IL FESTIVAL DELLA ZAMPOGNA Gemme del Sud numero 28 maggio giugno 2023 Editore Maurizio Conte

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IL FESTIVAL DELLA ZAMPOGNA

 

 Gemme del Sud
                     Scapoli (IS)

 

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Scapoli è un delizioso centro abitato circondato dalle meraviglie del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Si è sviluppato intorno ad una fortezza appartenente all’antica abbazia di Castel Volturno, fondata nell’VIII secolo d.C., oggi chiamata Palazzo Marchesale dei Battiloro. Le sue mura a strapiombo sulla roccia servivano a difesa dell’edificio e della sua popolazione da eventuali invasori.

 

Partendo dall’incantevole androne del palazzo denominato Sporto, attraverso le aperture del cammino detto “Scarupato”, si possono ammirare le cime di Monte Marrone e Monte Mare delle Mainarde.

 

Ma la particolarità di Scapoli sta in un’antica tradizione: la fabbricazione 

della zampogna, che qui si tramanda da secoli.

 

La zampogna di Scapoli è celebre ovunque ed ancora oggi: passeggiando per il borgo, si possono osservare gli artigiani al lavoro mentre ne creano nuovi esemplari. 

 

Quella di Scapoli è una vera e propria devozione. 

 

Per connettere il passato al futuro di questo prodigioso strumento è stato innanzitutto allestito il Museo Internazionale della Zampogna.

 

Ogni anno a luglio, poi, va in scena un festival che richiama gli appassionati 

di mezzo mondo, attratti dal folklore e dalla tradizione di questi suoni antichi, 

tanto da trasformare, in questo periodo, il piccolo borgo in un luogo magico, 

 

Se non vi trovaste a Scapoli in quei giorni, non vi rattristate: il Circolo della Zampogna cura una mostra permanente che raccoglie antiche cornamuse e zampogne e chissà…potreste ascoltare il suo suono passeggiando tra un vicolo e l’altro. 

 

 

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I MISTERI DI CAMPOBASSO gemme del sud numero 28 maggio giugno 2023 Editore Maurizio Conte

I MISTERI DI CAMPOBASSO

 

 Gemme del Sud
                 Campobasso

 

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Ogni anno, in occasione della festività del Corpus Domini, per le vie di Campobasso si svolge 

 

la processione dei Misteri, una delle tradizioni più suggestive 

e spettacolari di tutto il Molise. 


Già nel Medioevo si usava festeggiare il giorno del Corpus Domini con delle rappresentazioni sacre allestite su dei palchi collocati nei pressi delle chiese. Nella metà del Settecento, alcune Confraternite del luogo commissionarono a Paolo Saverio Di Zinno, talentuoso scultore locale, la realizzazione delle macchine processionali. L’artista ne inventò e realizzò, con la collaborazione di sapienti fabbri locali, ben diciotto, sei delle quali purtroppo andarono distrutte durante il terremoto del 1805. I “Misteri”, o “Ingegni”, sono macchine costituite da basi di legno sulle quali sono applicate strutture in ferro ramificate dove vengono posizionati dei figuranti, per lo più bambini, che rappresentano angeli, diavoli, santi e altre figure sacre. 

 

Dopo oltre duecento anni, i Misteri sono ancora funzionanti 

e vengono portati in spalla per le vie della città.

 

Il passo cadenzato dei portatori, facendo oscillare le strutture, crea l’illusione di vedere i personaggi volare: uno spettacolo che emoziona i visitatori che ogni anno accorrono numerosi a Campobasso per ammirare il passaggio di questi veri e propri “quadri viventi”. Grazie alla dedizione e all’impegno dell’Associazione Misteri e tradizioni, 

nel 2006 è stato inaugurato il Museo dei Misteri, 

situato nel centro della città

 

dove vengono custodite e conservate le Macchine, che si possono ammirare insieme a foto, vestiti d’epoca e altre testimonianze che raccontano la storia di questa tradizione straordinaria.

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ELEONORA DE FONSECA PIMENTEL. INTELLETTUALE E PATRIOTA di Gianluca Anglana numero 28 maggio giugno 2023 Ed. Maurizio Conte

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ELEONORA DE FONSECA PIMENTEL 

INTELLETTUALE E PATRIOTA

 

Un esperimento fallito. L’eroismo di coloro che lo vollero ebbe a che fare con l’ingenuità, la purezza dell’idealismo, l’inconsistenza del sogno.

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Utopie annichilite dalla reazione del regime, dalla rapacità francese, dall’ostilità della Chiesa e dalla diffidenza della plebe. Tra i protagonisti di questa pagina cruenta e luminosa della storia del Mezzogiorno, una donna.

 

Si chiamava Eleonora de Fonseca Pimentel, pensatrice, 

intellettuale, tra le prime giornaliste d’Europa.

 

Nacque a Roma il 13 gennaio 1752. La sua famiglia, di nobiltà portoghese, traslocò a Napoli: a causa di tensioni diplomatiche con la Santa Sede, da Lisbona arrivò l’esortazione agli espatriati lusitani a lasciare la città eterna per sottrarsi alle possibili ritorsioni pontificie. 

Durante la parentesi rivoluzionaria, le fu affidato il compito di gestire l’organo di stampa che, nelle intenzioni dei rivoltosi, avrebbe dovuto diffondere le ragioni dell’insurrezione. Accettò, sebbene con perplessità, dubbi, titubanze.   

 

Il “Monitore napoletano” ambiva a inoculare le nuove idee nel corpo stanco dello Stato borbonico, scongiurare che restassero intrappolate nei salotti degli aristocratici e dei borghesi insubordinati. Nella realtà il giornale ebbe poca fortuna e nessuna presa tra le masse incolte, che prestavano orecchio con sospettoso sarcasmo a quelle teorie bislacche sulla libertà, sull’uguaglianza, sulla fraternità. La plebe della capitale era anzi incline alla conservazione dello status quo, mentre le istanze dei ribelli faticavano a penetrare nelle remote province del regno.

Come i suoi fratelli di lotta, anche Eleonora immaginava un mondo diverso: più equo, meno oppresso, orientato dalla conoscenza e dall’emancipazione,

attraverso l’istruzione, degli strati inferiori della società.

Aveva intuito che il potere teme il dissenso colto, disinveste sul sapere per un’elementare esigenza di autoconservazione: «educare il popolo» ripeteva, ribadiva, si illudeva. Poetessa del suo tempo, sognava di trasformare i sudditi in cittadini liberi e responsabili. Sognava. 

La disillusione parlava invece la lingua scabra di Vincenzo Cuoco: «il popolo non è obbligato a sapere la storia romana per essere felice». E tradiva le divergenze e i contrasti tra i patrioti. 

Era già siderale la distanza che, come un abisso, separava un manipolo di intellettuali visionari dal popolo rassegnato a una quotidianità insozzata dal lerciume di stenti, soprusi, espedienti come all’unica opzione possibile. C’era il padre che provvedeva ai figli suoi: «viva lo re, lo pate, tata nostro». Eleonora era doppiamente straniera: per stirpe e per convinzioni.

 

Era stata una bambina dalla curiosità vorace, precoce nell’apprendere. 

Quindi una ragazza affamata di conoscere, conscia dei propri talenti 

al punto di guadagnarsi l’accesso all’Accademia dell’Arcadia 

 

e intessere un rapporto epistolare con Metastasio e con Voltaire. Infine la dama ammessa a Palazzo, dove i suoi sonetti e i suoi epitalami in omaggio alla coppia regnante furono accolti con burocratica gratitudine e il riconoscimento di un sussidio in denaro: in una Corte che concedeva credito alle novità filosofiche del Settecento, alle arti e alle scommesse della “monarchia illuminata”, i suoi meriti letterari trovarono accoglienza.

Ma poi tutto andò in pezzi.

Ogni velleità di cambiamento naufragò nell’onda di orrore e violenza vomitata su tutto il Continente dalla Francia regicida: il re di Napoli, Ferdinando IV di Borbone, si trincerò in un dispotismo torvo. Verso i Giacobini che le avevano ghigliottinato la sorella nel 1793, la regina Maria Carolina d’Asburgo sviluppò un odio implacabile, caparbio, paranoico. I progetti dei rivoluzionari, i loro entusiasmi, tutto fu travolto dalle armate sanfediste del Cardinale Ruffo e dalla caduta di Sant’Elmo. Napoli. 20 agosto 1799. Piazza Mercato. Epilogo.

 

È deciso che la sua sia l’ultima delle esecuzioni. Il sadismo della vendetta regia 

esige che Eleonora veda morire tutti prima che tocchi a lei: 

Gennaro Serra di Cassano, Monsignor Natale, 

Nicola Pacifico.

 

È ormai senza scampo, stritolata nella morsa tra l’avversione dei monarchi, che le negano il privilegio aristocratico della decapitazione, e il rancore dei lazzari e delle popolane, per i quali aveva sognato un futuro di riscatto. Nel vicolo Sospiro de ‘mpisi, sulla strada verso il patibolo incontra il dileggio, l’umiliazione, l’acredine, la rabbia. È riconosciuta: «a signora ‘onna Lionora che cantava ‘ncopp’ ‘o triato… mo la facimm’ abballà mmiezz’o Mercato».

La piazza del Mercato è ora una fiera pronta a divorarla, un palcoscenico mostruoso, un San Carlo orribilmente sconfinato. 

E l’ultimo atto è proprio il suo, fine della sua vita e di un secolo intero. 

Mentre sale sullo scaletto, guarda in faccia la città che ha amato, il microcosmo dove realtà e recita si mescolano da sempre in un intrico irresolubile. Mormora poche sillabe.  

 

Si arrende al cappio. 

E poi la spinta di Mastro Donato, boia della forca. 

E il rumore sordo della corda attorno al collo. 

E le urla festanti del popolo sulla piazza, le risate sguaiate, gli insulti, le oscenità. 

Donna Eleonora, intellettuale e patriota, poetessa e scrittrice, esce di scena così. E svanisce. 

Come al risveglio svanisce la materia effimera, e impalpabile, dei sogni.

 

 

 

 

 

 

 

 

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RIVOLUZIONE NAPOLETANA
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LA SARDEGNA DEI MISTERI di Gloria Salazar numero 28 maggio-giugno 2023 editore Maurizio Conte

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LA SARDEGNA DEI MISTERI

 

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La Sardegna ha conservato più di ogni altra regione italiana una cultura antica 

e misteriosa e costumi tipici particolari;

 

a partire dagli innumerevoli abiti tradizionali (ogni centro abitato ha il suo), che il primo maggio di ogni anno sfilano contemporaneamente a Cagliari per la sagra di Sant’Efisio in una delle processioni religiose più antiche (risale al 1656) e lunghe (65 km) del mondo. Non sono da meno le maschere del carnevale sardo – ad esempio gli impressionanti Mamuthones di Mamoiada – e le giostre spericolate e spettacolari, e tra queste S’Ardia di Sedilo – un palio di Siena più sfrenato – o la Sartiglia, che si tiene ad Oristano ininterrottamente almeno dal 1546.

In Sardegna non mancano neppure retaggi di epoche arcaiche:


i “fassoni” del golfo di Cabras, imbarcazioni simili a quelle degli antichi egizi; o le launeddas, strumenti musicali a fiato identici al flauto di Pan; e le “pinnette” i rifugi dei pastori costruiti come le capanne dell’età della pietra. Tra queste peculiarità ataviche c’è anche il “Canto a tenore”, riconosciuto dall’UNESCO come patrimonio culturale immateriale.

La cultura sarda è fatta inoltre di eccellenze artigianali tramandate da tempi immemorabili, in particolare “un’arte” che ha qualcosa di magico:

la filatura del bisso – anche detto “seta marina” 


– a Sant’Antioco; un materiale prodotto dalle conchiglie, che una volta tessuto risplende (quasi) come l’oro. Così come avvolte da un’aura di magia e mistero – al di là dei celeberrimi nuraghe – sono le numerosissime “domus de janas” (le “case delle fate”), tombe preistoriche scavate nella roccia, e tra queste l’imponente Sa Rocca a Sedini, che come i Sassi di Matera è stata trasformata in abitazione. Oppure le tombe a capanna, simili a quelle etrusche, ma di qualche migliaio di anni più antiche; ad esempio: Montessu a Villaperuccio, S’Incantu a Monte Siseri e S’Anghelu Ruju (L’Angelo rosso) ad Alghero. Luoghi suggestivi già a partire dai loro nomi, come lo sono le “tombe dei giganti” – tra le quali quella di S’Ena e Thomes a Dorgali – ed i “pozzi sacri”; in particolare quello di Santa Cristina a Paulilatino, costruito con precisione da “cantiere industriale” undici secoli avanti Cristo, ed in cui il sole entra solo agli equinozi (evidenziando le conoscenze astronomiche dei protosardi).  

Misteriosi e suggestivi sono anche i tanti edifici abbandonati 

ed i villaggi fantasma della regione,

ad esempio: Gairo vecchio; il Villaggio Asproni; il villaggio di Monte Narba; Grugua con la villa Modigliani (che appartenne alla famiglia del celebre Amedeo); il borgo di Sant’Angelo a Fluminimaggiore; Tratalias vecchia; le rovine minerarie di Ingurtosu, e la chiesa di San Pantaleo a Martis. Località così numerose che è stato creato un apposito sito internet, dall’evocativo nome di “Sardegna Abbandonata”, per censirle tutte; lo stesso obiettivo che si prefigge il sito “Nurnet” per quelle nuragiche. In Sardegna ci sono anche delle specificità zoologiche: non esistono le vipere, ma in compenso vi dimorano il ragno violino, l’unico velenoso italiano, e cavallini bradi (della Giara) piccoli come pony; così come più piccole sono anche altre specie indigene, ad esempio i cinghiali.

Sotto il profilo naturalistico l’isola conta due parchi nazionali e numerose altre riserve naturali marine e terrestri di inviolata bellezza; tra queste la biosfera di Tepilora, tutelata anch’essa dall’agenzia dell’ONU.


La natura ha creato in Sardegna monumenti di notevole impatto: l’Orso di Palau, scolpito nel granito dall’azione del vento e del mare; S’Archittu nel comune di Cuglieri, un grande arco di pietra (“lunare”) bianca sul mare; Sa Preta Istampata a Galtellí, un’alta parete rocciosa forata nel mezzo; o la piscina naturale di Cane Malu a Bosa. Ed ancora: la grotta di Su Mannau a Fluminimaggiore, tra le 10 più belle d’Italia secondo il TCI; la grotta marina “Sardegna” a Masua (così detta per la sagoma della sua imboccatura che ricorda i contorni dell’isola), con un colore dell’acqua che nulla ha da invidiare a quello delle più famose della nostra penisola; e soprattutto la grotta subacquea di Nereo a Capo Caccia, con i suoi 500 metri complessivi la più grande d’Europa e del Mediterraneo. Uno dei record dell’isola, che tra l’altro è anche la regione meno sismica d’Italia.

Ma le suggestioni non finiscono qui, perché in Sardegna ci sono anche delle foreste pietrificate; scenari incantati che custodiscono tipologie differenti di alberi fossili; 

tra le più notevoli quella di Martis.


Infine l’ipotesi avanzata – non senza ragione – qualche tempo fa, interrogandosi sul motivo per il quale è scomparsa la sua più antica – ed autoctona – civiltà, quella nuragica (una civiltà straordinariamente all’avanguardia per la sua epoca): la Sardegna era forse Atlantide?

 

 

 

 

 

 

 

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IL MAMMUT E LA CITTÀ RICOSTRUITA di Gianluigi D’Alfonso numero 28 maggio-giugno 2023 Editore Maurizio Conte

IL MAMMUT…  E LA CITTÀ RICOSTRUITA

 

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trovato in provincia dell’Aquila nel 1954, è tornato di recente ad essere esposto nel Forte Spagnolo Aquilano, rappresentando uno dei simboli della ricostruzione della città abruzzese dopo il terribile sisma del 2009.

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E sì perché il terremoto che colpì la città de L’Aquila alle 3:32 del mattino del 6 aprile 2009, tra le innumerevoli devastazioni che cambiarono il volto del bellissimo capoluogo abruzzese e provocarono il tragico bilancio di 309 vittime, determinò anche seri danni alla struttura del Forte cinquecentesco Spagnolo che ospitava l’esposizione del mastodonte nonché importanti lesioni a parte dello scheletro e della struttura portante del Mammut. 

 

Da figlio di genitori aquilani ricordo sin da piccolo, in occasione delle affascinanti visite presso la sala del bastione est del Forte Spagnolo a

questo raro esemplare di animale preistorico, di aver subito considerato 

il Mammut uno dei simboli di questa bellissima città.


Probabilmente perché anche lui “immoto manet” protetto all’interno della Fortezza Spagnola ed in questo suo troneggiare impersona plasticamente la robustezza e la fierezza delle genti d’Abruzzo. 

 

Ma facciamo un balzo indietro e ripercorriamo brevemente l’interessante storia del Mammuthus Meridionalis Vestinus,

tra i pochi esemplari rinvenuti in Europa in buone condizioni, per l’integrità 

dello scheletro e l’ottimale stato di conservazione, grazie al clima rigido, 

quasi dolomitico, che caratterizzava i territori abruzzesi.

Esso fu subito considerato uno dei reperti più importanti della preistoria italiana, uno degli esemplari più completi esistenti insieme a quelli esposti a Parigi, a Leningrado e negli Usa.   

 

La Conca dell’Aquila nella preistoria era occupata da un grande lago dove vivevano elefanti e rinoceronti, ippopotami, cervi e cinghiali e

nel marzo del 1954, a seguito di scavi per la ricerca dell’acqua, in località Madonna della Strada a Scoppito, fu rinvenuto lo scheletro quasi integro 

di un Elephas Meridionalis Nesti,


noto come Mammut, diffusosi nella penisola italiana all’inizio del Quaternario. 

 

All’esemplare maschio e anziano dell’Aquila, morto probabilmente di vecchiaia a 55 anni, attorno a 1.500.000 anni fa, fu attribuita la denominazione prima di Archidiskodon meridionalis vestinus, poi di Mammuthus meridionalis vestinus. Il Mammut era un “bestione” pesante all’incirca più di sedici tonnellate e alto più di quattro metri, molto simile ad un elefante, ma più robusto, con le zanne più curve e la bocca più sporgente

Il restauro seguì un percorso a più tappe. Successivamente alla sua scoperta, 

dopo circa sei anni di lavori di riparazione delle singole parti, fu esposto al pubblico 

nel 1960 nel bastione est del Forte Spagnolo, sezione paleontologica 

del Museo Nazionale dell’Aquila.

Alla fine degli anni ’80 si rese necessario un secondo restauro concluso nel giugno del 1991 effettuato in parte presso il Laboratorio di Restauro del Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Firenze.

 

Si arriva, quindi, all’ultimo restauro post terremoto 2009

avvenuto anche grazie ad una generosa donazione di 600 mila euro della Guardia di Finanza che ha voluto contribuire così alla rinascita dell’Aquila dopo il sisma. L’intervento di restauro è stato realizzato dall’allora Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Abruzzo (oggi Segretariato Regionale per l’Abruzzo).

 

Il Mammut aquilano è ritornato nel 2022 a costituire una delle attrazioni 

del Museo Nazionale D’Abruzzo (MuNDA) de L’Aquila ma, soprattutto, 

il suo ultimo restauro con la sua “restituzione” 

al patrimonio culturale della città


ha significato un ulteriore importante passo in avanti verso la completa ricostruzione della città dell’Aquila per tornare a splendere nella sua antica e particolare bellezza.

 

 

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UN’ALTRA SARDEGNA di Gloria Salazar numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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UN’ALTRA SARDEGNA

 

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Un’isola dalle interminabili distese incontaminate e disabitate, dagli scenari sempre diversi (gli altipiani delle Giare, le montagne del Gennargentu, i tacchi dell’Ogliastra, gli stagni costieri, dove nidificano i fenicotteri rosa); punteggiati in cima alle falesie da cinquecentesche torri difensive, testimonianza del periodo di dominazione spagnolo.

 

Per secoli, infatti, l’isola è stata un crocevia nel Mediterraneo

 

ed una terra di conquista di cui porta ancora le tracce nella lingua, nella gastronomia e nelle architetture. Vestigia delle dominazioni straniere si ritrovano nei borghi, alcuni annoverati tra i più belli d’Italia. Ad esempio ad Alghero, “la piccola Barcellona”, (dove si parla il catalano), con le sue splendide fortificazioni; a Carloforte, nell’isola di San Pietro – una delle isole nell’isola – (dove si parla il genovese), che sembra un angolo di riviera ligure; a Bosa, con le case dalle facciate multicolori, dominata dal castello toscano dei Malaspina, e a Castelsardo (un tempo chiamato Castelgenovese e poi Castellaragonese) dominato da quello genovese dei Doria; ad Iglesias con la cinta muraria pisana ed i balconi “sivigliani”; ed a Buggerru, fondata da imprenditori francesi ed un tempo detta “la piccola Parigi”.   

 

Una regione italiana giustamente famosa per il suo mare cristallino e le sue spiagge caraibiche che spesso sono state utilizzate, al posto di quelle, per la pubblicità.

 

Ma anche una regione, al di la delle coste, ingiustamente sconosciuta.

 

Probabilmente perché mal collegata (con l’esterno ed all’interno), lontana da tutto e spesso dimenticata da tutti (perfino – e per fortuna- anche dall’Isis, che inizialmente non l’aveva inserita nelle mappe della “riconquista”), non ha beneficiato dell’arrivo di un turismo colto, come è successo invece in altre regioni d’Italia con gli inglesi, che hanno fatto la fortuna, ad esempio, della Toscana. Eppure questo isolamento ha consentito di preservarne la natura e mantenerne inalterate molte caratteristiche ancestrali che altrove si sono perse.   

 

La Sardegna perciò è molto più che un mare “da cartolina”, ha molto altro da offrire.  In primis la qualità della vita, che garantisce, insieme alla genetica, un primato di longevità ai suoi abitanti, studiato persino dai giapponesi, gli altri ultracentenari del pianeta.

 

Ma la Sardegna – la terra emersa più antica d’Italia 

– è un’isola di altri (sconosciuti) primati:


come l’olivo di Luras che di anni ne ha più di 4mila; il Pan di zucchero, il faraglione più alto del Mediterraneo; Piscinas, un deserto in miniatura, con dune costiere tra le più alte d’Europa ed una delle più belle spiagge del mondo secondo il National Geographic; Porto Pino con le dune bianchissime; la Grotta subacquea del Bue Marino, la più lunga d’Italia (70 km.); anche un canyon, Su Gorropu, “il più spettacolare del continente”.   

 

Nell’isola ci sono architetture megalitiche che possono rivaleggiare con quelle del nord Europa: i molti dolmen (come quello di Sa Covecadda a Mores), ed i circa mille menhir sparsi nel territorio, tra i quali il più alto d’Italia (quasi 6 metri) a Villa Sant’Antonio; anche noi abbiamo le nostre – piccole – Stonehenge, ma pochi le conoscono.

 

In Sardegna c’è un esercito di pietra che risale a più di otto secoli prima 

dell’esercito di terracotta cinese: i Giganti di Monte Prama,

 

tra le più antiche sculture a tutto tondo del Mediterraneo, alte quanto alcune di quelle dell’isola di Pasqua; c’è una necropoli preistorica, a Sant’Andrea Priu, con sepolture tra le più vaste del Mediterraneo; c’è persino una ziqqurat, simile a quelle della Mesopotamia, a Monte d’Accoddi, ma pochi lo sanno. Come pochi conoscono le terme romane di Fordongianus (antica Forum Traiani); le città romane di Nora e Tharros, in riva al mare; l’abazia romanica di Saccargia, la più maestosa delle tante chiese medievali isolate nella campagna; il tempio di Antas, al centro di una foresta; o il villaggio preistorico di Tiscali (che ha dato il nome alla società di comunicazioni), in una dolina. C’è anche un sito dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità: la reggia nuragica di Su Nuraxi a Barumini; uno dei moltissimi ed imponenti nuraghe che torreggiano nell’isola.

 

Tutti monumenti immersi in un paesaggio intatto, sovrastato da una volta stellata 

che nei cieli della Penisola non riusciamo più a vedere.

 

 

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“SA ROCCA” DI SEDINI LA CATTEDRALE DELLE “DOMUS DE JANAS” Gemme del Sud numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

“SA ROCCA” DI SEDINI LA CATTEDRALE DELLE “DOMUS DE JANAS”

 

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                     Sedini (SS)

 

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In Sardegna l’uso di scavare tombe nelle roccia ha avuto larga diffusione: sono più di duemila le sepolture rinvenute in tutta l’isola, risalenti al Neolitico, testimonianza della grande abilità degli uomini di lavorare la viva roccia con pochi strumenti rudimentali. Spesso venivano ricavate una accanto all’altra, dando vita così a vere e proprie necropoli.

 

Secondo la tradizione popolare, queste strutture erano abitate da piccole creature leggendarie, un po’ fate ed un po’ streghe, che instancabili tessevano splendide stoffe sui loro preziosi telai d’oro e per questo sono conosciute come 

“domus de janas” (letteralmente “case delle fate”). 

 

Unica nel suo genere è quella di Sedini, paesino della valle dell’Anglona, in provincia di Sassari, al punto da essere definita “la cattedrale delle domus de Janas”. “Sa Rocca”, come la chiamano gli abitanti del luogo, è realizzata in un enorme masso alto 12 metri che si trova completamente in superficie, con la punta della roccia che si staglia verso il cielo. Ha la peculiarità di trovarsi nel cuore del paese e non, come la maggior parte delle domus de janas, in luoghi isolati e difficilmente raggiungibili. 

 

Proprio questa insolita posizione – una “casa delle fate” incastonata tra le strutture 

del paese – le conferisce un fascino particolare e regala al visitatore 

un colpo d’occhio sorprendente. 

 

Altra particolarità è che, pur avendo mantenuto una parte delle sue caratteristiche originali, nei secoli ha subito diverse trasformazioni che l’hanno resa parte viva del paese: è stata prigione, luogo di ricovero per animali, negozio, sede di partito ed abitazione privata. Oggi ospita il Museo delle Tradizioni Etnografiche dell’Anglona che si sviluppa su tre livelli ed ogni livello ha un racconto, una sorpresa da svelare. Bellissima la parte che conserva intatta la struttura medievale, con il focolare scavato al centro della stanza nel pavimento roccioso e scale a chiocciola ricavate nella roccia.

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 Foto da DEPOSITPHOTOS

 

I MURALES DI CAMPOMARINO E LA COMUNITA’ ARBERESHE Gemme del Sud numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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I MURALES DI CAMPOMARINO E LA COMUNITA’ ARBERESHE

 

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               Campomarino (CB)

 

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Nel borgo di Campomarino, centro storico dell’omonima cittadina che sorge nei pressi della costa adriatica in provincia di Campobasso, la pres­­­enza dell’antica comunità arbëreshë, ovvero gli Albanesi d’Italia, è raccontata dagli originali e colorati murales disegnati sulle facciate delle case dall’artista contemporanea campomarinese Liliana Corfiati.   

 

Composta da immigrati provenienti dall’Albania che a partire dalla fine del XV secolo si insediarono in territorio molisano per sfuggire all’invasione ottomana di Maometto II, e a seguito della morte dell’eroe della resistenza albanese Giorgio Kastrioti Skanderbeg, la comunità arbëreshë di Campomarino ha saputo integrarsi con la popolazione locale, pur conservando nei secoli i caratteri originari della propria cultura e la lingua che sopravvive ancora oggi nella segnaletica bilingue delle vie del Comune. 

 

Passeggiando per i vicoli del borgo 

 

Passeggiando per i vicoli del borgo si scoprono murales che raccontano 

antichi mestieri e la vita quotidiana di una società 

di origine agro-pastorale: 

 

un uomo ed una donna che raccolgono le olive, donne sedute sull’uscio di casa a ricamare, una donna che inforna il pane, un ciabattino intento al suo lavoro, uomini e donne in abiti tradizionali che sembrano danzare al ritmo di una musica antica. 

 

L’origine cristiano ortodossa della comunità italo-albanese si rivela nel bel Mural degli Sposi in cui, sullo sfondo di un mare azzurro, il sacerdote officiante, vestito nel tradizionale abito nero, “incorona” gli sposi secondo l’antico rituale bizantino Akoluthìa tu Stefanòmatos, espressione di una identità culturale ancora orgogliosamente sentita dalle odierne generazioni arbëreshë.

 

 

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LA CUCINA MOLISANA Gemme del Sud numero 27 gennaio febbraio 2023 Editore Maurizio Conte

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LA CUCINA MOLISANA

 

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Gemme del Sud

                Molise

 

  

Il Molise è una regione molto piccola, ma grazie al suo territorio così eterogeneo possiede una gran varietà di prodotti gastronomici tipici. 

 

I 36 chilometri di costa offrono una molteplicità di ricette a base di pesce, come le zuppe, il famoso brodetto, risotti e moltissimi modi di servire il baccalà. Il visitatore che si troverà a passare per l’antico Sannio, territorio montuoso e collinare con tradizione pastorale ed agricola, scoprirà una grande produzione di formaggi e salumi, aromi come il tartufo bianco, focacce e dolci tipici.
 

Alcuni di questi prodotti hanno alle spalle tradizioni lunghissime, come, ad esempio, 

il caciocavallo di Agnone. La sua presenza è testimoniata 

fin dai tempi della Magna Grecia

 

e la sua produzione è legata al periodo della transumanza. Questo formaggio è entrato a far parte dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali Italiani ed è chiamato “formaggio archeologico” per la sua lunga storia e perché anticamente veniva fatto stagionare in grotte naturali. 

 

I prodotti molisani sono in larga parte legati alle tradizioni povere e contadine ed alle ricorrenze e feste popolari, e si basano su ingredienti semplici, soprattutto grano e legumi.

 

Secondo la leggenda, i famosi “cavatelli” – una pasta di semola di grano duro 

ed acqua – vennero realizzati in occasione di una visita 

dell’imperatore Federico II,

 

che pare ne andasse ghiotto. Costituivano il piatto principale di cene e banchetti, cucinati con fave, pancetta e piselli, e furono serviti anche al “Colloquium generale”, la riunione di tutti i funzionari e dignitari regi che si svolse a Foggia nel 1240. Oggi i cavatelli sono i protagonisti delle sagre che tra luglio ed agosto si svolgono in molti comuni molisani. 

 

Il Molise vanta la creazione di un’altra pasta fresca: i fusilli. Essi erano lavorati anticamente da alcune donne qualificate che tagliavano striscioline di impasto di circa un centimetro, le arrotolavano intorno ad un ferro da calza e le sfilavano, creando così la tipica forma arricciata. Questa laboriosa lavorazione aveva luogo nelle case delle famiglie agiate. La classica ricetta dei fusilli alla molisana prevede il condimento con il tradizionale ragù di agnello o di maiale, un piatto semplice, ma che richiama alla memoria secoli di storia popolare.

 

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Fresh uncooked cavatelli pasta.

 Foto da DEPOSITPHOTOS

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MATTIA PRETI, CAVALIERE (E ORGOGLIO) CALABRESE di Claudia Papasodaro numero 27 gennaio febbvraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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MATTIA PRETI, CAVALIERE

E ORGOGLIO CALABRESE

 

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Molti conoscono la vicenda artistica di Mattia Preti: gli esordi romani col fratello Gregorio, anch’egli pittore, la straordinaria parentesi napoletana, la consacrazione maltese. In pochi, forse, conoscono la vicenda umana di questo artista, oggi riconosciuto come uno dei grandi protagonisti della stagione pittorica seicentesca, definito da Roberto Longhi “apocalittico, secondo solo a Caravaggio”. Pochissimi, probabilmente, sanno che 

il legame di Mattia Preti con la sua terra va ben oltre quell’appellativo 

di “Cavalier Calabrese”, che sempre lo accompagnò da quando, nel 1642, 

per volere di papa Urbano VIII, ricevette l’investitura di Cavaliere di Obbedienza Magistrale dell’Ordine di San Giovanni Gerosolimitano. E poco noto è che, 

nonostante la fama ed il prestigio di una carriera che lo tenne costantemente lontano, non dimenticò mai la sua Taverna, il piccolo borgo che gli aveva dato i natali 

e che aveva lasciato giovanissimo (come tanti altri calabresi 

ieri e ancora oggi) per cercare fortuna altrove.


Taverna, nel catanzarese, è una graziosa cittadina di poco più di 2500 abitanti, incastonata tra i monti della Sila Piccola e non lontana dallo Ionio, dove d’inverno ti inebria l’odore di legna bruciata e d’estate senti quasi il profumo del mare. Qui il sentimento di orgoglio e la riconoscenza nei confronti del Cavalier Calabrese è ancora palpabile, come dimostra la statua bronzea a lui dedicata posta nella principale Piazza del Popolo, opera dello scultore Michele Guerrisi, altra grande personalità calabrese. 

 

Mattia Preti è stato un artista estremamente prolifico, documentato con circa settecento opere, tra disegni, dipinti, affreschi e progetti architettonici, che oggi sono conservati in chiese, collezioni private e musei di tutto il mondo. 

 

E proprio Taverna può vantarsi di custodire oltre 20 opere del suo figlio più illustre – un numero davvero incredibile per un piccolo centro come questo. Come ha affermato lo storico dell’arte John Thomas Spike – uno dei maggiori studiosi dell’artista – 

“non ci sono esempi paragonabili di pittori che abbiano voluto creare la memoria 

di sé stessi nel loro luogo natale”. E questo, in effetti, 

è un fatto davvero straordinario.

 

All’apice della sua carriera nell’isola di Malta, dove trascorse gli ultimi trent’anni della sua lunga ed intensa vita al servizio dell’Ordine dei Cavalieri, elevato prima al rango di Cavaliere di Grazia e poi di Commendatore dell’Ordine Gerosolimitano, l’artista si prodigò nella realizzazione di opere da inviare alle chiese del suo borgo natale, dove volle tornare (e restare) con la sua arte. 

 

Emblematica in questo senso è la Predica di San Giovanni Battista, la monumentale tela nella chiesa di San Domenico, dove Mattia Preti, anche se lontano, volle acquistare una cappella in onore della sua famiglia. Questo gesto rappresentò un vero e proprio riscatto sociale per l’artista: una rivalsa dalla delusione subita dalla famiglia nel 1605, quando al padre Cesare fu negato lo status di nobile a causa dell’insufficiente ricchezza

Dedicò l’altare al Battista – patrono dei Cavalieri – e nella grande tela inserì 

il suo autoritratto in qualità di donatore dell’altare stesso, come a voler suggellare 

in eterno il suo legame con quel luogo,


in una sorta di testamento pittorico che, secondo Spike, fa del Preti “il primo pittore che ha voluto creare, con deliberato impegno e notevole dispendio di mezzi, un monumento permanente a sé stesso” nella sua terra natia. Si raffigurò come più amava farlo, con la veste da Cavaliere, lo sguardo fiero e nella mano destra insieme la spada e il pennello, suoi inseparabili compagni di vita. 

 

Nella stessa chiesa sono altre sei le tele del Preti che è possibile ammirare, tra cui il Cristo Fulminante che da solo vale il viaggio. 

Altre opere sono conservate nella chiesa di Santa Barbara e nel Museo Civico, 

meta ogni anno di migliaia di visitatori e divenuto, dalla sua fondazione nel 1989, 

un punto di riferimento imprescindibile per gli studiosi dell’artista 

a livello internazionale.


Un piccolo borgo diventato importante centro culturale grazie all’attaccamento di un figlio che se n’è andato senza mai però lasciarlo davvero e che, con dedizione e riconoscenza, si impegna per tenerne sempre vivo il ricordo. 

 

Mattia Preti – Cavaliere e orgoglio calabrese – con la sua storia ci racconta dell’amore e, al tempo stesso, del tormento di coloro che hanno dovuto lasciare questa terra. Un sentimento profondo e sincero, come la Calabria stessa

 

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The ceiling of Church of St Francis of Assisi, Valletta, Malta

 Nella foto: dipinto di Mattia Preti nella chiesa di San Francesco d’Assisi a la Valletta – Malta – Foto da DEPOSITPHOTOS