LA CHIESA DI SANT’ANTIOCO DI BISARCIO Gemme del Sud – Numero 21 Giugno Luglio 2021 Ed. Maurizio Conte

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LA CHIESA DI SANT’ANTIOCO DI BISARCIO

 

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Gemme del Sud

Ozieri

 

Domina la piana di Chilivani, nel comune di Ozieri, la chiesa di Sant’Antioco di Bisarcio. Posta su di uno scenografico sperone roccioso di origine vulcanica,

 

la chiesa è un raro esemplare dell’architettura romanica sarda anche 

per grandezza e stato di conservazione, 

 

realizzata con la trachite, tipica pietra locale. Ex Cattedrale della diocesi di Bisarchium/Guisarchum tra l’XI e il XVI secolo, la chiesa è frutto di tre interventi costruttivi distinti.   

 

La data della posa della prima pietra è incerta poiché un incendio avvenuto tra il 1082 e il 1127 danneggiò la chiesa in parte, e tutto l’archivio nel quale era custodita la notizia. La prima costruzione risale alla seconda metà dell’XI secolo, mentre avvenne entro il 1153 la ricostruzione post-incendio, nella quale fu riedificata l’aula a tre navate, l’abside ed il campanile. Infine, una terza fase antecedente il 1174 durante la quale fu aggiunto il bellissimo portico decorato con il fregio della caccia. 

Nota è invece

la consacrazione della Cattedrale di Bisarcio, celebrata sotto l’episcopato 

di Giovanni Thelle l’1 settembre 1164, 

 

giacché se ne conserva memoria in una trascrizione apocrifa di una fonte manoscritta. La conferma proviene dall’individuazione di un’epigrafe graffita in un concio del prospetto absidale presente all’interno della chiesa, in caratteri onciali, che riporta l’anno 1164 ed il nome del vescovo Giovanni Thelle.   

 

La chiesa ha pianta longitudinale a tre navate, con abside semicircolare, affiancata da un campanile. Addossato alla facciata c’è un ampio atrio realizzato su due piani. 

 

La sala che un tempo era adibita alle riunioni del clero con il vescovo, 

situata al secondo piano della facciata, conserva un camino 

che ha la cappa a forma di mitria vescovile, 

un unicum nel suo genere!

 

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VILLA JOVIS A CAPRI di Fabio de Paolis – Numero 21 – Giugno Luglio 2021 – Ed. Maurizio Conte

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VILLA JOVIS A CAPRI

 

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a bordo di una veloce esareme, probabilmente la “Ops”, l’Imperatore Tiberio Giulio Cesare Augusto giunse nell’isola di Capri per rimanervi fino alla fine dei suoi giorni

 

Capri era allora una montagna in mezzo al mare, abitata da gente greca longeva, ricoperta di lauri, mirti, aranceti, alti pini.

 

Un’isola odorosa di resine, ricca di boschi e di grotte con cinghiali e capre. Un’isola che rendeva difficili eventuali attacchi via mare, che non aveva porti, ma solo approdi naturali e sorvegliati come quello di Tragara (tra i faraglioni e lo scoglio del Monacone). Un luogo ideale per quel monarca che, non sentendosi più al sicuro, voleva allontanarsi da Roma e dai suoi complotti. Andar via per sentirsi lontano e protetto dalle continue ostilità che serpeggiavano nei “palazzi” romani. La figura dell’Imperatore Tiberio ha sempre diviso il giudizio degli storici. Furono soprattutto Tacito e Svetonio a riportare fatti presunti e pettegolezzi dei nemici politici e del popolino romano. Pensiamo agli ultimi anni di vita trascorsi a Capri: Tiberio viene descritto come un mostro feroce in preda alla follia, un despota dalla personalità crudele e senza scrupoli, un sadico avvezzo ai vizi ed alla lussuria, nonché preda di continui peccati di gola. Si narrava che fosse stato tanto libero in fatto di lascivia che fosse soprannominato anche “Liberius”. 

Dall’altra parte, invece, autorevoli scrittori e storici quali Plinio il Vecchio, Valerio Massimo, Seneca e Velleio Patercolo non accennarono minimamente a suoi possibili malcostumi, ma, al contrario, diedero di Tiberio un giudizio sostanzialmente positivo: quello di persona proba, distaccata, con un carattere chiuso, un uomo riservato e tormentato, che ovunque vedeva traditori e spie, ma al contempo generoso e con un alto senso dello Stato, attento ai bisogni del popolo romano e delle sue Province. Questo perché Tiberio, sotto Augusto, era stato anche un valente generale (c’è chi sostiene il migliore della sua epoca), capace di pacificare la Germania e tenere sotto controllo la situazione in Pannonia e Dalmazia. Un Imperatore che, successivamente, decise di seguire scrupolosamente i dettami augustei, che accentuò il potere imperiale nei rapporti con il Senato e soprattutto che mantenne la pace ai confini, chiudendo per lungo tempo il tempio di Giano. Sta di fatto che l’Imperatore, giunto a 68 anni, si trasferì a Capri, dedicandosi a trasformarla in un impenetrabile rifugio dorato e profondendo nell’isola ricchezze e tesori. Si dedicò da subito alla costruzione di strade, ville e palazzi destinati ad accogliere i suoi uffici, e di un nuovo porto, costruito a Marina Grande. Sui punti più elevati e strategici face costruire 12 grandi ville dedicate a divinità, ma quella di Giove,

 

“Villa Jovis”, sul promontorio orientale dell’isola, a 334 metri sul livello del mare, 

fu il suo capolavoro, e per 10 anni il principale palazzo del governo di Roma. 

 

Collocata su una rupe nel luogo più inaccessibile dell’isola, altissima sul mare, Villa Jovis era una costruzione che fungeva da palazzo imperiale, da imprendibile fortezza e da pretorio. Con lo stile tipico delle abitazioni signorili romane, arredata con mosaici, statue, marmi e decorazioni, la dimora si estendeva per 7.000 metri quadri ed era formata da enormi terrazze, giardini e ninfei che si allungavano sulle pendici del Monte Tiberio. Una residenza accessibile solo via terra mediante un angusto passaggio sempre ben controllato da numerosi soldati. Attraverso le comunicazioni del Senato, i rapporti di polizia e le relazioni dei suoi ministri, ma anche grazie alla sua rete di spie, alle lettere provenienti da amici e parenti e ad un faro utilizzato per le comunicazioni con la terraferma, da Villa Jovis l’Imperatore controllava ogni cosa. Così lo storico Gregorovius: “Da qui Tiberio vedeva tutto ciò che si svolgeva sull’isola e scorgeva anche le navi che venivano dall’Ellade, dall’Asia, dall’Africa, oppure giungevano da Roma”. 

Il servizio delle comunicazioni ottiche, che si attuava altresì mediante un codice segreto con fumate di giorno e coi fuochi delle torce di notte, era affidato ad uno speciale corpo di vedette. Sulla costa del golfo di Napoli operava poi un sistema di torri costiere per le comunicazioni ottiche e di veloci liburne che consentivano all’Imperatore di ricevere rapidamente messaggi ed impartire ordini. Le giornate che Tiberio trascorreva a Capri erano laboriose. Verificava con cura le nuove leggi per Roma e dal suo studio ogni giorno risolveva i problemi provenienti dalle numerose Province dell’Impero. Appassionato cultore di letteratura e di filosofia, era circondato di grammatici, bibliofili e calligrafi con cui spesso discorreva ed a cui affidò la cura della biblioteca privata ospitata nel proprio palazzo. L’edificio era circondato di ninfei ed esedre, seguiva l’andamento del terreno, con forti dislivelli superati da numerosi piani e scalinate che consentivano di salire di roccia in roccia fino al punto più alto, ove era collocata la monumentale loggia imperiale.

Un’enorme terrazza con la sala del triclinio ed un belvedere che dominavano 

tutta l’isola ma, soprattutto, dai quali si ammirava 

lo spettacolo del Golfo di Napoli, 


una curva che va da capo Miseno, con le isole di Ischia e Procida, fino alla costiera sorrentina, a quella amalfitana ed al Cilento. Era lì che Tiberio trascorreva intere giornate in profonda solitudine, rinunciando addirittura alla presenza della sua scorta, della sua servitù e del segretariato imperiale, dedicandosi, invece, a passeggiate solitarie lungo il belvedere della sua villa. Sul suo terrazzo aveva fatto piantare alberi di lauro, perché riteneva che durante i temporali le folgori non avrebbero colpito le piante di alloro. 

Nella loggia imperiale Tiberio aveva l’abitudine, prima di sedersi a tavola, di bere a digiuno del vino per stimolare l’appetito, una sorta di aperitivo ante litteram. Sulla sua tavola erano presenti frutta e ortaggi, pere, uva passa, cavoli e cetrioli. Di questi aveva una vera passione, li mangiava con frequenza quotidiana e, per questo, si era fatto costruire speciali cassette munite di ruote in cui li coltivava, cosicché in inverno potesse spostare le piante per esporle al sole.

 

Non lontano dalla loggia imperiale, quasi all’improvviso, il baratro, 

una rupe di 300 metri a picco sul mare, chiamata poi 

la “Carneficina del Mostro”, o “il Salto di Tiberio”, 

ove si narrava che l’Imperatore 

vi facesse precipitare 

le proprie vittime.

 

Gli eventuali sopravvissuti sarebbero stati poi finiti in mare da marinai armati di arpioni e bastoni. Si raccontava anche che a Villa Jovis Tiberio disponesse di numerose camere da letto, tutte adorne di statue e di libri con le posizioni amorose, come i molles libros scritti dalla poetessa greca Elefantide. Numerosi anche i dipinti lascivi come quelli di Pausia. Svetonio addirittura narra che Tiberio, in una divisione ereditaria, davanti alla scelta tra un quadro rappresentante una scena erotica della ninfa Atlanta con il re Meleagro ed un milione di sesterzi, senza indugio avesse scelto subito la pittura, mettendola nella camera da letto. 

Al centro della villa c’erano le cisterne dedicate alla raccolta dell’acqua piovana, usate sia come acqua potabile, sia come riserva destinata alle terme. L’impianto idrico si estendeva lungo tutto il lato del palazzo e quello destinato a bagno era composto da una serie di cinque ambienti paralleli al corridoio; nel calidarium vi erano due absidi, una con la vasca, un’altra con il bacino di bronzo per le abluzioni. Secondo Svetonio, in alcune grotte Tiberio si intratteneva, come ben noto nei costumi della Roma antica, anche con giovani fanciulli. Ma come altre dicerie, anche questa non è supportata da ulteriori fonti, se non il solito Svetonio. Invece 

 

è certo che l’Imperatore amasse fare le abluzioni, soprattutto nella Grotta Azzurra, dove teneva colte conversazioni ed organizzava raffinati conviti. 


Ne era affascinato. Trasformata in un grandioso e silenzioso ninfeo sorto nel mare, fra giochi di luci e raffinati effetti solari filtrati dall’azzurro del mare, aveva fatto ornare la grotta di molte statue rappresentanti sirene, tritoni, ninfe e divinità. Opere d’arte ispirate al mondo classico, che applicate alla parete rocciosa, all’altezza del livello marino, apparivano uscite spontaneamente dalle acque. Abbandonata per decine di secoli, la villa venne riscoperta nel XVIII secolo, sotto il regno di Carlo di Borbone, e subì dei devastanti scavi durante i quali vennero asportati molti preziosi pavimenti in marmo. Villa Jovis fu poi oggetto, nel 1932, di un intervento di recupero, diretto dall’archeologo Amedeo Maiuri. Furono rimosse le macerie che si erano nuovamente accumulate sulle rovine della villa, che ne risultarono rivalorizzate. Ad Amedeo Maiuri è stata intitolata la strada che, partendo dal centro della contrada di Tiberio, conduce alle rovine.

 

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FRANCA FLORIO REGINA DI SICILIA di Gaia Bay Rossi – Numero 21 – giugno lugio 2021 – Ed Maurizio Conte

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FRANCA FLORIO REGINA DI SICILIA

 

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Queste le parole di Gabriele D’Annunzio, uno dei numerosi ammiratori di Franca Florio, come anche il Kaiser Guglielmo II di Germania che la soprannominò «Stella d’Italia».

 

 

 

Definizioni perfettamente rappresentate dal ritratto che le fece Giovanni Boldini nel 1901, poi costretto a modificarlo perché giudicato troppo audace dal committente, Ignazio Florio jr, marito di Franca. Nella versione definitiva, 

Boldini ritrae donna Franca in tutto il suo fascino e femminilità, 

avvolta da un elegante abito di velluto nero, con al collo 

la famosa collana di perle regalatale dal marito


– che si narra le fosse stata donata per farsi perdonare i numerosi tradimenti. La collana era lunga 1 metro e 40, con trecentosessantacinque perle di Cartier di grosso calibro. Si racconta che mise in imbarazzo persino la Regina d’Italia, Elena di Savoia, che possedeva una collana di perle simile, ma non così bella e preziosa.   

 

La favola della collana (una perla per ogni tradimento) è stata smentita più volte dai familiari, ma si è consolidata nel tempo per la fama di tombeur de femmes di Ignazio jr. Reputazione che, all’inizio della loro relazione, aveva causato un ostico diniego ad un possibile matrimonio da parte della famiglia di lei, gli aristocratici siciliani Jacona della Motta di San Giuliano. 

Per sottrarre la giovane all’influenza del rampollo della famiglia Florio, 

si trasferirono con la ragazza a Livorno, nonostante lui fosse 

uno dei migliori “partiti” d’Europa, oltre che 

intelligente e molto innamorato.


I due giovani, però, continuarono a scriversi tante e tali lettere d’amore fino a far capitolare il padre di lei e, nel 1893, a meno di vent’anni, Franca entrò a pieno titolo nella famiglia Florio. In quel periodo si trovava a Palermo il compositore e musicista Johannes Brahms, che dopo essersi esibito per un gruppo ristretto di partecipanti durante un ricevimento dai Florio, decise di regalare alla famiglia il suo pianoforte. Lo strumento venne messo all’Arenella, nella sala centrale della palazzina liberty “I Quattro Pizzi” (così chiamata per le quattro guglie che la sovrastano), dove lo si può ammirare tutt’oggi.   

 

Donna Franca era

la protagonista indiscussa della vita del bel mondo palermitano, 

parlava tre lingue straniere e, con il suo fascino e la sua eleganza spontanea, 

divenne in breve tempo la “regina di Sicilia”, 


aumentando il prestigio della famiglia Florio in tutta Europa. Oltre al carisma personale, era un’abile imprenditrice e aiutò il marito Ignazio, uno dei più importanti capitalisti dell’inizio del XX secolo, nella gestione dell’economia della famiglia che possedeva banche, industrie, cantieri navali, fonderie, tonnare, saline, cantine vinicole (il famoso Marsala) e, soprattutto, una delle più grandi flotte europee, la Società di Navigazione Italiana, prima a collegare la Sicilia con il continente e ad attivare rotte transatlantiche regolari tra la penisola italiana e il nord America.   

 

Ignazio e Franca Florio erano una coppia perfetta: giovani, belli, ricchi e generosi, sostennero la maggior parte delle più grandi attività culturali e imprenditoriali della città, consolidando il loro immenso impero economico

Donna Franca si dedicava alle opere umanitarie ed al sostegno 

delle classi sociali disagiate: era una visionaria coraggiosa

 

e decise di realizzare i primi asili nido all’interno degli stabilimenti, tra cui quelli della tonnara di Favignana, per aiutare le donne lavoratrici in difficoltà. 

I coniugi crearono poi una scuola per le giovani lavoratrici analfabete 

della società tessile, un fondo per gli operai bisognosi e l’Istituto dei ciechi 

a Villa del Pigno, il primo del genere ad essere aperto in Italia. 


Si dedicarono anche ad attività culturali come il completamento del Teatro Massimo, dopo oltre venti anni di battaglie burocratiche e accadimenti d’ogni genere: con i suoi 7.730 metri quadrati, è ancora oggi il più grande teatro lirico italiano e il terzo in Europa, dopo l’Opéra di Parigi e lo Staatsoper di Vienna.

Franca aveva un ruolo fondamentale accanto al marito nei salotti mondani 

delle grandi capitali europee, e all’epoca anche Palermo lo era, felice meta 

di regnanti, capi di Stato, artisti, poeti, musicisti e scrittori. 

 

Alta nobiltà e teste coronate furono ospiti dei Florio nella grande villa della vasta proprietà terriera dell’Olivuzza, tra cui i sovrani inglesi, Edoardo VII con la moglie Alessandra, l’arciduca ereditario d’Austria Francesco Ferdinando e lo zar Nicola II, ospite a Villa Florio all’Arenella. Banchieri come Morgan, Vanderbilt e Rothschild arrivavano a Palermo per affari, ma anche per potersi deliziare dell’ospitalità e del grande fascino di donna Franca, e così molti artisti come Pietro Canonica, che ne eseguì una scultura del busto a grandezza naturale, i pittori Boldini e Michetti, letterati come Maupassant, Oscar Wilde e Montesquieu (che le dedicò un’ode), D’Annunzio e Matilde Serao che la definì “divina immagine muliebre”, musicisti da Leoncavallo a Mascagni, Puccini e Wagner, e il tenore Enrico Caruso. Tutti soggiogati dal suo fascino. L’anziano Imperatore Francesco Giuseppe le regalò una tromba identica a quella della sua auto, cosicché lei potesse girare per le strade di Vienna assaporando il rispetto e gli stessi privilegi riservati alla vettura dell’Imperatore.

Si narra anche che una sera, alla Scala di Milano, Arturo Toscanini girò per un attimo le spalle all’orchestra mentre era in corso un applauso, per dirigere il suo inchino verso un palco tra i tanti: era entrata Franca Florio.

 

La sera del 16 maggio 1897, all’inaugurazione del Teatro Massimo a Palermo, si rappresentava il Falstaff di Verdi, ma gli occhi di tutti erano calamitati dal fascino di donna Franca. Il teatro era splendido e immenso, la gente lo ammirava come se fosse un monumento. Eppure la vera attrazione quella sera era lei, avvolta da una stola di zibellino a coprirle parte del bellissimo abito lungo di seta color albicocca che amplificava le luci brillanti emesse dai diamanti della sua parure.   

 

Come ricorda Nello Ajello: “Franca Florio viveva fra cronaca e leggenda. Leggenda erano le sue toilette, la sua servitù, le sue villeggiature, da Saint-Moritz a Beaulieu-sur-mer, i teatri che frequentava e che finanziava, gli yacht su cui navigava, le case che abitava, dalla villa dell’Olivuzza all’appartamento in Villa Igiea alla dimora di Favignana”.

Sono gli anni di massimo splendore, della sfavillante Belle Époque,

 

vissuti senza badare a contenere le enormi spese per gioielli e abbigliamento (donna Franca indossava esclusivamente abiti tagliati per lei dal sarto parigino di origine britannica Charles F. Worth), o a quelle di rappresentanza per ville, servitù e manutenzione di sei panfili, tra cui i lussuosissimi yacht “Sultana” ed “Aegusa”, o per i costosissimi ricevimenti e gli innumerevoli viaggi.   

 

Dopo varie vicende tristi, legate soprattutto alla perdita di tre bambini, fra cui l’unico figlio maschio, il piccolo erede “Baby Boy” sul quale Ignazio aveva riposto tutte le sue aspettative, cala il sipario sulla storia della famiglia: tra la fine degli anni Venti e la metà degli anni Trenta, per la famiglia Florio ci fu il crollo economico. Un destino segnato in parte da scelte sbagliate, forse anche da un tenore di vita esagerato rispetto ai cambiamenti storici e sociali, ma soprattutto da uno sviluppo economico che ha visto favorire l’espansione industriale delle regioni settentrionali rispetto al Meridione d’Italia.   

 

Nel centenario della nascita di Leonardo Sciascia, ecco le sue parole sulla vicenda di Franca Florio:

 

“Una storia proustiana, di splendida decadenza, di dolcezza del vivere, 

di affabile ed ineffabile fatalità”.

 

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FONDAZIONE BANCO DI NAPOLI L’ARCHIVIO STORICO di Orazio Abbamonte – Numero 21 – Giugno-Luglio 2021 – Ed. Maurizio Conte

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FONDAZIONE BANCO DI NAPOLI L’ARCHIVIO STORICO

 

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Presso la sede della Fondazione Banco di Napoli, alla via Tribunali 212, è conservato l’Archivio Storico, giacimento documentario dalla straordinaria importanza. Si tratta d’una tra le raccolte più rilevanti al mondo – poco meno di 100 km lineari di carte – di documentazione relativa ad attività di imprese bancarie d’età moderna. Il più antico atto lì conservato risale all’inizio del secolo XVI; la parte più cospicua della raccolta va dalla fine di quel secolo sino all’Unità d’Italia.

 

Il corpo di maggior pregio della raccolta è costituito dal materiale attestante l’attività creditizia degli otto banchi pubblici napoletani – presso la sede della Fondazione 

era il Monte dei Poveri – istituzioni per lo più formatesi su un nucleo di finalità caritative, all’epoca affidate a congregazioni di aristocratici e religiosi. 

 

Erano principalmente questi i soggetti impegnati a svolgere la funzione solidaristica nei confronti delle fasce più deboli della popolazione, in un contesto istituzionale pubblico che all’epoca si disinteressava quasi del tutto di ciò che oggi verrebbe definita attività di sostegno alla povertà. Anche al fine di procurare la provvista di danaro necessario allo svolgimento dell’assistenza ai deboli e diseredati – ma ovviamente non solo per questo scopo – le congregazioni s’organizzarono ben presto in banchi ed avviarono una fiorente attività nel settore del credito, ideando anche le forme giuridiche e tecniche più appropriate alla circolazione della ricchezza ed al prestito di danaro.

Centrale strumento per rispondere alle necessità della nascente attività bancaria 

fu la cosiddetta ‘polizza’. 

 

Questa, altro non era che il documento con il quale il cliente del banco – colui che aveva cioè depositate a suo nome somme presso di esso, divenendone creditore – poteva disporre del danaro a lui intestato, effettuando così pagamenti e transazioni d’ogni sorta, senza che fosse necessario maneggiare direttamente moneta ed evitando così i rischi e le difficoltà connesse alla diretta gestione del numerario.

Detto in questi termini, però, non s’intenderebbe l’importanza straordinaria dell’archivio dei banchi pubblici napoletani, miniere di conoscenze d’ogni sorta 

circa la storia della Città e del Mezzogiorno in età moderna.


Bisogna anche sapere che, all’epoca, ancora non era invalso il regime di ‘astrattezza’ del titolo di credito. Ciò significava che all’interno della polizza erano indicate, spesso anche con dovizia di particolari, tutte le ragioni della transazione che davano luogo al pagamento. Cosicché leggendo quei documenti, si ottengono informazioni le più varie, sulla vita di singoli e comunità, su storie di artisti, come su vicende matrimoniali, su momenti grandi e piccoli di famiglie aristocratiche come dell’alta borghesia o di semplici artigiani, commercianti, professionisti.

 

Enormi flussi informativi sono a disposizione su atti pubblici, di politica economica, 

di alleanze, guerre, corruzioni, furti, sulla storia sociale e culturale.

 

L’elenco è pressoché sterminato, quanto sterminato è evidentemente l’ambito d’attività d’una banca – in questo caso di otto banche –  la quale costituisce cuore pulsante in qualsiasi comunità, crocevia dove s’incontrano, si scontrano e si compongono gli interessi più vari. Accanto ai grandi temi, ci sono poi anche le notizie minute, di persone e personaggi, della loro vita privata come di quella pubblica, dall’acquisto di un’abitazione, alla costituzione d’una dote, al pagamento delle spese d’un banchetto, al mercanteggiamento di stoffe e vestiti.

Insomma, attraverso le carte di quell’archivio, è possibile ricostruire storie 

non altrimenti conoscibili e soprattutto avere esperienze di vite d’altri tempi,

con le loro caratteristiche, i loro sfondi originali, le loro esigenze in parte distanti dalle nostre, in parte invece espressione di quella continuità ininterrotta che è la vicenda umana, con le sue altezze e le sue bassezze, i suoi balzi, le sue rovinose cadute. 

 

Da alcuni anni, al fine di rendere i contenuti dell’Archivio sempre più ampiamente 

e variamente fruibili, sono in corso due progetti. Da una parte, attraverso l’adesione 

al programma Transkribus è in atto la digitalizzazione del materiale documentario 

e la successiva sua trasformazione in caratteri a stampa, d’agevole lettura.

 

È un processo di ‘traduzione’ che si serve di tecnologie particolarmente sofisticate ed avanzate, grazie al quale, anche eventualmente su specifica richiesta, è possibile avere un accesso enormemente semplificato a quanto si custodisce nell’Archivio: un accesso cioè consentito anche ad utenti non particolarmente edotti di diplomatica e paleografia.

Dall’altra, è attivo ormai da circa otto anni, presso la sede della Fondazione, 

un Museo della documentazione archivistica. Un museo dotato 

di ricco materiale multimediale

 

che permette al visitatore d’entrare in contatto diretto con il contenuto dei documenti, eventualmente interagendo con esso, e di rendersi conto del funzionamento dell’attività bancaria, nonché d’essere introdotto a racconti di vario contenuto ispirati dalle carte conservate nell’Archivio: e d’avere così diretta esperienza d’una varia ed estremamente suggestiva immersione nel passato, del quale potrà letteralmente avvertire il sapore, anche se in precedenza non ne aveva nemmeno il sentore.

 

In sintesi, l’obiettivo che la Fondazione Banco di Napoli s’è prefissa è stato duplice: per un verso, assicurare la conservazione e la più completa fruizione del patrimonio archivistico al novero, relativamente ristretto, degli studiosi professionali; 

per un altro, avvicinare quello stesso patrimonio 

ad un più vasto pubblico d’interessati,

 

in modo da far apprezzare il valore d’una lunga e coinvolgente storia, la storia del Mezzogiorno d’Italia, in ciò aspirando anche a diffondere sensibilità ed avvertenza per il contesto in cui si vive, condizioni non ultime per l’avanzamento della socialità e così della stessa civiltà.   

 

Di recente la Fondazione sta anche sollecitando, insieme ad altri soggetti pubblici e privati, l’intervento della Regione Campania, perché eserciti il potere di prelazione per l’acquisizione del non lontano edificio, un tempo sede del Monte di Pietà, uno degli otto banchi pubblici la cui documentazione è presente nell’Archivio. Ove l’operazione riuscisse, quella sede potrebbe andare a costituire uno dei siti di conservazione della memoria storica napoletana e del Mezzogiorno d’Italia, potenziando la vocazione del quartiere, già sede, oltre che dell’Archivio Storico, dell’Archivio di Stato, del Pio Monte della Misericordia e di vari altri luoghi culturali d’elezione.

 

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MUSICHE E STORIA DI AUTORI LUCANI di Pietro Dell’Aquila – Numero 20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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MUSICHE E STORIA DI AUTORI LUCANI

 

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Così, per quanto riguarda la Basilicata, possiamo ricordare i rilievi di Diego Carpitella che, al seguito della spedizione di Ernesto De Martino, registra dalla viva voce degli ultimi cantori le testimonianze sonore di una cultura popolare ricca ed antica.

L’attività musicale lucana affonda le sue radici in un imprecisato passato 

di cui resta il segno nelle melodie delle arpi viggianesi risalenti agli inizi 

del Settecento. E dobbiamo agli artisti di strada, emigrati che portarono 

in giro prima per l’Europa e poi negli USA un repertorio di novene 

e canti natalizi originali, la diffusione della nostra musica popolare.

A questi ignoti musicanti e ai loro compagni suonatori d’organetto ha ridato vita in tempi recenti Ambrogio Sparagna, autore di numerose pubblicazioni relative alla tradizione musicale. Non meno importante l’esperienza di Antonio Infantino (1944-2018) che dal 1966 ha recuperato canzoni e musiche popolari riproducendole in versioni attualizzate dal suo notevole estro artistico. La sua scomparsa ha comunque lasciato una scia di allievi che va dai “Tarantolati di Tricarico” a Pietro Cirillo.

 

La posizione geografica del territorio lucano, posta a metà strada 

tra le capitali meridionali, Napoli e Bari, ne ha da sempre condizionato 

i gusti e le ricadute culturali.

 

Pertanto nell’ambito della tradizione musicale classica, fino agli inizi degli anni Novanta, se si esclude l’esperienza del venosino principe Carlo Gesualdo (1560-1614), famoso in ambito internazionale per la sua intensa attività di madrigalista, che interpretò con audacia stilistica utilizzando nuovi cromatismi e modulazioni sonore, i musicisti lucani erano di fatto rimasti nell’ombra. Si deve al maestro Luigi Pentasuglia, docente di musicologia del Conservatorio di Matera la riscoperta e la riproposizione di spartiti e musiche degli autori lucani dal Cinquecento al Novecento.

 

Nel travagliato passaggio dai canoni della musica strumentale polifonica 

di stile franco-fiammingo del ‘500 alle nuove sonorità barocche partecipano 

gli autori lucani: Gregorio Strozzi, Marc’Antonio Mazzone e Giovanni Trabaci.

Le forme poetico-musicali del madrigale trovano variegate assimilazioni nelle canzoni a quattro voci, dette “madrigaletti”, del Mazzone che da Miglionico raggiunse prima Napoli e poi Venezia dove pubblicò gli spartiti delle sue composizioni dedicate al Cavaliero Napolitano Antonio Grisano, nel 1568 e al Duca di Mantova, nel 1570. 

All’affinamento delle tecniche espressive sugli organi, sui cembali e sui clavicembali si dedicò Gregorio Strozzi, nativo di San Severino Lucano, in provincia di Potenza, che fu organista della Chiesa dell’Annunziata di Napoli e insegnante di canto.

 

Più affine all’estetica gesualdina, si rivela Giovanni Maria Trabaci (1575-1647 circa) nato a Irsina e morto a Napoli. Fu celebre organista e direttore della cappella reale di Napoli. Pubblicò raccolte di mottetti, messe e musiche profane. La sua produzione più significativa, tuttavia, resta la musica per organo e cembalo raccolta nei volumi “Ricercate, canzone francese, capricci a quattro voci” del 1603 e il “Secondo libro de ricercate et altri vari capricci” del 1615 di notevole complessità contrappuntistica.   

 

La maggiore produzione musicale, ritrovata e pubblicata in due supplementi al Bollettino della Biblioteca Provinciale di Matera nel 1993, riguarda le “Sei Sonate a Tre op.1” a cura di Angelo Pompilio e i “Minuetti e Contradanze” a cura di Luigi Pentasuglia del musicista materano Egidio Romualdo Duni (1708-1775).   

 

L’edizione, che si avvale di una preziosa presentazione di Giovanni Caserta che

 

inserisce l’attività della famiglia Duni nel complesso quadro della società materana dell’epoca, al bivio tra i resti di una cultura clerico-nobiliare 

e le insorgenti pulsioni illuministiche,

propone gli spartiti di un fine artista che nelle sue peregrinazioni francesi e inglesi è costretto, per motivi di sopravvivenza, a impartire lezioni di musica alle nuove leve di studenti borghesi (presumibilmente giovani gentildonne) alle prime armi nell’approccio agli strumenti musicali.   

 

Di origine familiare piuttosto modesta, Egidio Romualdo Duni fu avviato agli studi ecclesiastici insieme ai suoi fratelli. Naturalmente non gli mancò una robusta istruzione musicale. Tra i suoi fratelli, sacerdoti e musicisti, si distinsero prima Giacinto e poi Saverio ed Emanuele per la loro attitudine filosofica e giuridica sebbene d’impianto e stampo naturalistico.

 

Egidio, a soli nove anni, fu mandato a Napoli per studiare musica,

 

prima al Conservatorio di Santa Maria di Loreto e poi a quello della Pietà dei Turchini e, quindi, a quello dei Poveri di Gesù Cristo, da dove uscì Maestro di Cappella dopo aver avuto maestri del calibro di Pergolesi e Traetta. A solo ventiquattro anni musicò la sua prima opera (Artaserse) cui seguirono diverse altre (Baiarte, Nerone, Adriano in Siria, Demofoonte, Catone in Utica) con i versi di Pietro Metastasio. Seguirono numerosi spostamenti che lo portarono a Roma, Milano, Londra, Leida, Vienna e Firenze, componendo opere di musica sacra e alcuni oratori.

 

Intorno al 1789 approda a Parma, alla corte di Filippo di Borbone, dove s’imbatte 

con l’opera tragica e comica francese rappresentata da Carlo Simone Favart 

e Luigi Anseaume e soprattutto fa la conoscenza di Carlo Goldoni che avrà 

profonda influenza sulla sua successiva produzione artistica.  

A registrare l’incontro a Colorno, dove si erano recati entrambi per motivi di salute, è lo stesso commediografo veneziano nelle sue “Memorie” ritraendo Duni oltre che come musicista anche come uomo d’ingegno, di brio e di conoscenze letterarie.

 

Tra il 1756 e il 1757 Egidio Duni arriva a Parigi, patria e magnete degli artisti 

e degli intellettuali dell’epoca, dove sarà raggiunto da Goldoni e conoscerà 

Diderot e Gian Giacomo Rousseau.

 

In Francia il musicista materano rimarrà fino alla sua morte. Quivi musicherà numerosi testi tra i quali “La figlia malvista”, “La campanella”, “L’isola dei pazzi” e “Gli zoccoli” che furono molto apprezzati dal pubblico e dalla critica francese.   

 

In tempi più recenti hanno operato: Michele Carafa principe di Colobraro (Napoli 1787-Parigi 1872), Francesco Stabile (Miglionico 1801-Potenza 1860), Vincenzo Ferroni (Tramutola 1858 – Milano 1934), il tursitano Carmelo Antonio Bruno (1938-2016), Otello Calbi (San Mauro Forte 1917- Roma 1994) e l’irsinese Giuseppe Mascolo (1927-1974).

 

Del principe Carafa si sono occupati Luigi Pentasuglia ed Ernesto Pulignano pubblicando gli spartiti della “Collezione di Cavatine Italiane per canto e pianoforte” nel 1996 nel Supplemento al Bollettino della Biblioteca Provinciale di Matera.


L’alto lignaggio consentì al Carafa di muoversi con disinvoltura nell’ambiente parigino entrando nell’orbita di Cherubini e Rossini con canti e melodie originali ed eleganti, orchestrate con cura, e destinate più che ai teatri ai salotti della buona società parigina.   

 

Francesco Stabile, figlio di un latifondista potentino, dopo gli studi giovanili napoletani presso la prestigiosa scuola dello Zingarelli e nonostante il successo della sua prima composizione operistica (Palmira), preferì ritirarsi a Potenza sia per curare gli affari di famiglia dopo la morte dei genitori che per sfuggire alle contrapposizioni feroci coi colleghi del capoluogo campano tra cui, forse, anche il Bellini.

Le composizioni musicali del Carafa e dello Stabile, comunque, non si discostano dalla tipica tecnica costruttiva delle musiche in esecuzione presso il Conservatorio 

di Musica napoletano, caratterizzate da una limpida e ripetitiva grazia armonica.


La vicenda artistica di Vincenzo Ferroni si svolge prima a Parigi, dove completa gli studi con Massenet, e poi a Milano tra composizioni prima di stile wagneriano e poi di tipo nazionalistico. La sua composizione più celebre resta la “Fantasia Eolica” del 1916 che sembra preludere alle arie espressionistiche. 

Docente di armonia complementare presso il Conservatorio materano, Carmelo Antonio Bruno, allievo del maestro Nino Rota, nei suoi “Tre movimenti per pianoforte a quattro mani” del 1991 ripropone con originalità ritmi melodici minimalisti di straordinaria forza espressiva. Il compositore e critico musicale Otello Calbi, maestro presso il Conservatorio di Napoli, ha dedicato prevalentemente il proprio impegno alla produzione musicale per chitarra. Vanno ricordate le sue composizioni “C’era una volta” del 1976 e il “Canone per due chitarre” del 1881 che superano le classiche tipologie “segoviane” per iscriversi in una nuova letteratura chitarristica. 

Quasi a omaggiare un genere di musica che da sempre cerca di coniugare il genere classico con il gusto folclorico e popolare ricordiamo, in chiusura, il maestro Giuseppe Mascolo che ha composto meritoriamente arie per Bande da Giro tra cui il “Fascino esotico” del 1954.

 

Gran parte dei brani citati sono stati registrati e pubblicati in tre Compact Disk 

dal Gruppo Musicale “Ensemble Gabrieli”, purtroppo in edizione limitata 

e ormai di difficile reperimento.

 

Concerti si sono tenuti, oltre che presso il Conservatorio di Matera, al Ramapo College e all’Indian Trail Club nel New Jersey (USA) nonché nella prestigiosa sede dell’”Église de Saint Eustache” a Parigi rispettivamente nell’ottobre e dicembre 1997.

 

All’interno dei processi di omologazione e globalizzazione in atto, le identità culturali si vanno progressivamente sgretolando nonostante la sete di passato che ormai, paradossalmente, ci appare come l’unico futuro possibile. Pertanto sono significative tutte le ricerche e i tentativi di recupero e valorizzazione dei tratti distintivi delle tradizioni regionali che pure hanno trovato spazio a partire dagli anni Cinquanta.

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LA SICILIA ROMANA di Gaia Bay Rossi – Numero 20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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LA Sicilia romana

 

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di circa 170 chili, più larghi anteriormente e posteriormente, e con i fendenti a formare la sagoma di un tridente. Insieme alla struttura lignea della prua delle imbarcazioni, questi rostri erano micidiali armi d’attacco.

E proprio dei rostri, sia romani che cartaginesi, sono stati ritrovati a nord-ovest di Levanzo, nelle isole Egadi, tra il 2005 e il 2015. Un successo archeologico della Soprintendenza del Mare di Sebastiano Tusa, che ha permesso di localizzare l’esatta posizione della battaglia finale della Prima guerra punica, conflitto di fondamentale importanza per i destini di Roma e della Sicilia.

 

Con la battaglia delle Egadi, avvenuta il 10 marzo del 241 a.C., iniziava infatti l’inarrestabile ascesa che avrebbe portato Roma a diventare potenza egemone 

nel Mediterraneo: lo storico Polibio ci ricorda come il sentimento che muoveva 

la società romana fosse la “brama di dominio universale”, 

su ogni persona e su ogni territorio.

 

Lo scontro finale, come rilevato, avvenne a nord-ovest di Levanzo. Roma stravinse, mentre i Cartaginesi subirono una disfatta di navi e di uomini. Le prime erano appesantite dai carichi ed i secondi inadeguati nel combattimento ravvicinato, oltre che inferiori nell’esperienza e nella capacità strategica in battaglia. Alla fine di quella memorabile giornata, i Romani avevano affondato cinquanta navi, catturandone altre settanta complete di equipaggio.

 

Con la resa dei Cartaginesi, la Sicilia occidentale e gran parte di quella centrale divenivano province romane: restava invece indipendente Siracusa, 

ma sotto protettorato romano, con un territorio che comprendeva 

buona parte della zona orientale. Gaio Lutazio Catulo, console 

e comandante navale romano,

«pose fine alla contesa, dopo che furono redatti i seguenti patti: “Ci sia amicizia fra Cartaginesi e Romani a queste condizioni, se anche il popolo dei Romani dà il suo consenso. I Cartaginesi si ritirino da tutta la Sicilia e non facciano la guerra a Gerone né impugnino le armi contro i Siracusani né contro gli alleati dei Siracusani. I Cartaginesi restituiscano ai Romani senza riscatto i prigionieri. I Cartaginesi versino ai Romani in vent’anni duemiladuecento talenti euboici d’argento”». (Polibio, Storie, I, 61, 4)

 

Mentre una buona parte dell’isola si dedicava quindi alla ricostruzione delle città devastate dalla guerra

 

il regno indipendente di Siracusa, sotto Gerone II, aveva firmato con Roma 

un trattato che garantiva al regno pace ed indipendenza per un lungo periodo.

 

In realtà, la stessa Siracusa, dopo la morte di Gerone, cadde sotto i Romani nel 211. a.C., al culmine della Seconda guerra punica, divenendo poi la sede amministrativa principale della provincia.   

 

Della guerra cadde vittima anche il grande matematico Archimede, come ci racconta Livio:

«Manifestandosi molti casi di furore e molti casi di ripugnante cupidigia, si tramanda che un soldato abbia ucciso Archimede, mentre in mezzo a quella grande confusione, era intento a tracciare nella polvere alcune figure geometriche […]». (Livio, Storia di Roma, XXV, 31.9.)   

 

Marcello fu desolato per l’uccisione del matematico, fece costruire una tomba in suo onore e pose i suoi congiunti sotto protezione. La sua uccisione fu un incidente dovuto ad un maldestro legionario romano e Plutarco ci riferisce che proprio Marcello deplorò l’assassino: «Distolse lo sguardo dall’uccisore di Archimede come da un sacrilego». Se l’assedio era durato ben due anni, dal 214 al 212 a.C., fu proprio per

 

il genio eccezionale di Archimede, ideatore e costruttore di avveniristiche macchine da guerra: enormi catapulte, artigli giganteschi e micidiali specchi ustori, 

di cui oggi ancora sappiamo poco.

È rimasta celebre nei secoli l’esclamazione “èureka” (εὕρηκα – ho trovato) attribuita al matematico dopo la scoperta (Plutarco racconta che avvenne mentre si immergeva in una vasca alle terme) del principio che porta il suo nome: “Ogni corpo immerso parzialmente o completamente in un fluido riceve una spinta verticale dal basso verso l’alto, uguale per intensità al peso del fluido spostato”. Quando Marcello espugnò Siracusa dopo la lunga resistenza della città, nel 212 a.C., il console romano scoprì un vero patrimonio di splendori artistici, tra cui il famoso planetario di Archimede (di cui in seguito si persero le tracce), che portò in trionfo a Roma, facendo conoscere ai romani meravigliosi esemplari d’arte greca.   

 

A Siracusa vennero quindi edificate opere di notevole importanza, come l’Anfiteatro romano per le lotte dei gladiatori ed i giochi d’acqua, il Ginnasio romano e l’intricata rete di catacombe (la più estesa dopo quella di Roma) ed altri monumenti.

 

Importantissima per la Sicilia, come per le altre parti dell’Impero, fu l’età di Augusto, 

il primo imperatore romano: la romanizzazione culturale della Sicilia 

cominciava in maniera metodica.

 

Il sistema di governo romano sottopose la maggior parte delle città siciliane a pesanti tributi, con la “decima” dei raccolti di grano e di orzo. Per l’abbondante produzione, la Sicilia venne definita da Catone il Censore “il granaio della repubblica”. L’isola si trasformò in un enorme campo coltivato con viti, ulivi, orzo e soprattutto frumento per il mercato esterno. Il grano era sicuramente la materia prima più importante per la capitale dell’impero, che ogni anno ne importava dalla Sicilia più di 3 milioni di quintali da destinare ai suoi cittadini.   

 

Dopo la morte di Augusto la decima fu abolita ed il sistema tributario radicalmente riformato. D’altra parte, l’annessione dell’Egitto forniva una nuova fonte di approvvigionamento di grano e quello siciliano non era più indispensabile.

La civiltà romana, diversamente da quella greca, non ebbe invece un peso incisivo nella cultura siciliana e non riuscì (né tentò) di sconfiggere la “grecità” dei siciliani. Nonostante ciò, importanti testimonianze del dominio romano restano 

le costruzioni architettoniche: teatri, ginnasi, terme, anfiteatri 

ed opere idrauliche, il tutto soprattutto nella Sicilia orientale 

e nella punta occidentale.


A partire dalla fine del III secolo sembra diffondersi l’uso delle statue marmoree, specialmente nei santuari e negli altri edifici pubblici. Al periodo tardo-repubblicano appartengono poi esempi di mosaici e pitture parietali. L’esemplare più notevole è stato scoperto a Palermo: un emblema con “caccia al leone”, appartenente ad una casa ellenistica, di cui si presuppone però l’intervento di maestranze dall’Oriente ellenistico. Importante in questo periodo è anche la produzione di ceramiche, in particolar modo in due città, Siracusa ed Agrigento


I primi secoli dell’Impero rappresentarono, invece, il periodo meno luminoso 

per la civiltà urbana della Sicilia,

 

con la sparizione in quegli anni di numerosi centri abitati. La marginalità culturale dell’isola si accentuò nel I e soprattutto nel II secolo d.C., evidenziata dall’assenza di ville e di monumenti funerari di alto livello, chiaro indizio dell’assenza di “classi medie” municipali e della predominanza assoluta del latifondo.

 

Nella fase tardoantica si ebbe, invece, un’inversione di tendenza

 

rispetto al periodo precedente, con il ripopolamento delle campagne e dei vecchi centri abbandonati. Primo indizio fu l’apparizione di ville di lusso, anche in zone che fino ad allora erano riservate alla sola produzione agricola.

L’eccellenza è rappresentata dalla Villa del Casale di Piazza Armerina 

(dal 1997 Patrimonio Unesco), dove si trova uno degli esempi più belli 

di architettura residenziale romana.

La villa si sviluppa in 60 ambienti, dei quali 42 pavimentati con mosaici policromi, un unicum per contenuto e rarissimi per lo stato di conservazione. È senz’altro il più importante complesso di mosaici finora trovato in una singola abitazione: nel vestibolo vi sono animali incorniciati da corone d’alloro, nella palestra le corse del circo Massimo, poi la sala del ratto delle Sabine, il corridoio della Grande Caccia, le scene allegoriche di Eracle e la distruzione dei Ciclopi, la raffigurazione dell’Oriente, la lotta tra Eros e Pan. E anche una curiosità, ormai famosa: in un ambiente interno un mosaico raffigura dieci fanciulle impegnate in esercizi atletici, che indossano come costume un “bikini”, molti secoli prima che, in epoca contemporanea, fosse… reinventato!

 

Tutti questi soggetti sembrano voluti non tanto per darne un’interpretazione 

“imperiale”, quanto in funzione di un proprietario la cui qualità di “intellettuale”

 

poteva essere suggerita dal nome stesso della pars dominica (la parte abitata dal proprietario), evidentemente connessa con la statio (la stazione di sosta per i viaggiatori che percorrevano la via Catania-Agrigento): “Philosophiana”.   

 

La Sicilia rimase provincia romana molto a lungo, per 637 anni, finché non venne conquistata dal vandalo Genserico nel 440 d.C. Non dimentichiamo che i siciliani nei secoli furono greci, romani, arabi, normanni (e molto altro ancora), ma sempre parzialmente, perché in primis restarono siciliani e gli invasori contribuirono in un certo senso a migliorare la loro… sicilianità, come segnalava Ermocrate già nel 424 a.C.:

 

«Noi non siamo né Joni, né Dori, ma Siculi».

 

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UN ESPERIMENTO REPUBBLICANO NEL MEZZOGIORNO: IL 1799 di Tommaso Russo – N.20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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UN ESPERIMENTO REPUBBLICANO NEL MEZZOGIORNO: IL 1799

 

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ricostruirne le tappe, onorare i protagonisti caduti tragicamente. Vincenzo Cuoco ricordò che Eleonora de Fonseca Pimentel prima di salire sul patibolo bevve un caffè e poi pronunciò un verso virgiliano divenuto famoso: Forsan et haec olim meminisse iuvabit (Forse un giorno converrà ricordare tutto ciò).

 

Quel desiderio è giunto fino a noi (Gerardo Marotta diceva di portare ancora il lutto 

per quella tragedia), ha dato vita ad una messe di iniziative editoriali, convegni 

e pubblicazioni ed è entrato nell’odonomastica comunale 

(molti paesi hanno una loro via o piazza 10 Maggio).

 

tutto ciò è potuto accadere per due ragioni: perché la memoria culturale e l’immaginario collettivo hanno adottato quella data come un evento spartiacque, come un’identità profonda della cultura e della civiltà meridionali; perché la sua eredità riguarda l’elaborazione di un pensiero alto (la separazione tra Stato e Chiesa, assente per esempio nell’Illuminismo lombardo, la riflessione giuridica, la nascita della politica) divenuto patrimonio europeo ed italiano che fa ancora discutere.   

 

Geografie e Protagonisti

Benedetto Croce, nella sua Storia del Regno di Napoli, così descrive quel tornante cronologico: “In questo corso non pigro ma placido di discussioni, 

di proposte, di parziali riforme […] irruppe l’impetuosa corrente 

della Rivoluzione francese”. 


Nonostante la sua cautela, quegli eventi ebbero il carattere di una vera e propria diaclasi. In verità l’Illuminismo, uno dei capisaldi del 1789, era già presente nel
milieu culturale meridionale, dove si era manifestato con originalità sotto il profilo politico, filosofico, giuridico e scientifico. A Napoli da tempo erano stati sloggiati l’aristotelismo e la filosofia di “Renato Delle Carte”. In fase calante pure il platonismo di Paolo Mattia Doria, mentre Niccolò Fraggianni e Celestino Galiani presidiavano il regalismo di Pietro Giannone.

 

Chimica e medicina furono due importanti settori disciplinari 

e della seconda Domenico Cirillo era un faro.

 

La prima cattedra di economia politica in Italia fu istituita a Napoli ed affidata ad Antonio Genovesi. Fra i suoi allievi conviene ricordare quel Ferdinando Galiani che nel 1751 pubblicò il trattato Della Moneta in cui sostenne il concetto della moneta-merce (Karl Marx lo svilupperà nella formula D-M-D ossia Denaro-Merce-Denaro). 

Molti ecclesiastici fecondarono il clima culturale del secondo Settecento, un nome per tutti: Andrea Serrao, gran figura di vescovo regalista.

Dell’ala più vivace della nobiltà vanno tenuti a mente, fra gli altri, Giovanni Carafa duca di Noja e Raimondo di Sangro principe di Sansevero (sua la Cappella-Museo col Cristo velato), organizzatore delle Logge napoletane all’obbedienza della National Grand Lodge.
 

Sempre sul terreno latomistico va ricordato pure il calabrese Antonio Jerocades, 

“abate bizzarro e gran disseminatore di logge”. Nella seconda metà del 1785 

giunse a Napoli il pensoso teologo protestante Friederich Münter.

 

Apparteneva all’ordine massonico degli Illuminati di Baviera e raccolse intorno a sé tanti bei nomi, fra cui Filangieri e Pagano. Troppo egualitaria e razionalista era la sua Loggia della Philantropia, che ebbe infatti vita breve. Le Logge, oltre ad essere luogo della sociabilità cetuale e primo embrione di partito, furono altresì sede dove la politica venne tenuta a battesimo. Ne è prova il biennio delle congiure:1794-96.   

 

Nella primavera del 1800 Jacques-Louis David completa il quadro di Napoleone che valica le Alpi. Questa immagine imperiale racchiude l’intero cammino dell’età napoleonica (1796-1815), con dentro il triennio giacobino (1796-99), di cui la Repubblica napoletana fu magna pars.

Quando, il 23 gennaio 1799, le truppe francesi del generale Championnet entrarono 

in Napoli, vincendo una dura resistenza del proletariato urbano, la notizia della proclamazione della Repubblica si diffuse in tutte le province.

 

Così, da Crotone ad Altamura, da Rosarno ad Avigliano, dagli Abruzzi al Molise, a Tito e Picerno, alle province pugliesi vi fu una generale adesione al nuovo ordine delle cose. I comportamenti erano simili. Aveva luogo la piantagione dell’albero della libertà di solito vicino ad altri simboli di potere (ad Altamura venne piantato vicino alla Cattedrale federiciana, a Cosenza vicino alla sede della Regia Udienza). Intorno ad esso si liberò la fantasia popolare.

Le donne dettero vita a balli, canti, giochi e carri di carnevale, 

a scenografie con cui sovvertire le gerarchie sociali:


le popolane diventavano regine, gli uomini principi consorti. Le altre due scelte erano la costituzione della Municipalità e la formazione della Guardia Civica: tutte di grande valore simbolico. In quel torno di mesi si assistette alla nascita della Repubblica nel villaggio: tante repubbliche per quanti erano i paesi che vi aderirono (per parafrasare Maurice Agulhon).   

 

Gli entusiasmi, però, furono di breve durata. Ben presto si mosse dalla Calabria il Cardinale Fabrizio Ruffo. Finanziatori della sua Armata Cristiana e Reale (l’esercito della Santa Fede) agli inizi furono i vescovi di Melito, Policastro e Capaccio, i monaci della Certosa di Santo Stefano del Bosco e i domenicani del Convento di Soriano. Oltre ai fondi borbonici, via via si aggiunsero i finanziamenti di quelle fazioni di borghesie locali contrarie alla Repubblica ed al suo programma, in primis la redistribuzione dei demani. I più noti capibanda al servizio di Ruffo furono Nicolò Tomasi, che agì nella zona di Sant’Angelo a Fasanella, Rocco Stoduti a Policastro, Antonio Guariglia nel Cilento, Gerardo Curcio, detto “Sciarpa”, tra il Vallo del Diano e il Marmo Platano (in provincia di Salerno e Potenza).

 

Avevano dato ed avuto ordini precisi di saccheggiare e fare terra bruciata. 

La ferocia con cui l’esercito della Santa Fede si accanì 

contro i Comuni “democratizzati” è inimmaginabile.

 

Ciò rese più eroica la resistenza delle Municipalità ed il protagonismo femminile. Le donne dei nuclei subalterni ebbero un ruolo importante nell’organizzare la difesa dei propri paesi, nel parteciparvi armate, nel fare da staffetta da un quartiere all’altro e pagarono un prezzo altissimo, torturate, stuprate ed uccise. Nel massacro di Picerno operato da Sciarpa, 19 furono le donne uccise contemporaneamente a 59 uomini. Sempre Sciarpa, a Tito, fece torturare in modo inenarrabile le “cameriere” di casa Cafarelli per indurle a confessare dove si fossero rifugiati il loro padrone Scipione e sua moglie Francesca de Carolis, entrambi leader di quella Municipalità. Non tradirono.   

 

Francesco Lomonaco, nel suo pamphlet Rapporto al cittadino Carnot (1800) è il primo cronista di quella tragedia e nelle pagine sfilano i nomi degli afforcati a Piazza Mercato. Forse la figura più toccante è quella del “Notar Libero Serafini sindaco di Agnone nel Molise” che Giustino Fortunato tratteggia in maniera struggente nel suo I giustiziati di Napoli. Quest’uomo “d’avanzata età”, prigioniero di un “picchetto di Calabresi”, alla domanda sulla sua identità con fierezza rispose: “Io sono il Presidente della Municipalità d’Agnone […] Viva la Repubblica Francese e Napoletana”.   

 

Epilogo   

 

In quei mesi fece la sua comparsa la funzione sociale del mito e dei simboli come strumento di lotta politica: l’albero della libertà, le coccarde, le bandiere, i canti, il senso di appartenenza. 

La formazione di un gruppo di uomini nuovi che volle proporsi quale classe dirigente troverà nel Decennio francese una sua occasione per sperimentarsi. L’esigenza di una più equa distribuzione dei demani, croce e delizia per i repubblicani, venne affrontata in ritardo, ossia ad aprile. Il 10 Maggio cadevano le ultime roccaforti giacobine.

 

Il semestre repubblicano rappresenta per il Mezzogiorno il passaggio politicamente 

più ardito da una società di antico regime alla modernità.

 

 Prologo

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LA SIBILLA CUMANA di Fabio De Paolis – N. 20 – Marzo-Aprile – 2021 – Ed. Maurizio Conte

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LA SIBILLA CUMANA

 

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“La Sibilla con bocca invasata pronunzia cose tristi, senza ornamento né profumi (indice di pessimismo) e attraversa con la sua voce migliaia d’anni (indice di decrepitezza) per opera del nume”. 

 

Non se ne conosce l’etimologia, ma il probabile significato di Sibilla è “Vergine Oscura” proprio perché viveva in luoghi oscuri, luoghi misteriosi e inaccessibili. In ogni caso era una profetessa di sciagure, una misteriosa veggente femminile che svolgeva attività mantica in stato di trance, una figura che incuteva timore e rispetto in tutti.

 

Fu Marco Terenzio Varrone, nel I secolo a.C., ad elencare dieci diverse Sibille 

collocate in regioni geografiche differenti: la Sibilla Persiana, quella Libica, 

la Delfica, la Cimmeria, l’Eritrea, quella Samia, la Sibilla Cumana, 

quella Ellespontica, la Frigia e la Sibilla Tiburtina.

 

Erano donne considerate esseri leggendari, mediatrici tra dio e l’uomo, spesso concepite come figlie di divinità e di ninfe, a volte divinità esse stesse. Non immortali, ma miracolosamente longeve, si diceva potessero profetizzare e vivere anche per un millennio. Una antica leggenda ci racconta che dalla città greca di Eritre in Lidia, la Sibilla Deifobe giunse a Cuma, in Campania. Deifobe era dotata di una bellezza straordinaria, a tal punto che Apollo se ne innamorò follemente. Nonostante la Sibilla fosse la “sposa” del Dio, mai si accoppiava fisicamente con lui: la Sacerdotessa, infatti, conservava intatta la sua verginità, poiché

“l’amore” di Apollo nei suoi confronti era solamente un “soffio” trasfuso in lei, conservandola nello stato di verginità.

 

Ciò nonostante il Dio Febo tentò invano con Deifobe ogni sorta di seduzione, e alla fine pur di averla le promise che, se gli si fosse concessa, le avrebbe esaudito ogni suo desiderio. Deifobe acconsentì, si chinò a raccogliere un pugno di terra, e chiese a Febo di vivere per tanti anni pari ai granelli contenuti nella polvere, che risultarono essere 1.000. Ma si scordò di domandare anche la perpetua giovinezza. Così, con il trascorrere del tempo (complice la promessa non mantenuta di giacere con il dio) divenne sempre più vecchia, raggrinzita, e piccola quanto una cicala, fino a quando di lei ne rimase solo la voce. A chi le chiedeva quale fosse il suo desiderio, da lontano e senza esser vista, rispondeva sconsolata: “La morte!”.

Tra le tante Sibille esistenti, quella Cumana è una delle figure 

più inquietanti della mitologia greco-romana.

 

Il culto di Apollo era allo stesso tempo negromantico e ctonio, aveva a che fare sia coi morti che con il mondo sotterraneo. La Sibilla Cumana fondeva in sé l’elemento iniziatico e negromantico con quello oracolare e furente. La Sacerdotessa (dotata di poteri divinatori concessi da Febo) pronunciava infallibili responsi, e vaticinava in esametri greci scritti su foglie di palma, i quali, mischiati dai venti provenienti dalle 100 aperture del suo Antro, erano resi “Sibillini”. 

 

Il poeta Virgilio ci racconta l’incontro tra Enea e la Sibilla Cumana:

 

“Un tempo Enea con i suoi marinai giunse sulle coste dell’Italia e al sacro tempio di Cuma dove Sibilla col custode e il sacerdote soggiornava. Lì c’è una porta ianua e orrenda. Enea strappò un ramo d’oro dal bosco e sacrificò pecore nere alla dea dei morti; allora Sibilla procedette per le ombre e per i vuoti regni dell’Orco. Innanzi il vestibolo giaceva lutto e preoccupazione della vigilia; in quel luogo tra i mondi dei vivi e dei morti anche bianche malattie, e la morte con altri mali dei vivi, e pensieri di vita e tormenti, guerra e discordia. Nel vestibolo l’olmo ombroso apre vecchi rami; sotto le foglie si fermano le ombre vane dell’olmo che sono considerate illusioni beate e incubi oscuri che spesso fanno visita agli uomini. Inoltre Enea vedeva molti mostri, vari tipi di belve, tra gli altri i Centauri, Scilla, Chimera e Arpia. L’inquieto Enea sguainò la spada contro i mostri poiché li credeva veri mostri. Ma Sibilla ammonì l’uomo con queste parole” deponi la spada Enea, perché i tuoi occhi fissano ombre, non forme vive”.

La Sibilla per vaticinare traeva ispirazione masticando foglie di lauro 

(la pianta sacra ad Apollo) e con libagioni di acqua di Fonte Sacra, 

ma soprattutto attraverso il respiro dei vapori effluvii che uscivano 

da fenditure del terreno nei pressi dell’Antro in cui viveva, a Cuma, 

località posta nella zona vulcanica dei Campi Flegrei.

 

Quando entrava in trance il dio Febo la possedeva completamente, prendendo il sopravvento sulle sue facoltà superiori dello spirito, sulla ragione, sull’intelligenza e sull’animo, sede della passione e dei sentimenti. Il cambiamento del colore del volto, il petto ansante e il cuore selvaggio che si gonfiava di furore, mostravano una ribellione della Sibilla al dio stesso, che cessava solo quando cessava il furore della possessione, e solo allora la rabbiosa bocca rimaneva quieta perché Apollo l’aveva abbandonata.  

 

Nel 1932 a Cuma, durante una campagna di scavo condotta dall’archeologo Amedeo Maiuri, venne scoperta una grotta che lo stesso identificò come il famoso “Antro della Sibilla“.

 

Dopo la sua scoperta il Maiuri affermò: “Il lungo corridoio trapezoidale 

alto e solenne come la navata di un tempio, e la grotta a volta 

e a nicchioni, formano un unico insieme. 

Era la grotta della Sibilla, 

 

l’antro del vaticinio quale ci apparve dalla poetica visione di Virgilio e della prosaica e non meno commossa descrizione dell’Anonimo scrittore cristiano del IV secolo”.  

All’antro si accede tramite una lunga galleria con 12 brevi passaggi laterali che si aprono sul fianco del colle, da cui filtra la luce. La galleria principale termina in un vestibolo contenente un paio di sedili scavati nella roccia e al di là di essi una camera a volta. Facilmente possiamo immaginare come, nell’imminenza della profezia (il responso di Apollo) i postulanti fossero fortemente emozionati. Erano seduti su gelidi sedili di roccia immersi nei vapori sulfurei. Giacevano nella penombra ascoltando la profetessa rabbiosa che vaticinava nascosta dalla porta che separava il vestibolo dal tempio interno. Erano in uno stato di esaltata aspettativa mistica mista a puro terrore.

 

Oltre alle folli grida di una vecchia di cui non se ne conosceva l’aspetto, 

anche l’effetto ottico e la suggestione all’interno della grotta erano tremendi:

 

durante il giorno, l’alternarsi di fasci di luce e oscurità originati dai pozzi lungo la galleria, faceva sì che chiunque provenisse dall’interno per condurre i nuovi arrivati al tempio apparisse e scomparisse. Ancora oggi, senza le suggestioni mistiche di un tempo, l’impatto è fantastico, perché si entra in una lunga galleria rettilinea a sezione trapezoidale dove non si riesce a cogliere la fine del percorso. Ed è per questo motivo che si avverte una sorta di sacralità di fronte a questa struttura misteriosa.   

 

La grotta identificata come l’antro della Sibilla ha subito interventi romani e bizantini, ma per il caratteristico taglio trapezoidale della parete, è databile in età molto arcaica, probabilmente risalente alla seconda metà del IV secolo a.C..

 

Chi oggi visita l’antro percorre un lungo corridoio di 131 mt con nove bracci, 

nella parte occidentale di questi, sei comunicanti con l’esterno e tre chiusi.

Verso la metà del corridoio, sulla sinistra vi è un braccio articolato in tre ambienti rettangolari disposti a croce, usati in età romana come cisterne. Sul fondo delle cisterne alcune fosse in muratura e fosse sepolcrali indicano che questa parte della galleria svolse in età cristiana funzione di catacomba. Poco più avanti lungo il corridoio c’è una sala rettangolare. Da qui un vestibolo a sinistra, anticamente chiuso da un cancello, introduce in un piccolo ambiente che si suddivide in tre celle minori disposte a croce. Questa stanza venne interpretata dal Maiuri come l’Oikos Endotatos, in cui la Sibilla, assisa su un trono avrebbe pronunciato i suoi vaticinii.  

 

Recentemente si è ritenuto che l’antro rinvenuto fosse una struttura difensiva. A sostegno di quest’ultima ipotesi vi sono la posizione della galleria posta sotto la sella che unisce l’acropoli di Cuma con la collina meridionale e l’analogia con altre strutture difensive.

 

Quindi la ricerca dell’antro della Sibilla non è ancora conclusa, ora lo si cerca 

nei pressi del peribolo del tempio di Apollo, dove è situato un ambiente 

quasi completamente sotterraneo, “la cisterna greca”.

 

Ma sono tutte ipotesi astratte, in concreto ci assiste sempre il poeta Virgilio che nel VI libro dell’Eneide così descrive l’Antro della Sibilla: “L’immenso fianco della rupe euboica s’apre in un antro: vi conducono cento passaggi, cento porte; di lì erompono altrettante voci, i responsi della Sibilla”.  

 

 

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L’ARBËRESHË IN CALABRIA UN PATRIMONIO DA TUTELARE di Michele Minisci – N.20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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L’ARBËRESHË IN CALABRIA UN PATRIMONIO DA TUTELARE

 

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ma la più folta è sicuramente l’Arbëreshë, gli albanesi d’Italia, con le prime pattuglie arrivate attorno al XV secolo per sfuggire all’avanzata turco-ottomana in tutti i Balcani, insediandosi specialmente nel nostro Sud ed in maniera più massiccia in Calabria, dove tutt’ora abitano circa 100.000 persone

Ma gli anziani se ne vanno e si portano via i proverbi, le canzoni, i pezzi di un mondo e così tutte le comunità minoritarie d’Italia, anche se in modi ed a livelli diversi, stanno affrontando la sfida del declino. A meno che non ci sia qualcuno che, realizzato il valore di ciò che si sta perdendo, incoraggi la collettività alla riscoperta delle proprie radici.  

 

E’ quello che sta facendo il Comune di Vaccarizzo Albanese – piccolo centro collinare di poco più di mille abitanti ai piedi della Sila Greca, di fronte alla pianura di Sibari, ricca di secolari uliveti e dorati aranceti, ed al mare Jonio – con il suo Museo del Costume Arbëreshë, cui è collegata una suggestiva Sagra annuale del costume, con delegazioni da moltissimi paesi. 

Il Museo, situato nel Palazzo Cumano (uno dei più antichi del paese), istituito dall’Amministrazione Comunale e da Papàs Giuseppe Faraco nel 1984, e faticosamente ma appassionatamente diretto da Silvia Tocci, custodisce vestiti originali – alcuni con più di 100 anni di vita – provenienti da molti paesi albanesi della Calabria.

Oggi, nell’Arberia – quel nucleo formato da un pugno di questi paesini 

che si affacciano sulla costa jonica così chiamato in omaggio 

alla madre patria – ci saranno appena 2-3 donne 

che portano ancora il costume tradizionale,


benché. stia prendendo piede, per volontà delle giovani ragazze, di sposarsi col costume di gala Arbëreshë.   

Ma vediamo più da vicino queste meraviglie, aiutati dalle precise e dettagliate note che si trovano nel sito del Comune

 

Il nostro costume, gelosamente custodito di generazione in generazione, 

rappresenta ancora oggi un forte simbolo d’identità 

e di appartenenza etnica


Esso è legato allo sviluppo dei tempi, nel senso che non si può non tenere conto dei rapporti intercorsi tra la nostra cultura e quella ufficiale, ma ciò nonostante, pur differenziandosi per fogge e colori, ha mantenuto intatta la nomenclatura originaria delle aree di provenienza albanese e la composizione di alcuni elementi: il diadema nuziale, il velo, la camicia con merletto, la lunga gonna a fitte pieghe, la cintura.

 

Il costume, indossato oggi solo da qualche anziana donna, in passato 

faceva parte della dote di ogni ragazza, che lo avrebbe portato 

nelle più importanti circostanze della sua vita.

 

Il vestito di gala si indossava infatti il giorno delle nozze, con una vestizione che era un vero e proprio rito, e poi in occasione di ricorrenze liete legate all’ambito familiare e sociale, o in quelle più importanti del ciclo dell’anno. La consuetudine di indossare il costume tradizionale si ritrovava poi in occasione di un lutto e, fino a non molto tempo fa, era anche uso vestire la salma con il proprio vestito nuziale. La sposa, in aggiunta alla dote normale, riceveva dei costumi da indossare oltre che nei giorni festivi, anche nei giorni feriali. Il costume Arbëreshë presenta, pertanto, diverse tipologie: il costume di gala, il costume di mezza festa ed ancora il costume giornaliero e quello di lutto.

 

Il materiale utilizzato per realizzare questi costumi era la lana per i contadini, 

mentre per il ceto più elevato il cotone, il lino e la seta, stoffe spesso prodotte 

nella chiusa economia domestica, così come i costumi 

che con esse venivano confezionati. 


Dal Settecento in poi, le diverse condizioni economiche e sociali permisero agli Arbëreshë d’Italia di affidare la cucitura delle varie fogge a maestri artigiani locali che iniziarono ad arricchire i costumi secondo il grado di ricchezza di chi lo richiedeva, variando la qualità, la fattura e la quantità degli ornamenti. Tutto ciò determinò l’adozione di tessuti più preziosi (laminati in oro, velluto, ecc.) che giungevano soprattutto da Napoli, centro di irradiazione culturale per le comunità Arbëreshë e, come per tutto il Mezzogiorno.

 

Il giorno delle nozze la sposa indossava lo splendido costume di gala.


La lunga camicia di lino o cotone bianco, con collo ornato da preziosi merletti lavorati all’uncinetto o in tulle, aveva una profonda scollatura chiusa da un piccolo copripetto di cotone bianco e ricami a vista. Sulla camicia vi era un corpetto corto, aperto sul davanti, in tessuto laminato in oro, color amaranto come la sopragonna. Il corpetto aveva, inoltre, polsi, lembi e la parte delle spalle ornati da preziosi galloni in oro. Particolarmente belle ed elaborate erano la gonna e la sopragonna a fitte pieghe ottenute con la tecnica del vapore, la prima in raso di seta laminato in oro nelle tonalità del rosso e ampio gallone in oro, la seconda sovrapposta a questa, in seta pura laminata in oro e con gallone in oro di colore solitamente rosa. La sopragonna veniva sollevata sul davanti e fissata dietro, in modo da consentire alla sposa di mostrare anche la gonna. Attorno alla vita la sposa indossava una sottile cintura in fili d’oro o argento con chiusura a rettangolo posta all’altezza del ventre e ricamata con gli stessi motivi ornamentali del diadema nuziale. Questi due elementi erano il simbolo distintivo della donna coniugata. 

I capelli venivano raccolti sulla nuca in trecce e annodati con fettucce bianche a cui si univano due piccole trecce laterali tramite un nastro nero, in modo da formare un unico chignon sul quale era posto il diadema nuziale. 

Il costume era completato da una stola di raso color amaranto bordata da gallone in oro e portata sulle spalle, da un velo in fili d’oro, o in tulle rosso con ricami in oro che ricopriva il volto ed il capo della sposa, da calze di cotone bianco lavorate ai ferri e scarpe rivestite dello stesso tessuto della sopragonna. 

Il vestito di gala era, infine, reso più prezioso dagli ornamenti in oro indossati: la collana d’oro rosso e doppio pendente a fiocco, con ciondolo decorato da smalti colorati, all’anulare della mano destra l’anello della fede, sul merletto una spilla, alle orecchie splendidi orecchini con frangia che riprendevano i motivi ornamentali della collana e della spilla. 

 

Il costume di mezza festa,

 

indossato dalla sposa per recarsi in chiesa le domeniche dopo le nozze, per visite di cortesia o in occasione di feste, comprendeva la lunga camicia di lino o cotone bianco con collo ornato da merletto, la gonna a fitte pieghe in raso color amaranto ornata sull’orlo da ampio gallone in oro, oppure, se si trattava di occasioni meno importanti, la gonna pieghettata in seta grezza e cotone o in lana pettinata, ornata lungo il bordo inferiore da una striscia di tessuto in raso verde. Il corpetto, confezionato con panno nero o velluto, era ornato alle spalle ed ai polsi da larghe fasce di galloni in oro; le maniche erano rifinite da preziosi ricami, sempre in oro, a motivi floreali. Il vestito di mezza festa era, inoltre, completato da un grembiule di seta color azzurro ricamato con fili d’oro, da un fazzoletto da testa di seta giallo o arancione ed infine da uno scialle verde o marrone di lana pregiata, ornato da frange.      

 

Sono pochissime oggi le donne anziane che indossano

 

il costume giornaliero, semplice all’apparenza sia nella foggia che nei tessuti, 

ma, in realtà, non facile né da indossare, né da portare.


La lunga camicia di lino o cotone bianco è indossata sotto una sorta di gilet in cotone resistente di vari colori, con la funzione di sorreggere il seno. La profonda scollatura della camicia è chiusa da un piccolo copripetto, in modo da coprire meglio il seno e consentire, un tempo, alcuni movimenti compiuti durante il lavoro nei campi. Il corpetto è in raso, lana o velluto nero, ricamato con filo di seta nero. La gonna è in cotone rosso, con il fondo ornato da una balza arricciata. Il capo è coperto da un fazzoletto di cotone o lana legato dietro la nuca, il grembo da un grembiule di cotone.

 

La sagra del Costume Arbëreshë che si tiene ogni anno: 

è un’occasione di promozione, oltre che di valorizzazione 

del nostro patrimonio culturale.


Nei tre giorni di festa si può assistere a convegni, mostre e sfilate dei tradizionali costumi provenienti da numerose comunità Arbëreshëe e, in serata, all’esecuzione di balli e canti tradizionali da parte dei gruppi presenti, il tutto accompagnato dalla degustazione di piatti e dolci tipici.   

 

Ecco, questo è tutto quello che rimane – e meno male – nella nostra memoria di Arbëreshë, ovvero degli albanesi d’Italia, sbarcati attorno alla metà del XV secolo. Ma la cosa ancora più grave – mi sottolinea infine con rammarico Silvia Tocci – è che si sta perdendo anche la lingua. Certo, per molti anni sono stati in vigore finanziamenti statali e regionali a difesa delle minoranze linguistiche con corsi di lingua albanese in alcune classi delle elementari e medie, ma da oltre dieci anni non esistono più (sic!). 

 

 

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LE SALINE DI MARSALA – Gemme del Sud – N. 20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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LE SALINE di MARSALA

 

Gemme del Sud

Marsala

 

gemme

La Riserva della Laguna dello Stagnone di Marsala è un’area naturale protetta che si estende nel tratto di mare compreso tra capo San Teodoro e capo Boeo o Lilibeo, comprendendo le quattro isole di Mozia (San Pantaleo), Isola Grande, Schola e Santa Maria, e le saline costiere San Teodoro, Genna e Ettore Infersa.

Lo “Stagnone” è la laguna più grande della Sicilia, caratterizzata 

da acque molto basse e una temperatura più alta del normale.


Per questo motivo oggi è diventata il paradiso del kitesurfing: l’acqua bassa e completamente priva di onde ha fatto dello Stagnone la meta ideale sia per i principianti, che per i kiters esperti che vengono qui ad allenarsi nel freestyle. 

All’interno della riserva sono presenti le vasche delle saline con i famosi mulini a vento.  

 

Questo luogo unico, fuori dal tempo, si è classificato al primo posto nella classifica Fai “luogo del cuore”, speciale Expo di Milano 2015.

Un paesaggio naturale mozzafiato, per i suoi colori, i suoi profumi, 

i suoi tramonti, le bianche saline con i mulini a vento,


i fenicotteri e gli altri uccelli migratori, lo sguardo sull’arcipelago delle Egadi e la vegetazione sviluppatasi per sopravvivere all’alto grado di salinità dei luoghi, come la Posidonia e la Calendula marina.  

 

In epoca fenicia lo Stagnone era un luogo strategicamente importante per la presenza dell’isola di Mozia, un’influente stazione commerciale fenicia per gli scambi tra Oriente e Occidente, data la sua posizione geografica al centro del Mediterraneo.

Proprio grazie alla sua posizione, Mozia catturò l’interesse di diversi popoli come Greci e Cartaginesi in lotta per il predominio della Sicilia.


Oggi sull’isola è presente un museo ed è una piacevole meta di turismo. 

 

Altro punto di interesse lo si ha all’imboccatura sud dello Stagnone, dove durante la Seconda guerra mondiale venne costruito per la Regia Aeronautica un importante idroscalo militare, le cui aviorimesse in cemento armato furono progettate dal noto ingegnere Pier Luigi Nervi. Lo Stagnone è stato anche teatro del film “Briciole sul mare” (2016) e della fiction “Il commissario Maltese” (2017). 

 

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