MOULIN: IL PITTORE EREMITA di Pierluigi Giorgio – Numero 7 – Aprile 2017

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MOULIN:   il pittore eremita  

 

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“Qui non vi è altro che l’opera della natura selvaggia e incontaminata! Vorrei riuscire a tradurre in delicati pastelli, riflessi e trasparenze…. e in ogni sua mirabile mutevolezza, tutta, tutta la luce delle Mainarde….”

 

Ebbene sì, sono a caccia di fantasmi dall’alba, stimolato per caso da una vecchia rivista del 1960 con un articolo a firma Maurizio Costanzo, ove si riferiva della strana vicenda di un pittore francese, vincitore di prestigiosi premi e votato ad una gloria che mai perseguì: Charles Lucien Moulin, nato a Lille nel 1869 e deceduto in Molise nel 1960, che – dando un calcio a galleristi e mercanti d’arte – scelse di vivere quasi metà della sua non breve esistenza, ritirandosi in una sorta di eremitaggio artistico e creativo, nelle alte terre del Volturno. Eccomi a rintracciare questo riflesso di Francia tra i risvolti della montagna e i vicoli del borgo per inseguirne nonostante il tempo andato, il pensiero, la filosofia di vita semplice, del tutto personale eppur così umana, significativa: maggiormente oggigiorno, in tempi di crisi identitaria e relazionale: un messaggio di pace e d’equilibrio sereno con tutte le cose, la natura, gli uomini, gli animali:

 

“Ciò che mi guida, è l’amore, il bello; ma tutte le cose hanno una ragione d’essere; “L’arte dà il segno del divino che è in te. Tu lo intuisci,
lo cerchi – se vuoi. Nella natura, nella comunione di spirito con essa,
lo vivi… Questa sola è la mia verità: l’amore per il prossimo,
la natura e tutto, tutto ciò che è bello!…”

 

“Mio zio lavorava in Francia” mi fa Mimì Coia, un anziano impettito signore, “conosceva Moulin e quando seppe che sarebbe venuto a Villa Medici per un lungo periodo, grazie alla borsa di studio vinta per i suoi meriti artistici, gli disse di fare un salto a Castelnuovo a trovare il fratello che qui in piazza aveva una rivendita di vino e generi diversi. Mio padre se lo vide arrivare a piedi un pomeriggio con una gran barba lunga e folta, addosso un vestito dimesso ed ai piedi le ciocie. Pensando che fosse un vagabondo in cerca di elemosina, o al massimo uno zampognaro di passaggio lo invitò a bere un bicchiere di vino. Il pittore gli rispose con un sorriso e con un italiano misto ad accento francese: “Tu sei Giovanni Coia, vero? Io sono Charles Moulin!”. Al mio papà per poco non gli veniva un colpo: il fratello gli aveva anticipato in una lettera l’arrivo di un “gran professore”, ma non certo così conciato!….”

 

Era persona colta, saggia, paziente, disponibile. Tra l’altro, aveva studiato presso l’Orto botanico di Parigi l’uso delle erbe medicinali
e curò gratuitamente tanta gente, beccandosi una denuncia
da parte del medico locale: nessuno andava più da lui!

 

Roberto Fiocca mi parla della sua natura artistica: Moulin nasce con l’educazione naturalistica di Lille, si perfeziona con questa alta precisione fatta di creazione di vita e di bellezza ideale. Il soggiorno a Castelnuovo al Volturno, è un approdo: egli vede quello che ha sempre sognato: la “bellezza” di Bougherau, suo insegnante d’accademia, la trova nella realtà attraverso lo studio approfondito della natura…. Non seguì nessuna corrente pittorica in particolare: possedeva la rara capacità di afferrare l’anima delle cose; di tutte le cose…. Nei suoi dipinti, vibranti di luce, nella gamma variegata dei colori, si avverte l’alito divino della sua anima… I soggetti ed i delicati paesaggi – tra armonie di tinte e sfumature di colore, luci ed ombre – hanno lo stupore, la meraviglia dell’uomo appena creato; della natura che si scopre alla sua prima alba, venerata come una dea per mostrarla agli uomini in tutta la sua divina bellezza e sacralità…

 

“Il mio metodo è di trovare la composizione che meglio permette di chiarire il sentimento di ogni soggetto; l’ora si intende come luce: passata l’ora, è passato l’incanto… Non cerco mai la stranezza nell’originalità: faccio e agisco solo secondo coscienza. Ho potuto conservare la mia libertà e non mi è costato. Ho sempre sentito di non poter diventare ricco e di non veder chiaro nei miei problemi di pittura che in solitudine e molto tardi: adesso comincio a capire il perché delle cose.

 

Se il fine della vita è l’aspirazione alla felicità, l’Arte deve, in misura dei suoi mezzi, contribuire a questo fine, seminando serena commozione e splendore di bellezza… Il principio ed il dovere dell’artista è di essere l’archetto del violino delle anime e di farle vibrare: è d’essere un germe di felicità.

 

La felicità della pittura moderna invece, consiste proprio nel non riuscire a scoprire nessun perché: essa è piena d’inquietudine e incertezze, è una pittura da sbandati, che rispecchia il male del secolo, dell’uomo moderno che cerca di salire sulle proprie spalle per non essere schiacciato nel vuoto che ha nel cuore…”.

 

Incontrando la gente tornata stanca dalla campagna, chiedeva spesso se poteva fare un ritratto: qualcuno a volte restava perplesso, sapendo che Mssiù li avrebbe fatti posare a lungo e non per una sola volta… Al termine, donava il dipinto e si condivideva quel che una misera tavola poteva offrire: una minestra, un piatto di fagioli o di patate. Non chiedeva mai nulla; si accontentava di poco…  “I Castelnuovesi sono buoni e generosi perché hanno il sole; quando il sole riscalda l’uomo non ha bisogno di lottare: la natura non dà mai cattivi consigli”.

 

M’informo sull’eremitaggio di Moulin: la baracca è lì, proprio in cima a Monte Marrone: l’ha costruita con le sue mani, pietra su pietra; lì è vissuto per qualche anno di erbe, radici, decotti e un pò di cibo offerto dai pastori, tra lupi e camosci e – come la gente del luogo narra – in compagnia di spiriti, streghe e folletti. “Qui non vi è altro che l’opera della natura selvaggia e incontaminata! E’ tutto grandezza e magnificenza!… A chi gli chiedeva se avesse mai visto l’orso, rispondeva: “Ma certo! Ogni mattina quando mi guardavo in uno specchio rotto…”. Era un convinto assertore della filosofia di Jean-Jacques Rousseau da lui tradotta in vita pratica: la civiltà, origine dei mali e le infelicità dell’uomo; la natura, invece, depositaria delle qualità positive… Un’esistenza da condurre in totale simbiosi con la natura stessa; per sentirsi parte viva di essa con animo genuinamente primitivo, con lo stupore autentico di un bambino che conserva ancora il suo spontaneo incanto.

 

“Non si deve rompere l’equilibrio con la natura, ma lasciare il mondo così come è stato creato… Il progresso porterà al regresso, alla corruzione, all’autodistruzione dell’uomo. Ma il mondo non finirà: esso si trasformerà in caos, ma nel caos ci sarà sempre la vita
e tutto risorgerà…  E poi, allo scadere del ciclo – ci saranno altri cicli,
di milioni, miliardi di anni – di nuovo e ancora il caos…”
 

 

Tina Castrataro mi accoglie nella sua casa piena di gatti: “Ero affascinata da quel vecchio, ne ero forse innamorata, in senso spirituale, come può esserlo una bambina; provavo ammirazione, tenerezza. Ricordo che parlava in modo gentile, a frasi brevi, secche, con voce bassissima ed una particolare inflessione francese. Era un uomo fantastico, mite, grande! Credeva in qualche cosa di assoluto e indirettamente credeva in Dio, poiché confidava nell’arte, nel sublimare tutto in essa, affetti, religione. “Non è per virtù mia che mi vengono le idee… è una forza, un’energia superiore che me lo manda: il mio Dio? La bellezza, la natura, l’arte, l’intelligenza… Un Creatore che chiamano Dio, Allah, Geova e altri nomi ancora… Vivere secondo i principi morali della religione, di qualsiasi religione, è per me vivere secondo natura, nel rispetto di tutte le creature, nell’accontentarmi di quanto mi è stato dato, nell’accettare la vita com’è…”

 

21 Aprile 1960: una suora lo assisteva già da tempo per le cure necessarie. Ormai novantunenne, allettato e nonostante gli acciacchi, volle ritrarla… D’un tratto, la mano scivolò sul foglio, inerte…….  Se ne andò via così Moulin, proprio quando la luce con le sue sfumature, si risveglia dal lungo sonno invernale: sì, se ne andò così… il primo giorno di primavera…

 

È l’alba…. attratto da una forza irresistibile, ai piedi del monte, gli scarponi inzuppati di rugiada, fiatone in gola, passo dopo passo, m’inerpico lungo una ripido sentiero, ingoiato da un immenso bosco di faggi secolari. Un paio d’ore tutte d’un fiato per arrivare in cima… e finalmente il rifugio in pietra, tra quattro rocce e basse chiome di faggio contorte dal vento! Eccomi qui, eremita anch’io nell’antico ricovero in pietra, nello scenario dei momenti più significativi, nello spazio delle emozioni e del pensiero più segretamente intimi dell’artista…. Come posso descrivere ciò che sento? Moulin provò la prima volta le stesse emozioni che ora avverto io?…  Sì, Moulin è qui; è sempre stato qui!… Tutto è permeato della sua Energia: colma i risvolti della montagna, le variegate sfumature della luce, il canto del vento, il ciangottio del torrente, avvolge la mia stessa anima…. Sì, tutto questo è Moulin!…

 

Abbraccio tutto con lo sguardo… Su questo baratro infinito, credo di comprendere la scelta del pittore, tra impegno e abbandono, coinvolgimento e distacco, ma non fuga dal mondo, no!… La comprendo e compenetro, in uno stato di profonda empatia – quasi tra sovrapposizione, fusione e sdoppiamento: lui e me – in questa ricerca di un deliberato, intenso contatto con l’artista, con il suo pensiero, con il modo d’essere e di vivere… Nel desiderio unico di riappropriarsi, di riaccordarsi con se stessi… Nell’appagamento semplice di un richiamo, di una voce interiore; nel bisogno ritrovato di salvaguardare la meraviglia, lo stupore, l’incanto del bambino; per proteggere il patrimonio dei valori profondi che l’uomo – che ognuno di noi – ha dentro di sé; nello scrigno segreto del proprio cuore… Senza inquinamenti né contaminazione, senza disperderli nel cicaleccio del mondo; scimmiottando il mondo… Un’appartenenza a sé, che lui avrebbe perso forse tra galleristi famelici, mercanti d’arte, le luci ammalianti del successo: sì, è l’amore la sua scelta: il motivo fondamentale, la vera opera d’arte della sua vita; un amore ideale, puro, universale; un’esistenza attuata secondo coscienza… tradotta in dipinti, parole, saggezza e spiritualità: nella sublimazione totale nell’arte: proprio tutto, anche il sentimento per una donna…

 

“La donna è una creatura sublime, soggetto d’arte: io avrei dovuto scegliere o l’una
o l’altra e ho scelto l’altra; nessuna avrebbe mai potuto capire fino in fondo la mia vita
e sarebbe stato ingiusto da parte mia imporgliela. Lega tra loro due uccelli: avranno insieme quattro ali, ma non potranno mai volare…”.

 

Si racconta che in gioventù partì per l’Italia con una delusione nel cuore: Emilìe, conosciuta poco tempo prima di andare in sposa ad un altro uomo. Fu un amore reciproco, mai dichiarato, ormai non più possibile… Quel filo impalpabile tra i due non si spezzò mai; una notte, dopo svariati anni, lui la sognò: qualche tempo dopo venne a sapere che Emilìe era morta proprio nello stesso istante… Un attimo prima dell’ultimo viaggio, le anime che non hanno età, si erano incontrate per l’ultima volta: la candida anima dell’una si era accostata a quella dell’altro, per un tenero, estremo commiato…

 

M’incammino per scendere giù in paese… Non so che ora sia e cosa del futuro mi aspetti; ma non me ne importa proprio niente!…

 

Giù, dalla valle, echi di zampogna….

 

Pierluigi Giorgio è autore, attore, regista. Ha girato: “Moulin, il poeta del pastello”, film – documentario che si può richiedere contattandolo su Fb.

 

 

 

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Mi appare all’improvviso e sovrasta il paese. Castelnuovo al Volturno, in territorio d’Isernia, è incollato lì, come un presepe aggrappato alla roccia, quasi per timore di scivolar giù nelle acque del fresco torrente alle pendici del monte; e come presepe che non si smentisce, è paese di validi zampognari. “Per Monte Marrone esiste un sentiero?…” chiedo a due che incontro per strada: resto letteralmente di stucco quando uno di loro, s’informa se sto cercando la capanna di Mssiù Mulè il pittore e, nel pronunciare il nome, si fa il segno della croce come stesse parlando di un santo.

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IL BATTISTERO DELL’ANIMA. CASTEL DEL MONTE di Nicola Primo Zema – Numero 7 – Aprile 2017

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La “folgorazione” è avvenuta a cavallo delle ultime feste 2014 – 2015. Stefano Benazzo, Ambasciatore d’Italia, fotografo, scultore e modellista architettonico, che mi onora della sua amicizia, aveva allestito in Doglio, un luogo delizioso quanto mai adatto ad ospitare la bellezza, una Mostra intitolata “Dialogo” in cui venivano esposti modelli architettonici di chiese cristiane, una moschea ed una sinagoga. Tra questi luoghi esplicitamente di culto, al centro della Mostra, spiccava un modello in scala di Castel del Monte.

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IL BATTISTERO DELL’ANIMA. CASTEL         DEL MONTE

 

Si va da posizioni “negazioniste” di qualunque valore simbolico del Monumento, a derive estreme che affermano realtà esoteriche nascoste alluse da elementi simbolici: cercherò di stare nel mezzo, non tanto perché “in medio stat virtus”, quanto perché mi sembra, in definitiva, una posizione più plausibile. Divido la riflessione in tre parti: Ipotesi sulla funzione del Castello; un monumento disegnato dalle mani del Sole; percorso attraverso alcuni simboli presenti, simulando un itinerario iniziatico.

Da svariati decenni si è discusso sulla reale “funzione” del Castello: è un dibattito ancora aperto.

Il prof. Giorgio Masetti della Università di Bari, Facoltà Lettere Antiche, afferma che di tale termine esistono ben sette significati, tutti validi in funzione del contesto. Tra questi, si possono citare “lastricato” o come pavimentazione, o come lastrico solare, cioè una copertura, il che porta a considerare l’intervento come completamento di una struttura già esistente; oppure, indicante, genericamente, “materiale edilizio da costruzione”, per un’opera da completare o da iniziare, quindi, nello specifico, potrebbe indicare la costruzione ex novo del Castello. Dubito di questa ultima interpretazione, proprio sulla base del documento riportato: 

 

– Se actractus significa genericamente materiale edilizio da costruzione, allora diventa pletorica la specificazione actractum ipsum in calce lapidibus et omnibus aliis oportunis…“questo actractus con calce, pietre e tutto il necessario”…

 

– Diventa incomprensibile l’esecuzione totale di un’opera così importante affidata ad un funzionario di una giurisdizione territoriale diversa, licet de tua iurisdictione non sit “benché esso non stia nel distretto della Tua giurisdizione”; si può capire questo incarico solo con carattere di estemporaneità, per un intervento urgente e di completamento. Dunque il Castello, di cui si ignorano il nome dell’architetto, l’impegno economico e, in definitiva, il primo committente, era un fabbricato preesistente, completato da Federico II solo per un intervento marginale.

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Ipotesi sulla funzione del Castello. 

Chi ha costruito il Castello? 

Sembra una domanda oziosa dalla risposta scontata: Federico II di Svevia. Non sembra così certo.

Per ogni Castello che Federico II intendeva costruire sono documentati il luogo scelto, il nome dell’architetto e la somma di denaro destinata all’opera1. Per Castel del Monte si ha soltanto un mandato del 29 gennaio 1240 dell’Imperatore Federico II, inviato da Gubbio al giustiziere di Capitanata, Riccardo di Montefuscolo, in cui viene prescritto: «Cum pro castro, quod apud s. Mariam de Monte fieri volumus per te, licet de tua iurisdictione non sit, instanter fieri velimus actractum, fidelitati tue precipiendo mandamus, quatinus actractum ipsum in calce lapidibus et omnibus aliis oportunis fieri facias sine mora; significaturus nobis frequenter, quid inde duxeris faciendum.». «Poiché per il castello, che abbiamo intenzione di costruire vicino a Santa Maria de Monte, vogliamo che venga subito eseguito tuo tramite – benché esso non stia nel distretto della Tua giurisdizione l’actractus, ti incarichiamo, quale nostro fedele, di predisporre senza indugio questo actractus con calce, pietre e tutto il necessario, in attesa che Tu ci tenga continuamente informati di ciò che intendi fare in questa faccenda…»2

Cosa è l’actractus.

Ipotesi di studiosi che si fondano sul simbolismo esterno e sui simboli ancora visibili all’interno del fabbricato stesso, attribuiscono la originaria proprietà del Castello ai Templari: Castel del Monte, come vedremo nella seconda parte, è come disegnato dalle “mani del sole” caratteristica tipica delle costruzioni templari.

In proposito, nella terza parte, relativa ai simboli presenti, ne citerò due tipicamente templari e trarrò interessanti sviluppi su uno di essi. Il prof. Giorgio Masetti, succitato, definisce actractus in questo modo: canalis in quam aqua actrahitur “canale nel quale si attira l’acqua”. Si tratterebbe, quindi, della esecuzione di un’opera accessoria per una struttura esistente. E qui si apre il pregevole e convincente contributo di due docenti del Politecnico di Bari, Facoltà di Architettura, prof. Ubaldo Occhinegro e prof. Giuseppe Fallacara che hanno redatto un saggio: Castel del Monte: Nuove ipotesi sull’utilitas del monumento, accessibile per via informatica e che invito caldamente a leggere. Castel del Monte non è un’opera militare e questo si può chiaramente dedurre sulla base degli elementi di architettura militare e logistica non rilevabili nel Monumento. In estrema sintesi, il Castello è una costruzione per la raccolta dell’acqua piovana e di falda per il loro trattamento finalizzato alla cura del corpo e dello spirito.

Dicono i nostri Autori: “Castel del Monte è stato progettato per essere il “battistero” per la redenzione del corpo in primis, ma anche dell’anima dell’Imperatore stesso, alla strenua ricerca dell’Immortalità”.

In effetti, il Castello era impiegato per gli stessi scopi anche per ospiti importanti dell’Imperatore, siano essi alti funzionari che Cavalieri che intraprendevano come un percorso iniziatico. “In esso, concepito come ideale battistero del corpo e dell’anima, lavoravano medici ed alchimisti…”I nostri Autori espongono, in modo puntuale, l’organizzazione degli spazi interni del Castello riconducendoli alla loro funzione e ipotizzando i trattamenti che vi avvenivano leggendo le geometrie interne e segni lasciati dai residui secchi di prodotti alchemici, senza entrare, però, per onestà intellettuale, nella interpretazione dei simboli presenti di cui il castello è pieno. I percorsi sono obbligati ed indicati dalla struttura dei portali: riccamente decorati sul prospetto di entrata, nudi nella parte posteriore, come a “vietare”una via di ritorno, assimilabile ad un ripensamento di chi ha intrapreso il “viaggio”.

Si accede obbligatoriamente nel cortile ottagonale al centro del quale è testimoniata la presenza di una grande vasca anch’essa ottagonale, monolitica, di marmo, con sedile periferico interno3, riempita d’acqua e con getto centrale a mo’ di sorgente: la forma di questa vasca ricorda un “battistero”. L’inizio di un lavacro purificatore per il corpo
e per lo spirito.

I vani finemente decorati originariamente con marmi, stucchi e mosaici, fungevano da “tepidari”e “calidari”, con pavimenti più bassi, soglie di separazione delle sale più alte, rispettivi camini e servizi igienici con acqua corrente: i pavimenti, come negli hammam islamici, sarebbero invasi di acqua più o meno calda adatta alle diverse cure del corpo. L’edificio è munito di cinque cisterne pensili di raccolta di acqua piovana, di 28 m3 l’una, non a servizio diretto dei cinque servizi igienici delle torri, ma comunicano, per il troppo pieno, in altre direzioni, ma soprattutto con una cisterna posta sotto il cortile ottagonale della capacità di 250 m3; questa ultima riversa il troppo pieno entro una ultima cisterna interrata posta a 20,00 m dall’edificio. I recenti restauri, inoltre, hanno rilevato la presenza di pozzi profondi 60,00 m che raggiungono falde ricche di acqua sottostanti il castello. Chiudo questa sezione con una osservazione sintetica degli autori citati, raccomandando, ancora, di accedere al loro lavoro:

“Studiando il progetto dell’edificio, dalla planimetria generale sino ai più piccoli elementi di decoro architettonici, il castello risulta essere una enorme macchina di raccolta, smistamento ed utilizzo delle acque piovane.” E, come detto sopra: “…concepito come ideale battistero del corpo e dell’anima…”.

(Seguirà la seconda parte: Un monumento disegnato dalle mani del Sole).

1 Cfr. Aldo Tavolaro, Castel del Monte e il santo Graal, EDIZIONE GIUSEPPE LATERZA di Giuseppe Laterza, 2004, p. 30 e segg. 

Traduzione di Dankwart Leistikov , da un opuscolo AndriArte curato da R. Ruotolo – P. Petrarolo, Sveva Editrice, Andria, 1993, pagg. 33-42

Completamente demolita da vandali nella seconda metà del XIX secolo.

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ARCHITETTURE DEL SALENTO: LE TORRI DI DIFESA di Giusto Puri Purini – Numero 7 – Aprile 2017

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ARCHITETTURE DEL SALENTO: LE TORRI DI DIFESA

 

Santa Sofia diventa La “Grande Moschea” e nasce nel Mediterraneo Orientale una nuova, grande, colta ed aggressiva superba potenza, che entrerà velocemente in conflitto con la Repubblica di Venezia, la quale, fino ad allora, aveva liberamente solcato i mari dall’Adriatico all’Egeo, con i suoi flussi mercantili e le innumerevoli postazioni e domini, seminati dalla Dalmazia fino all’Asia Minore ed oltre. La Puglia, diventava un nodo strategico per le scorrerie Ottomane e,nonostante l’occupazione della penisola nel 1484 da parte dei veneziani (lo sbarco a Taviano), questi ultimi non riuscirono più, a frenarne l’impeto. L’Algerino Khaized-Din (detto il Barbarossa), nel 1537, distrusse Castro e Marittima e, sul versante ionico, l’antica Ugento. Il sistema di difesa della Puglia, ed in particolare del Salento, era impreparato e precario; tra opere risalenti prima agli antichi Romani, poi ai Bizantini (per difendersi da Longobardi ed Aragonesi), costruite nei secoli precedenti sotto forma di torri costiere e masserie fortificate, esso non era più all’altezza del compito. A questo punto, nel panorama europeo, l’aspro conflitto tra Francesco I Re di Francia, e Carlo V re di Spagna, si risolse in favore di quest’ultimo portandolo a governare una gran parte d’Europa.

La Storia del Salento è costellata da una miriade di invasioni: all’inizio, da parte di popoli divenuti stanziali, come i Messapi ed i Japigi; poi, da parte dei greci; incursioni di pirati saraceni, attacchi e saccheggi, ed ora il grande pericolo degli Ottomani, che tra l’altro cullavano l’idea di riunificare l’Impero Romano d’Oriente con Roma. Fu dunque sotto l’Impero di Carlo V che il Vicerè del Regno di Napoli, Pietro de Toledo, nel 1532, promosse un’imponente e strategica prima linea di difesa lungo le coste Adriatiche e Ioniche della Puglia, con quel vasto promontorio che si protende nel cuore del Mediterraneo. Come un’urbanista dei sistemi di difesa, fece realizzare un progetto dove ogni torre potesse vedere e segnalare alla successiva i pericoli incombenti. Come allarme si usavano i corni e le campane, o allarmi visivi, come il fumo (di giorno) ed il fuoco (la notte). Una seconda linea di difesa erano le masserie fortificate e, più all’interno, imponenti Castelli tra i quali spicca, ancora oggi, quello di Acaya. Il provvedimento del Viceré fu rafforzato nel 1563 dall’ordinanza di Don Pedro Afan de Ribera.

Quest’Italia, protesa e bagnata dalle acque quasi in ogni punto del suo periplo, “offriva” e fungeva da attrazione e calamita per altre popolazioni.

Oggi l’esodo biblico che milioni di genti compiono quotidianamente in questi ultimi anni, rimette in moto antichi rancori, paure e disequilibri, e deve nascere una coscienza nuova che induca i grandi Stati (colonizzatori) a sviluppare nei luoghi di origine lavoro e sviluppo, per riportare il nostro mare ad essere, come da sempre, luogo di mercanti, di scambi economico-finanziari, di cultura, direligione, di pensiero e di lavoro.

Nel 1529, dopo altri conflitti e finalmente l’intesa con il Papa Clemente VII, Carlo V ottenne il riconoscimento dei suoi “ambìti” possedimenti in Italia, tra i quali il Regno di Napoli, che includeva l’amata Puglia (dove tra l’altro non arrivò mai).

Il costo economico di tale impresa era diventato così alto che, attraverso bandi di concorso, si conferivano titoli a chi s’incaricava di costruire torri, assegnandogli il titolo di “Capitano di Torre”, il quale, oltre a segnalare scorrerie ed ad approntare difese con cannoni ed archibugi, poteva anche riscuotere dazi. Agli insolventi veniva “duramente” negato il diritto di difesa.

Le Torri, in seguito, serviranno anche per contrastare il contrabbando, in parte tollerato, per impedire il commercio abusivo del sale molto in voga in quei tempi, data la povertà delle popolazioni contadine, e ad intercettare il traffico degli schiavi. Quelle edificate da Carlo V, costruite con conci di tufo regolari, sono generalmente a pianta quadrata o circolare, con il basamento scarpato; all’interno, ambienti normalmente su 2 livelli ed un terrazzo merlato di copertura; feritoie e caditoie completano la facciata. Le Torri sono fornite di una cisterna sotterranea per raccogliere l’acqua piovana. In certi casi, oggi, sono delle Capitanerie di Porto ancora efficienti; molte sono solo ruderi (purtroppo) ed altre sono state restaurate. Come dice Mario Muscari Tomajoli “La costruzione di Osservazioni fortificate è riportata fin da Plutarco (125-50 a.C.) e fu realizzata anche dai Romani, il cui commercio venne messo in crisi dai pirati sino al 67 a. c., quando la legge Gabinia consentì a Pompeo di armare una flotta contro i predoni e rendere tranquillo il Mare Nostrum”.

Ma questo sistema di difesa non esiste solo in Puglia e nel basso Salento, bensì in tutte le nostre ed in tante altre coste del Mediterraneo, e segna, come un’immane punteggiatura nelle mappe, il rapporto di amore e di paura che il grande mare portava con sé.

Il primato della civiltà, della storia, della fertilità della natura, del costume, le imponeva anche sistemi di autodifesa, ed ecco che, oggi, queste mirabili costruzioni, nel ritmico fluire dei paesaggi, diventano segni indelebili della storia.

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TRANI – LA BELLA ADDORMENTATA SUL MARE di Giannicola Sinisi – Numero 7 – Aprile 2017

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LA BELLA ADDORMENTATA SUL MARE

 

 

 

Negli Stati Uniti d’America, Walt Disney ha materializzato questo binomio realizzando, dal nulla, luoghi incantati, costruendo parchi di divertimento nei quali la magia immaginaria delle fiabe diventava una realtà possibile.

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 In Italia e, più in particolare in alcune città del Sud, una millenaria attitudine alla bellezza, ed una ricca sovrapposizione di vicende epiche,
sono state artefici della costruzione, 
quasi come se fosse opera
di un unico grande architetto senza tempo,
di luoghi egualmente fantastici, 

ma assai meno noti.

 

 

La città di Trani ne è un esempio, adagiata sul mare con architetture realizzate dalla mano dell’uomo che, viste dal mare, competono con la bellezza e la grandezza della natura. Ma la stessa umanità che ha lanciato questa sfida al Creato, non ha saputo mettere il suo genio al servizio dei bisogni di questo tempo, e non è stata capace, fino ad ora, di trasformare questo grandioso patrimonio collettivo in benessere al servizio di tutti. Alcuni dei suoi monumenti potrebbero essere alla base di una nuova economia, se le timide iniziative di oggi potranno diventare un’impresa sfacciata come quella del principe che baciò la bella addormentata, destandola dal suo lungo sonno. 

  

La Cattedrale di trani. Un piccolo gruppo di imprenditori turistici di Trani
si sta organizzando per ottenere, con il consenso della Curia,
il riconoscimento della Cattedrale di Trani quale
“patrimonio UNESCO dell’umanità”.

 

Nel Mediterraneo, e probabilmente nel mondo intero, non esiste un’altra Cattedrale medievale edificata sul mare. Nel XII secolo dovette sembrare quanto meno azzardato costruire un imponente edificio religioso sul mare. Il mare, infatti, in quell’epoca costituiva più una fonte di pericolo per le invasioni e le guerre, che le religioni ispiravano ed alimentavano, piuttosto che un’opportunità di pace e di coesione tra i popoli. Eppure quella sfida coraggiosa, ed in qualche misura fondata sulla capacità della sua gente di costruire legami attraverso il mare, piuttosto che conflitti, ha retto per quasi un millennio ed oggi rappresenta un esempio meraviglioso di purezza di stile, oltre che un inimitabile simbolo di pace. Oggi che il mare Mediterraneo assiste ad una nuova epopea di migranti, armati solo della loro disperazione, muovendo da terre attraversate da mille conflitti, e dove le religioni vengono ancora prese a pretesto per saziare l’avidità di potere di qualcuno, la Cattedrale di Trani, che su quel mare si affaccia, può essere una testimonianza viva di come questo mare, il nostro mare, ci consente di prosperare solo se siamo capaci di vederlo come una ricchezza, e non come una minaccia.

 

Il Polo MusealeNella stessa piazza della Cattedrale, all’interno di palazzo Lodispoto (sec. XVIII), è stata realizzata la sede del Polo Museale di Trani. Già l’edificio, per l’eleganza della sua architettura e la spettacolarità
del suo affaccio sulla piazza e sul mare,
è un’inaspettata sorpresa.

 

Un’accorta trasformazione dei suoi spazi interni ha consentito di realizzare una struttura efficiente che ospita il museo della macchina da scrivere ed il museo diocesano, oltre a degli efficienti e moderni servizi per conferenze e convegni. È una rara quanto apprezzabile sinergia tra un privato collezionista e la diocesi di Trani, proprietaria dello stabile. Lì si trovano esposti il patrimonio capitolare ed i reperti lapidei di cui è titolare la diocesi, ed una rara collezione di 400 macchine da scrivere appartenenti ad un imprenditore locale, che ha costituito la fondazione SE.CA. che gestisce questa interessante impresa culturale. Va apprezzata non solo l’originalità del progetto, ma anche la straordinaria qualità espositiva, in teche e supporti ben realizzati, che formano percorsi culturali di grande effetto.

 

Il Monastero di Colonna. Su un altro promontorio della città di Trani,
a poca distanza, si erge, anch’esso affacciato sul mare, un monastero
dell’XI secolo che ospitò i benedettini fino al XV secolo
ed i francescani fino al XIX secolo.

 

 

Oggi è di proprietà del comune di Trani che ha in animo di realizzarvi un museo archeologico, sotto l’egida della competente soprintendenza, per ospitare i reperti frutto dei ritrovamenti della civiltà dei Iapigi che abitarono questi luoghi sin dall’età del ferro. Una consistente opera di restauro, appena terminata, ha consentito all’ente locale di deliberare un indirizzo per un bando di gara che ne stabilisce la destinazione come museo archeologico, prevendendone la concessione in gestione da parte di privati, che potranno realizzare delle economie non solo dai biglietti d’ingresso, ma anche da ogni altra forma di utilizzo compatibile.

 

 

La città gode di innumerevoli ulteriori risorse artistiche, storiche, culturali, che possono essere al centro di una nuova economia, aperta verso flussi di viaggiatori che cercano la bellezza, ed amano la storia

 

 

LE MINNUZZE DI SANT’AGATA di Hilde Ponti – Numero 7 – Aprile 2017

LE MINNUZZE DI SANT’AGATA

 

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È indiscusso il coraggio dimostrato dalla giovane Agata – nata a Catania nei primi decenni del III secolo – che, eludendo ogni lusinga del prefetto romano Quinziano, non si concede, fedele ai suoi convincimenti, e viene, quindi, torturata nelle parti negate, fino a staccarle i seni, per, infine, perire, martire annoverata del cristianesimo primitivo.

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Il suo è un esempio unico che ci perviene da fonti storiche, intrecciate a una forte tradizione popolare. Tuttavia, la dedizione per la strenua fanciulla – eletta più tardi patrona di Catania –  si è espressa quasi subito. Prova ne danno gli Atti dei Martiri.

   

Quinziano, respinto, ordina di far rotolare Agata nuda, su lapilli incandescenti. Proprio in quell’istante un violento terremoto
scuote la città. La popolazione, convinta che il sisma fosse punizione divina, si precipita inferocita al pretorio,
costringendo Quinziano a sospendere l’esecuzione. 

Ad Agata sono rimaste solo poche ore.

 

“Sant’Aita, Sant’Aituzza bedda”, presero a invocarla subito, in quell’idioma musicale, i suoi concittadini: a tutt’oggi, più che mai, presente nella memoria collettiva di Catania e della Sicilia; supplicata, persino, dai Giudei e da altre confessioni. I miracoli attribuiti per Sua intercessione sono davvero tanti: il primo si verifica a un anno dalla sua morte, il 5 febbraio 252 d.C. L’Etna, l’imponente vulcano che circonfonde Catania e la pianura sottostante, emette una forte eruzione. 

   

Gli abitanti – sapendo che l’avanzare della lava significa sempre distruzione – tentano il tutto, invano, e, non rassegnati, si avviano incontro a quell’inferno con il Velo della Santa: e il prodigio avviene. La colata, molto vicina alla città, si arresta
solo davanti all’antico cimelio di Agata.

 

Da questo evento, ha inizio l’inestinguibile devozione di Catania verso la sua Santuzza. E così, dalla storia –leggenda testé evocata, l’Etna, Sant’Agata, Catania e i suoi cittadini si sono accomunati in parallelo per sempre. Tanto che, per ricordarla, hanno istituito due feste annuali: una di tre giorni in febbraio, l’altra in agosto. Nel 2002, l’Unesco ha dichiarato queste festività “Patrimonio dell’umanità”.

 

Inoltre, proprio per non smarrire l’umano senso del possesso, 

i siciliani hanno arricchito il loro pregevole valore gastronomico con un dolce ormai classico, proprio in onore della loro beniamina: le cassatelle di Sant’Agata (Minne di vergine).

 

Per delineare verità remote e leggenda ci rifaremo ai racconti degli storici: l’eruzione del 1669. Lava e lapilli incandescenti erodevano i fianchi della montagna, devastando ogni dove: migliaia senzatetto. La colata arrivò, via via, fino alla città: Catania si spopolò. Eppure, anche allora, avvenne qualcosa di straordinario: la lava, arrivando nei pressi della Cattedrale, scansò luoghi ritenuti tappe del martirio di Agata. Dopodiché, il magma raggiunse il mare, proseguendo la corsa per altri tre chilometri. Anche oggi è visibile quel reperto pietrificato dai secoli: va da Catania a Acireale, ed è chiamato La Costa dei Ciclopi, riferendosi al litorale descritto svariati secoli prima da Omero nell’Odissea.
 

Altra cronaca riguardante Sant’Agata, evocata nel tempo per via orale, narra quando Papa Innocenzo III nominò re di Sicilia l’imperatore di Germania, Federico II e buona parte 

degli isolani non si trovò d’accordo.

 

Allorché lo svevo ne venne a conoscenza, decise di stabilire, in qualsiasi modo, la sua sovranità. Com’era solito fare – stupor mundi: voleva stupire sempre – prima di passare ai fatti meditava. Capitando in una chiesa a Catania, diede inizio alla sua riflessione pubblica, e, in barba alla prosopopea, dovette lui meravigliarsi: all’istante, sotto i suoi occhi, vide materializzarsi alcune lettere: N.O.P.A.Q.V.I.E. – frase in latino, il cui acronimo riferiva “Noli offendere Patriam Agathae quia ultria iniuriarum est” (non offendere il paese di Agata, perché vendicatrice di ogni ingiustizia). L’episodio fece desistere Federico II dal vendicarsi. A tutt’oggi, sulla facciata barocca della cattedrale, nella finestra ovale – lato sinistro di chi guarda – si può leggere l’acronimo in una formella, mentre alla destra se ne trova un altro oggetto di culto, menzionato negli Atti del Martirio.
 

Ma i segni barocchi di Catania sono sparsi un po’ ovunque.

 

Seguendo, per esempio, il tracciato delle mura, si arriva a Palazzo Biscari: come non ci si può soffermare davanti alla fastosa facciata? Essa è movimentata da decorazioni: putti, cariatidi grottesche e altri fregi inneggianti al barocco. Palazzo Biscari si affaccia anche su via Museo Biscari, da cui si accede a Palazzo Platamone: i cortili all’interno sono teatro di luoghi magici, illustrano magistralmente le varie stratificazioni storico-architettoniche di Catania, dove la tradizione riconosce, nei resti sotterranei di domus romane, la casa natale di Sant’Agata, della quale, sulla via adiacente, un’edicola settecentesca rievoca proprio il culto. Il palazzo, in epoca Medievale e Rinascimentale, era residenza dell’importante famiglia Platamone, che – in età aragonese e fino a Carlo V – ricoprì importanti incarichi politici. Distrutto dal terremoto del 1693, venne ricostruito nel ‘700 da architetti che facevano rivivere la città rappresentando rari esempi di barocco. E poi il castello Ursino, fatto edificare da Federico II, su un magnifico promontorio circondato dal mare, simbolo della città. Obbligatorio non tralasciare la visita al magnifico quartiere liberty, un po’ dismesso, testimone di splendori epocali. 
 

Edifici monumentali, vestigia storiche, attestanti culture 

di varie età, ma anche devozione per Sant’Agata 

della sua città e della Sicilia, condivisa anche 

dalle nuove generazioni.

 

E fa davvero meraviglia, pur non trovando motivazione unica: curiosità? Tradizione? Folclore? Fede? Diventa per tutti un collante quando  si tratta di gusto e squisitezze. La preparazione dalle forme morbide – gonfie di ricotta di pecora, zucchero, gocce di cioccolato miste a canditi profumatissimi – incanta.
 

E l’accostarsi alle Cassatelle di Sant’Agata 

(Minne di vergine) è, per tradizione, l’interloquire tacito trasformato in realtà, Epifania per i fedeli 

e i cultori del gusto.

 

 

QUANDO LA TRECCANI NON CONOSCEVA LA MOZZARELLA di Francesco Festuccia – Numero 7 – Aprile 2017

QUANDO LA TRECCANI NON CONOSCEVA LA MOZZARELLA

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Scrivere una possibile o impossibile storia della mozzarella è come addentrarsi in una materia molle che ricorda proprio la consistenza della mozzarella stessa. Pochi i testi certi, come incerta è la “certezza” del nome, anche se “mozza” deriva sicuramente da mozzato, tagliato.

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     e ricerche, sia sui testi che nello sterminato mondo di Internet, danno risultati contraddittori e, a volte, sorprendenti. Basti mettere a confronto due totem del  passato e del presente.

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Andando a sfogliare le polverose pagine della Bibbia delle definizioni, cioè l’enciclopedia Treccani – che ha fatto bella mostra in tante case importanti, nel suo mobile dedicato – nell’edizione del 1934, alla voce Mozzarella, non si trova nulla. Incredibile a pensare: non esiste nella Treccani di quegli anni – summa di tutto lo scibile umano – la voce “mozzarella”. Insomma, la mozzarella proprio non sembrava aver cittadinanza: anzi, solo cercando più a fondo, alla voce “bufalo”si trova: “La femmina produce 1200/2000 litri di latte all’anno che viene trasformato in mozzarella”. Un po’ meglio se si va al dizionario enciclopedico della Treccani del 1958, nel quale testualmente si legge: “voce meridionale diminutivo di mozza, tipo di formaggio, latticino magro tipico della Campania, prodotto con latte di bufala. La cagliata viene cotta nel siero finché diventi filante poi è tirata in cordone e tagliata a pezzi di circa mezzo chilo da consumare fresca e cotta”. E aggiunge, come “figura regionale”: “essere una mozzarella, persona fiacca e lenta”.

Non solo la mozzarella viene citata poco o niente, ma più che altro passa, anche, come termine derisorio. Se ci pensiamo bene non a torto.

Chi non ha avuto un compagno di scuola o, magari, un parente a cui è stato affibbiato il termine “mozzarella”, perché era un tipo moscio, giusto come una mozzarella. Moscio, diremo morbido, che per una mozzarella vera è una bella cosa, perché si taglia facilmente e altrettanto morbidamente si scioglie in bocca; mentre, certo, per una persona, non è un granché di qualità. Così come si usa nello slang della pallavolo, sinonimo di tiro senza energia… e poi quante volte pensando al colorito di una persona in costume sulla spiaggia abbiamo detto: “è una mozzarella”. A dire il vero, questa ultima derisione sta passando di moda, visto che la tintarella ora è un po’ meno trendy, mentre, per la mozzarella stessa, il bianco è un bel complimento dal momento che se vira al giallastro non è un buon segno di conservazione e se vira al blu, addirittura, va a finire sui giornali come emblematico e, forse, fin troppo rumoroso caso di “avvelenamento”.

Secondo l’enciclopedia internettiana, le prime notizie si hanno in un documento longobardo. Secondo queste fonti, già nel XI secolo, la principessa Aloara, vedova del principe di Capua, Pandolfo Testadiferro, distribuiva una “mozza” – un pezzo di pane – ai monaci dell’abbazia di San Lorenzo ad Septimum, alle porte di Aversa. Secondo altri, la mozzarella l’avrebbero inventata i monaci stessi. Mentre le bufale si trovavano nelle vallate acquitrinose, i conventi erano invece sulle alture; per trasportare meno peso, il latte veniva lavorato con un procedimento veloce direttamente sui pascoli, concentrandolo in un latticino che poi veniva portato su in convento. Secondo altri, invece, gli inventori della mozzarella sarebbero stati i Normanni la cui contea-città era Aversa. Dell’uso della lavorazione e del consumo dei prodotti derivati dal latte di bufala (il casicaballus, il butyrus, la recocta, il provaturo) abbiamo attestazioni in documenti del XII secolo conservati presso l’archivio episcopale di Capua.

Ognuno sembra voler prendere una primogenitura e, allora, prima del famoso cuoco della corte papale Scappi, a cui si deve il primo uso ufficiale nel 1570, ecco ritrovata, nel 1481, una denominazione di “mozza” del fiorentino Paolo Rucellai.

E, allora, andiamo per altre doverose citazioni: prima di t
utte, a fare da
contraltare alla Treccani, quella su Internet di wikipedia che,
anche qui, poco ci
aiuta e, per approfondire, ci rimanda alla voce
mozzarella di bufala campana
.
E qualche cenno sulla storia c’è, anche se la certezza manca.

 

Anche se le denominazioni (mozza-provatura) variano a seconda dell’epoca, in tutte le fonti citate, una sola cosa sembra certa: tutte queste denominazioni hanno voluto indicare sempre quella che oggi viene chiamata mozzarella. E allora, vista la varietà e anche la contraddittorietà delle fonti, andiamo a scomodare illustri dizionari. Dagli Accademici della crusca, che parlano di Mozza come “sorta di cacio fatto con il latte”, al vocabolario della lingua italiana di Scarabilli, secondo cui “così chiamavansi certi piccoli caci chiusi in una vescica e legati a mezzo. Usano massimamente nel napoletano dove la chiamano mozzarella”; dal dizionario Palazzi che, alla voce provatura, dà “formaggio molle fresco che si prepara nel napoletano con latte di bufala” al vocabolario Basilio Puoti napoletano-toscano, che la definisce “qualità che si fabbrica col latte di bufala”; al vocabolario napoletano-italiano di R. Andreoli, che dice “latticino che non usa in Toscana ed al quale dovrà mantenersi il nome di mozzarella derivato da mozza”. E qui, in questa complessa e fumosa storia di definizioni e primogeniture, ci vengono in aiuto le parole di un medico senese – autore di una monumentale opera di divulgazione più volte ripubblicata nel XVI secolo – che dice del latte di bufala “di cui si fanno quelle palle legate con giunchi che si chiamano mozze e a Roma provature” per far comprendere il rapporto mozza provola.

In qualsiasi dizionario della lingua italiana – recente o meno – provola viene fatto derivare da provatura, mentre, a definire il legame mozzarella/provatura, c’è un documento del 1873 – ancora un vocabolario napoletano-toscano domestico – che definisce la mozzarella “piccola forma poco più poco meno di un uovo di provatura fresca”.

A questo punto, vale la pena di citare lo storico Migliorini che descriveva cosa succedeva nella Piana del Sele intorno alla metà dell’800: “le mozzarelle non erano destinate al commercio, ma si confezionavano per uso familiare e il latte bufalino serviva per la lavorazione di provole affumicate per salvaguardare la crosta dal deterioramento”. E qui, continuiamo ad attingere ai pochi dati storici arrivati a noi. Se nel mercato di Capua sembra che fin dal 1500 ci siano tracce di mozzarelle accompagnate dalle provole, i dati archivistici sembrano dimostrare come, nella non lontana Castelvolturno, pervenissero solo provature, Le Assise di Napoli, poi, confermano, per quello stesso periodo, la presenza su quel mercato solo di provature affumicate e fresche; invece, la mozzarella, accompagnata da provole, sembra comparire solo dal 1720, per diventare più frequente dal 1780 in poi. Insomma, chi faceva mozzarella lo faceva ad uso e consumo privato: cibo non povero, ma poverissimo, tanto da non poter essere nemmeno commercializzato e che avrà una trasformazione in prelibatezza solo tanti anni dopo.

E, allora, andiamo per altre doverose citazioni: prima di tutte, a fare da contraltare alla Treccani, quella su Internet di wikipedia che, anche qui, poco ci aiuta e, per approfondire, ci rimanda alla voce “mozzarella di bufala campana”. E qualche cenno sulla storia c’è, anche se la certezza manca.

E, allora, andiamo per altre doverose citazioni: prima di t
utte, a fare da
contraltare alla Treccani, quella su Internet di wikipedia che,
anche qui, poco ci
aiuta e, per approfondire, ci rimanda alla voce
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E qualche cenno sulla storia c’è, anche se la certezza manca.

 

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L’ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI UNA GRANDE RISORSA PER IL SUD di Francesco Serra di Cassano – Numero 1 – Luglio 2015

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per anni, un faro della cultura filosofica europea. Elena Croce, Enrico Cerulli, Pietro Piovani, Giovanni Pugliese Carratelli e Gerardo Marotta formano il leggendario comitato fondatore che, nel 1975, con una solenne cerimonia all’Accademia dei Lincei, ha dato vita a qualcosa di veramente inedito nel panorama culturale italiano, un’istituzione che da subito si è affermata quale luogo di alta elaborazione e condivisione del pensiero. Non è un caso che lo Stato, nel 1983, gli abbia assegnato come sede i nobili saloni del settecentesco Palazzo Serra di Cassano, da poco rilevato, luogo d’importanti memorie e simbolo della Rivoluzione napoletana del 1799.

L’ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI UNA GRANDE RISORSA PER IL SUD

 

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In quarant’anni di vita, l’Istituto, grazie all’instancabile volontà dei suoi fondatori, ha animato corsi, seminari, congressi con la partecipazione di insigni studiosi, a Napoli, ma anche a Roma, Torino, Parigi, Londra, Poitiers, Tubinga, Monaco, Amburgo, Oxford, Francoforte, Wolfenbüttel, Austin, Rotterdam, Erlangen, praticando l’incontro fra giovani ricercatori e grandi maestri.
Sono approdati a Napoli, negli anni, importanti esponenti delle diverse discipline scientifiche. Vi hanno tenuto seminari e conferenze, tra gli altri, Musatti, Bergmann, Segré, Prigogine, Wheeler, Rubbia, seguendo un indirizzo e una programmazione che avevano, tra i principali obiettivi, l’avvicinamento delle scienze moderne e della filosofia, della teoria e della prassi, oltre che una sistematica ricognizione filosofica della realtà contemporanea. Questo indirizzo fu abbozzato e avviato da quel piccolo solidale gruppo di persone che era animato da una carica ideale senza pregiudizi e da una forte consapevolezza intellettuale e politica. In pochi decenni è stata messa in campo una produttività di gran lunga maggiore rispetto a quella di numerose istituzioni gonfiate e foraggiate dalla burocrazia e dirette svogliatamente.
L’Istituto, raccogliendo nel tempo contributi significativi e riuscendo a coagulare una grande quantità di lavori interdisciplinari, ha promosso anche un importante programma editoriale, che abbraccia secoli di storia e di filosofia (dalla raccolta dei frammenti della Scuola di Platone a un’edizione critica delle lezioni di Hegel), che sono un punto di riferimento per chiunque voglia accostarsi in modo analitico allo studio dei classici. L’attività didattica si è mescolata a quella editoriale, i corsi sono sfociati a volte in vere e proprie lectio magistralis, l’insegnamento ha fatto da guida a un numero sempre crescente di studiosi e di appassionati.

L’Istituto di Napoli ha inteso la promozione degli studi filosofici quale preparazione all’essere cittadini nel senso più alto. Il lavoro compiuto è, dunque, un lavoro per lo Stato in quanto il sapere filosofico occupa concettualmente il medesimo terreno dello Stato, condividendone l’essenza: universalità, oggettività, rifiuto del particolarismo.

In questo senso, può essere considerato una delle realtà più coraggiose e generose di cui la storia della cultura europea abbia saputo dotarsi nel secondo dopoguerra.
Il fattore che rende l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ancor oggi di vitale importanza è proprio la sua fedeltà alla filosofia come vertice del sapere, da coltivare non con spirito specialistico e “disciplinare”, ma come lievito per la vita collettiva. Questa attività è insostituibile, in quanto rappresenta una barriera contro i pericoli della decadenza e uno stimolo per mantenere alta l’attenzione sulla formazione delle nuove generazioni. Non è un caso che l’Istituto sia stato definito da Giancarlo Rota, eminente matematico del Massachusetts Institute of Technology, un “baluardo di civiltà”.

L’Istituto, nonostante le gravi difficoltà finanziare che lo affliggono, non ha mai interrotto le sue attività né perso la sua autonomia, costruendo un “know-how” irripetibile ed insostituibile nello straordinario “crocevia della cultura mondiale” che è stato Palazzo Serra di Cassano. Un inauspicato arresto di questo patrimonio in continuo divenire si tradurrebbe in un grave colpo per Napoli, per il Mezzogiorno d’Italia e per il Paese.

È infatti un insieme di competenze, di saperi, di rapporti, di conoscenze personali e istituzionali che ha permesso all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di promuovere confronti speculativi e scientifici di livello mondiale,

di organizzare scuole di alta formazione, oltre che a Napoli, in centinaia di comuni dell’Italia meridionale, di pubblicare oltre tremila volumi in italiano, ma anche in francese, spagnolo, tedesco, inglese, russo, rumeno, cinese e in altre lingue occidentali e orientali. E tutto questo in quarant’anni di lavoro senza interruzioni, mantenendo sempre alto il livello delle iniziative che, con tale intensità, non trova alcun riscontro, né in Italia né in Europa.
Questa attività, punto di sbocco di un accumulo di competenze insostituibili, non è spiegabile se non si risale all’impegno etico e intellettuale del suo Presidente, Gerardo Marotta, nel quale lo spirito patriottico si è unito all’amore per la cultura e la filosofia e a una particolare attenzione alle sorti dei giovani.
L’opera di ricostruzione di una tradizione di pensiero interrotta poteva essere affrontata solo a partire dalla ripresa di tutti i momenti alti della tradizione filosofica europea. Proprio perché all’atto della sua fondazione l’Istituto ha riconosciuto la mancanza di categorie teoriche risolutive e il generale abbandono dei filoni più vitali del pensiero, esso si è aperto con la massima liberalità all’apporto di tutte le scuole, le 2 accademie, le università, le istituzioni non universitarie ed è riuscito a valorizzare forze intellettuali isolate, ignorate e a volte mortificate dalla cultura accademica.
La convinzione che le manifestazioni della razionalità umana fossero presenti anche nelle espressioni artistiche, nelle conquiste scientifiche, nelle confessioni religiose, nelle attività economiche, negli ordinamenti giuridici e che tali espressioni spesso “spontanee”, implicite, dovessero essere portate a piena consapevolezza riflessiva e quindi filosofica per diventare elementi dinamici di una nuova sintesi, ha portato l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici a sviluppare una quantità sorprendente di iniziative in tutti i settori d’avanguardia delle scienze, della storiografia, delle letterature e delle arti figurative, della vita delle grandi religioni, della civiltà del diritto, della teoria economica.
Se l’Istituto continuerà a vivere sarà un bene per Napoli e per l’intera Europa. L’auspicio è che le istituzioni manifestino la loro presenza con un segnale chiaro, pragmatico che non interrompa il cammino intrapreso in questi anni.

 

BRUJA E ACCABADORA: IN SARDEGNA L’ORIGINE DEL MITO? di Giovanna Mulas – Numero 1 – Luglio 2015

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s’accabadura e che questa resistesse solo tra le persone che, pur con etichetta cristiana, ancora praticavano costumi pagani a debellare i quali ha indubbiamente contribuito il concilio di Trento col rinnovamento della Chiesa cattolica. Secondo Edward Neville Rolfe l’adorazione di Diana era diffusa al punto che, quando il cristianesimo si sostituì al paganesimo, gran parte del simbolismo pagano fu adattato ai nuovi riti e questo rese relativamente semplice la transizione dalla venerazione di Diana a quella della Madonna. E’ da presumere che sia apparsa in Sardegna già dal periodo neolitico, quando popolazioni asiatiche, durante le migrazioni e a ondate successive, approdarono nell’isola. Le loro pratiche conducono ad uno sciamanesimo di tipo siberiano e centro asiatico, confermate dalle tradizioni funerarie e le credenze comuni.

quali le scuole occulte di magia, il Neo-Platonismo, la Cabala, le eresie cristiane, la magia e il dualismo persiani, unitamente ai resti della teologia greca ed egiziana in voga ad Alessandria nel terzo e quarto secolo d.C., nella Casa della Luce nel Cairo del nono secolo,

’esasperazione dell’assurda demonologia del Malleus Maleficarum non fu il logico sviluppo di un’idea religiosa ma il risultato sociale di una rinnovata guerra ideologica e del conseguente clima di paura.

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BRUJA E ACCABADORA: IN SARDEGNA L’ORIGINE DEL MITO?

 

L’Angius si domanda se la pratica alquanto stregonesca dell’accabadura possa provenire dal geronticidio che i figli praticavano anticamente verso i padri settantenni,

e in effetti numerose testimonianze che ho raccolto per il mio ‘Nessuno doveva Sapere, Nessuno doveva Sentire’ fanno riferimento ad un’antica oralità tramandata loro di “montagne di Baunei o Elini da dove venivano buttati i vecchi perché troppo vecchi e malati. Anche ai piccioccheddos maladios (ragazzini, bambini malati o nati deformi – N.d.A.) facevano questa faccenda”.

Una delle tattiche più efficaci adottate dalla chiesa cristiana nei confronti dei convertiti o dei potenziali convertiti che continuassero a adorare i loro dei pagani, era di demonizzare quegli dei affermando che erano effettivamente demoni o il Diavolo stesso. Poiché questa equazione veniva fatta frequentemente, i cristiani cominciarono a rappresentare il diavolo secondo la visione che i pagani avevano dei loro dei.

Questo perché, negli antichi tempi pagani, gli umili non sapevano che tutti gli uomini erano uguali davanti a un Dio, e che anche come schiavi avevano dei diritti sulla terra.

Che molti abusi fossero mitigati ed esistessero santi benevoli non cambia la realtà dei fatti e cioè che in generale, per molti secoli, l’umanità sia vissuta in condizioni peggiori di prima e la causa maggiore di questa sofferenza si potrebbe addebitare ad una nuova consapevolezza dei diritti negati,

Se Edwards e Tendale hanno fatto cenno a uomini dediti all’accabadura, lo Spano include il termine nel suo vocabolario solo al femminile. Scrive: “accabadoras, ucciditrici, uccidenti”. La tradizione lascerebbe intendere che la parte della popolazione più cristianizzata fosse riuscita a debellare 

cosa che rappresenta di per se stessa una tortura. Queste circostanze erano rese più dure dalle prediche continue al popolo: era un dovere soffrire e sopportare oppressione e tirannia, e i diritti dell’ autorità di ogni tipo erano tali da giustificare anche i peggiori abusi. Difendendo l’autorità dei nobili, la Chiesa conservava la propria. L’era della grande caccia alle streghe fu l’epoca delle grandi rivolte popolari nella storia d’Europa, secoli che videro guerre civili religiose e le prime rivoluzioni nazionali dell’età moderna. I disordini terrorizzavano i membri delle classi dominanti di tutta Europa, le loro paure si rispecchiavano nella fantasia del sabba. Alla pari dello stesso diavolo che aveva intrapreso la sua carriera con un atto di ribellione verso Dio, la strega rappresentava la quintessenza del ribelle. I cacciatori di streghe, citando la Bibbia, proclamavano che “la ribellione è come il peccato di stregoneria”, i realisti scozzesi, nel 1661, proclamavano che “la ribellione è la madre della stregoneria”. Alcune credenze di chiara origine pagana, connesse ai culti della fertilità, sono il risultato di sedimentazioni antichissime sulle quali si sono innestate superstizioni medioevali, e stereotipi inquisitoriali. Il culto di Artemide-Diana, successivamente chiamata Herodiade, Heroda, Arada, Holda, Perchta, è giunto fino a noi deformato dalle demonizzazioni effettuate nel corso del medioevo. Alla divinità lunare in periodo cristiano si sovrappose il nome di Sant’Anna, cui vennero dati gli stessi attributi della luna. Nei testi sacri di tutti i popoli a creare l’Universo è un dio maschile: Jhave’, Budda o Brama. Nella stregoneria il principio primordiale è femmina.

Nello straordinario conflitto di correnti contrastanti

possiamo notare che l’uguaglianza della donna rappresentava dottrina prominente. Era Sofia, o Elena la donna affrancata, considerata come il vero Cristo che avrebbe salvato l’umanità.

Dai testi dei concili, dei capitolari e dei penitenziali, vengono indicazioni molto precise sulla modificazione interpretativa del fenomeno magico e dei rituali pagani residui. Si andava affermando un modus operandi che considerava magia e culto del diavolo anche pratiche religiose altre. Nell’alto medioevo i testi giuridici propongono termini come striges, strigae, lamiae: demoni femminili pagani dediti a truculenti rituali notturni, creature accomunate alle cosiddette herbarie. Se studiamo nel suo contesto il rilancio della persecuzione contro la stregoneria nel 1560-1570, possiamo renderci conto che la responsabilità dell’isteria collettiva sulla materia non è esclusivamente dei protestanti o dei cattolici, ma di entrambi; della lotta fra costoro.

La prima edizione del Malleus Maleficarum risale all’inverno 1486, fu stampata a Strasburgo. Fino al 1669 seguirono 34 edizioni, giungendo a più di trentacinquemila copie. Con la lotta alla stregoneria il cristianesimo ribaltava sulle donne del diavolo le imputazioni che il paganesimo aveva rivolto alle prime sette cristiane. Accanto alle accuse ricorrenti di ateismo, empietà, sacrilegio, contro i cristiani non mancarono l’accusa d’incesto, di cannibalismo, di culti orgiastici, scandalosi convegni notturni.

Secondo gli apologisti cristiani, la propaganda anticristiana che ebbe un peso determinante sulle persecuzioni fu dovuta in parte all’ignoranza del messaggio evangelico, quindi della condotta irreprensibile dei cristiani, ed in parte all’odio e al fanatismo delle masse popolari. Tra gli inizi del XIII secolo e la fine del XVII si calcola che siano state inquisite, incarcerate, torturate oltre nove milioni di persone, di cui un terzo finì al rogo.

Deduciamo non la scomparsa di un’accabadura quanto il perseverare del nasconderne la pratica agli occhi alieni.

 

LA RICCHEZZA NASCOSTA NEL POVERO MEZZOGIORNO – PARTE 1 di Carlo Curti Gialdino – Numero 1 – Luglio 2015

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archeologica impietrita nel tempo dalla terribile eruzione del Vesuvio del 79 d.C.; non solo perché tutta la striscia prospiciente il mare della Campania, a partire da Napoli, metropoli sin dall’antichità e le testimonianze delle varie dominazioni, è un concatenarsi di ritrovamenti archeologici noti (Pozzuoli, Paestum) e meno noti (Pontecagnano e i suoi reperti Etruschi); e, saltando alla Sicilia vi sono stratificazioni mozzafiato, di civiltà anche autoctone sovrapposte a civiltà, come la mitica torta sette veli che si gusta a Messina; senza dimenticare che ogni altra Regione meridionale, in varie epoche, ha ospitato vestigia di un glorioso passato. 
Il Mezzogiorno, insomma, è uno scrigno di tesori mai davvero presi in considerazione per diventare volani di sviluppo, Pompei compresa, pur essendo, insieme al Colosseo, il sito archeologico italiano più visitato.

E non solo perché qui c’è Pompei e la sua area 

L’unico problema per il locale a piano terra destinato a coronare il suo sogno era la creazione dei servizi igienici. Lo scolo aveva problemi di riflusso. Per cui, il signor Faggiano arruolò i suoi due figli maggiori per aiutarlo a scavare ed investigare sulle cause dell’inconveniente. Aveva previsto che per i lavori ci sarebbe voluto giusto una settimana. Se solo non avessero impattato in una sorpresa… “Trovammo corridoi sotterranei ed altre stanze, quindi continuammo a scavare” dice il sig. Faggiano, che ha sessant’anni. La sua ricerca del canale di scolo, che iniziò nel 2000, divenne una storia familiare di ossessioni e scoperta.

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LA RICCHEZZA NASCOSTA DEL POVERO MEZZOGIORNO

PARTE I

 

Si organizza il minimo indispensabile, quello utile a tour promozionali in fiere del turismo, dalla milanese BIT ad altre più esotiche, rivelandosi questo tipo di politica arida di risultati, se non per chi se ne va in giro per il mondo a fare il promoter delle bellezze meridionali.
Eppure, all’estero, pur non possedendo neanche la millesima parte dell’intrigante intreccio fra storia, cultura, località godibili del nostro Sud, riescono a fare grandi flussi turistici.
Situata nel tacco dello Stivale italiano, Lecce era un punto nevralgico del Mediterraneo, ambita dagli invasori per tale posizione strategica. Dai Greci ai Romani, fino agli Ottomani, i Normanni ed i Longobardi.
Per secoli, una colonna di marmo del santo patrono di Lecce, Oronzo, ha dominato la piazza centrale della città, fino a che, gli storici, nel 1901, non hanno scoperto un anfiteatro romano che si estendeva sotterraneamente per tutta quell’area ed hanno spostato la colonna per poter fare gli scavi.
“I primi insediamenti a Lecce risalgono ai tempi di Omero, o almeno così dice la leggenda”, dice Mario De Marco, storico e scrittore locale, rilevando che gli invasori sono stati attratti dalla posizione d’oro della città e dalle prospettive di saccheggio. “Ognuna di queste popolazioni è venuta e ha lasciato una propria traccia”.
Severo Martini, assessore alla Pianificazione territoriale e all’Urbanistica del Comune di Lecce, afferma che i reperti archeologici vengono alla luce regolarmente e possono rappresentare un bel problema per la pianificazione urbana. Un progetto per un centro commerciale ha dovuto essere ridisegnato dopo la scoperta di un antico tempio romano sotto il sito del parcheggio. “Ogni volta che si scava un buco” dice “secoli di storia escono fuori come niente”. Come per la famiglia Faggiano.

Tutto quello che Luciano Faggiano desiderava, quando acquistò l’anonimo palazzo a via Ascanio Grandi 56, era di aprire una 

trattoria.

Un nome assai simbolico, in quanto proviene da greco e significa “Vedimi, sono la vita”. “Continuavo a scavare per realizzare il mio accesso alla fogna”, dice. “Nel contempo, però, ogni giorno speravamo di trovare nuovi manufatti”. Gli archeologi spinsero il signor Faggiano ad andare avanti. Oggi, l’edificio si è trasformato nel Museo Faggiano, un Museo archeologico privato, autorizzato dal Comune di Lecce.
Scale in metallo consentono ai visitatori di scendere nelle camere sotterranee, mentre le sezioni di pavimento in vetro servono ad ammirare le stratificazioni storiche dell’edificio. Rosa Anna Romano, una docente operante presso il Museo, è la vedova di uno speleologo dilettante che ha contribuito a scoprire la Grotta di Cervi, una grotta sulla costa vicino Lecce, verso Otranto, decorata con pittogrammi neolitici. Per saperne di più, vi consiglio di consultare il sito www.museofaggiano.it.
Con molta sorpresa, scoprirete che è tradotto in 9 lingue, compreso russo, cinese e giapponese. Certamente, il MiBACT del Ministro Franceschini ha da imparare, con quel suo sito ‘verybello’ che a stento parla inglese! Intanto, però, lo stesso Ministero ha comunicato la disponibilità di Fondi europei 2014 – 2020 per sostenere iniziative culturali nel Mezzogiorno. Ecco la comunicazione divulgata dal Ministero: “La Commissione Europea ha approvato il programma operativo “Cultura e Sviluppo” 2014 – 2020 cofinanziato dai fondi comunitari (FESR) e nazionali, per un ammontare complessivo di circa 490,9 milioni di euro, che vede il MiBACT nel ruolo di amministrazione proponente e Autorità di gestione. Il Programma Operativo Nazionale (PON) “Cultura e Sviluppo” 2014 – 2020 è destinato a 5 regioni del Sud Italia – Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia –  ed ha come principale obiettivo la valorizzazione del territorio attraverso interventi di conservazione del patrimonio culturale, di potenziamento del sistema dei servizi turistici e di sostegno alla filiera imprenditoriale collegata al settore. Gestito dal MiBACT, il PON dà attuazione alle scelte strategiche ed agli indirizzi definiti dall’Accordo di Partenariato (AdP) tra l’Italia e la Commissione Europea.

Il signor Faggiano trovò tracce di un mondo sotterraneo che risaliva a prima della nascita di Gesù: un tomba messapica (antica popolazione italica stanziatasi nella Murgia meridionale), un granaio romano, una cappella francescana ed altri dipinti dei 

Cavalieri Templari,

dalla vicenda così controversa, perseguitati dal re Filippo il Bello di Francia. Ma quella è un’altra storia. Se vi capita, approfonditela. La trattoria è ora diventata un museo, dove i ritrovamenti sono esposti. ‘Gli uomini di casa’ scoprirono un piano nascosto che portò ad un altro piano in pietra medievale, che portò a sua volta ad una tomba dei Messapi, i quali vivevano nella regione secoli prima della nascita di Gesù. Presto la famiglia scoprì una camera usata per conservare il grano dagli antichi romani e la cantina di un convento francescano in cui le suore, al tempo, preparavano i corpi dei morti alla sepoltura. Le Forze dell’Ordine arrivarono e bloccarono gli scavi, intimando di non addentrarsi in siti archeologici abusivi. Il presunto ‘tombarolo’ rispose loro che stava solamente cercando di costruire un tubo di scarico.
Passato un anno, finalmente gli fu permesso di riprendere la sua ricerca per il tracciamento della fogna, a condizione che i funzionari della Sovrintendenza partecipassero ai lavori. Emerse, così, un tesoro sotterraneo costituito da antichi vasi, bottiglie devozionali romane, un antico anello con simboli cristiani, manufatti del Medioevo, affreschi nascosti ed altro. “Abbiamo trovato – dice Luciano Faggiano – molto vasellame di epoche diverse. C’erano due tombe, ma una era stata svuotata già ai tempi della costruzione dello stabile, nel 1933.
Le poche monete, molto corrose, frutto degli scavi sono ora allo studio della Sovrintendenza. Non so, dunque, di che epoca sono. Mi ha colpito l’anello, che doveva essere un anello da sigillo, tant’è che lo abbiamo ritrovato ancora sporco di ceralacca. Era in oro, almeno laminato su altro metallo, con uno stemma indimenticabile: l’ostia consacrata. E’ impressionante, il disegno richiama molto quello che ora Papa Francesco ha assunto come suo stemma. Sarebbe bello che lo vedesse.
”La casa dei Faggiano ha livelli che sono rappresentativi di quasi tutta la storia della città, dai Messapi ai Romani, dal Medioevo fino all’età bizantina”, dice Giovanni Giangreco, funzionario del Ministero dei Beni culturali, ora in pensione, coinvolto nella supervisione degli scavi. I funzionari della Sovrintendenza, intuendo di essere di fronte ad una grande scoperta, portarono un archeologo sul sito, anche se i Faggiano si sono accollati i lavori di scavo, sostenendone le spese. Il signor Faggiano, cuoco provetto, continuava a sognare ancora una trattoria anche se, ormai, il progetto era diventato la sua Moby Dick. Intanto ha fondato un’Associazione culturale, denominata “Idume”, dal nome del fiume che scorre sotto la città di Lecce.

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L’Accordo individua tra gli obiettivi tematici la protezione, promozione e sviluppo del patrimonio culturale, considerato asset potenzialmente decisivo per lo sviluppo del Paese, sia in quanto fattore cruciale per la crescita e la coesione sociale, sia per gli effetti e le ricadute positive che esso è potenzialmente in grado di determinare nei rispetti del sistema dell’industria turistica.
Il Programma ha una dotazione finanziaria di 490,9 milioni di euro, di cui 368,2 milioni di euro a valere sui fondi strutturali europei (FESR) e 122,7 milioni di euro di cofinanziamento nazionale.
Il PON “Cultura e Sviluppo” 2014-2020 viene attuato attraverso una filiera corta e diretta: il MiBACT Amministrazione titolare del Programma si avvale delle sue articolazioni territoriali (Segretariati regionali, Poli museali, Soprintendenze) nell’ambito di una strategia di raccordo e di coordinamento con le Amministrazioni regionali delle cinque regioni interessate, con le quali saranno sottoscritti specifici Accordi Operativi di Attuazione (AOA)”.
Nulla cambia circa la necessità di coinvolgimento delle autorità regionali, in passato piuttosto inerti in materia, tant’è che ci sono state tantissime volte che si è corso il rischio di perdere i Fondi pur attribuiti, proprio a causa dell’incapacità progettuale delle stesse.
Si spera, invece, che ora, messe sotto il microscopio proprio per gli errori del passato, le Regioni siano più efficienti nella loro azione. Molto si potrebbe fare, però, se i cittadini, pur se attanagliati dalla crisi, fossero più propositivi e meno rassegnati. Propositivi come il signor Faggiano di cui vi ho raccontato.
Da queste pagine, parte un appello affinché vi sia maggiore partecipazione e minore lamentazione.
La filosofia dell’armiamoci e partite, se protratta, non consentirà al Sud di mettere in pista i suoi beni straordinari: un’eredità che è davvero un peccato dilapidare!

 

IL PARCO LETTERARIO CARLO LEVI. UNA PERLA DA RISCOPRIRE di Antonio Genovese – Numero 1 – Luglio 2015

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1. La prima volta che ci ho messo piede, su invito di una professoressa in pensione (che di allievi ne aveva menati tanti, in giro da quelle parti), mi sono chiesto come avessi fatto a non venirci prima. Infatti, avevo letto il Cristo di Carlo Levi, moltissimi anni prima, e quasi pensavo ad un mondo altro da quello in cui pure avevo vissuto negli anni fondamentali della mia formazione, nella Basilicata occidentale, dove l’influenza del pugliese è assai più sfumata e più avvertita quella del campano.
Ma il primo impatto non è stato con la lingua, con uno dei tanti dialetti della Basilicata (ancora non sufficientemente studiati, a mio avviso, nonostante gli studi di Bigalke e di Rohlfs1) ma con il paesaggio, perché, lasciandoci alle nostre spalle Stigliano (e il Parco Regionale di Gallipoli Cognato), siamo scesi verso le valli alluvionali, abbandonando il verde 

IL PARCO LETTERARIO CARLO LEVI. UNA PERLA DA RISCOPRIRE

 

Sembrava quasi di vivere molte delle pagine del romanzo, specie di quelle in cui l’Autore (rispolverate nozioni di medicina, che pensava di non dover mai utilizzare) racconta della sua missione notturna verso la frazione di Pantano, in visita di un malato grave (di malaria) che, purtroppo, non riuscirà a salvare. Il percorso, fra i calanchi in una nottata d’inverno, tra il nevischio, con la luce silenziosa della luna bianca, parla di queste argille che «precipitano verso l’Agri, in coni, grotte, anfratti, piagge, variegate bizzarramente dalla luce e dall’ombra», che poi l’artista ha anche cercato di raffigurare in molte sue opere pittoriche (quelle in terra di Basilicata sono visitabili presso il Museo nazionale d’arte medievale e moderna della Basilicata, che si trova a Matera, e ha sede a Palazzo Lanfranchi3 o, ad Aliano, nella Pinacoteca, che pure il tour del Parco consentirà di visitare) ma che ovviamente vanno vissute, compiendo tali percorsi en plein air, se del caso anche guidati da qualche accompagnatore: il più famoso di tutti è il prete, don Pierino (vero e proprio Virgilio, conoscitore di ogni dettaglio ma che non sempre rivela di buon grado, se non si entra in sintonia con lui).
Anche il visitatore, perciò, dev’essere avvertito che, come tutti i posti piccoli e remoti, non sempre bene indicati (anche quanto a segnaletica stradale), occorre armarsi di quella pazienza e gentilezza che non sembra avere avuto l’autore di un risentito pezzo giornalistico4.

intenso dell’ambiente alto collinare-montano, per calarci, guadando i fiumi Sauro e Agri, in un paesaggio quasi lunare: erano i calanchi2.

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2. La visita della casa di Carlo Levi è una tappa obbligata del percorso. Essa è rimasta la stessa di quando fu lasciata dal confinato politico nel 1936, assai prima di quanto lui stesso pensasse, quando già si era rassegnato a viverci a lungo. Dentro non ci sono oggetti, né suppellettili, né arredi (se si vuole, invece, vedere qualcosa dell’oggettistica del periodo, bisogna farsi aprire le porte del cd. museo della “Civiltà contadina” di Aliano, pure previsto nel tour), essendo rimasta completamente vuota: un vuoto che sicuramente emoziona così come emoziona il paesaggio che da quella porta si ammira e che si può meglio apprezzare dalla terrazza panoramica. 
Qui Levi dipingeva e costituiva l’attrazione di tanti giovani alianesi, oggi dispersisi nel mondo. Una questione che mi incuriosiva, avendo qualche anno prima, avuto tra le mani una pubblicazione del Servizio studi di Cariplo (Il Paese di Carlo Levi: Aliano, cinquant’anni dopo), Bari 1985, pp. 124 (che nel frattempo mi risulta essere stato anche digitalizzato e quindi più facilmente consultabile) dove si mostravano le enormi trasformazioni intervenute nel piccolo comune portato all’attenzione del mondo dal suo illustre ospite (suo malgrado). La distanza può essere ancor meglio misurata leggendo (e scorrendo le belle immagini riportate) il saggio di C. Magistro, Aliano e i suoi protagonisti Il racconto, tra storia e letteratura, dal dopoguerra alla caduta del fascismo, in Basilicata Regione Notizie, nn. 129-130 (p. 142 e ss.)5.
In realtà le polemiche contro l’Autore erano divampate subito, nel primo dopoguerra, dopo la pubblicazione del romanzo, che andava a ruba anche all’estero, come ben documenta Francesca R. Uccella in Cristo si è fermato a Eboli. Gagliano e il parco letterario di Aliano: metamorfosi di una memoria, in Quaderns d’Italià 13, 2008, pp. 147-1606 (l’Autrice studia la relazione e l’interazione reciproca tra Levi, l’opera – il Cristo – e la comunità di Aliano dal 1945, data di pubblicazione del romanzo fino al 2001, anno dell’ istituzione del Parco Letterario Carlo Levi).
Insomma, se da un lato, gli «alianesi» (o meglio, alcune parti qualificate di essi) hanno modificato la propria posizione, passata dall’originaria avversione fino all’inclusione del suo cantore, con l‘istituzione del Parco letterario, dall’altro lo stesso Levi ha fatto diventare l’esperienza del confino così centrale nella sua vita di artista e di politico, da scegliere poi di essere sepolto proprio ad Aliano (e la visita alla tomba dell’Autore è, necessariamente, una tappa per il visitatore che magari, ivi, potrà rileggere proprio i passi del romanzo che narrano delle sue limitate e controllate passeggiate in quel luogo (posto a picco sui calanchi!: resisterà – con il tempo – alla sfida con i fenomeni naturali?) e degli incontri, narrati con un certo interesse umano e letterario.

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3. Certo non è un mistero che Levi preferisse vivere a Grassano piuttosto che ad Aliano: ne parla nel Cristo; ne racconta del ritorno, quasi come un premio al confinato «modello». Vi si reca nuovamente (per terminare di dipingere alcune tele) e richiama alla mente tutti i ricordi della sua prima sistemazione: una realtà sicuramente più vivace e cittadina (che i grassanesi hanno voluto ricordare e far visitare, istituendo anche un proprio, secondo parco leviano7) e che non avrebbe voluto lasciare, se non vi fossero stati i provvedimenti punitivi presi dall’autorità di polizia, per la sua relazione con una donna sposata (ad un noto personaggio) e che lo raggiungeva da Torino per vivere il proprio rapporto, più o meno clandestino, sicuramente non gradito al regime (e forse ai benpensanti grassanesi!).
Resta il fatto che l’omaggio a Grassano, contenuto nel libro, è piuttosto un ricordo letterario (come anche, per certi versi, lo è il passaggio per Matera), ma non segnerà l’Autore nel suo profondo così come lo segnerà Aliano, al punto che il medico e dissidente torinese sentirà il bisogno di farne il centro della sua nuova esistenza, quantomeno come ricordo indelebile e come riflessione continua su quella formidabile scoperta etno-antropologica.
La scoperta ha poi alimentato tutta una vasta letteratura (che, ovviamente, qui non può essere richiamata, bastando solo far rinvio al lavoro, sopra menzionato, di Francesca R. Uccella ed alla bibliografia contenuta nelle note del suo bel saggio) ed ha persino prodotto una ricerca dei discendenti dei protagonisti dell’opera che ha portato ad una documentazione fotografica (di Antonio Pagnotta) di grande rilievo: frutto della ricerca socio-fotografica della sociologa Graziella Salvatore e del foto-reporter Antonio Pagnotta, “La Ruota, la Croce e la Penna”8.
E si potrebbe continuare, ancora a lungo.
Ma forse qui conviene arrestarsi e riprovare a parlarne dopo un tour nella Basilicata orientale.

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 1 cfr. F.R., Le lingue della Lucania, in http://www.regione.basilicata.it/giunta/site/giunta/detail.jsp?otype=1120&id=285326&value=consiglioInfor – 2 se ne veda qualche immagine, anche se solo parzialmente coinvolgenti – dato che l’esperienza va vissuta percorrendo tutta l’area ed immergendosi nella dimensione geologico-naturalistica – nel sito web del Parco Letterario: http://www.parcolevi.it/ – 3 http://www.visitmatera.it/palazzo-lanfranchi.html – 4 http://basilicata.basilicata24.it/lopinione/interventi-commenti/volevo-visitare-luoghi-fu-confinato-levi-cacciato-9791.php. – 5 ora in: http://consiglio.basilicata.it/consiglioinforma/files/docs/32/36/05/DOCUMENT_FILE_323605.pdf – 6 cfr.: http://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:YrOwPaKnjc4J:http://www.raco.cat/index.php/QuadernsItalia/article/download/129463/178846%2Bfrancesca+uccella+cristo&hl=it&gbv=2&&ct=clnk -7 http://www.comune.grassano.mt.it/Parco.php – 8 su cui, vedi http://www.italplanet.it/templateStampa.asp?sez=81&info=4915