LA MANNA DAL SUD di Viviana Meloni – Numero 8 – Luglio 2017

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La manna dunque fece il suo ingresso nella storia come cibo celeste e dono divino, caricandosi da subito di una spiritualità che l’accompagnerà sino ai giorni nostri come simbolo dell’alleanza tra l’uomo in cammino e Dio che si prende cura di lui. Durante l’attraversamento del deserto la manna cadeva abbondante ogni giorno e gli Ebrei, come racconta il sedicesimo libro dell’Esodo, la raccoglievano “ciascuno secondo il suo bisogno”. Al mattino del sesto giorno ne cadeva il doppio, perché il settimo giorno – lo Shabbat, istituito proprio la prima settimana di caduta della manna – gli Ebrei dovevano rispettare il riposo. Tuttora nelle case ebraiche, quando si prepara il cibo per il sabato, si cuociono due pagnotte, chiamate Challot, che vengono riposte fra due panni di cotone uno sopra e l’altro sotto per ricordare lo strato di brina che ricopriva al mattino la manna nel deserto.
 
 Oggi, anche senza levare gli occhi al cielo, è possibile visitare un luogo dove si trova questo alimento preziosissimo. E’ il Parco delle Madonie, in Sicilia, alle spalle di Cefalù e a un golfo di distanza da Palermo: dal tronco dei frassineti che vi crescono si estrae la manna sin dai tempi della dominazione araba, tra il nono e il decimo secolo.
 
Da allora la coltivazione dei frassineti si estese in tutte le regioni del centrosud fino ai monti della Tolfa nel Lazio e alla Maremma, e nel 1500 vi venne imposto un dazio doganale per aumentare le entrate del Regno. Oggi invece la manna si raccoglie solo in Sicilia, tra Pollina e Castelbuono, Cefalù e San Mauro, Geraci e Isnello. Ormai la superficie coltivata è ridotta e in pochi praticano l’antico mestiere dello “Ntaccaluoru”. La manna è dunque la linfa estratta dalla corteccia di una varietà di frassino chiamato Orniello. Il frassinicoltore attende che la pianta entri nel periodo di quiescenza estiva fino a spingerla allo stress idrico quando il terreno completamente asciutto si stacca dalle radici e le foglie verdi cominciano a virare verso il giallo. Quello è il momento per la prima incisione che viene praticata a circa dieci centimetri da terra con un coltello chiamato “mannaruolu”. Dalla metà di luglio alla fine di settembre, ogni mattina, si fanno le “ntacche” a distanza di un paio di centimetri l’una dall’altra: 
 
 dai tagli fuoriesce una melata azzurrina prima amarognola e poi dolce che, a contatto con l’aria e al sole della Sicilia, diventa bianca 
e prende la forma di piccole stalattiti, o cannoli.
 
La manna a cannolo è la più pregiata perché priva di residui. Poi c’è la manna in sorte (o manna di pala) che è quella che si va a depositare sulle pale di ficodindia disposte alla base del tronco. E per finire la manna rottame che scorre lungo la corteccia e viene staccata con la “rasula”. I cannoli di manna vengono messi ad asciugare, prima, all’ombra e, poi, al sole su degli stenditoi per far loro raggiungere il giusto grado di umidità. Infine, viene inscatolata in appositi contenitori di legno riposti in luoghi asciutti e pronti per la vendita.
 
 Le proprietà curative della manna erano conosciute sin dai tempi 
della scuola di medicina di Salerno.
 
Essa è in primo luogo un blando lassativo privo di effetti collaterali e molto indicato in età pediatrica. A differenza della senna (o cassia) contenuta in tutti i lassativi in circolazione – che alla lunga può causare problemi anche seri – la manna agisce contro la stipsi attirando acqua nell’intestino e facilitando dunque lo svuotamento del colon. E’, poi, un regolatore e rinfrescante delle vie intestinali in quanto è in grado di purificare l’apparato digerente da tossine, parassiti intestinali e residui di cattiva alimentazione. E’ un fluidificante emolliente, sedativo della tosse e un dolcificante naturale a basso contenuto di glucosio e fruttosio indicato per i diabetici. La manna si assume a pezzetti, sciogliendoli in bocca oppure diluendoli in una tisana o nel tè.   
 
Dal 2002 la manna è dal un Presidio Slow Food con un proprio disciplinare di produzione che ne garantisce la provenienza e la qualità. 
 
La “Manna eletta delle Madonie” rientra nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali del ministero delle politiche 
agricole e forestali.
 
Il Presidio coinvolge sette produttori che usano il moderno sistema del filo di nylon su cui cola la manna, novità introdotta nella metà degli anni ‘80 che ha rivoluzionato la tecnica di raccolta consentendo di ottenere molto più prodotto puro di quando gran parte del raccolto scendeva lungo la corteccia riempiendosi di numerose impurità. Oltre ai sette produttori del Presidio, ce ne sono altri, qualche decina, fra cui parecchi anziani che lavorano alla vecchia maniera. Il raccolto complessivo è di 300-400 chili all’anno. Il presidio ha aiutato i produttori anche nella vendita diretta che prima non era possibile in quanto l’intero prodotto veniva conferito alla grande industria senza possibilità di contrattare sul prezzo. Per avere un’idea: il costo della manna-cannoli è di 16 euro per 50 grammi e di 8 euro per 20 grammi di prodotto. La manna da drogheria invece ha un prezzo di 18 euro circa per 100 grammi. 
 
 La manna è leggera e se ne produce un chilo con tre o quattro piante a stagione. Profuma di macchia mediterranea, ha un gusto fra il dolce 
e il lievemente amaro con un retrogusto di mandorla o miele 
e un colore tra il bianco e il giallo caramello a seconda 
del cultivar e del terreno.

Con la manna si fanno dolci, liquori e saponi (una importante casa cosmetica francese la impiega come componente della crema per le mani). Interessante è poi il suo impiego in cucina: nei ristoranti di Castelbuono si può gustare il filetto di maialino nero in crosta di manna con mandorle e pistacchi. Il pasticcere siciliano Nicola Fiasconaro, circa 20 anni fa, ha creato il Mannetto, dolce molto particolare ricoperto di una candida glassa di manna. Provare per credere. 

 

MANNA

LA MANNA DAL SUD

 

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Ma cos’è la manna? Se lo chiesero – “Man Hu?” letteralmente in ebraico: “cos’è?” – anche gli Israeliti in fuga dall’Egitto verso la Terra Promessa quando videro cadere dal cielo quel cibo sconosciuto che Dio aveva mandato loro per sfamarli e che da allora fu chiamata, appunto, “ManHu”. 

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IL SAN CARLO. NAPOLI CAPITALE DELLA MUSICA di Antonio Lopes – Numero 8 – Luglio 2017

Teatro di San Carlo, lavori di ristrutturazione ago.2008 - gen.2
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IL SAN CARLO. NAPOLI CAPITALE DELLA MUSICA

 

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Se Venezia aveva visto l’opera uscire dalle corti e diventare 

un fenomeno commerciale, il più importante centro musicale in Italia 

per tutto il XVIII secolo fu Napoli e, almeno fino a metà del XIX secolo, insieme a Vienna e Parigi, una delle grandi capitali 

della musica in Europa.

 
Napoli per tutto questo periodo è stata certamente la più grande città italiana, più grande di qualsiasi altra città europea eccetto Londra e Parigi, una città ampiamente cosmopolita. Nel 1734, un principe dei Borboni spodestò gli Austriaci e ristabilì l’egemonia della sua casata su tutta l’Italia meridionale, dove regnò con il nome di Carlo III. Uno dei primi provvedimenti del nuovo sovrano fu l’edificazione, nel 1737, del Teatro San Carlo su progetto di Giovanni Antonio Medrano. Il teatro, che può attualmente ospitare più di 2500 spettatori tra la platea, i cinque ordini di palchi e una galleria sovrastante, è il più antico teatro lirico attivo in Europa. La splendida sala, originariamente rivestita in azzurro con decorazioni in oro (i colori dei Borboni), suscitò subito molta ammirazione e meraviglia tra i tanti visitatori stranieri che ebbero modo di assistere agli spettacoli organizzati sempre con grande sfarzo.
 

Il compositore inglese Charles Burney, amico dell’Ambasciatore inglese Lord Hamilton (la cui moglie era stata l’amante dell’ammiraglio Nelson), scrive, nel suo “Viaggio musicale in Italia” del 1770, che “il teatro era sfarzosamente illuminato e incredibilmente affollato di un elegante pubblico […], le candele dei palchi riflesse dagli specchi 

e moltiplicate dalle luci del palcoscenico producevano 

un splendore abbagliante per gli occhi”.


Da quando il San Carlo aprì i suoi battenti, si affermò come il più importante teatro d’opera europeo, tenuto conto che la città che lo ospitava era, a sua volta, con i suoi quattro importanti conservatori risalenti al XVI secolo, una capitale della musica in Europa.   
 
Per tutto il XVIII secolo e per la prima metà del successivo, Napoli rappresentò un’irresistibile calamita per qualsiasi musicista avesse avuto l’ambizione di farsi notare. Si pensi a Georg Frederich Handel, nato in Sassonia, che operò a Napoli nel 1708; soggiornò a Napoli anche il compositore tedesco Johann Adolf Hasse, allievo del grande Alessandro Scarlatti, maestro della reale cappella musicale. Fu sempre a Napoli che Pietro Metastasio, il più influente librettista di opere serie del XVIII secolo, iniziò a lavorare prima di trasferirsi a Vienna. Nel 1770, Mozart, all’epoca quattordicenne, fu portato a Napoli, dove si trattenne per oltre un mese; nel frattempo, scriveva a Salisburgo che “il teatro era bellissimo” ma aveva notato che il re, durante la rappresentazione, “se ne stava seduto su uno sgabello per sembrare più alto della regina”.
 

Le vicende del San Carlo s’intrecciano con quelle del Regno di Napoli. Uno snodo fondamentale nella storia del teatro è rappresentato dall’entrata in città di Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore 

di Napoleone, nel febbraio del 1806, alla testa di un corpo 

di spedizione franco-italiano.

 
Da questo momento si apre per il San Carlo un periodo di grande sviluppo grazie a due eventi fondamentali: la regolarizzazione del gioco d’azzardo da parte del governo napoleonico e l’assegnazione della gestione del teatro, nel 1809, a un ricco e intraprendente impresario milanese, Domenico Barbaja, che aveva già assunto l’appalto delle case da gioco a Napoli.La grande intuizione di Barbaja fu appunto quella di coniugare le due grandi passioni dei napoletani per il gioco e per l’opera. Nel 1808, con l’ascesa al trono di Gioacchino Murat, dopo la nomina di Giuseppe Bonaparte a Re di Spagna, Barbaja riuscì ad ottenere l’autorizzazione ad aprire un vero e proprio casinò dentro il San Carlo, a patto che ampliasse il teatro stesso con un ridotto adatto a ospitare i tavoli da gioco; per quanto riguarda la direzione del teatro, l’appalto comportava un lungo elenco di responsabilità, definendo le nuove opere, i cantanti  e il numero di orchestrali (con settantotto membri permanenti, divenne, infatti, una delle prime orchestre in Italia). Il governo finanziò anche nuove scenografie e macchine sceniche oltre a quelle pagate di tasca propria da Barbaja che si vide riconosciuta la proprietà di altri accessori, strumenti e costumi: una vera fortuna. 
 

In questo modo il finanziamento della produzione operistica poteva essere assicurato non soltanto con la vendita dei biglietti per i singoli spettacoli o in abbonamento (una novità per il costume italiano), ma anche dagli introiti derivanti dai giochi.

 
Contemporaneamente egli si adoperò per un miglioramento qualitativo delle opere rappresentate, scritturando i più grandi cantanti e i musicisti più promettenti con contratti remunerativi, ma anche di lunga durata. Ciò permise a Barbaja di costituire una vera e propria compagnia con compositori e cantanti di elevato valore artistico, in grado di offrire spettacoli di eccezionale livello. Tra questi, la grande intuizione fu di chiamare, nel 1815, un giovane musicista che già aveva fatto parlare di sé in Italia: Gioacchino Rossini. Il contratto prevedeva la composizione di due nuove opere all’anno e le funzioni di direttore musicale. Al San Carlo, durante il periodo rossiniano, furono rappresentate fra il 1815 e il 1822 diverse opere serie del musicista pesarese: Elisabetta Regina d’Inghilterra, Armida, Mosè in Egitto, Ricciardo e Zoraide, Ermione, La donna del lago, Maometto II, Zelmira; al Teatro del Fondo fu presentato, nel 1816, l’Otello, essendo il San Carlo andato distrutto da un incendio (sarà ricostruito in appena otto mesi più spendente di prima).

La stessa formula organizzativa consentì poi a Barbaja di esportare cantanti e musicisti in altri teatri; nel 1822, egli assunse la direzione dei teatri viennesi e vi fece debuttare con straordinario successo la compagnia napoletana con la Cobran (moglie di Rossini), Nozzari, Rubini, Nourrit e Lablache. La diffusione delle opere di Rossini e dei suoi cantanti del San Carlo raggiunse e conquistò anche Parigi quando, nel 1825, il compositore fu nominato direttore artistico del Theatre des Italiens. In quella veste organizzò una vasta serie di scambi di cantanti tra Parigi e il San Carlo. L’intuito che Barbaja aveva avuto con Rossini lo assistette poi anche con altri musicisti: chiamò a Napoli il debuttante Bellini e mise in scena gran parte della produzione di Donizetti. Egli continuò a occuparsi sempre di teatro fino alla morte, avvenuta per apoplessia, nella sua villa di Posillipo il 19 ottobre 1841.

Il San Carlo è sopravvissuto a queste vicende e, pur cedendo lo scettro dell’egemonia dei teatri lirici italiani alla Scala di Milano nella seconda metà del XIX secolo, ha continuato a rappresentare un fondamentale punto di riferimento per gli spettacoli operistici in Italia e in Europa, tenuto conto che ai suoi spettacoli hanno preso parte 

i più grandi cantanti, i direttori d’orchestra 

e i registi più famosi fino ai nostri giorni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Si può ritenere che l’Opera sia una delle forme più complesse e affascinanti – ma anche più costose – di espressione artistica esistenti: la musica, il canto, la recitazione e la scena si fondono in un unicum che, da quando è nata in Italia all’inizio del XVII secolo, come raffinato svago di colti aristocratici (si pensi all’Orfeo di Claudio Monteverdi, rappresentato il 24 febbraio 1607 nel Palazzo Ducale di Mantova), si è poi rapidamente diffusa, appassionando tutti i pubblici, prima in Europa e poi nel resto del mondo. 

Le foto sono state gentilmente concesse dal Teatro San Carlo di Napoil

 

MORREMO TUTTI QUI di Alessandro Gaudio – Numero 8 – Luglio 2017

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MORREMO TUTTI QUI

 

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erano piaciute le deformazioni espressioniste e grottesche della narrazione, ma ciò non era bastato per accordarle, infine, dignità di stampa, in quanto «la cornice di storia paesana [soffocava] − a detta di Calvino − l’interesse delle pagine più vive».[1] Questo difetto e altri convinsero Lazzaro, traduttore e poco conosciuto scrittore, nato nel 1912 in un più che sperduto paesino calabrese, a lasciare il manoscritto in un cassetto, fino a quando non venne pubblicato postumo, nel 1987, a diciotto anni dalla morte del suo autore. Pur tuttavia, a distanza di altri tre decenni, appaiono ancora evidenti quelle virtù intraviste dai lettori di allora.[2]

 

Al centro della vicenda c’è la vita − tanto miserabile quanto grottesca, nella descrizione che ne fa lo stesso Lazzaro − di un indefinito villaggio del meridione d’Italia, avvinto in un mortale silenzio, i cui mille abitanti 

vengono sterminati da una misteriosa e fulminea epidemia.

 

È servendosi delle armi dell’ironia e dell’allucinazione che lo scrittore di Motta Filocastro[3] quasi arriva a suggerire come le cause del tragico evento vadano fatte risalire all’attitudine di quegli uomini per superstizione e fatalità o, più sinteticamente, a una bestemmia o, meglio ancora, a una specie di eccesso di immaginazione. Non può essere considerata trascurabile la portata di un espediente di ordine creativo in grado di legare così finemente l’oscurità della miseria alla luminosità della fantasia.

 

E, d’altronde, neanche un’evasione di massa salverebbe il villaggio di 

Mille anime dalle persecuzioni dei santi o dall’attesa senza fine dei loro miracoli. Né, tutto sommato, risolverà alcunché 

la scomparsa dei suoi abitanti:

 

bisognerebbe, piuttosto, ristabilire il corso del tempo, ricollocarsi nel ritmo della vita, oppure − secondo Michele, amico e maestro del protagonista − «mutare il corso del sole e delle stelle, la direzione dei venti, l’animo degli uomini»;[4] purtroppo, non si può. Tale consapevolezza provoca uno sgomento diffuso che, progressivamente, finisce in una inesorabile brama di morte, di autodistruzione, quasi di ritorno a uno stato inorganico.

 

Lazzaro racconta di una esistenza inerte, resa ancor più opprimente dall’immobilismo fascista (cui più volte si riferisce, neanche troppo sommessamente, lo scrittore)[5] e popolata da corpi senza vita, 

oltre che da fantasmi.

 

Sogni, ombre e magàrie incombono sul villaggio, di volta in volta percepito come «un terribile e gigantesco ragno con volto umano che urla spesso di dolore»,[6] come un «carcere della miseria»,[7] «un morto lago da cui emergono grigi fantasmi senza epoca»,[8] spesso colto in «un’immobile e vitrea luce lunare, e, lontano, il mare come un gran lago di mercurio chiuso dalle ombre azzurre delle isole e dominato da Mahammetta»,[9] che non è che uno di quei fantasmi.    

 

Eppure, si tratta di fantasmi − la Vergine di Romania, San Nicola di Bari, San Rocco di Mileto, San Giuseppe il Corto, San Giuseppe il Lungo e molti altri − le cui proprietà e azioni sembrano essere sottomesse alle medesime leggi del mondo visibile e che non posseggono, dunque, uno statuto soprannaturale. Sarà per questo che da essi non si genera alcuna azione, né essi costituiscono un motivo di evasione in un mondo misterioso all’interno del quale la ragione non possa penetrare. Un quadro così interamente improntato sulla reificazione collettiva dell’immaginario presuppone, sul versante opposto, un’idea di letteratura che, ironicamente, si ponga come osservazione razionale difficile da mettere nel sacco, ma che, tuttavia, allo stesso modo del quadro che delinea, è incline a quell’amarezza che erompe tanto dalla scrittura quanto dalla miseria.

Certo è che laddove, da un lato, troviamo la disperazione del villaggio, quell’«irreparabile merdaio»,[10] con le ottusità e l’apatia che pervadono chi vi abita, dall’altro, c’è l’enorme spettro dell’immaginazione,

 

dal quale l’autore di Mille anime recupera la materia − fatta di memorie, miti e superstizioni − diffusa tra il popolo, con l’intento di normalizzarla, il più delle volte mediante l’ironia. Esemplare, nel realismo fantastico che riesce a prefigurare, quella di un contadino che, entrato in chiesa a ora insolita, parla in questi termini ai suoi fantasmi:

 

O Vergine di Romania, se non sei una svergognata, mandaci la pioggia. O San Nicola di Bari, se non sei più cornuto delle tue vacche, 

 mandaci una goccia d’acqua.[11]


In nessuna occasione, tale processo di normalizzazione, è bene precisarlo, sfocia in una considerazione votata all’indulgenza; anela, invece, alla rottura del cerchio, a mostrare che quanto meno sia possibile porsi contemporaneamente nel tempo e fuori di esso. Possibilità che sembrerebbe essere negata dal finale del romanzo (e anche dall’inesorabile frase di Michele che ho scelto come titolo per questa nota), ma che forse risulta, anche solo per un istante, avvalorata dall’idea dalla quale la narrazione è generata e dalla struttura d’insieme acutamente canzonatoria per la quale Lazzaro propende e che neanche Calvino aveva compreso sino in fondo.

 

 

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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 [1] Lo rivela lo stesso Lazzaro in una nota del 1968, pubblicata poi in appendice a P. Lazzaro, La stagione del basilisco [1968], Milano, Jaca Book, 2003, pp. 139-142; nella nota è inclusa una lettera di Calvino, datata 17 maggio 1957, dalla quale è desumibile il parere di lettura cui si fa rifermento (p. 142). [2] Delle mille anime di Motta Filocastro, da una prospettiva antropologica, si parla anche in V. Teti, Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Roma, Donzelli, 2004, pp. 361-370. [3] Si tratta di una frazione di Limbadi, paese di poco più di tremila abitanti, oggi in provincia di Vibo Valentia, situato tra Tropea e Rosarno. Dall’alto del centro abitato, sede di confino politico negli anni del fascismo, si vede tutta la piana di Gioia Tauro e il porto. Sul muro di una casa abbandonata di Mandaradoni, altra frazione di Limbadi, sta lentamente sbiadendo un dipinto che ritrae la faccia del duce (e che era accompagnata dalla seguente didascalia: « Solo Iddio può piegare la volontà fascista, gli uomini e le cose mai»). Sono state scattate nel 2017 da Annalisa Lentini le foto che ritraggono il Mussolini di Mandaradoni e uno scorcio di Limbadi.[4] P. Lazzaro, Mille anime, Milano, Jaca Book, 1987, p. 45. Anche il titolo di questo intervento è parte del concetto espresso qui da Michele. [5] Il riferimento, si intende, è sempre condotto in chiave ironica, come, ad esempio, nella frase che si trascrive: «Gridarono alalà quasi tutti, sconcertati dal tono di lui e dal mistero che quella incognita parola introduceva nel nostro Villaggio. […] E qualche caposcarico andava recitando la seguente banale filastrocca: Alalà, Alalà / tua sorella l’ha fatta o la farà?» (ivi, p. 87). [6] Ivi, pp. 24-25. [7] Ivi, p. 45. [8] Ivi, p. 46. [9] Ivi, p. 72. [10] Ivi, p. 9. [11] Ivi, p. 15.

 

 

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I CAVALLI SCULTOREI DI PERSANO di Alduino di Ventimiglia di Monteforte – Numero 8 – Luglio 2017

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I CAVALLI SCULTOREI DI PERSANO

 

 

 

    

Sono i Cavalli della Razza di Persano.Testimoni di un lungo periodo della storia italiana turbinoso e importante, ricco di sconvolgimenti che hanno visto i combattenti a cavallo compiere grandi imprese, a subirne le conseguenze, e anche a sognare, hanno rischiato
più di una volta 
di scomparire.

 

Una storia antica che ha visto per secoli l’avvicendarsi di uomini attorno a cavalli leggendari, protagonisti di eventi, a volte importanti, a volte ludici, a volte diplomatici e bellici. Dopo l’età borbonica è nata l’Italia Unita e questi cavalli ne sono stati partecipi, rappresentando, nell’ambito equestre, un’eccellenza, simbolo ed espressione vivente della cultura equestre, della storia, dello stile e dell’eleganza italiana.    

 

Molti degli uomini che hanno vissuto con questi cavalli non si sono rassegnati quando, nel 1972, con una decisione quanto meno inopportuna, i cavalli di Persano sono stati trasferiti al il Centro Militare Allevamento Raggruppamento Quadrupedi di Grosseto che per brevità lo chiameremo d’ora in poi CMARQ: avevano perduto i compagni di viaggio che, con i loro nitriti, avevano riempito e allietato la loro esistenza e dai quali avevano saputo trarre insegnamenti e sapienza. Così i persanesi si sono riuniti e hanno fondato l’associazione “Persano nel Cuore”: per non dimenticare e tenere vive le tradizioni e la grande cultura equestre nata nella Campania Felix. Nello stesso tempo, in Toscana, a loro insaputa, c’era chi cercava di recuperare la Razza dei cavalli.   

 

La nobile razza, fondata da Carlo di Borbone nel 1751, nell’arco della sua storia, fu salvata ben 5 volte: nel 1799 (rivoluzione napoletana) da Ferdinando IV di Borbone; nel 1816 da Ferdinando I delle Due Sicilie; nel 1874 dai Gaetani di Sermoneta e da Vittorio Emanuele II; nel 1900 ricostituita dal Governo del Regno d’Italia; dal 1981 da Alduino di Ventimiglia d Monteforte.

 

La “Razza Governativa di Persano” fu ricomposta nel 1900 a Persano, per D.M. del Regno d’Italia. Ed essa trae origine dalla ancor più antica “Real Razza di Persano”.

 

Quest’ultima fu oggetto di studio e programmazione sin dall’anno 1735 da parte di Carlo di Borbone, sovrano illuminato di due regni: quello di Napoli e quello di Sicilia, ma la sua nascita fu sancita solo più tardi, nel 1751, a Persano, luogo da cui prese il nome.    

 

Presto la Razza assunse una rinomanza internazionale e raggiunse il suo apice tra gli anni 1780-1825, quando fu introdotta, per mezzo di riproduttori maschi (stalloni), in molte razze europee oggi di grande fama. Gli esperimenti per la costituzione dell’embrione, di quella che sarà nominata in seguito Real Razza di Persano, furono condotti nella tenuta di Carditello, affittata a tale scopo dalla corona borbonica già dal 1740. L’intenzione era quella di creare un allevamento e un cavallo di Stato, e così fu fatto.   

 

Attraverso moltissime vicissitudini e momenti critici, la Razza è sopravvissuta fino all’anno 1995, in cui lo Stato italiano decise di interrompere definitivamente la lunga tradizione. 

 

Sotto il regno di Ferdinando IV e, più esattamente, nell’anno 1784, 

 la tenuta di Carditello fu trasformata in funzione dell’eccellenza della 

Real Razza di Persano. Dovendo operare la selezione delle fattrici 

e degli stalloni in base al loro uso per la guerra, fu costruito 

anche un ippodromo.

 

La selezione avveniva attraverso le prove funzionali su cinque parametri importantissimi: la maneggiabilità, l’equilibrio mentale e il coraggio con cacce di vario genere; la resistenza, con il percorso di 200 km Carditello-Persano-Carditello; la velocità, con gare da effettuarsi nell’ippodromo incorporato nella grande struttura architettonica. Fu iniziata a Carditello la costruzione di un complesso di fabbriche, dedicato esclusivamente ai cavalli con scuderie di 1500 cavalcature, di un ippodromo e di un piccolo Palazzo reale dal quale il Re poteva accedere direttamente alle scuderie per controllare i cavalli e emanare gli ordini per l’allevamento. Vi erano anche degli spalti da cui il pubblico poteva assistere alle corse e alle prove di bravura dei cavalli. Inoltre, il complesso di Carditello, non lontano da quello della Reggia di Caserta, si prestava alle visite delle ambascerie e delle delegazioni straniere; era un luogo dove il Re poteva far vedere quell’eccellenza equestre e mostrare, così, le possibilità e la potenza del Regno di Napoli.     

 

Nel 1874, la Real Razza di Persano fu venduta sulla piazza di Eboli con asta pubblica per decreto del Ministro Ricotti. Comprendendo il grande errore commesso, 

 

il Governo, nell’anno 1900, la ricompose nello stesso Deposito di Persano, denominandola non più Real Razza di Persano, come era stata fino al 1874, bensì, più propriamente allora, Razza Governativa di Persano. La Razza Governativa ebbe un nuovo marchio con cui distinguersi.

 

Lo Stato acquistò gli animali, con cui fu ricostruita la razza, dai soggetti privati che li avevano acquistati ad Eboli e salvati. Fu formato il nucleo più importante della nuova razza, in misura del 60% sul totale degli animali costituenti il nucleo delle fattrici e per il 50% su quello degli stalloni.     

 

Dopo due guerre mondiali, delle quali i cavalli della Razza Governativa di Persano furono protagonisti, si arriva al 1981, anno in cui, accertato il poco interesse da parte dello Stato nel mantenere quel patrimonio storico e genetico fortemente legato a una importante biodiversità, fu creato un nucleo parallelo di cavalli prelevandolo dalla mandra di Grosseto della Razza Governativa di Persano. La scelta oculata dei soggetti per tale operazione fu determinata dal loro grado di “purezza” rispetto alla razza di appartenenza: cioè, cavalli con elevato valore biologico, portatori di patrimonio genetico non ancora inquinato da incroci effettuati con cavalli di puro sangue inglese (p.s.i.).   

 

Infatti, già dopo il 1972, quando la mandra fu trasferita da Persano a Grosseto, gli unici accoppiamenti autorizzati furono quelli con stalloni di p.s.i. o con anglo-arabi di dubbia provenienza, e mai con stalloni della razza di appartenenza. Il Generale Francesco Ortu, che aveva firmato nel 1972 l’autorizzazione per il trasferimento dei cavalli da Persano a Grosseto, rendendosi conto dell’errore compiuto, cercò di ricomporre la Razza Governativa di Persano nel periodo del suo ultimo Comando presso il CMARQ (Centro Militare Allevamento Raggruppamento Quadrupedi) di Grosseto, favorendo gli accoppiamenti in razza e richiamando, quando geneticamente valide, le cavalle dai vari enti militari a cui erano state trasferite.   

 

Dopo di lui però, ancora una volta, la razza ritornò in uno stato di abbandono e, se non fosse stato per il nucleo di stalloni e fattrici salvati a Luriano, nel 2003, non si sarebbe potuto procedere al riconoscimento della razza da parte dell’Europa e alla costituzione del Registro Anagrafico di Razza (Libro Genealogico).   

 

Molte delle fattrici trasferite in quegli anni a Luriano, tenuta non distante da Grosseto, dove venne effettuato il salvataggio della razza, furono selezionate tra quelle nate a Persano e non ancora frutto di incroci con p.s.i.. A Grosseto, al CMARQ, non vi erano riproduttori maschi della Razza, se si esclude l’esploratore Picciotto (che non aveva però lo status di stallone). L’unico stallone riconosciuto allora era Pascià, già in forza presso l’I.I.I. di Catania. Pascià era nato a Persano ed era stato dato in comodato all’allora Deposito Stalloni di Catania. Tornando dopo il servizio effettuato all’Ente Militare, che nel frattempo era stato trasferito a Grosseto, mi fu possibile portarlo a Luriano come feci in seguito con Picciotto, ufficialmente diventato stallone all’età di 30 anni, grazie al tempestivo intervento del Generale Francesco Ortu.   

 

Attualmente, la mandria si compone di 70 soggetti, tra fattrici, puledri e stalloni. Un risultato straordinario, frutto di un faticoso e complesso lavoro cominciato anni fa con l’individuazione e il recupero di circa 30 cavalli, sparsi in varie regioni italiane che, senza il mio intervento, sarebbero stati destinati ad una inesorabile scomparsa. Sarebbe stata una perdita irreparabile per la nostra nazione.

 

Oggi, all’Italia e ai suoi governanti si presenta una grande opportunità storica, culturale, turistica, politica ed economica: ricreare un polo attrattivo unico e internazionale in cui fare storia anche attraverso spettacoli di arte equestre, unendo una struttura architettonica 

 originale con i cavalli originali per i quali il complesso 

di Carditello fu edificato.

 

Ciò porterebbe l’Italia, oggi agli ultimi posti in campo equestre, a fare di colpo un grande balzo in avanti, a riappropriarsi del suo patrimonio storico e di una sua eccellenza. Carditello e i cavalli di Persano, con la loro unicità, sarebbero infatti in grado di attrarre una considerevole fetta di turismo nazionale e internazionale sufficiente a cambiare il volto e l’economia dei luoghi in cui sorge il complesso architettonico, tristemente noti come “la terra dei fuochi”. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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e, con l’armonia delle loro forme, rammentano i capolavori scultorei del periodo ellenico classico e di quello rinascimentale. Poi, attraverso i loro elegantissimi movimenti, rinviano alle virtuose arie del periodo barocco. Protagonisti insuperabili delle impetuose cariche della cavalleria napoleonica e delle campagna di Russia dell’ultimo conflitto mondiale.

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LA FONDAZIONE LEONARDO SINISGALLI di Biagio Russo – Numero 8 – Luglio 2017

La Fondazione, nata nel 2008 per promuoverne vita e opera, e operativa dal 2010, ha un’attività geograficamente molto ampia e va al di là dei confini regionali. Anche in virtù di uno spirito cosmopolita coerente con lo straordinario personaggio che intende restituire ai fasti di una cultura, quella del Novecento, che lo ha visto testimone e protagonista. Tantissimi e differenti gli eventi realizzati finora in tutta Italia, a testimonianza della credibilità che l’Istituzione culturale montemurrese si è conquistata, con mostre e convegni: a Macerata, Roma, Benevento, Milano, Torino, Vigevano, Forlì, Siena, in collaborazione sia con Università, che con Associazioni, Enti locali, Istituti di Istruzione ecc. Contemporaneamente, notevole è stata l’attività di ricerca e la produzione editoriale, con sette pubblicazioni, tra cui due Quaderni, di notevole valore scientifico, che offrono gli strumenti indispensabili per la conoscenza di Leonardo Sinisgalli a visitatori, studiosi, ricercatori e docenti.

 

Cuore pulsante dell’attività della Fondazione è la Casa delle Muse 

di Sinisgalli. La struttura museale domina la cresta 

che affaccia sul fosso di Libritti,

 

di fronte alla piccola abitazione dove Leonardo Sinisgalli nacque nel 1908 e sulla cui parete è possibile leggere, a caratteri capitali, i versi della sua poesia più celebre dedicata al gioco del battimuro “Monete rosse”.   È possibile visitare la “Sala degli amici artisti” (con disegni e acquerelli di Giulio Turcato, Domenico Cantatore, Lorenzo Guerrini, Bruno Caruso, Antonello Leone, Franco Gentilini), “Il focolare degli affetti” (con testi memoriali e poetici, fotografie, oggetti vari e utensili), la “Sala Leonardo” (con l’esposizione dei 70 volumi originali e rari, oltre alle copertine delle riviste aziendali), la “Biblioteca di Sinisgalli” (con i suoi 3.000 libri, la macchina da scrivere, il ritratto ad olio di Maria Padula, le pubblicità e i disegni), la Sala “Vincenzo Sinisgalli” (con la mostra dedicata ad Agnese de Donato, dal titolo “Intimo Sinisgalli”).   

 

La Casa delle Muse, inaugurata il 20 ottobre del 2013, è stata meta per circa 8.000 persone, soprattutto studenti e docenti, provenienti da ogni parte d’Italia.

 

Per celebrare la poliedricità, un vero e proprio furor, degli interessi di Leonardo Sinisgalli, la Fondazione sin dal 2012 ha ideato un contenitore-ponte tra la cultura umanistica e letteraria. 

 

In autunno, si organizzano eventi (dalla pubblicità alla fisica, dalla poesia alla matematica, dall’arte alla tecnologia ecc.) caratterizzati da un approccio dialogico e contaminante tra arti e discipline, con docenti, studiosi, scrittori e musicisti, provenienti dal mondo accademico, artistico, letterario e scientifico. Nell’ultima edizione del Furor, ad esempio, è stato organizzato un convegno dal titolo “Per una cultura dell’incontro nelle arti”. Ad aprire i lavori è stato l’artista Giuseppe Caccavale, docente presso l’École Nationale Superieure des Arts Décoratifs di Parigi, con un intervento dal titolo Dalla figura alla parola: Il Viale dei Canti, incentrato sull’opera multimodale da lui realizzata presso l’Istituto di Cultura Italiana a Parigi, attraverso la riproduzione grafica e sonora dei versi di cinque poeti italiani: tra cui Leonardo Sinisgalli.    

 

Il mondo della scuola per la Fondazione rappresenta un interlocutore privilegiato. D’altronde le poesie e i racconti di Sinisgalli pullulano di fanciulli e monelli. E anche quando dirigeva riviste e gli uffici di pubblicità delle grandi aziende, spesso ricorreva al loro estro, ai loro disegni, al loro stupore. Dal 2013 infatti proponiamo lectiones magistrales, destinate in modo particolare agli studenti dell’ultimo anno delle scuole superiori. La quinta edizione delle Lezioni del Novecento (ciclo speciale), aperta a un pubblico più vasto oltre che a quello scolastico, ha portato in cattedra cinque grandi ospiti, di caratura internazionale: Silvio Ramat dell’Università di Padova, Clelia Martignoni dell’Università di Pavia, Riccardo Mazzeo, saggista ed editor della Erickson, nonché traduttore di Bauman, Miguel Benasayag, filosofo e psicanalista franco-argentino e Agnes Heller, una delle più grandi filosofe viventi, allieva di G. Lukács  ed esponente della Scuola filosofica di Budapest.   

 

L’attività della Fondazione corre lungo tutto l’anno. E anche nelle sere d’estate non rallenta. Proponendo veri e propri inviti alla lettura, con presentazioni di libri e incontri d’autore.


Tra i graffiti della Scuola fondata dal maestro Giuseppe Antonello Leone e il lavatoio costruito negli anni Trenta, un pubblico numeroso 

e attento segue le nostre proposte librarie, sotto le stelle, 

nell’atmosfera magica dell’Orto di Merola. 

 

Sinisgalli amava l’arte di un amore profondo, per tutta la vita ha frequentato gallerie e pittori, si è circondato della loro presenza e delle loro opere, ha commissionato disegni e illustrazioni per le sue riviste aziendali, ha pubblicato recensioni su quotidiani e riviste, e scritto tantissime presentazioni di cataloghi per mostre. Inoltre, nell’ultima fase della sua vita si è abbandonato al disegno, come arte consolatoria, diventando egli stesso un “disegnatore”. Per questi motivi e non solo la Fondazione ha aderito a gennaio al circuito Acamm (dall’acronimo dei quattro paesi e delle quattro realtà museali presenti: Aliano, Castronuovo Sant’Andrea, Moliterno e Montemurro), sotto la guida dello storico dell’arte Giuseppe Appella, in una logica sinergica di sistema che valorizzi, con mostre d’arte ed eventi culturali, il patrimonio esistente in un’ottica non periferica, ma nazionale.   

 

Sono stati realizzati finora tre importanti omaggi artistici: a Guido Strazza, artista italiano di spicco nel panorama contemporaneo, in occasione della grande mostra antologica alla GN. Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma; a Mario Cresci (fotografo), in contemporanea con l’antologica alla GAMeC di Bergamo); e infine a Fausto Melotti, in parallelo con la retrospettiva dal titolo EDEN, che la Galleria-Museo Hauser & Wirth di Zurigo, ha dedicato al noto artista roveretano.

 

Certo la Fondazione, a detta di chi ci osserva da vicino e da lontano, costituisce uno straordinario ombelico culturale, un vero e proprio presidio, flessibile e poco costoso, nel mosaico di una Regione 

che intende aprirsi, attraverso Matera, capitale della cultura 2019, 

ad una dimensione europea e a un turismo colto e intelligente. 

 

Ma Il vero obiettivo della Fondazione resta legato alla questione dei diritti editoriali del poeta-ingegnere. Senza la ristampa della sua opera omnia, tutto il percorso fatto finora, sarebbe completamente inutile. 

 

Faremo di tutto affinché Sinisgalli, come lui stesso scrisse per la sua epigrafe… possa risorgere “fra tre anni o tre secoli, fra tempeste 

di grandine nel mese di giugno”.  

 

È una promessa, ma soprattutto un debito.

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LA FONDAZIONE LEONARDO SINISGALLI

 

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Un “Leonardo del Novecento”, è stato definito Leonardo Sinisgalli. Infatti, i suoi interessi, dalla poesia alla matematica, dalla grafica pubblicitaria alla radio, dal cinema alla critica d’arte, dall’architettura al disegno, lo rendono così moderno e affascinante che si registra intorno alla sua figura un interesse elevatissimo, da parte di docenti, di cultori, di editori, di galleristi, di studenti, di matematici, di letterati e artisti. 

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PASQUALE SCURA – Di Michele Minisci – Numero 8 – Luglio 2017

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PASQUALE SCURA,

 

Un Arbëresh protagonista del Risorgimento Italiano

 

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Erano queste le chiare ed inequivocabili parole che chiamavano il popolo delle provincie continentali dell’Italia meridionale al plebiscito indetto l’8 ottobre 1860 per l’unificazione col resto d’Italia.

Parole coniate dal Guardasigilli Pasquale Scura e verbalizzate da lui stesso nel decreto che promulgava il plebiscito promosso da Vittorio Emanuele e dal Dittatore dell’Italia Meridionale, Giuseppe Garibaldi, controfirmato dal Prodittatore Giorgio Pallavicino Trivulzio, dal Segretario Di Stato degli affari esteri Francesco Crispi, da Luigi Giura – ministro dei lavori pubblici, da Amilcare Anguissola – ministro della guerra, da Raffaele Conforti – ministro dell’interno e dallo stesso Pasquale Scura, nella veste di ministro di grazia e giustizia.

 

Un personaggio, quindi, di primo piano nella storia del Risorgimento italiano, Pasquale Scura, nato nel piccolo paesino calabrese di Vaccarizzo Albanese, di origini arbëresh – gli albanesi arrivati in Italia 

a metà del ‘500-, e morto a Napoli il 12 gennaio del 1868.

 

E nel 150° anniversario della sua morte, a gennaio del 2018, il piccolo Comune arbëresh vuole rendere omaggio al suo illustre concittadino con tutta una serie di eventi politici e culturali, con il coinvolgimento dell’Università della Calabria, della Regione, del Ministero di Grazia e Giustizia e quello dei Beni Culturali, nonché di noti personaggi della cultura e di studiosi della storia d’Italia come Paolo Mieli e Stefano Rodotà, quest’ultimo proprio di origini arbëresh.

 

Un evento che vuole essere non solo testimonianza ma soprattutto analisi degli ideali e della cultura liberale che disegnava l’Unità d’Italia, magari anche in senso federalista, plurale, ma unita, come sognava il Cattaneo e non solo.

 

Un personaggio illustre, lo Scura, la cui conoscenza è oggi favorita dagli studi e dalle ricerche compiute da studiosi come Francesco Perri (autore di un volume a lui dedicato di 447 pagine) o Vincenzo Librandi, entrambi nativi di Vaccarizzo Albanese, i quali, avendo fatto luce su quelle parti della sua biografia che sono rimaste in disparte, trascurate o ignorate, hanno contribuito a ricomporre questa figura nella sua pienezza e complessità. 

 

Queste celebrazioni su Pasquale Scura possono e devono essere lette nelle sue variegate modulazioni, senza enfasi, dopo aver ricordato certamente le grandi speranze di una vera unità d’Italia, ma con compiutezza e severità, inquadrandole oggi anche nell’annosa “questione meridionale”, perché i difficili tempi che stiamo vivendo lo richiedono con forza. E vogliono in un certo qual modo riparare al torto subìto dalla figura dell’illustre personaggio. 

 

Ciò che accade molto spesso è che non sempre c’è chi mette in evidenza i meriti di personaggi importanti e spesso determinanti nella storia di una nazione, di un popolo. “Ma specialmente nell’ottica di quell’arduo progresso attuativo del nostro Mezzogiorno – come ci suggerisce il professore Pietro de Leo, ordinario di storia medioevale presso l’Università della Calabria – non semplice e facile, atteso che ancora oggi è plausibile chiedersi se Cristo sia ancora fermo sui binari…a Eboli o presso la contigua autostrada”.

 

 

 

 

 

 

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UN GIGANTE DI PIETRA – IL CASTELLO DI CORIGLIANO D’OTRANTO di Gianluca Anglana – Numero 8 – Luglio 2017

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UN GIGANTE DI PIETRA

 

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«È il vento», disse Matilda, «che sibila tra i merli della torre lassù: l’hai udito migliaia di volte»

Quando, nel 1764, consegnò alle stampe Il Castello di Otranto, dando così avvio alla fortunata stagione letteraria del romanzo gotico, Horace Walpole immaginò anche sulle residenze fortificate del Meridione italiano la coltre di oscure atmosfere tipica dei manieri inglesi.

 

In realtà, i numerosi castelli piantati qua e là come enormi bulloni sulle pianure salentine hanno assai poco a che fare con l’estetica un po’ dark dei territori di Sua Maestà. Essi sono giganti di pietra, immersi nella luce del Mezzogiorno, piuttosto che trappole di sassi, ove vagano gli spettri di vegliardi o di monache sanguinolente[1]. Tra tutte queste fortezze, spicca, per fascino e grandiosità, una in particolare: quella di Corigliano d’Otranto. Le origini di questo borgo sono molto antiche e tuttora dibattute. Di certo Corigliano, forse messapica di nascita, fu risucchiata nell’orbita della Magna Grecia, per non uscirne di fatto mai più:

 

Corigliano è tuttora grika. È parte della cosiddetta Grecìa Salentina ovvero di un territorio il cui linguaggio tradisce una inequivocabile connotazione ellenofona.

 

Lo stesso toponimo sembra derivare dal vocabolo “χωρίον”, che significa podere. E in effetti, nel corso del Medioevo, Corigliano fu un casale. Nel suo passato remoto, il Salento era un coacervo di casali, cioè gruppi isolati di case rurali sparpagliati un po’ ovunque. Solo più tardi questi aggregati abitativi mutarono pelle, irrobustendosi in paesi e centri più o meno grandi e, in alcuni casi, incastellandosi[2]. Le cause, che innescarono il processo storico di mutazione del tessuto socio-urbanistico, furono molteplici e di variegata natura, in particolare strategico-militare, economica e soprattutto politica. Ad una prima epoca, basata sul sistema della proprietà fondiaria o della curtis (unità produttiva fondata su un intreccio di rapporti sociali e politico-giuridici, facenti capo alla nobiltà laica o alla gerarchia ecclesiastica), ne seguì una seconda, denominata signorile. La cerniera tra queste due fasi si situerebbe intorno all’Anno Mille[3].

 
 La signoria feudale «raggruppa in castelli e villaggi una popolazione il cui capo – il Signore – riunisce nella sua persona funzioni di direzione economica dei contadini (…) e poteri di comando»[4]

Con il concentramento delle popolazioni in villaggi e paesi, i Signori – che si erano gradatamente impossessati di territori più o meno vasti – avrebbero avuto maggiore facilità vuoi nel controllo dei laboratores vuoi nell’esercizio del loro potere sul contado. Dal X secolo in avanti, l’Occidente europeo conobbe una stagione d’impetuosa fioritura economica, soprattutto in ambito rurale[5]. Questa lunga fase di congiuntura favorevole vide in Corellianum un indubbio protagonista, in grado non solo di imporre la propria leadership su tutta l’area circostante, ma persino di rivaleggiare con la stessa Otranto nella competizione per il ruolo di traino economico locale. Nel 1465 l’intero feudo coriglianese venne ceduto alla Famiglia dei Monti. Proveniente da Capua, il clan dei Monti giunse in Italia al seguito degli Angiò: anch’esso seppe esprimere, com’era d’uso allora tra le dinastie più blasonate, i suoi capitani coraggiosi, illustri uomini d’arme messi a servizio di questa o quella signoria italiana e spediti a combattere sui campi di battaglia di mezza Europa. Francesco de’ Monti, come diremmo noi oggi, seppe farsi notare: divenne uno dei condottieri più fidati della corona aragonese «che lo utilizzò come ambasciatore in Ungheria (…), in Germania (…) e presso la corte pontificia»[6].   Francesco fu anche ospite nel celebre castello milanese di Ludovico Sforza, presso il quale era stato inviato nel 1498 nel quadro di una complessa missione diplomatica[7]. Si distinse per ardimento durante gli scontri con la potenza turca. Nel 1480, Otranto era stata espugnata dalle forze di Maometto II. La città era così divenuta un nido di vipere, un avamposto da cui scatenare razzie e terrore nell’entroterra: nel Febbraio del 1481, assieme a Galatina e a Soleto, anche Corigliano fu saccheggiata dagli invasori. Fu proprio durante una di queste aspre battaglie che Francesco venne fatto prigioniero e ridotto in schiavitù, per poi riscattarsi tempo dopo[8].

 

Si devono proprio a lui la risistemazione e l’ammodernamento del castello medievale, «il più bel monumento di architettura militare

e feudale in Terra d’Otranto ed (…) il modello più compiuto
del trapasso dalle torri quadre a quelle rotonde»[9].


Le torri, a base scarpata e a tre livelli di fuoco, sono dedicate a quattro Santi e ingentilite dalla raffigurazione allegorica delle virtù cardinali: Michele Arcangelo e la Fortezza; Antonio Abate e la Temperanza; Giorgio e la Prudenza; Giovanni Battista e la Giustizia. Il cortile interno è semplice e austero. Il fossato è ancora esistente. Il corpo centrale e più antico è riconoscibile per la presenza di beccatelli e merlature. Del parco marchesale, un tempo assai esteso, non restano che poche tracce: la sua vegetazione doveva però apparire lussureggiante se, nel 1525, stregò l’umanista bolognese Leandro Alberti. Nella sua Descrittione di tutta l’Italia[10], costui annota che, durante la sua visita a Corigliano, fu condotto da Giovanbattista de’ Monti, figlio di Francesco, nel «giardino, molto vago e bello, pieno di cedroni, aranci e d’altri alberi fruttevoli»[11]: ad accogliere lui e il suo compagno di viaggio, con il loro Signore, «molti nobili huomini a cavallo molto ben vestiti»[12] e i suoi due figliuoli «altrimenti addobbati, et parimente i cavalli, da quel che avanti erano».

 

Quando la famiglia de’ Monti si estinse, Corigliano divenne proprietà di un’altra casata, cioè i Trani, signori di Tutino (oggi un rione di Tricase). Costoro decisero di trasformare la rocca in dimora gentilizia e di intervenire soprattutto in facciata. Realizzata nel 1667 sotto
la direzione del mastro coriglianese Francesco Manuli[13],

 

essa riporta un balcone con decorazioni barocche: doveva essere una sorta di manifesto, una dichiarazione di fedeltà alla corona spagnola. Così venne abbellita da una rassegna di busti dedicati a personalità che contribuirono a fare grande la Spagna (tra loro si ammira anche un ritratto di Cristoforo Colombo).

 

Nei giorni nostri, Corigliano si è riappropriata del posto che le spetta e che dopo tutto ha sempre avuto: quello di riferimento cui guardare in un’ottica, a lunga gittata, di sviluppo del territorio.

 

Oggi il Castello, che è scrigno e tesoro al tempo stesso, è un luogo di aggregazione e sperimentazione. È un centro propulsore del sapere: oltre a custodire una biblioteca, ospita manifestazioni
culturali, mostre, concerti e spettacoli teatrali.


Ma è quando si abbassano le luci, quando le stelle tornano a spiare la terra dal davanzale dell’universo e la notte stende il suo manto di velluto sopra i sogni degli uomini, è solo allora che, nel buio, il gigante sospira e riaccende le sue pietre pallide al chiarore degli astri. E quando la luna soffia il suo lucore tra i rami degli alberi, tramutandoli in ricami neri; quando l’eco delle ultime voci si è ormai sbriciolata come uno sciame di scintille e si ode solo il ronzio degli insetti, è solo allora che, nel giardino muto vecchio di secoli, le sagome scure delle piante tornano a mormorare nel vento come fantasmi e a reclamare ancora il ruolo di testimoni di questa storia antica. 

 

E nell’aria lieve della sera, sotto la cupola delle costellazioni, si può indovinare appena, nel silenzio, il fulgore di quelle ricchezze
che tanto abbagliarono i visitatori venuti da lontano.


«In the hanging garden please don’t speak. In the hanging garden no one sleeps»[14]

 

 

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 [1] Gli spiriti di Alfonso ne Il Castello di Otranto di Horace Walpole e di Beatrice de las Cisternas, la Monaca Sanguinante, ne Il Monaco di Matthew G. Lewis.

[2] Cfr. Raffaele Licinio, Castelli medievali, Ed. Dedalo (1994), p. 30 e, sul web, http://www.perieghesis.it/casali.htm.

[3] Jacques Le Goff, Il Medioevo, Ed. Laterza (1996), p. 27.

[4] Jacques Le Goff, Il Medioevo, Ed. Laterza (1996), p. 28.

[5] Jacques Le Goff, Il Medioevo, Ed. Laterza (1996), p. 59.

[6] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore (1997), p. 58.

[7] Dizionario biografico Treccani, www.treccani.it.

[8] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore (1997), p. 58 (il Cazzato lascia intendere che, proprio a seguito di questi eventi, Francesco si accattivò i favori dei Sovrani aragonesi di Napoli).

[9] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore, p. 60. Quelle qui riprese sono parole di G. Basile di Castiglione.

[10] Si tratta di un’opera che l’Alberti scrisse dopo aver percorso l’Italia intera e che egli dedicò ai sovrani francesi Enrico II e Caterina de’ Medici.

[11] Leandro Alberti, Descrittione di tutta l’Italia (1568), p. 406.

[12] Leandro Alberti, Descrittione di tutta l’Italia (1568), p. 405.[

13] Mario Cazzato, Guida ai Castelli Pugliesi – 1. La provincia di Lecce, Congedo Editore, p. 60.

[14] The Cure, The hanging garden, 1982, Fiction Records.

 

SALENTO ARCHITECTURES – THE DEFENSE TOWERS by Giusto Puri Purini – Numero 7 – Aprile 2017

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SALENTO ARCHITECTURES: THE DEFENSE TOWERS

 

Santa Sophia became the “Great Mosque” and a new, great, cultured and aggressive superpower emerged from the Eastern Mediterranean, and quickly came into conflict with the Republic of Venice that, until then, had freely sailed from the Adriatic Sea to the Aegean Sea, with its merchant flows and countless placements and dominions, from Dalmatia to Asia Minor and beyond.Puglia became a strategic knot for Ottoman raids and, despite the occupation of the peninsula in 1484 by the Venetians (that arrived in Taviano), the latter could no longer bend their impetus.Algerian Khaided-Din (called Barbarossa), in 1537, destroyed Castro and Marittima and, on the ionic side, the ancient Ugento.The defense system of Puglia, and in particular of Salento, was unprepared and precarious; between works dating back to the ancient Romans, then to the Byzantines (to defend themselves from the Longobards and Aragoneses), built in the previous centuries in the form of fortified towers and fortified farms, it was no longer up to the task.At this point, in the European context, the fierce conflict between Francis I King of France and Charles V of Spain came to favor the latter and led him to govern a large part of Europe.

The history of Salento is dotted with a myriad of invasions: at first, by populations who became stationary, such as the Messapi and the Japigi; then by the Greeks; Incursions of Saracen pirates, attacks and looting, up to the great danger of the Ottomans which, among other things, cherished in the idea of reuniting the Roman Empire of the East with Rome. It was therefore under the Empire of Charles V that in 1532 the Viceroy of the Kingdom of Naples, Pietro de Toledo, promoted an impressive and strategic first line of defense along the Adriatic and Ionian coasts of Puglia, with the vast promontory extended in the heart of the Mediterranean. As a defense system urbanist he made a project where every tower could see and report dangers to the next one. Horns and bells, or visual alarms such as smoke (in daylight) and fire (at night) were used as an alarm. A second line of defense were the fortified farmhouses and, more inward, imponent castles, among which the Acaya one still stands out today. The ordinance of the Viceroy was strengthened in 1563 by the decree of Don Pedro Afan de Ribera.

This Italy, stretched and bathed by the waters almost everywhere in its circumnavigation, “offered” and acted as attraction and magnet for other populations.

The biblical exodus that millions of people carry out daily in recent years, puts in motion old grudges, fears and imbalances, and there is the need for a new conscience that will bring the great States (colonisers) to develop jobs and margins for a potential growth in the original places, in order to bring our Mediterranean back to being, as it was, a place for merchants, economic-financial exchanges, culture, religion, thought and work.

In 1529, after other conflicts and finally an agreement with Pope Clement VII, Charles V received the recognition of his “sought-after” possessions in Italy, among which the Kingdom of Naples, that included the beloved Puglia (where, morover, he never arrived).

The cost of this endeavour had become so high that, through competition announcements, titles were awarded to those who were willing to build towers, assigning it the title of “Captain of Tower”, who, besides reporting raids and defending with cannons and archibugs, could also collect duties. Whoever did not pay was denied the “right” of defense.

The Towers were then also used to contrast smuggling, that was partially tollerated, to prevent abusive salt trade that was big in those times, given the poverty of peasant populations, and to intercept slave traffic. Those constructed by Charles V, made of regular tuff quarried stones, generally had square or circular planes, with a sloping base; inside there usuallt were 2 levels, and a covered terrace; slits and gratings completed the facade. The Towers were provided with an underground cistern to collect rainwater. In some cases, today, they belong to port authorities and are still efficient whilst many are just ruins (unfortunately) and others have been restored. As Mario Muscari Tomajoli says, “The building of Fortified Observation points has been reported since Plutarch (125-50 BC) and was also made by the Romans, whose trade was put into crisis by pirates until 67 BC, when the Gabinia law allowed Pompey to arm a fleet against ravagers and made the Mare Nostrum calm.”

But this defense system does not exist only in Puglia and in the lower Salento, but in all of Italy’s and many other coasts of the Mediterranean, and marks, as a punctuation in the maps, 

the relationship of love and fear that the great sea carried brought.

Italy’s primacy of civilization, history, fertility of nature and costume imposed the need for self-defense systems, and today 

these wonderful constructions, in the rhythmic flow 

of landscapes, become indelible signs of history.

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PALERMO CAPITALE DELLA CULTURA di Ilaria Borletti Buitoni – Numero 7 – Aprile 2017

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PALERMO CAPITALE DELLA CULTURA

 

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Nessuna strada o tratto del cammino umano è mai obbligato. Esistono sempre delle alternative. E se la politica riesce a fare il suo mestiere queste alternative le disegna per poi suggerirle per la scelta libera del popolo. Ciò vale anche in campo culturale. Per questo la vittoria di Palermo come Capitale Italiana della Cultura per il 2018 mi sembra molto significativa.

 

Palermo è stata certo premiata per la qualità informativa del dossier presentato al Ministero, per la significatività del progetto e per la sostenibilità del progetto stesso. Ed il riconoscimento di Capitale Italiana della Cultura è un riconoscimento alla capacità di progetto, 

e non solo alla città più bella o ricca di storia.

 

 

Un progetto che ha un fiore all’occhiello: Palermo ospiterà infatti nel 2018 MANIFESTA12, una fra le principale biennali di arte contemporanea su scala mondiale. “Nel 2018” ha dichiarato il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, “la nostra città sarà di fatto una capitale dell’arte contemporanea e la possibilità di abbinare le attività con quelle di Capitale Italiana della Cultura rappresenta una grande opportunità non solo per Palermo, ma per tutto il nostro Paese. La Capitale italiana potrà diventare un palcoscenico, facendo di quello che sarebbe un evento nazionale, un grande evento internazionale. La visibilità internazionale data da Manifesta sarà uno straordinario strumento per venire incontro alla volontà del Governo di diffondere il valore della cultura come volano per la coesione sociale, l’integrazione e lo sviluppo”.

 

Dunque non di sola bellezza parliamo. Palermo infatti non primeggia così tanto rispetto agli altri finalisti ­Alghero, Aquileia, Comacchio, Ercolano, Montebelluna, Recanati, Settimo Torinese, Trento e l’Unione comuni
elimo-ericini – e non solo Palermo meritava di vincere.

 

 

Lo ha spiegato del resto assai bene il Sindaco del capoluogo siciliano Leoluca Orlando quando, andando al microfono per ringraziare e dichiarare la propria gioia per la vittoria, ha subito “costretto” tutti gli altri sindaci a salire sul palco con lui, perché “questa è una vittoria di tutti”, e “nessuno può vincere da solo”.

 

 

Ma piuttosto Palermo ha vinto perché con Palermo vince e afferma la sua forza un modello di cultura che si è fondato nei secoli sulla capacità
di essere crocevia tra diverse civiltà, ­con un’impronta indelebile
lasciata da quella araba­ e diversi popoli, 

 

 

piuttosto che sulla capacità di erigere muri sempre più alti, come sembra purtroppo essere la moda odierna. Muri la cui altezza è direttamente proporzionale all’incapacità di stare nel mondo del territorio recintato. 

 

 

Palermo ci parla invece della forza e della vitalità che viene dal sapersi mescolare in spezie e pensieri, in tratti artistici e tratti somatici, 

in caratteri linguistici e musicali.

 

 

Questa capacità di attrazione ­- questa e non altro – è il vero segreto per una forte capacità di innovazione anche economica, come dimostra la resistenza che sta opponendo la Silicon Valley ai propositi isolazionisti del neo Presidente Trump. Su questo si è basato il segreto della prosperità di Palermo, da cui si è irraggiata la sua grande cultura e da cui, ­non a caso, è nata anche la nostra lingua italiana. Non appena anche a Palermo si sono cominciati ad erigere muri, essa ha cominciato a spengersi. Teniamolo a mente.

 

 

PalSolo cercando di governare i processi storici e vincendo paure
e superstizioni, una nazione può prosperare. E il mondo
diventare un po’ più sicuro. 

 

 Grazie Palermo.

 

 

 

 

 

 

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QUANDO LA SICILIA INCONTRÒ D’ANNUNZIO di Franca Minnucci – Numero 7 – Aprile 2017

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QUANDO LA SICILIA INCONTRÒ   D’ANNUNZIO

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A questa pubblicazione non era estraneo l’interessamento del poeta che aveva conosciuto il giovanissimo studente, all’epoca poco più che ventenne, e ne aveva avuto grande stima e ammirazione. Il poeta aveva trovato l’analisi dei suoi lavori geniale e particolarmente interessante; e forse è per questo che, terminato il suo furore creativo, finita la tragedia – La figlia di Iorio – nel bucolico soggiorno a Nettuno, il primo pensiero del poeta, in quei giorni di fine agosto, fu di invitare lo studente e proporgli la traduzione del dramma in siciliano. Ce lo racconta in un articolo sul Corriere della Sera lo stesso Borgese: “D’Annunzio, compiuta la tragedia pastorale, mi telegrafò ch’io andassi a visitarlo a Nettuno; e lì volai; lì, dov’era già de Karolis, fui suo ospite fra i lecci di Villa Borghese che Fausto Maria Martini chiama ampollosi; lo vidi la mattina cavalcare un cavallo scuro di nome Pertinace; e nel pomeriggio udii dalla sua voce d’araldo La Figlia di Jorio.

 

Era cosa fresca e bellissima, un Aminta davvero agreste, un melodramma tutto pieno di musica senza bisogno di strumenti musicali; a me parve  miracolosa; e meraviglioso dono mi parve l’invito del poeta a tradurre il poema per la compagnia siciliana di Grasso nel mio dialetto nativo,

 

 

e a dargli “la seconda vita”, come egli poi troppo benevolmente mi lodò di aver fatto dedicandomi il libro”. Il giovane siciliano si impegnò moltissimo nella traduzione e come dichiarò egli stesso: «stesi giù una Figghia di Joriu in un siciliano illustre e colto che ricalcava anche nei versi e nelle assonanze il testo originale». Le prove con la compagnia Grasso iniziarono a Roma nel maggio del 1904, sull’onda del successo che La figlia di Jorio stava avendo con la compagnia Talli, in tutti i teatri d’Italia, da quella prima memorabile al Lirico di Milano del 1° marzo, così raccontata da d’Annunzio: «Quando La figlia di Iorio andò in scena a Milano, io, ad inizio di spettacolo, mi allontanai dal teatro. Ero, al solito, sereno; e solo ero veramente curioso di vedere che avrebbe pensato del mio pastore mistico e allucinato e della mia fola abruzzese, tanto diversa, e dei suoi riti, il pubblico milanese, il pubblico della ricchezza e del lusso, dei salotti e dei teatri. Mi aspettavo burrasca. Come mi parve che il primo atto fosse per finire, consultai l’orologio e tornai in teatro. Entro in palcoscenico e vedo un attore con la testa insanguinata: era caduto, credo per epilessia e si era ferito alla fronte: era Talli. L’atto era, però, finito proprio all’ora. Oltre il sipario, nel pubblico un silenzio: un silenzio sepolcrale come una pausa. Pensai, mi chiesi rapidamente: non è piaciuto? E allora scoppiò un tuono, un applauso solo, impressionante».

 

 

   L’edizione siciliana della Figlia di Jorio andò in scena invece solo qualche          mese  dopo, al Costanzi di Roma. Era il 17 settembre. La prima lettura      sembra che si sia svolta sul palcoscenico dell’Adriano e le prove
furono molto laboriose; Giovanni Grasso e gli attori emozionati
fino alle lacrime, tanto che d’Annunzio dichiarò che non aveva mai visto interpreti intenerirsi tanto della loro parte ad una semplice lettura.

 

 

Erano infatti schierati i più grandi attori siciliani come Mimì Aguillia, Maiorana, Angelo Musco e tanti altri. D’Annunzio aveva una grande ammirazione per Grasso e non nascose mai un giudizio esaltante sulle sue capacità attoriali. Lo spettacolo, nonostante le tante difficoltà, parve a tutti bellissimo; il pittore Pietro Sassi aveva allestito straordinarie scene e l’introduzione del poeta Martoglio, sostenuto da una base musicale, aveva dato il via ad uno spettacolo – melos – intensamente vicino all’anima dell’Isola che fonde in un’armonia di suoni, di colori, di sapori, la dolcezza e la forza, la violenza e la delicatezza.

 

   Una traduzione dove i motivi popolari venivano cantati con dolcezza e     armonia e dove le nostre incanate erano diventate delle nenie ossessionanti
e violente e dove, ancora con un grande colpo di genio teatrale, si erano riportate integralmente le lamentazioni delle prefiche ancora in uso
nelle provincie di Catania e di Trapani.

 

 

D’Annunzio fu chiamato in proscenio tantissime volte e si trascinò sul palco un riluttante giovanissimo Borgese a ricevere i meritati applausi di un pubblico tra l’altro competente ed esigente: basti pensare che in platea erano seduti personaggi come Mascagni, Franchetti e lo stesso Edoardo Scarpetta, arrivato per l’occasione da Napoli. Grande merito, quello di Borgese, di aver risvegliato, attraverso le parole di d’Annunzio, quelle muse sicule che lo stesso Virgilio invocava e di aver ricondotto la lingua siciliana ai suoi fasti letterari più alti e nobili Questo “file rouge” che ci unisce alla Sicilia credo che dovrebbe essere più conosciuto e più amato sia dai concittadini abruzzesi che da quelli siciliani, perché solo attraverso queste comuni radici ed esperienze si può ritrovare il senso e il valore della nostra civiltà. E, come scriveva Eleonora Duse proprio da Palermo, ritrovare proprio nell’azzurro di quel mare, che è anche il nostro, la vita e l’amore.

di-Franca-Minnucci

Infatti il 1° e il 16 settembre 1903 sulla Nuova Antologia erano apparsi due articoli di un giovanissimo Giuseppe Antonio Borgese, dal titolo L’opera poetica di Gabriele d’Annunzio il primo, e Dal Canto Novo alla Laus vitae l’altro.

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«Chi legge le “Laudi” vive nel centro di un cerchio al di là del quale non v’è che il dubbio e il nulla. Vive dunque in un capolavoro»

 Gabriele D’Annunzio – Foto dai libri Meyers Lexicon scritto in lingua tedesca. Collezione di 21 volumi pubblicati tra il 1905 e il 1909.Diritto d’autore a href=’httpsit.123rf.comprofile_nicku’nicku 123RF Archivio Fotografico

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