la sua voce. L’urlo lacerato/lacerante il suo sfogo.

 

 

cat-cultura
cat-storia
cat-sud
decoro-cultura

1 «Soggetto desiderante e oggetto desiderato […] da una parte l’esibizione narcisistica dell’uomo, che canta, si qualifica e qualifica, e, dall’altra parte, il nascondimento uditivo della donna, che è esclusa dal canto, non si qualifica, ma è qualificata» Crupi, P. 1982, a proposito delle donne grecaniche.

 

2 Magrini T., 1986.

 

3 Lumini A., Rist. Anastatica, 1989.

 

«Possano piangerti quattro donne longobucchesi». Quattro perché, nella “scena” del funerale, queste si posizionavano, a coppie, alla testa e ai piedi del defunto.

 

Bibliografia 

 

Accattatis L., Vocabolario del dialetto calabrese (s.v.), Cosenza, Nigro, 1895. 

 

Altimari F., G Nanci, La ballata del fratello morto e la cavalcata fantastica, in Giséle Vanhese (a cura di), Eminescu plutonico: Poetica del fantastico Arcavacata di Rende (CS), Università della Calabria, Centro Editoriale e Librario, 2007. 

 

Angelini P., Ernesto de Martino, Roma, Carocci, 2008. 

 

Barrio G., Antichità e luoghi della Calabria, rist., Cosenza, Brenner, 1979. 

 

Brienza R., (a cura di), Mondo popolare e magia in Lucania, Roma-Matera, Basilicata editrice, 1975. 

 

Casolo F., Melica S., Il corpo che parla: Comunicazione ed espressività nel movimento umano, Milano. Vita e Pensiero, 2005. 

 

Crupi P., Roghudi, un’isola grecanica asportata, Pellegrini, Cosenza, 1982.  

 

de Martino E., Sud e magia, Roma, Donzelli, 2015. 

 

de Martino E., Morte e pianto rituale: Dal lamento funebre antico al pianto di Mari,. Torino, Universale Bollati Boringhieri, 2008. 

 

De Simone R., Il gesto somatico ritualizzato, in De Simone R., Rossi A. (a cura di), Carnevale si chiamava Vincenzo, Roma, De Luca, 1977. 

 

Del Giudice L., Ninna-nanna-nonsense? Fears, Dreams, and Falling in the Italian Lullaby, in Oral Tradition, 3/3, 1988, 270-29. 

 

Durante R., La donna nel canto popolare. La ninna nanna, Napoli, Editoriale Scientifica, 2002.

Lumini A., Studi Calabresi, Cosenza, Brenner, Rist. 1989. 

 

Magrini T., Canti d’amore e di sdegno. Funzioni e dinamiche psichiche della cultura orale, Milano, Franco Angeli, 1986. 

 

Saffioti T. (a cura di), Ninne nanne: Condizione femminile, paura e gioco verbale nella tradizione, Milano, Emme, 1981. 

 

Zumthor P., La presenza della voce: Introduzione alla poesia orale, Bologna, Il Mulino, 1984.

 

DALLA_CULLA_ALLA_TOMBA
INNOCENZO_COSIMO_DE_GAUDIO