D’ANNUNZIO A NAPOLI E LA SCRIVANIA di Franca Minnucci – Numero 10 – Marzo 2018

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D’ANNUNZIO  A NAPOLI E LA SCRIVANIA

 

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che indussero il poeta a non proseguire il viaggio per la Sicilia insieme al suo amico e la conseguente decisione di fermarsi, inizialmente per pochi giorni ma in realtà per oltre due anni, nella città partenopea.

 

Che la vita di Gabriele d’Annunzio sia stata inimitabile e sregolata lo sappiamo, 

ma quel che visse a Napoli nei due anni di soggiorno sotto il Vesuvio 

è ancora oggi dai critici considerato tra i momenti più esaltanti 

e complicati della sua straordinaria esistenza.


Quello che possiamo dire è che d’Annunzio, già dal suo primo soggiorno all’Hotel Vesuve, è soggiogato e sedotto da quel mare e dallo spettacolo della natura:“In questi pochi giorni ho veduto mille spettacoli diversi e tutti stupefacenti” scrive a Barbara Leoni, sua amante romana dell’epoca, il 3 settembre: “Sono stato a Posillipo, a Pozzuoli, a Baja, a Sorrento, a Capri, per mare e per terra… Sono tornato a Napoli in barca, stasera, dal capo Miseno, costeggiando. E’stata una divina navigazione per un mare divino. Remigavo, come nelle acque di Anzio. Alla punta di Posillipo è caduta la sera; e tutta Napoli è sorta dal mare incoronata di lumi respirando come una creatura misteriosa, nel crepuscolo violetto”.

Neppure il discutibile “talismano” che Barbara gli aveva donato per legarlo a sé 
una ciocca intima – potrà fermarlo dal vivere questa totale e profonda immersione emozionale e quel turbinio di sensi che lo percorrerà nella città partenopea.


È lecito quindi chiedersi, con i critici, se il soggiorno napoletano fu di grande impegno culturale e letterario o si trattò di una breve parentesi nella vita del poeta, fatta di amori proibiti, di vita inquieta e appena segnata da sprazzi poetico-narrativi. Quel che è certo è che d’Annunzio pubblicò nel 1892 due romanzi: L’Innocente, uscito per i tipi di Bideri dopo il rifiuto di Treves, e il Giovanni Episcopo; concluse L’Invincibile con il nuovo titolo Trionfo della morte, mise insieme alcune delle sue migliori raccolte di poesie, come Odi Navali ed Elegie Romane, entrò nella redazione del quotidiano “Il Mattino” diretto dai suoi amici Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao e scrisse tredici “pezzi”, veri e propri saggi decisivi per la sua auto-formazione. Pubblicò con l’editore Luigi Pierro due libretti di novelle – I Violenti e Gli Idolatri – ascoltò Wagner, si invaghì di Nietzsche che legge in un primo momento nell’antologia curata da Lauterbach e da Wagnon, si innamorò della poesia simbolista che concorda con i versi che raccoglierà nel Poema Paradisiaco.
Tutto questo e “molto altro” in poco più di due anni.

 

Il “molto altro” era fatto di continue incursioni a Roma per tacitare Barbarella, soddisfare i suoi appetiti sessuali e calmare le sue crisi di gelosia, ma anche della storia d’amore e di passione voluttuosa con Maria Gravina di Cruyllas, la slanciata ed elegante principessa di Ramacca che si era buttata nella vita mondana sotto il Vesuvio per reagire alle tante delusioni e che, con quella ciocca rossa che trafiggeva come una spada la sua chioma nera, era simbolo di sensualità e seduzione nei migliori salotti napoletani. 

 

Come se non bastasse, il “molto altro” era anche l’avventura con Moricicca, ex amante di Scarfoglio; erano le varie sfide a duello intimate da mariti traditi; gli artificiosi espedienti per sfuggire ai debitori e i tanti episodi boccacceschi finiti nelle aule dei tribunali.

Il periodo napoletano, quello che d’Annunzio chiamò della “splendida miseria”, 

fu però certamente il periodo più difficile dal punto di vista economico 

nell’esistenza del poeta.


Questo sicuramente perché la sua vita privata si era particolarmente complicata, non solo per la nascita della piccola Cicciuzza, forse il frutto più delicato e desiderato di questa esperienza, ma soprattutto per la convivenza con Maria Gravina che cominciò presto a dare segni di insofferenza e instabilità psichica, e i quattro figli di lei; come pure per i continui spostamenti e viaggi a Roma fatti per tacitare gelosie e risentimenti della moglie, Maria Hardouin di Gallese, e dell’amante romana; e ancora per le tante necessità economiche che arrivavano da tutte le parti, oltre che da questa grande famiglia allargata anche dalla sua casa di origine, in particolare difficoltà dopo la morte del capofamiglia. Non ultimo, per i continui spostamenti di domicilio a cui era costretto, per vari motivi di opportunità e di comodità.

 

Non si contano gli aneddoti sorti intorno al suo eccentrico protagonismo. Troppo preso dalle vicende amorose, manca un appuntamento con Benedetto Croce, che gli sarà sempre ostile, non accettando tra l’altro l’attacco a De Sanctis per il quale il nostro aveva coniato il termine “intellettuale” mai usato prima in forma sostantivata. La verità è che

tutta la vita di Gabriele d’Annunzio è stata caratterizzata da un intrecciarsi 

di situazioni che sembrano a volte soffocare e sommergere il letterato, 

ma dalle quali però escono sempre vincenti il poeta e il romanziere. 

E così a Napoli.


Il soggiorno napoletano, anche in condizioni di estrema indigenza, fu precursore di occasioni e proposte culturali future e soprattutto fu la testimonianza di come d’Annunzio riusciva ad essere contemporaneamente nella sua duplice immagine di vittima e di protagonista delle sue stesse vicende di vita. A Napoli d’Annunzio ha compiuto trent’anni, è diventato padre per la quarta volta, ha raggiunto una autorevole fama internazionale. Nella città partenopea ha pubblicato romanzi, raccolte, novelle, veri e propri saggi giornalistici tra i più interessanti della sua immensa carriera di scrittore. L’11 dicembre del ‘93 il poeta parte definitivamente da Resina diretto in Abruzzo, lasciandosi alle spalle un periodo sicuramente difficile e doloroso ma anche una esperienza esaltante e un turbine di successi. E quando, subito dopo la sua partenza, Franz Lecaldano un faccendiere dell’epoca, pone in vendita, negli uffici del “Mattino”, la pelliccia del poeta, uno dei tanti “pegni” che avevano permesso a d’Annunzio di sbarcare il lunario, si capì come quella folla di compratori, di curiosi, che si accalcava e accapigliava per entrarne in possesso lo faceva non per avere la spoglia di un vinto… ma il feticcio di un divo!

Il poeta, il grande poeta che aveva scritto le Elegie Romane, le Odi Navali, 

il Poema Paradisiaco e che scriverà le Laudi, aveva forse composto 

questi versi anche senza avere una… scrivania.


Così, infatti, ci racconta il giornalista Alberto Consiglio in un simpatico articolo sulla “Fiera Letteraria” uscito il 2 settembre 1928: un d’Annunzio che riesce a trovare una vena di ironia e di leggerezza anche in momenti oggettivamente difficili e scoraggianti per chiunque. 

L’autore ci racconta che, nel dicembre del 1892, nella dimora di Villa Isabella a Resina, d’Annunzio è alla ricerca disperata di una scrivania consona alla sua importanza di scrittore e

per convincere la baronessa Marianna Cassitto della Marra, che lo aveva generosamente ospitato nella sua elegante abitazione, a comprare 

una scrittorio adatto ad ospitare degnamente il grande poeta, 

manda alla sua mecenate una supplica in versi.

 

Nulla sappiamo di questi versi che a Napoli circolavano di bocca in bocca e nei quali abbiamo difficoltà a riconoscere il futuro autore delle Laudi, quindi chiaramente lontani dai fasti letterari del Vate, ma se dobbiamo credere a questa attribuzione, possiamo considerarli utili per capire la condizione di “cattività” che il poeta sta vivendo. 

 

La supplica si presenta in tutta la sua scanzonata leggerezza ed ironia con settenari un po’ ridondanti quasi a simulare quel mondo al quale il testo è indirizzato: un mondo di rituali, di consuetudini, di protocolli anche verbali che ci suggeriscono che il poeta non ha difficoltà a calarsi in quel ruolo adottando, con un sorriso stampato sulle labbra, un linguaggio apertamente forzato querulo e devoto!

Un d’Annunzio inedito in tutti i sensi, con una vena di comicità che ci stupisce per i tempi e le avventure che in questo momento sta vivendo.

 

Alla Baronessa Della Marra 

SUPPLICA 

Mia dolce baronessa, 

non mi sarà concessa 

 dunque una scrivania 

che in tutto degna sia 

dello scrittor famoso? 

L’animo generoso 

non muoveranno i versi 

supplici? Dunque apersi 

invano la mia vena? 

O amica, gratia plena, 

non mi fate languire 

per quelle cento lire 

che l’antiquario chiede! 

Voi sarete l’erede 

del morituro sposo. 

Domani un prodigioso  

flutto d’oro le casse 

v’empirà senza tasse… 

Che sono dunque cento 

lire buttate al vento? 

Deh! Fate che domani 

sera le belle mani 

baronali io vi possa 

baciare! Non vi ho mossa 

la pietà nel pio cuore? 

Orrore! Orrore!! Orrore!!! 

È dunque un cor di pietra 

che né pure la cetra 

d’Orfeo discioglierebbe? 

Ahi me, chi l’avrebbe 

imaginato! Addio, 

baronessa crudele. 

Misero Gabriele! 

Nella sua innocenza 

egli resterà senza 

la scrivania. Per cento 

lire! Per sole cento 

lire! Per cento lire 

sole! Ah, meglio morire! 

Il vostro cor m’ascolta? 

Questa è l’ultima volta. 

L’ultima volta sia. 

Voglio la scrivania, 

quella di cento lire; 

o pur voglio morire…

                          Gabriele d’Annunzio 

22 dicembre – sera 

 

“È quasi fuor di luogo” commenta il giornalista, ”aggiungere che, al patriottico scopo di salvare all’Italia le Laudi, la Nave e i più grandi capolavori della letteratura italiana, la baronessa della Marra si affrettò ad acquistare la scrivania.” E la stessa sera il nostro Gabriele “poté baciare riconoscente le baronali mani, nel salotto della principessa di Ottajano, quelle mani che, educate da Sigismondo Thalberg, allietavano di musiche gli uditori”.

 

 

 

 

 

 

 

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è forse uno dei più intricati per i biografi. Si ignorano, per esempio, i motivi dell’improvvisa partenza da Francavilla, nei pressi di Pescara, che d’Annunzio fece insieme al suo maestro e sodale, Francesco Paolo Michetti, in quel fine agosto del 1891, come le insospettabili ragioni

 

SAN SERGIO I PAPA di Umberto De Augustinis – Numero 10 – Marzo 2018

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SAN SERGIO I PAPA

 

Inoltre i primi tre sono nati ed eletti nello stesso scorcio di secolo, la seconda parte del VII, e l’ultimo circa cinquanta anni dopo. Due di loro, Agatone e Sergio sono palermitani, entrambi impegnati sul fronte della statuizione delle regole della Chiesa, con relative interferenze imperiali; Leone proveniva da Aidone, una città oggi in provincia di Enna; Stefano da Siracusa.

 

Sicuramente Sergio I tra i papi siciliani occupa un posto di enorme rilievo,
perché, con lui, cambiano molto i rapporti tra Impero d’oriente e Chiesa.

 

Sergio, palermitano, presbitero di famiglia originaria di Antiochia, diventa papa dopo la morte di Conone (21 settembre 687), anche lui formatosi a Palermo. L’epoca era decisamente particolare: Roma, e tutti i territori italiani non Longobardi, erano in mano all’imperatore d’oriente, in quel momento Giustiniano II. Il potere in Italia era esercitato dall’esarca di Ravenna, Giovanni Platina. 

 

L’imperatore non aveva remore a indire frequenti assemblee ecclesiali, denominandole concili, presiedendole personalmente indipendentemente dalla presenza del papa, a volte neppure invitato, o per il tramite di delegati, e a formulare norme e precetti per la Chiesa. Fra queste, l’ultima prima dell’ascesa di Sergio, fu l’avvio del c.d. Concilio trullano, quinto dell’era cristiana, indetto all’epoca di Agatone, che prende il nome dalla costruzione ove ebbe luogo.

 

La giustificazione dell’intromissione imperiale stava nel ritenersi l’imperatore 

un “isapostolo”, un parificato in tutto e per tutto agli apostoli. 

Del primato di Pietro, si preferiva non parlare. 

 

L’elezione di Sergio fu piuttosto turbolenta. Al soglio pontificio aspiravano Pasquale, amministratore delle finanze ecclesiastiche e, quindi, arcidiacono, e Teodoro, presbitero anziano di Roma (arciprete). Pasquale aveva stretto un patto con l’esarca Giovanni Platina: l’appoggio per la sua elezione a papa in cambio di cento libbre d’oro. Tra corruzione e simonia. Ma l’elezione di Pasquale fallì per l’opposizione dell’aristocrazia romana. Pasquale sarà confinato a vita in un monastero, in sospetto di magia.

 

Il 15 dicembre 687, Sergio fu consacrato papa. L’esarca Giovanni Platina chiese 

ed ottenne da lui il pagamento delle cento libbre d’oro come prezzo dell’appoggio. Per trovare le risorse furono pignorate le offerte in oro a S.Pietro dei fedeli. 

Ma, all’epoca, le cose andavano così.

 

Sergio, tuttavia, uomo raffinato e colto, dimostrò subito di non gradire la politica ecclesiale di Giustiniano II. Quando quest’ultimo decise di convocare un concilio (denominato Quinisextum, cioè riassuntivo del quinto e sesto), neppure invitando il papa, lì per lì, Sergio non osservò nulla, ma, poi, si rifiutò categoricamente di sottoscrivere le 102 costituzioni che l’assemblea aveva approvato. Tra queste c’era sia la supremazia del patriarcato di Bisanzio su tutti i vescovi, meno il papa, ma anche una sensibile attenuazione del celibato ecclesiastico. 

 

La reazione di Gustiniano II non si fece attendere. L’imperatore fece arrestare i due delegati pontifici e mandò a Roma uno dei suoi militari più feroci, certo Zaccaria, con l’ordine di arrestare il papa e trascinarlo a Bisanzio per processarlo, così come, qualche anno prima, era avvenuto già con papa Martino (fatto maltrattare, destituire ed esiliare). I romani, e non solo, insorsero. La milizia imperiale di stanza a Ravenna accorse a sostegno del papa. Zaccaria capì che i tempi erano cambiati e che aveva osato troppo. 

 

Il prestigio ed il carisma del papa stavano per mettere fine ad una politica 

religiosa imperiale di evidente sopraffazione.

 

Così il feroce militare fu costretto a chiedere aiuto al papa, mentre popolo e soldati vari lo braccavano per tutta Roma. Alla fine Zaccaria si rifugiò nella camera da letto di Sergio e si nascose sotto il letto stesso. Solo grazie all’intercessione di Sergio, non fu ucciso, ma, in compenso, allontanato da Roma tra gli insulti del popolino.

 

Il papa aveva vinto.

 

Giustiniano II pagò anche a Bisanzio le conseguenze del fallimento della sfida: fu deposto da una congiura di palazzo, alla quale si associò anche il patriarca, Callinico I, subì l’amputazione del naso, donde fu denominato Rinotmeto e mandato in esilio. L’asportazione del naso avrebbe dovuto impedire qualsiasi ripristino di poteri imperiali, perché le amputazioni corporali ne erano ostative. Successivamente, fattosi un naso d’oro, Giustiniano tornerà al potere per alcuni anni, fino alla uccisione sua e del suo unico erede, ma eviterà nuove collisioni con Roma.

 

Il confronto, risoltosi così positivamente per Sergio, ne accrebbe enormemente 

il prestigio, assieme a quello della Chiesa di Roma.

 

Facile spiegarsi, dunque, le numerose visite di importanti personaggi a Roma, desiderosi di abbracciare la fede cattolica, e lo spianarsi della strada per un rapporto estremamente significativo e sinergico con il popolo dominante dell’epoca, i Franchi, che porterà molto lontano. A questo enorme prestigio si devono molte cose: tra le altre, 

 

Sergio fu il primo pontefice a battere moneta, il primo ad essere direttamente 

sepolto in S. Pietro, alla sua morte, avvenuta l’8 settembre 701, 

quello che introdusse la possibilità di avere più altari nelle chiese, 

il primo ad essere citato come diretto referente 

delle comunità cattoliche britanniche.

 

Di qui, infine, la sua immediata canonizzazione.

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Agatone, Leone II, Sergio I e Stefano III.
La caratteristica che li accomuna tutti è di essere inquadrabili nell’ambito e nel contrasto delle strategie politiche-religiose dell’Impero bizantino. 

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BENEVENTO: LEGGENDA STORIA VETUSTÀ di Hilde Ponti – Numero 10 – Marzo 2018

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BENEVENTO: LEGGENDA STORIA VETUSTÀ

 

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abbonda di testimonianze storiche intrecciate a leggende misteriche, annoverate ormai alla tradizione popolare, spesso confermate da documenti sulla Sacra Inquisizione.

Come si presenta Benevento, città piena di doni, magica per elezione? Si svela come una terra amena, posta in una conca, attorniata da montagne, dove il fiume Sàbato confluisce nel Calore. Un mondo questo, carico di presenze straordinarie. Mille incantesimi, antichità spesso dormienti, attestano un centro sannita che entra nella Storia, solo dopo la vittoria dei Romani su Pirro. Da allora, Maleventum – il nome arcaico, muta in Beneventum – nel 268 a.C. quasi a decretare fortuna.

 

E’ l’imperatore Traiano a procurarle ricchezza, tracciando la via Appia Traiana, 

che avvicina il sito ai commerci del porto di Brindisi.

 

A decretare Benevento capitale, però, dovettero intervenire i Longobardi, creando un principato, dove fiorì la scrittura beneventana: splendidi manoscritti miniati, ancora oggi tesori inestimabili. 

 

Risale proprio a quella Età la leggenda di Benevento esoterica: descrivendo le pendici settentrionali del colle beneventano come zona dove guerrieri barbari davano vita a riti scabrosi, ancestrali, proprio intorno a un albero di noce. Tuttavia, anche dopo il dominio longobardo, le credenze si ammantarono ulteriormente di liturgie diaboliche: donne confessavano davanti al tribunale dell’Inquisizione, aver volato in sella a esseri infernali, al noce di Benevento, celebrare il Sabba e congiungersi al demonio.

 

Talvolta, invece, con afflati fantasiosi, descrivevano con dovizia il volo, 

cavalcando a loro dire scope – forse l’oggetto a loro più familiare – 

sopra i cieli di Roma,

 

zona San Giovanni, la notte del solstizio d’estate, quando si dice che i semplici emanino l’ennesima potenza dei loro principi. Ormai, venivano chiamate Herbane, essendo pienamente consce degli effetti magici dei semplici, elaborati in formule alchemiche, una sorta di scienza da divulgare, marchiandola proprio sotto al noce.  

 

Forse, fu proprio per interrompere sensualità particolari, supplizi e stragi, comunque porre fine a dicerie, che il sant’uomo del posto, nella persona del Vescovo Barbato, pensò di far sradicare la pianta.

 

Niente scandali sul suolo passato alla Chiesa, dominio che durò fino all’Unità d’Italia. Ciò nonostante, la leggenda ebbe a rafforzarsi, tanto da far parlare 

del fatto misterico, pure in un passo de I promessi sposi del Manzoni. 

“L’elemosina. Sapete di quel miracolo delle noci, 

che avvenne molt’anni or sono…?”.

 

Intanto il volgo sposta il racconto sulle rive del fiume Sàbato, alla mitica Ripa delle Janare, luogo atto agli incontri carnali, tra fattucchiere dedite a creare incantesimi, prodigi vari e veleni, con esseri diabolici. Storie di contrada, a cui ha attinto persino un Marchio: torroni e liquore “Strega”, famosi nel mondo. Brand di qualità, che promovendo un importante Premio Letterario, unirà leggenda e cultura editoriale. 

Ma cosa è rimasto della storia infinita di Benevento?

 

Divulgati su argomenti profani, si riparerà decantando la bellezza impareggiabile del Duomo: dove cinque navate ad arco tutto sesto dell’ingresso, mostrano colonne corinzie di epoca romana, mentre la spettacolare facciata ospita, oltre a frammenti romani e bizantini, anche iscrizioni longobarde.
 
Meraviglia desta anche l’imponente Teatro romano: diecimila spettatori accolti sotto venticinque arcate monumentali, costruzione avviata nel 126 a.C. dall’imperatore Adriano. L’età non ha scalfito né la cavea, tanto meno la scena: ospita ancora rappresentazioni liriche e di prosa. 
 

E come non provare emozione all’arco di Traiano? Un vero passaggio trionfale, eretto per onorare l’imperatore, 

in assoluto il più ricco dei monumenti vetusti, splendori in bassorilievo 

rivestiti in marmo pario.


Invece, i rilievi che spiccano nei due fronti esaltano il saggio governo romano, mentre le immagini all’interno riferiscono rapporti fruttuosi dell’imperatore con la popolazione beneventana. 

 

E poi, non si può tralasciare la Medievale Santa Sofia, dove si celebrano ancora manoscritti e miniature coniate dalla Scrittura beneventana. La costruzione è sorprendente, di pianta semicircolare, sontuosa la cupola, sorretta al centro da un giro esagonale di grandi colonne, affascinante prospettico a effetti geometrici, presenta via via un ciclo di affreschi dell’VIII Secolo:

lascia senza fiato quell’arte siriaco-armena.

 

E come non essere ammaliati da cimeli, colonne, lapidi, cippi romani, incastrati talvolta nei muri di case e ancora androni, cortili trasudanti seduzioni quotidiane, archi, palazzetti barocchi del centro vetusto: Benevento è uno scrigno di tesori. Eccellenze da brivido! Incantesimi, non sempre da immaginario collettivo. 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

  

 

 

 

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 Foto: witches-brooms-3067494a Gianmichele Galassi. Le streghe hanno smesso di esistere…

 

INCONTRI RAVVICINATI di Sergio Lambiase – Numero 10 – Marzo 2018

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INCONTRI RAVVICINATI

 

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a Napoli, c’è una stretta scala che porta al ballatoio dove sono allineate le arche degli Aragonesi. Impossibile accedervi. Prima sì, era lecito, i padri domenicani chiudevano volentieri un occhio, anche se era raro che qualcuno si avventurasse lassù.

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I bauli, ricoperti di sete e broccati, non avevano serratura. Si potevano sollevare i coperchi e guardare i corpi adagiati su letti di resina, foglie, argilla. Da ragazzo ho avuto più volte il privilegio di contemplare la mummia di Ferrante, di Isabella d’Aragona, di Fernando Francesco d’Avalos vincitore della Battaglia di Pavia, dei principi bambini, senza che nessuno m’abbia fermato o abbia gridato all’effrazione. Privilegio assoluto. La luce scialba del lucernario non impediva di osservare profili e velluti. Incontri ravvicinati. Corpi di marziani rivestiti di una leggera patina verde, come di muffa o di licheni affioranti. C’erano elementi di attrazione, seduzioni che non si possono dimenticare.

Lunghi abiti di velluto, cinture con pietre preziose incastonate, 

gorgiere, scarpine di raso,


cappelli eleganti qualche volta calati su volti ossificati. Molti di questi reperti sono da alcuni anni nelle bacheche del museo attiguo alla sagrestia, prima fasciavano i corpi di oro, di rosso e di verde cupo. Li ingentilivano. Li carezzavano. Li rendevano presentabili per l’Ade. 

 

A San Domenico gli Aragonesi ci sono tutti. Manca all’appello solo il capostipite, Alfonso I il Magnanimo, la cui mummia fu portata nel 1667 a Santa Maria di Poblet, in Catalogna. 

 

Una ventina di anni fa scrivevo per un giornale di Roma anch’esso defunto. Si chiamava “Reporter” ed era diretto da Enrico Deaglio. Un giorno telefono al caporedattore (che era Adriano Sofri) per dirgli: “Caro Adriano, mi piacerebbe fare un articolo su San Domenico, perché nel convento ho scoperto che c’è uno di Lotta continua che ha deciso d’indossare il saio”. “Vabbè” dice Sofri sbrigativo e mi manda un bravissimo fotografo di Salerno per corredare il testo di immagini. Ma al convento l’ex Lotta continua si mostra subito reticente nei miei confronti, proprio non gli va di raccontare la sua storia e le sue lotte, adesso premono gli studi tomistici; i giorni dei cortei, delle parole scarlatte, degli scontri con la polizia sono acqua passata. Scornato, mi rifugio col fotografo nella sagrestia. Ma qui mi attende una sorpresa!

Il consueto silenzio del luogo è rotto infatti dall’andirivieni di due medici al lavoro con tanto di guanti e mascherine.   

 

Salgono e scendono la scaletta che porta al ballatoio con le arche. Sono affannati, sudati, i camici sporchi, come in ‘Medici in prima linea’. Nella sagrestia c’è una luce ancora più scialba perché fuori piove. Ad un certo punto m’arrampico anch’io sul ballatoio col fotografo. I due m’accolgono con iniziale diffidenza, ma poi mi accompagnano in una stanzetta di fianco alle arche dove scorgo un tavolo anatomico con una lunga massa spugnosa al cui centro intravedo una chiostra di denti neri!

 

“Sa cosa è?” mi dice con enfasi uno dei medici (il più affabile) 

che corrisponde al nome di Gino Fornaciari. Il fotografo spara più volte col flash. “Sono i resti di Maria d’Aragona, duchessa del Vasto”. 

 

Mi giro intorno. Su di un tavolino vedo un microscopio, un’ampolla, delle boccette, pinze e bisturi da sala operatoria. Una sedia ai piedi del tavolo ospita una collana di pietre scure, delle bende, qualcosa come un abito stropicciato, tra il giallo e l’avorio, con un cuoricino rosso “Vuole sapere di cosa è morta la nostra Maria? Quasi certamente di sifilide. In una piega del corpo abbiamo trovato infatti tracce certe di treponema pallidum, anche se aveva un principio di tumore all’utero!” 

 

Gino Fornaciari, l’ho scoperto dopo, è il più grande esperto italiano (o al mondo?) di archeologia funeraria. Nel Sud d’Italia ha lavorato spesso: a lui si deve lo studio a Venosa dei resti di Alberada di Buonalbergo, moglie di Roberto il Guiscardo, quello di Iolanda di Brienne e Isabella di Inghilterra nella Cattedrale di Andria, il rilievo paleopatologico degli scheletri della “Casa di Polibio” a Pompei, l’indagine nel Duomo di Salerno del corpo di Gregorio VII (quello che costrinse l’imperatore di Germania Enrico IV a prostrarsi, il capo coperto di cenere, dinanzi alla rocca di Matilde di Canossa, in segno di sottomissione).

Fornaciari ha studiato anche ciò che rimane della stessa Matilde, dell’Uomo di Similaun, dei duchi di Montefeltro, di Sant’Antonio 

da Padova, dei soldati uccisi a Marengo, del conte Ugolino,

 

delle mummie precolombiane, del musicista Luigi Boccherini a cui Fornaciari ha diagnosticato post mortem la scoliosi del violoncellista. Ricordate il film Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo? Ebbene il nostro paleopatologo tratta le mummie con la stessa disinvoltura di Harrison Ford. A Napoli la sifilide è portata dalle truppe di Carlo VIII e qui si scopriranno i primi casi. La città s’infranciosa, come accadrà tra il 1943 e il 1945 con le truppe alleate. È una malattia “alla moda” per il XVI secolo, come l’Aids quattro secoli più tardi. Girolamo Fracastoro le dedicherà un poema in latino: Syphilis seu de morbo gallico, Pietro Rostinio il primo trattato medico sull’argomento – è il 1556 – avvertendo: 

“’l mal francese è male nuovo, di cui niuno giamai fece mentione”, anche se sono passati circa sessant’anni dall’arrivo 

dei soldati di Carlo a Napoli. 


La sifilide fa strage a corte, come testimonia il lungo, appassionato studio dedicato da Fornaciari ai corpi degli Aragonesi, frutto appunto dell’intensa esplorazione compiuta fra il 1983 e il 1987. Per difendersi dall’assalto del morbo gallico tutti i rimedi sono buoni. Ad esempio strofinarsi l’unguento di mercurio sui denti (“Una notte con Venere, tutta la vita con Mercurio” si diceva allora); ma il mercurio a furia di usarlo annerisce i denti, e invano si cerca di togliere via la patina scura che si forma, usando stuzzicadenti metallici o d’avorio, come farà Maria d’Aragona, ma anche Isabella d’Aragona duchessa di Milano, deceduta quasi sicuramente di mal francese.

Ricordo ciò che mi disse Fornaciari: “La sifilide ha risparmiato 

nessuno nella Napoli del ‘500, sa, né ricchi né poveri!”.


Con la differenza che i poveri finivano all’Ospedale degli Incurabili, mentre i ricchi restavano tra le lenzuola ricamate dei propri letti. Ma di quali altri malattie soffrivano gli Aragonesi? Ferdinando Orsini, duca di Gravina in Puglia, “aveva un tumore maligno nella regione naso-orbitaria destra” (leggo nel gran romanzo-rapporto di Fornaciari); Ferrante d’Aragona, re di Napoli, “un adenocarcinoma della prostata”; il vaiolo aveva ucciso un bimbo di due anni (a San Domenico vi sono arche piccole come culle); Luigi Carafa, principe di Stigliano, soffriva di una “iperostosi idiopatica scheletrica diffusa”; Antonello Petrucci, decapitato per la sua presunta partecipazione alla congiura dei baroni, presentava “voluminosi calcoli della colecisti”.

E poi “un ignoto gentiluomo deceduto nella prima metà del XVI secolo reca una ferita mortale da punta, verosimilmente di spada, fra l’ottava 

e la nona costa di sinistra, sulla linea emiclaveare”. 


Per tutti, o quasi tutti, abusi di zuccheri, carni, vino, grassi di origine animale, con tendenza a sviluppare obesità, gotta, diabete, cirrosi, denti guasti, tumori dell’intestino. Sullo sfondo la tentazione dell’alcova, ma lasciando che il
treponema pallidum compia la sua opera distruttiva. 

 

Ma ai ragazzi e alle ragazze di scuola che, coi loro insegnanti, vengono in visita a San Domenico non si possono raccontare queste tragedie e miserie umane, anche se lo sguardo è rivolto in su, alle arche allineate come i vagoni di un treno in miniatura. O, per lo meno, non si possono raccontare interamente, benché film e videogame li abbiano abituati al genere horror; ma qui non si tratta di finzione.

Grazie alle auscultazioni di Fornaciari sappiamo tantissimo
degli Aragonesi e delle loro terribili malattie. Non sapremo mai, 

invece, di cosa è morto il padre domenicano Richard Luke Concanen, primo vescovo cattolico di New York, il cui corpo è sepolto nella sagrestia di San Domenico sotto una lapide del pavimento.


Concanen nacque in Irlanda nel 1747 e morì a Napoli nel giugno del 1810, nella vana attesa di imbarcarsi per prendere possesso della sua carica, perché il blocco continentale impediva alle navi di prendere il largo verso i porti americani. Sulla tomba dello sfortunato vescovo di New York i ragazzi di solito accumulano i loro zainetti. 

 

 

 

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LA BARCA DI ISIDE IL PAPIRO E LA SCRITTURA di Gaia Bay Rossi – Numero 10 – Marzo 2018

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LA BARCA
DI ISIDE 

IL PAPIRO E 

LA SCRITTURA 

Cosa non può l’ingegno? 

Ecco che il palustre papiro, 

ridotto dalla lama in strisce larghe e sottili, 

dà ai mortali lo strumento della carta. 

Allora per la prima volta gli amici lontani 

poterono mandare e ricevere dolci messaggi. 

Vennero poi i codici in onore: 

allora tutti ad esercitare l’animo con gli studi, 

a dirozzare le menti incolte: 

il papiro raffinò il cuore dell’uomo 

e tanta scienza si dispiegò in tanti libri”. 

(Jean Imberdis, 1693)

Quest’antica scritta accoglie i visitatori del Museo del Papiro di Ortigia (Siracusa), un piccolo gioiello incastonato nell’ex convento di Sant’Agostino fondato dai professori Corrado Basile e Anna Di Natale nel 1987, unico museo esistente interamente dedicato al papiro e ai suoi usi, che nel 1995 per la sua importanza scientifica e didattica, è stato inserito nell’elenco finale dei musei selezionati per il prestigioso premio European Museum of the Year. L’ignaro visitatore che si appresta ad attraversare il portone dell’ex convento non può minimamente immaginare quale universo gli si stia per aprire davanti,

 

un mondo incantato di reperti in papiro che riportano 

agli albori della civiltà.

 

Sì, perché il papiro Cyperuspapyrus L. non è solo la pianta da cui si traeva il materiale per gli antichi fogli ad uso scrittorio ma è una specie erbacea perenne che consente la produzione – e così è stato in Egitto sin dal 3.000 a.C. e poi in Palestina e in tutto il mondo greco-romano – di particolari corde, vesti, calzature, recipienti e anche piccole imbarcazioni. Sono proprio tre leggere barche in papiro uno dei fiori all’occhiello del Museo del Papiro.

 

Nei suoi viaggi di ricerca in Africa, il professor Basile si recò prima 

in Etiopia, dove recuperò due delle tre barche presenti al museo costruite nei laghi Tana e Zwai, 

 

e dopo nel lago Ciad, dove andò sia per studiare l’origine della pianta e i tassi di crescita nelle diverse condizioni ambientali, sia per documentare i processi di costruzione delle barche con la tecnica usata dai pescatori Buduma, e dove riuscì ad ottenere una delle ultime “kedeje” con la poppa tronca e la prua rialzata. Le tre barche gli furono anche richieste da un importante museo all’estero, ma lui le ha sempre custodite, rendendole parte integrante dei beni stabili del suo Museo del Papiro. D’altra parte, oltre ad essere degli esemplari rarissimi, rappresentano secoli di storia, tradizioni e leggende. Le barche in papiro, infatti, hanno una storia antichissima, basti pensare che ne abbiamo testimonianze da autori antichi e anche nei passi biblici. Come ci ricorda il prof. Basile, Isaia descrive i viaggi degli ambasciatori etiopi dall’Egitto alla Palestina su barche di papiro, e nell’Esodo è scritto che la madre di Mosè mise il figlio in un cestello di papiro. 

 

Altre testimonianze antiche narrano la leggenda secondo cui 

in nessun caso un coccodrillo avrebbe attaccato chi navigava 

su un’imbarcazione in papiro per rispetto alla dea Iside 

che ne aveva utilizzata una lungo il Nilo alla ricerca 

del corpo straziato del marito Osiride.

 

Ma questo è solo un tassello della ricca collezione del Museo. Oltre alle imbarcazioni,

 

il museo espone la collezione di papiri faraonici del XV sec. a.C., 

ieratici, demotici, greci, copti e arabi, poi alcuni manufatti in papiro, 

come corde, che fabbricate nell’antico Egitto venivano esportate 

in tutto il Mediterraneo,

 

sandali, fabbricati sin dall’epoca faraonica, e recipienti utilizzati per conservare cibo o altri materiali; infine anche i papiri prodotti a Siracusa dal XIX secolo, con la manifattura della carta di papiro e i materiali e strumenti scrittori, come pigmenti di alcuni colori, penne e palette. Il ruolo svolto dal Museo del Papiro non è solo quello riguardante la parte museale vera e propria, ma è anche tutto ciò che concerne la ricerca scientifica e storica, gli studi sulla pianta, sul trattamento della carta papiracea e sulla conservazione dei papiri antichi. Non meno importanti gli studi sull’origine del papiro in Sicilia e l’uso della pianta nelle varie culture.  

 

Nel 2017 il Museo del Papiro, attraverso i due soci fondatori, è stato premiato dal Museo Egizio del Cairo per essere stato promotore 

sin dal 1998 del “Progetto di restauro dei papiri in Egitto” 

 

in collaborazione con istituzioni culturali e scientifiche egiziane, con lo scopo di favorire l’attività di ricerca e di studio nel campo del restauro dei papiri antichi, nonché per la creazione del più grande “Laboratorio di restauro dei papiri” all’interno del Museo Egizio del Cairo, che è operante dal 2005. Il Museo del Papiro di Siracusa è l’unica istituzione ad aver ricevuto dal Museo Egizio del Cairo un così importante riconoscimento, cui si aggiunge il decreto governativo che nomina Corrado Basile consulente per tutti i progetti di restauro dei papiri in Egitto.

 

Poiché le radici ci riportano spesso a casa, tra i vari rami di studio, 

il professor Basile si dedica anche all’indagine storica del papiro 

in Sicilia e alla tutela della pianta nell’ambiente fluviale 

del fiume Ciane e dei papiri della Fonte Aretusa di Siracusa. 

 

Il papiro è presente lungo le sponde del Ciane, il fiume di mitologica e storica fama che scorre a pochi chilometri da Siracusa. La caratteristica che rende unica quest’area protetta è che, se si esclude la piccola colonia di Fiumefreddo di Sicilia (Catania), il papiro del fiume Ciane è considerato l’ultimo superstite di una maggiore presenza in Sicilia nel versante orientale e in quello meridionale, ed è in assoluto la più grande colonia europea di Cyperuspapyrus L. Ma i papiri sono presenti fino nel cuore di Siracusa, a Ortigia, all’interno della Fonte Aretusa, uno dei monumenti più importanti e visitati della città, le cui piante sono state affidate alla cura e al mantenimento del Museo del Papiro, che peraltro possiede un’ampia documentazione archivistica delle piante della Fonte. Di questa fonte con i suoi papiri rimase affascinato anche Orazio Nelson che, quando sostò a Siracusa nel 1798, prima di affrontare Napoleone ad Abukir scrisse: “Grazie ai vostri sforzi noi ci siamo riforniti di viveri ed acqua, e sicuramente avendo attinto alla Fonte Aretusa, la vittoria non ci può mancare”. Nei secoli il papiro è stato utilizzato dai pescatori siracusani per intrecciare corde o dai contadini per legare covoni,

 

mentre le ampie chiome verdi erano impiegate come decorazione 

per ricoprire pavimenti di strade e chiese durante le festività.

 

Inoltre grazie alla vasta presenza della pianta, Siracusa sviluppò la produzione di carta di papiro sin dall’antichità per arrivare ai giorni nostri con alcune piccole eccellenze. Il prof. Basile ha iniziato a occuparsi negli anni Sessanta delle antiche tecniche di fabbricazione della carta di papiro e del restauro conservativo dei documenti papiracei antichi e oggi, all’interno del suo museo, spiega ai visitatori e agli studenti la manifattura della carta papiracea. Per riassumere in poche parole 

 

come sia possibile da una pianta arrivare a un foglio ad uso scrittorio,

 

si utilizza la porzione mediana del fusto raccolto nel momento di più idonea maturazione. Il fusto è liberato dalla scorza e tagliato in strisce (lunghe anche 40 cm). Dopo il pretrattamento con particolari soluzioni, le strisce vengono appoggiate su un panno e sovrapposte di qualche millimetro, formando un unico strato. Si procede poi con un secondo strato disposto perpendicolarmente al primo. Il tutto viene poi pressato con un torchio o un rullo. Traslando un nostro modo di dire molto conosciuto, possiamo in conclusione affermare che “del papiro non si butta via niente”. Abbiamo visto la vasta quantità di oggetti che venivano prodotti con questa pianta, ma non è finito: le ombrelle infatti erano usate anche nelle feste e nei riti funebri, i germogli più teneri venivano mangiati, lessi, arrosto o crudi, succhiando la parte più liquida e gettando la polpa, i rizomi erano utilizzati come ottima legna da ardere.

 

Così lo studio, la cura e la conservazione di questa straordinaria pianta hanno trasformato un piccolo museo di una città del sud 

in un’eccellenza internazionale,

 

con i suoi fondatori chiamati a partecipare a campagne di scavo in Egitto, convegni internazionali, inaugurazioni di biblioteche e musei in Egitto, pubblicazioni su riviste scientifiche, cattedre universitarie e riconoscimenti pubblici.

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IL SOGNO MEDITERRANEO DI FEDERICO II di Fabio De Paolis – Numero 10 – Marzo 2018

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IL SOGNO MEDITERRANEO DI FEDERICO II

 

E anche se questo nome non fu più usato nel battesimo egli venne accolto nella comunità cristiana con i nomi di entrambi i suoi grandi nonni monarchi: Ruggero II Re di Sicilia, e Federico I Imperatore del Sacro Romano Impero. Nel XIII secolo Federico, Sacro Romano Imperatore, si presentava, durante le grandi celebrazioni religiose, indossando una tunica e una dalmatica di seta siciliana, calzari e calze rosse, sempre in seta siciliana e guanti dello stesso colore tempestati di perle. Poi indossava altresì un mantello color rosso cupo, con ricami in oro rappresentanti un leone artigliante un cammello, nei bordi una iscrizione in arabo che voleva significare che quel manto era stato confezionato nel 1133 per il Sommo Ruggero nella città di Palermo.

Il rosso della seta (come la porpora bizantina) testimonia la discendenza romana del potere esercitato da chi se ne ammantava

 

Erano colori che venivano utilizzati normalmente dagli imperatori bizantini, dai pontefici e da tutti quelli che accampavano diritti di autorità universale e assoluti. Nemico giurato dello sgretolamento feudale, Federico II sognava sin da giovanissimo di restaurare sotto la sua autorità l’unità dell’antico impero romano. E ne mostrava l’intenzione ad ogni occasione e con ogni mezzo. Come per gli abiti, anche la corona che l’imperatore indossava in Sicilia e nell’Italia meridionale era carica di simili richiami. Era di una forma creata alla moda degli imperatori bizantini, cinta torno torno, sia in tessuto ricamato o in metallo prezioso, da lunghi pendenti scintillanti di gioielli, un semicerchio che simboleggiava il dominio temporale di chi la portava. La tunica, la dalmatica e la corona consacravano Federico II come possessore di uno status superiore a quello del comune mortale, come una mediazione tra Dio e l’uomo, un riflesso maestoso del Signore sulla terra.

 

Erede delle corone di Germania e di Sicilia, Federico II 

appena ebbe l’occasione diede luce ai suoi sogni, 

e con grande energia perseguì i suoi ideali.

 

Ideali complessi, estremamente conflittuali. Ideali che partivano dal presupposto che l’umanità in seguito al peccato originale fosse condannata a discordie e violenze. Ne conseguiva che lo Stato voluto da Dio, era l’unico strumento che consentisse all’umanità di organizzarsi in una comunità rivolta al conseguimento di pace e giustizia. Era lo Stato che doveva assicurarle entrambe, ed era Dio che ne affidava la guida a un unico individuo, l’Imperatore. Egli era al vertice della gerarchia, l’esempio vivente di virtù e modello di perfezione terrena. L’Impero e i sudditi erano legati da un vincolo di fedeltà: chiunque lo avesse infranto doveva essere punito dal sovrano.

Con simili presupposti, tra l’Imperatore ed i successoridi Papa Innocenzo III, 

gelosi della propria autorità temporale,e convinti della superiorità 

della Santa Sede rispetto all’Impero, l’urto era inevitabile.


Per tradizione i Papi tenevano alla separazione fra le due corone di Imperatore e di Re di Sicilia. Federico promise certamente ad Innocenzo III di abbandonare il Regno non appena avesse cinto la corona imperiale ma poi nei fatti non ne fece nulla. Al contrario alla morte di Innocenzo III (il pontefice a cui la madre morente lo aveva affidato per sottrarlo alle lotte interne tra i grandi feudatari)

 

riunificò le corone di Sicilia e Germania e si dedicò subito 

al rafforzamento proprio potere.


La concezione monarchica e la struttura amministrativa passarono indenni attraverso l’apparente anarchia della giovinezza di Federico II per costituire la base di un rinnovato dispotismo normanno dopo il 1220. Federico in quanto imperatore portò alla ribalta mondiale idee normanne di monarchia. Questo era l’elemento mancante nell’assolutismo romano di Ruggero II: la dimensione universale. Con Federico questa dimensione era ora presente. E da lui venne sfruttata con energia.

 

Padrone del Regno di Sicilia, titolare dell’Impero, assertore
dell’autorità sovrana sulle città dell’Italia Settentrionale,
Federico II era detto dai suoi ammiratori “Stupor Mundi”,
ma anche “Bestia dell’Apocalisse“ dai suoi detrattori.


E questo perché Federico II con la sua ambizione, il suo pensiero politico, la sua mentalità moderna e il suo culto della ragione, con la sua indifferenza religiosa, il suo spirito di avventura, con la totale mancanza di scrupoli, rappresentava per lo Stato della Chiesa una minaccia continua, superiore a qualsiasi altra presentatasi nei secoli precedenti della storia medioevale. I pontefici videro in lui un nemico astuto, ardito, potente e giudicarono combatterlo con tutte le loro forze. Federico, che era totalmente convinto della sua missione, si erse a rigido difensore dei suoi diritti, si vide come fautore del nuovo assolutismo monarchico.

Stabilì che l’Italia Meridionale fosse la base adatta per affermare
il suo potere dove, a differenza della Germania, la sua autorità
era ben più salda. Nell’ottica delle sue grandissime aspirazioni,
il Regno venne scelto per crearsi nel Sud
una base solida e prospera:


il centro di un vasto impero mediterraneo. Federico, con energia profusa senza limiti, vi ristabilì l’ordine compromesso ai tempi della sua minore età, spezzò le resistenze dei feudatari, soffocò le aspirazioni autonomistiche dei comuni. Di tutto il suo Impero, la Sicilia era il possedimento più amato da Federico II. La sua fucina. La Sicilia non solo perché vi aveva trascorso la fanciullezza. O perché era una terra estremamente ricca e opulenta.

Ma in primis perché era strategica ai suoi fini: era soprattutto
da quelle coste che si controllavano le rotte commerciali
del Mediterraneo. Una fitta rete di scambi collegava
l’isola con la costa Africana, la Puglia, Salerno,
Napoli, Amalfi e l’Oriente.


Dalla Sicilia, e non dalla Germania, che si poteva creare una fortissima economia in grado di realizzare il suo sogno. Questo era il sogno mediterraneo di Federico, un sogno, però, che non teneva in debito conto sia il potere del Papato sia la complessa situazione interna della Sicilia. Ma di questo parleremo la prossima volta.

 

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IL FUOCO E IL MARE di Giorgia Ippoliti – Numero 10 – Marzo 2018

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Il marinaio, unico sopravvissuto, pur di non essere sopraffatto dalle onde burrascose, si aggrappò a quel che rimase della sua imbarcazione e, a quel punto, si trovò nella più profonda oscurità. Non gli rimase che rivolgersi al cielo. “(…) Mamma, Mamma ‘e tutt’‘e Mmamme, aiutame tu!”2.
Improvvisamente la notte si fece giorno.
Un’immensa luce lo colse, e gli sembrò di udire una musica celestiale. Una bella signora, vestita di bianco, e cinta nel capo da dodici stelle, gli tese la mano; non v’erano dubbi: era l’Immacolata Concezione!

 

Allora l’acqua, prima ostile e nemica, divenne un valido alleato,
tanto che le onde lo cullarono, privo di sensi, fino a riva.

 

Si risvegliò, all’alba, sull’arenile, accanto alla banchina di Zi’ Catiello. A metà, tra il sogno e la realtà, fu avvistato da alcuni passanti, che accorsero in suo aiuto, con estrema gioia e stupore. Anche questa volta, la vita aveva vinto. Ripresosi, capì che ciò che aveva vissuto non era un sogno … e che quella era, sì, la Mamma di tutte le mamme. Chiamò i presenti “Fratièlle e Surelle” intorno a un falò e insieme cominciarono a recitare il Rosario alla Madonna. 

 

Basta rompere le barriere del pregiudizio e dello stereotipo, che annebbiano la vista, per entrare in contatto con un mondo strabiliante e ricco di

 

tradizioni che, con la loro attualità e forza, irrompono
nella vita di ognuno di noi.

 

È proprio quello che accade a Castellamare di Stabia dove, in un fulgido esempio di unione fra presente e passato, ancora oggi la tradizione svela quella forza viva che la anima e che risiede nella nostra contemporaneità.

Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre, in questa splendida provincia napoletana, città delle acque – ben ventotto sorgenti di acque minerali differenti – la storia di Luigi prende vita. 

In un parallelismo fra cielo e terra, nei dodici giorni antecedenti a questa notte, corrispondenti alle dodici stelle di cui era cinto il capo della Mamma delle mamme, riecheggia, dalle prime luci del mattino, la cantilena dei Fratelli e Sorelle che, richiamando tutti i fedeli, li esortano a “dare la voce” a questa tradizione, che suona come un ringraziamento, proprio come secoli prima fecero il marinaio e le persone accorse.

 

La notte diventa di nuovo giorno. Una voce rompe il silenzio, squarciando il buio dell’oscurità.

 

Un richiamo alla preghiera, dunque, gridato a gran voce – ogni quartiere ha la sua “voce” – da un uomo che, camminando per le strade insieme ai fedeli, ogni giorno, annuncia nel canto la stella della Madonna in cui ci si trovi. In ogni angolo della strada, in ogni quartiere, in ogni casa, prende vita questo canto di gioia e di speranza. Sull’arenile della città, proprio come avvenne sull’arenile vicino alla banchina di Zi’ Catiello, si accendono i falò, detti “fucaracchi”, dove nascono momenti di condivisione, con musica e balli tipici.

 

O’ pale e miezz, la legna, viene raccolta dai ragazzi dei rioni
che, già diversi mesi prima, iniziano a ricercare tutto ciò
che possa rendere il falò vivido e imponente.

 

La voce dei Fratelli e Sorelle risuona in ogni rione, accompagnata, nella prima e nell’ultima notte, da una banda musicale che, in un unico suono di giubilo, invita i presenti a unirsi per ringraziare Colei che, secoli prima, salvò quel marinaio sconosciuto e riconoscente. Tutti gli stabiesi si riuniscono in strada e, nell’ultima notte – quando sono terminate le dodici stelle – attendono l’alba: percorrendo un’ultima volta il percorso votivo, intonano l’invocazione alla Madonna. 

Il paesaggio è incredibile. Castellammare di Stabia, città del mare, si colora di vivacità e ardore…

 

la maestosità del fuoco e i suoi vividi colori invadono
ogni angolo, ogni casa, ogni cuore.

 

In un’atmosfera suggestiva, davanti a spettacoli pirotecnici, che si proiettano nel cielo e nel mare, come in un gioco di specularità e simbiosi, la tradizione di Luigi si svela con tutta la sua attualità. Un’attualità fatta di vita, di gioia, di condivisione. Uno scintillio di canti e balli, un profumo confortante di antico e invincibile, scaturente dalla commistione di salsedine e legna, un vento di speranza da una tradizione, da una cultura che, nonostante le difficoltà, vuole innalzare al cielo la propria storia e la propria identità. Un parallelismo fra passato e presente, fra memoria e attualità, un turbinio di insegnamenti che si innestano nella notte dei tempi arrivando sino ai giorni d’oggi. Una città, quella stessa città che anni prima si unì al coro di Luigi, che non dimentica le proprie radici.

 

È un ringraziamento, un inno alla vita, un gesto di gratitudine
di un popolo che ha memoria e che non vuole dimenticare
la storia di quell’immenso miracolo chiamato Vita.

Tutto questo grazie al fuoco, simbolo di calore che riscalda corpo e anima, e del mare, quale metafora della vita che, tra alti e bassi, vale la pena di essere celebrata.

 

 

 

Luigi, detto “O’ Chiavone”, in una notte come tante, si trovò ad affrontare, con la sua imbarcazione (O’ paranziello), con tutto il suo equipaggio, una tempesta, di un’imponenza tale da non essersi mai vista. “(…) un colpo di mare spazzò via i marinai dalla coperta e poco dopo la barca fu inghiottita dal mare (…)”1

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IL FUOCO E            IL MARE

 

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1 “Antiche Tradizioni Stabiesi – Fratièlle e surélle” di Ciro Alminni – anno 1999.

 

2“Antiche Tradizioni Stabiesi – Fratièlle e surélle” di Ciro Alminni – anno 1999.

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UN MERIDIONE MARITTIMO? di Ferdinando Sanfelice di Monteforte – Numero 9 – Dicembre 2017

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UN MERIDIONE MARITTIMO?

 

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convinte che la loro sopravvivenza futura, nonché la speranza di mantenere il livello di benessere finora goduto dalle loro popolazioni, dipendano in parte rilevante sia dallo sfruttamento delle risorse marine, sia da un maggiore coinvolgimento nelle attività del commercio marittimo. 

La maggior parte dei governi, infatti, è giunta alla preoccupante conclusione che quanto è ricavabile dalla terra o dal sottosuolo non basta più a produrre reddito per il proprio Paese, e per questo si rivolgono al mare, come fonte di future ricchezze. Sintomatica è, a tal proposito, la dichiarazione, alcuni anni fa, da parte di un Presidente della Repubblica francese, che si meravigliava del “troppo lungo oblio della Francia sulla sua vocazione marittima”1 e aggiungeva che il Paese “doveva avere una volontà politica permanente per andare verso l’oceano, per proiettarvi un’ambizione”2

Questa corsa al mare, divenuta di recente un approccio comune 
a molti governi, inclusa la Cina, spiega perché si sia verificata un’intensificazione dei contenziosi marittimi e un riarmo navale generalizzato, che ha coinvolto, tra l’altro anche 

molte Nazioni rivierasche del Mediterraneo.

La situazione nel nostro bacino è oggettivamente difficile e, anche se non ha ancora dato luogo a conflitti aperti, non sono mancati momenti di tensione tra i vari Paesi. Basterà citare lo scontro tra un convoglio di navi turche, la Freedom Flotilla, con le forze speciali israeliane, il 31 maggio 2010 e, ancor prima, la dichiarazione del Parlamento turco, che nel 1995 approvò un documento che considerava casus belli ogni espansione delle acque territoriali greche, al di là delle 6 miglia marine.

Un tale crescente livello di contenzioso, frutto di questa maggiore attenzione alle ricchezze del mare comporta, per il nostro Paese, come e più del passato, la necessità di disporre di un “Potere Marittimo” per contenere tale conflittualità e far valere i propri diritti. Ma cosa vuol dire questo concetto? Per chi non lo ricordasse, già nel 1814 un illustre napoletano, Giulio Rocco, ne definì l’essenza, affermando che esso era “nell’ordine politico, una forza somma risultante da quella di una ben ordinata Marina Militare e di una numerosa Marina di Commercio”3.Vista con gli occhi di oggi, tale affermazione del nostro insigne conterraneo non è altro che un’applicazione all’ambiente marittimo del paradigma secondo il quale “la ricchezza è in genere necessaria per sostenere la potenza militare, così come la potenza militare è di solito necessaria per conquistare e proteggere la ricchezza”, ma possedere un “Potere Marittimo” richiede precisi requisiti, sia in campo militare, sia in quello commerciale, che non sono sempre disponibili.4

Il Meridione è la parte della penisola italiana più vicina sia alle linee 
del grande commercio marittimo internazionale, sia ai bacini alturieri 
del Mediterraneo, dove le ricchezze dei fondali marini 
sono più numerose, e pretese da molti.


È quindi necessario capire come il Meridione si collochi rispetto ai requisiti di marittimità, e cercare di stabilire quale possibilità esso abbia di sviluppare le proprie attività sul mare, che oggi, ancora più rispetto al passato, è diventato la fonte primaria di benessere per un popolo.

I requisiti che definiscono la marittimità furono analizzati, verso la fine 
del XIX secolo, da uno studioso americano, Alfred Thayer Mahan, 
il quale li chiamò “elementi del potere marittimo”. Sarà quindi 
opportuno esaminare, per ognuno di essi, come si colloca 
il nostro Meridione: 
 
Posizione geografica

 

“se una nazione è situata in modo tale da non essere costretta a difendersi sulla terra né indotta a ricercare un aumento del proprio suolo sulla terra, è per la sua stessa unità d’intenti rivolti al mare, avvantaggiata rispetto a un’altra che abbia le sue frontiere sul continente”5. Se poi questa Nazione è posizionata lungo le principali rotte commerciali, lo studioso americano notava che il suo vantaggio geografico è ancora maggiore. A proposito del Mediterraneo, Mahan aggiungeva che “le circostanze hanno fatto sì che il Mare Mediterraneo abbia giocato nella storia del mondo una parte superiore a quella di qualsiasi altra estensione di mare della stessa dimensione”6. La posizione geografica del Meridione, che, con la Sicilia, taglia il bacino in due parti, potendo controllare i transiti tra queste, è quindi particolarmente favorevole, e notevole potrebbe essere di conseguenza la possibilità di sfruttare la posizione geografica per il proprio sviluppo. Basta, inoltre, uno sguardo alla carta geografica per vedere come, dal punto di vista marittimo, il Meridione si affacci su entrambi i bacini, con la costa adriatico-jonica che guarda verso il Levante, fino al Medio Oriente, e un’altra che guarda verso il Ponente, e quindi aperta ai commerci atlantici. Non vi è un’altra regione o Paese, nel Mediterraneo, che goda di tutti questi vantaggi, dal punto di vista geografico; 

Conformazione fisica.


“La linea di costa di un Paese costituisce una delle sue frontiere e più facile è l’accesso alla regione al di là della frontiera, in questo caso il mare, maggiore sarà la tendenza di un popolo ad avere relazioni col resto del mondo per quella via. Se si potesse immaginare un Paese con una estesa linea di costa, ma interamente priva di porti, questo Paese non avrebbe, di per sé, alcun commercio marittimo, né naviglio, né Marina Militare”7. Qui sorgono alcuni problemi: il Meridione, con la sua limitata disponibilità di porti, alcuni dei quali sono ormai inadeguati a favorire il commercio, spesso per mancanza di manutenzione e di ammodernamento, è quindi fortemente svantaggiato sotto questo aspetto. La situazione dei porti turistici, i “Marina”, è in effetti migliore, anche se non ancora adeguata, per numero e capacità ad accogliere tutto il turismo marittimo che le bellezze dei nostri mari potrebbero attirare. Questo è un punto sul quale è necessario impegnarsi, se si vuole che il Meridione esca dal suo presente stato di sottosviluppo;

 

Estensione del territorio.

 

“Non è tanto il numero totale dei chilometri quadrati della superficie del Paese che deve essere considerato, quanto la lunghezza della sua linea di costa e le caratteristiche dei suoi porti. A questo riguardo occorre dire che, a parità di condizioni geografiche e fisiche, la lunghezza della linea di costa è fonte di potenza o di debolezza, a seconda che la popolazione sia più o meno numerosa”8. In teoria, quindi, con la sua costa estesa e piena di piccoli ridossi, il Meridione avrebbe tutte le caratteristiche per costituire un fattore propulsivo per incrementare la potenza economica e commerciale dell’Italia. In pratica, però, ci troviamo di fronte a un grande problema, triste retaggio della Storia, come vedremo tra breve;

 

Entità della popolazione.

 

“Per quanto riguarda la popolazione, non è solo il totale generale che deve essere computato, ma il numero di gente che prende il mare o, per lo meno, che è immediatamente disponibile per l’imbarco e per la costruzione di materiali navali”9. Purtroppo, nel Meridione, la specie umana nota come “homo maritimus” costituisce una netta minoranza, ancorché di rara qualità. Questo è dovuto sia ai secoli di dominazione straniera, sia alle minacce dal mare, che hanno indotto larghe fasce della nostra popolazione a emigrare verso l’interno del Paese: i bellissimi comuni, arroccati sulle montagne, che vediamo attraversando in auto il Meridione, non sono altro che una risposta a queste situazioni ingestibili, da parte di un popolo spesso lasciato indifeso, fino al XVIII secolo. Un altro grave problema, presentatosi negli ultimi decenni, è la progressiva decadenza della cantieristica meridionale, dato che in questo importante settore produttivo i responsabili delle decisioni economiche hanno a suo tempo deciso di spostare il baricentro della cantieristica al nord dell’Italia. Ciò ha reso il Meridione particolarmente debole sotto questo aspetto, facendogli perdere know-how e posti di lavoro;

 

Carattere nazionale.

 

“Se il potere marittimo è basato su un vasto e pacifico commercio, allora l’attitudine all’occupazione commerciale deve essere la caratteristica peculiare delle Nazioni che sono state, prima o poi, grandi sul mare”10. Ma il Mahan osservava anche che “le classi nobili d’Europa ereditarono dal Medioevo un arrogante disprezzo per il pacifico commercio, un disprezzo che ha esercitato un’influenza modificatrice nel progresso di queste, a seconda del carattere nazionale di questi Paesi”11. Questa osservazione si attaglia, in modo particolare, al Meridione: anche dopo la scomparsa della nobiltà come classe dirigente, le attività commerciali vengono sia sistematicamente oppresse dalla criminalità organizzata, sia considerate di livello inferiore rispetto ad altre professioni, specie quelle del terziario. Nel Meridione il senso di legalità è un patrimonio di meno della metà della popolazione e la criminalità organizzata, che prospera solo in ambienti dove l’illegalità è tollerata, può quindi opprimere le attività produttive e commerciali, impedendo lo sviluppo delle nostre terre e incrementando la disoccupazione;

 

Carattere del governo.

 

“La condotta del governo corrisponde all’esercizio di una volontà intelligente che, a seconda che sia saggia, energica e perseverante oppure no, causa successo o fallimento nella vita di un uomo o nella storia di una Nazione. (A tal proposito) i più grandi e brillanti successi si sono avuti quando vi è stato un intelligente indirizzo da parte di un governo interamente impregnato dello spirito del popolo e consapevole delle sue genuine inclinazioni”12. Quanto i governi regionali del Meridione siano determinati a far sì che il nostro Sud possa godere di uno sviluppo duraturo grazie alle attività marittime, è una domanda che è lecito porsi

 

In effetti, qualcosa è stato fatto, ma con una popolazione in gran parte lontana dal mare, com’è stata per secoli quella del Meridione, molto c’è ancora da fare per invertire la tendenza. 

 

Come si può notare dalle considerazioni finora elencate, esistono notevoli impedimenti a uno sviluppo della marittimità del Meridione, malgrado l’enorme potenziale, essenzialmente geografico, che la favorisce.

 

In buona sostanza, le azioni necessarie, per colmare il divario esistente, rispetto alle potenzialità in campo marittimo del Meridione, 

sono, in ordine di importanza: 

 

 Educare e abituare alla vita di mare una maggiore aliquota 

 della nostra popolazione.

 

Molti encomiabili sforzi sono stati fatti da parte di Associazioni, come la Lega Navale, ma è necessario che tali sforzi vengano non solo incoraggiati, ma anche integrati da un’azione ben più energica da parte delle Pubbliche Amministrazioni. Portare una popolazione verso il mare richiede anche una propaganda capillare per convincere l’opinione pubblica del Meridione che il mare non è più un pericolo, ma un’enorme opportunità;

Migliorare i porti.


Questo è un problema generale dei Paesi del Mediterraneo. Osservava, a tal proposito, l’intellettuale francese, Jacques Attali, che “i porti maggiori di questo mare sono al quarantesimo o al cinquantesimo posto nel mondo, (e) scadono annualmente in tale classifica”13. Un’azione decisa in tal senso, quindi, porterebbe al Meridione un benessere notevole, come mostra lo sviluppo di Gioia Tauro, che è diventato –
rara avis – uno dei porti maggiori del bacino;

 

Incentivare la cantieristica meridionale, la cui decadenza 

ha raggiunto un livello preoccupante.

 

Se è vero che la concorrenza dei Paesi asiatici è forte in questo campo, è altrettanto vero che le costruzioni navali di alta qualità e prestazioni sono un settore strategico, dove ben pochi Paesi possono competere con le qualità di noi meridionali in fatto di ingegno e di progettazione;

Dare un ulteriore impulso alle attività turistiche sul mare.


Chi sia andato sulla Costa Azzurra, da Nizza fino a Tolone, può vedere quanto indietro siamo noi meridionali, in questo campo. Con le coste e isole che abbiamo, potremmo più che raddoppiare le presenze di turisti e appassionati del mare. Servono più porti e più servizi, che generano indotto e occupazione. 

 

A monte di tutto, però, deve esserci una maggiore consapevolezza che non vi è sviluppo senza legalità. Proprio il settore dell’economia marittima è quello che necessita, come e più di altri, di legalità e di trasparenza.

 

Se la maggioranza della nostra popolazione non si convince 

che le attività economiche vanno protette dall’illegalità, dalla 

corruzione e dalla criminalità, nulla potrà consentire 

lo sviluppo di un “meridione Marinaro”.

 

Infatti, non ci vuole molto per perdere questa occasione di sviluppare le attività sul mare e altri Paesi, pur meno dotati del nostro Meridione, sarebbero ben felici di toglierci fette importanti di benessere in questo settore. Il rischio è quello di rassegnarci a vedere gli altri prosperare sul mare e, al massimo, “servire loro il caffè”! 

In definitiva, non ci si può limitare a vedere i futuri perni dell’economia del Meridione né nel turismo in genere né nella manifattura di prodotti di basso valore aggiunto, come si è pensato di fare. Una decisa sterzata verso l’eccellenza in campo marittimo, in tutti i settori di attività, è necessaria se si vuole stimolare uno sviluppo bilanciato e durevole del Meridione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

fine-t-storia
Ferdinando-Sanfelice

1 Discorso del Presidente SARKOZY a Le Havre, 16 luglio 2009.
2 Ibid.
3 G. ROCCO. Riflessioni sul Potere Marittimo. Ed. Lega Navale Italiana, 1911, pag. 1.
4 P. KENNEDY. Ascesa e Declino delle Grandi Potenze. Ed. Garzanti, 1989, pag. 20.
5  A.T.MAHAN. L’influenza del Potere Marittimo sulla Storia. Ed. Ufficio Storico Marina Militare, 1994, pag. 64.
6 Ibid., pag. 68.
7 Ibid., pag. 70.
8 Ibid., pagg. 77-78.
9 Ibid., pag. 79.
10 Ibid., pag. 84.
11 Ibid., pag. 88.
12 Ibid., pag. 92.
13 J. ATTALI. La Méditerranée ou l’ultime utopie, in Défense Nationale et Sécurité collective, numero speciale dedicato all’Unione per il Mediterraneo, 2008.

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1 Campania
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4 Puglia
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6 Basilicata
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LE BUFALE STRALUNATE DI PIOVENE di Francesco Ricciardi – Numero 9 – Dicembre 2017

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LE BUFALE STRALUNATE DI PIOVENE

 

 

Piovene batteva palmo a palmo lo Stivale per conto della Rai quando, giunto nelle campagne di Paestum, prendeva per la prima volta contatto con quello “strano e primitivo animale, dagli occhi spiritati”

e con il delicato rito della mungitura: “La bufala si incontra in tutta la Campania; nella zona di Paestum gli allevamenti sono fitti, ed il caso ha voluto ch’io la conoscessi qui. Vi è certo una specie di affinità poetica tra quel grande animale nero e le antiche rovine. Armato di un bastoncino dalla punta di ferro, il massaio, che regola la vita delle mandrie, mi ha condotto dentro il recinto; le bufale facevano davanti a noi quasi un muro compatto, fissandoci a muso basso con espressione stralunata; se non fosse stata la fiducia nei poteri magici del bastoncello del massaio, avrei apprezzato meno la poesia della visita. Quell’animale primitivo è però strano e intelligente. Rifiuta di lasciarsi mungere se non ha il proprio piccolo attaccato a un capezzolo; soltanto allora, per nutrirlo, rilascia il suo prezioso latte, che altrimenti può trattenere. E infatti, ad ogni mungitura, il piccolo è presentato alla madre; questa cerimonia però richiede una specie di rito.

Al momento del parto, l’unico uomo che la bufala riconosce, il massaio, le grida il suo nome all’orecchio. Il nome non consiste in una parola, bensì in una frase cantata.

 

La bufala non la scorda più; diviene per sempre il suo nome, e insieme l’appello del figlio che chiede d’essere allattato. Anche tra duecento bufale, ognuna nel branco conosce la frase modulata che la distingue”. A questo punto il lettore perdonerà una divagazione personale a chi scrive, che coltiva il vezzo di considerarsi un intenditore della materia… in fondo può vantare un consumo familiare vecchio di alcune generazioni, una sorta di Dna latticino. La famiglia di mia nonna materna, infatti, gli Alfani, nelle sue vaste proprietà, con diverse fattorie attive nella piana del Sele (tutte sulla sponda destra del fiume) tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento allevava circa 8000 bufale (e altrettanti cavalli). Furono tra i primi nel Salernitano, gli Alfani, a produrre in maniera “sistematica” mozzarella di bufala. Era una produzione destinata piuttosto all’uso familiare, per la gioia propria, dei tanti amici e clienti (nel senso latino del termine), dei contadini ecc. Le mozzarelle, infatti, per la loro deperibilità e le caratteristiche di assoluta freschezza che devono avere al momento di essere consumate, mal si prestavano ad un esteso commercio. Che la diffusione della mozzarella fosse limitatissima è provato, peraltro, dalla sua totale assenza nelle figurazioni del Presepe napoletano, dove invece fanno bella mostra di sé provole e caciocavalli appesi alla porta delle case o sulle botteghe dei salumieri.

Alimento di lusso, dunque, la mozzarella… tanto che, in epoca borbonica, la sua produzione e la commercializzazione avvenivano addirittura nella Tenuta reale di Carditello.

 

Da qui ogni giorno venivano inviati latticini freschi per la tavola del re, e il resto della produzione era venduta ai privati, costituendo una delle voci più cospicue delle rendite reali. Siamo verso la fine del Settecento e l’affermarsi del consumo dei latticini di bufala va certamente collegato con l’attività della Tenuta reale, dove venivano anche apportate migliorie agli allevamenti e alla razza mediante incroci indovinati. Re Ferdinando, infatti, se da un lato lasciò assai a desiderare quanto a doti politiche, non era per nulla scarso sul versante del bel vivere. Trascurava, insomma, volentieri i problemi pratici del suo regno ma sapeva come godersi la vita. Era anche buongustaio e i suoi latticini amava consumarli freschi, così come arrivavano sulla sua tavola. E faceva bene. È solo un parere personale ma nessuno mi toglierà mai dalla testa la convinzione che utilizzare la mozzarella di bufala in qualsivoglia preparazione di cucina sia uno spreco: se cucinata, infatti, perde quasi del tutto il suo sapore e quella consistenza inconfondibili… meglio allora usare una qualsiasi mozzarella di latte vaccino. Come si conviene a una regina della tavola meridionale, la mozzarella di bufala va consumata fresca – alcuni, tra cui il sottoscritto, la preferiscono del giorno prima – e gustata da sola.

 

La sua pasta inconfondibile, la forma e la consistenza non hanno riscontro in nessuno dei prodotti simili.

 

Perché – per dirla con Maria Rivieccio Zaniboni (Cucina e vini di Napoli e della Campania – Mursia 1975) – non solo occorre che le bufale pascolino nelle piane di Aversa e di Paestum, ma occorre che pascolino di notte quando la luna batte e illumina d’argento le pianure e gli acquitrini. È questa luna, ci ha raccontato un amico, che ne arricchisce e ne impoverisce il latte per cui, a detta degli esperti, un legame arcano passa tra il sapore della mozzarella e le fasi lunari così come altri orfici legami restano intrecciati con il colore dell’erba dei pascoli o addirittura con i venti che corrono sul litorale sul quale sciaborda quel mare su cui veleggiarono un giorno lontano Ulisse ed Enea”. È un mondo, quello descritto dalla Rivieccio Zaniboni, che purtroppo è finito per sempre, sepolto dai moderni metodi di allevamento che ospitano gli animali in stalle attrezzate e a cicli di produzione programmati che hanno tolto le bestie dagli acquitrini primordiali.

 

Le bufale che ancora si vedono oggi percorrendo le vie della Piana 

del Sele spesso sono messe lì per bellezza, magari come semplice richiamo per un caseificio che ha il proprio punto vendita 

lungo la strada.


Già dal 1993 il “Consorzio formaggio tipico mozzarella di bufala” ha ottenuto la doc (sicché può fregiarsi di questo nome solo la mozzarella prodotta al 100% con latte bufalino, confezionata in sacchetti adeguati recanti l’apposito contrassegno) ma, come avviene anche per altri prodotti, non è tutto; come le mozzarelle di bufala non sono tutte uguali. Non basta fermare la macchina ad Aversa o Battipaglia, entrare dal primo rivenditore che capita ed essere sicuri di portare a casa una buona mozzarella. Ve ne sono anche di pessime. Se il caseificio non ha un buon “casaro”, personaggio strategico che racchiude in sé esperienza, competenza e tecnica, non produrrà mai una buona mozzarella. E il “napoletano”, che tra i suoi oggetti di culto, cui non può o non vuole rinunciare (la pizza, i maccheroni, il sole, il mare, San Gennaro…), ha anche la mozzarella, sarà in grado di riconoscere al primo boccone se è buona, in barba a qualsiasi normativa.

Il nome delle bufale


Secondo Achille Bruni (Dell’Agricoltura e Pastorizia del Regno di Napoli, 1845) «la bufola figlia una volta l’anno, porta 10 mesi circa, ed ha moltissimo amore per la sua prole. È chiamata con nome e con una certa cantilena, e così essa si muove dal luogo ove pascola, e si avvicina alla persona per farsi mungere». È tutto vero: ama i suoi piccoli e risponde al richiamo. I nomi, quasi delle frasi, devono essere cantati: «È una cantilena orientale – dice Piovene – certo d’origine remota, simile a quella del muezzin dal minareto, e che il massaio invece modula all’alba davanti al branco. Successivamente le bufale escono dalla mandria e si consegnano docili ai mungitori; senza la frase magica non uscirebbero, e si ribellerebbero al tentativo di mungerle con tutta la loro furia selvaggia». Ogni annutolo, dunque, appena il massaro intonava il suo nome – diverso nelle parole e nel ritmo dagli altri – rispondeva al proprio e accorreva, seguito dalla madre che, anch’essa rispondendo al richiamo, lo raggiungeva lasciando il gruppo.

Potevano essere centinaia, le bufale, ognuna aveva il suo versetto inventato apposta per lei dal massaro.

 

Traducendo i nomi citati in italiano da Piovene, questi “in lingua” suonerebbero più o meno così: Chesta se ‘ntrica ‘ e tutto (s’impiccia su di tutto); Tu nun si’ mai cuntenta (non sei mai contenta); ‘A canzona è bella ‘a ssentì (la canzone è bella da sentire); Me piace pecché è bell’ e giovane (mi piace perché è bella e giovane); ‘Onna Rosa cumanna a tutt’ quante (Donna Rosa comanda tutte); Tu me fai ‘a presumente (Tu mi fai la presuntuosa); I’ song’ bella o’ veramente (sono veramente bella). 

Anche il poeta Rocco Scotellaro in ‘Contadini del Sud’ ci riferisce di alcuni di quei nomi magici: «Ogni bufala ha un nome che è un versetto e i nomi di una mandria di bufale sono un poema! ‘Nu turzu… ‘nu turzo t’è lassato ‘n canna (il nocciolo… ti è rimasto in gola); ‘A malatia… tiene sempre ‘sta malatia (la malattia… hai sempre la stessa malattia); ‘E cane… pure ‘e cane stanne amare (anche i cani sono tristi); ‘A cuccagna… sta cuccagna pure fernisce (la cuccagna… anche questa cuccagna finisce); A lu fine… a lu fine se sente l’addore (dal friggere… dal friggere si sente l’odore)». E mia nonna Angelica ce ne ha tramandato alcuni creati dai suoi massari, tra cui ricordo: Vac’ a Ievol’ a fa’ ammore (Ievol’ sta per Eboli), Tavernanova alloggia a tutti (a Tavernanova sorgeva la maggiore tra le aziende agricole di famiglia), ‘O signurino ‘nsisto, dove per signorino prepotente si intendeva Mariantonio, il primogenito della famiglia… Si, perché alcuni nomi potevano essere anche un pretesto, un mezzo indiretto usato dal massaro per dire la sua al padrone, perfino per insultarlo, giacché tra massaro e bufala il padrone non si poteva intromettere.

La parola mozzarella

 

Già alla fine del Seicento Antonio Latini, nella “Breve descrizione del Regno di Napoli in ordine alle cose commestibili”, indicava Acerra come luogo principe per la produzione di provole; e, poco più di un secolo dopo, lo confermava Vincenzo Corrado che nelle “Produzioni del Regno di Napoli” inserisce questi latticini tra i prodotti tipici della città che aveva dato i natali a Pulcinella: “Si fa grande industria e commercio di provole, di mozzarelle, di burrielli, e di altri freschi latticini, giacché vi sono procovj di vacche e di bufale. Parimenti – egli prosegue – per la città di Aversa…”.

Ma la prima citazione sicura del termine mozzarella, diminutivo 

di mozza, risale alla seconda metà del XV secolo quando Pietro Mattioli (“I discorsi”), parlando di latte, citava “quello di bufala di cui si fanno quelle palle legate con giunchi che chiamiamo mozze 

e a Roma provature”. 

 

Mozzarella, provatura, provola… negli antichi ricettari si parla in genere di provatura, termine usato un tempo nelle zone del Lazio meridionale, tuttora zona di bufali, per indicare i formaggi freschi bufalini lavorati come la mozzarella; provola invece era il nome usato in Campania, sostituito poi con la parola mozza e con il diminutivo mozzarella, dal verbo mozzare, chiara allusione ad uno dei momenti significativi della lavorazione. Con l’andar del tempo provatura è finito nel dimenticatoio come termine arcaico, usato solo in qualche ricetta della tradizione romana (crostini di provatura), e provola invece è rimasto ad indicare il formaggio bufalino o vaccino affumicato, un espediente, questo, usato per una migliore conservazione e un più facile trasporto e commercio. Sulla storia delle bufale e della loro presenza in Italia esistono pareri quanto mai controversi. Alcuni, basandosi su un brano di Plinio, affermano che i bufali sarebbero stati presenti già in epoca Romana. C’è poi l’affermazione di Paolo Diacono nella sua Historia Longobardorum, secondo la quale i bufali sarebbero arrivati in Italia al seguito di Agilulfo, re dei Longobardi intorno al 596 d.C.  

Nell’Ottocento, altri autori ipotizzarono che essi fossero stati introdotti 

in Sicilia dagli Arabi e, successivamente, per opera dei Normanni, dall’isola importati nelle regioni meridionali.


Nessuna delle ipotesi può vantare prove inconfutabili, nessuna storia è più vera dell’altra, anzi, è probabile che tutte abbiano un fondo di verità e che le bufale d’oggi siano un misto di tutte le razze del passato. Per la storia della nostra gastronomia la cosa è irrilevante poiché le prime testimonianze di formaggio bufalino si hanno solo molti secoli dopo. Una cosa è certa, però, due sono le localizzazioni originarie (solo in seguito si aggiungeranno il Foggiano e la provincia di Latina): una nei territori di Acerra e Capua, l’altra nella piana del Sele, dove la presenza di questi animali è abbondantemente testimoniata. Tra l’altro il bufalo, sconosciuto nel resto d’Europa, suscitava la curiosità di quei viaggiatori stranieri del Settecento così ardimentosi da spingersi fin qui. Essi, tornati in patria, raccoglievano le loro esperienze nei famosi diari di viaggio, in cui non di rado si parlava dei bufali. Così J. W. Goethe: “… attraversando canali e ruscelli e incontrando bufali dall’aspetto di ippopotami e dagli occhi iniettati di sangue…”; e così C. V. De Salis Marschlins: “… razza di bestiame alla quale si porta da alcun tempo molta attenzione… le mandrie più numerose si ritrovano sulle rive del Garigliano e nelle pianure a settentrione della Terra di Lavoro…”.

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e il suo Viaggio in Italia (1957), libro del quale l’anno appena trascorso ha festeggiato il sessantesimo compleanno, come del suo autore i 110 anni dalla nascita. Fu, quello dello scrittore vicentino, un lavoro speciale, un affresco straordinario del nostro Paese che Eugenio Montale, nel recensirlo, non esitò a definire “un viaggio di ricognizione di una completezza senza precedenti”. A mezzo secolo dalla sua pubblicazione, non è ancora apparso un altro libro di viaggio capace di penetrare così a fondo nella realtà del paese, tanto da poter essere letto con piacere e profitto anche in funzione dell’Italia di oggi.

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ARCHIMEDE GENIO DEL SUD di Fabio de Paolis – Numero 9 – Dicembre 2017

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 ARCHIMEDE GENIO
DEL SUD

Sebbene dai più sia ricordato soprattutto per la sua attività di ingegnere e inventore, capace di ideare macchine belliche e dispositivi meccanici di vario tipo, Archimede di Siracusa, matematico, fisico e astronomo, è il maggiore scienziato dell’antichità. Gli storici romani raccontano che il console Marco Claudio Marcello, dopo avere con la forza e uno stratagemma espugnato Siracusa, si arrampicò nei luoghi più elevati, per vedere dall’alto la bellissima città sottomessa. Una immagine questa, che lo commosse fino alle lacrime. Lacrime di gioia per una così grande vittoria, ma anche lacrime amare, dovute alla pena di vedere deturpata dal suo esercito la più bella e ornata città greca d’Occidente.

 

Siracusa nel III secolo era la capitale di un regno piccolo 

per territorio ma importante nell’ambito degli stati ellenistici 

del Mediterraneo. Grazie al suo illuminato Basileus Ierone II 

il regno aveva una salda struttura amministrativa e perseguiva, 

con i più potenti Stati dell’epoca, un’accorta politica impostata 

su equilibrati rapporti diplomatici ma, soprattutto, con l’Egitto, 

paese allora all’avanguardia in campo scientifico.

 

Non a caso Archimede fu mandato a studiare ad Alessandria nella scuola fondata da Euclide, dove strinse amicizia con il geografo Eratostene da Cirene, con l’astronomo Conone di Samo e con il matematico Dositeo di Pelusio, e dove visse gli anni fondamentali della sua formazione scientifica. Quando il nostro genio tornò a Siracusa (città dove Archimede scrisse tutte le sue opere) la città godeva di un lungo periodo di pace e di prestigio internazionale. Era divenuta uno straordinario centro culturale ove s’irradiavano intense correnti artistiche e scientifiche che la rendevano città di primissimo piano. Per la centralità della sua posizione, per il volume dei traffici, per la sua la ricchezza economica fondata sull’agricoltura e sul commercio, e soprattutto per la qualità delle relazioni internazionali, Syrakousai era un centro di cultura tecnico/scientifica in cui interagivano i migliori specialisti in circolazione. La fiorente economia di Siracusa e del suo territorio era radicata nella ricchezza della sua produzione agricola a cominciare dal grano, dalla produzione del pesce salato, dalla produzione di vasellame, dalla coroplastica, dalla raffinata toreutica e dalla impareggiabile oreficeria. Una città modello soprattutto per le straordinarie architetture civili e militari di cui era dotata (in primis il Castello di Eurialo).

La Siracusa che commosse Marcello possedeva 27 chilometri 

di mura che le garantivano una formidabile difesa sia dalla parte 

del mare, sia da quelle di terra. Era chiamata anche la Pentapoli,

 

una città che comprendeva cinque grandi quartieri, che erano a loro volta delle vere e proprie città fortificate: l’Acradina, il quartiere posto al centro, il più grande e più popolato, tutto ruotante intorno alla grande Agorà attraversato da grandi strade rettilinee secondo il modello greco; la Neapoli, un quartiere monumentale dedicato al culto e allo spettacolo, con l’Anfiteatro, la Stoà, l’Ara di Ierone, il tempio di Apollo, il teatro lineare, e nelle vicinanze il tempio di Demetra e Kore; la Tyche (così denominato per la presenza di un tempio dedicato alla dea fortuna), un quartiere bagnato sulla sommità dal famoso torrente Timbri, un quartiere fornito di templi, ginnasio, torri e mura; poi l’Epipoli, che era un nuovo vasto quartiere inaccessibile dall’esterno, concepito per scopi militari e quindi poco popolato, interamente roccioso e a picco, anch’esso completamente circondato da possenti mura e torri; ed infine Ortigia, isola volgente verso terra con le sue mura turrite. Un quartiere che viveva avulso dal resto della città e che, secondo un antico giudizio, era al tempo stesso città forte, seggio di monarchi, luogo di traffici, ricovero di navi mercantili e da guerra, con un palazzo fortificato, sede del tiranno con la sua corte, un Athenaion, vasti granai fortificati, e un piccolo porto. Questa era la Siracusa del III secolo, la grande metropoli siceliota dove nacque e morì Archimede. Una città eccezionalmente fortificata e, prima dell’arrivo delle aquile romane, una delle poche città mai espugnate. Narrano gli annalisti che quando i Siracusani videro i Romani con la loro formidabile macchina da guerra investire la città dai due fronti rimasero storditi e ammutolirono di timore. Pensarono che nulla avrebbe potuto contrastare l’impeto di un attacco in forze di tali proporzioni. 

Secondo Tito Livio “la città sarebbe stata subito presa, 

se non vi fosse stato un sol uomo, Archimede, sopra ogni altro contemplatore del cielo e delle stelle, ma più meraviglioso 

inventore e costruttore di macchine guerresche e di ordegni, 

il quale distruggeva in un momento le faticose 

opere di offesa contro la città.


Le mura della città furono da lui fortificate in modo assai vario. Contro le navi più lontane, catapulte lanciavano pesanti pietre, contro le più vicine nugoli di frecce. Opportune feritoie nelle mura permettevano ai difensori di colpire senza essere feriti; uncini di ferro (la manus ferrea), legati da catene, afferravano le navi che si avvicinavano troppo alle mura, e le sconquassavano. Dalla parte più alta delle mura, enormi massi lanciati rotolavano con violenza lungo il pendio naturale delle colline esterne, contro gli assalitori”. Fonti più tarde attribuiscono ad Archimede anche l’invenzione degli specchi ustori, mediante i quali avrebbe incendiato molte navi romane che dal mare assediavano Siracusa. Specchi a parabola ove i raggi del sole, essenzialmente paralleli, si concentravano in un punto chiamato fuoco, e proiettavano con precisione il calore sul legno e sulle vele delle triremi. Racconta Plutarco che le macchine costruite da Archimede (tra cui la Coclea, una pompa a spirale per il sollevamento dell’acqua, dispositivo noto come vite di Archimede; o il Planetario, da lui creato con lo scopo di predire il moto apparente del sole, della luna e dei pianeti; o l’orologio ad acqua, frutto di studi di pneumatica antica) non costituivano per lui oggetto di profondo studio, ma egli si occupava di fabbricarle e studiarle per le insistenti richieste del re Gerone (suo parente), il quale lo aveva persuaso della necessità di volger la sua attenzione dalle cose speculative a quelle materiali, per i bisogni più concreti e più sentiti dalle moltitudini. 

 

Gerone aveva visto lungo, all’impressionante peso dei suoi scritti, che spaziano dalla geometria all’idrostatica, dall’ottica alla matematica, dall’idraulica all’ astronomia, fanno da contraltare le eccezionali intuizioni che, nel campo della tecnologia meccanica, ci consegnano Archimede come il genio assoluto e erga omnes l’inventore per antonomasia. 

Dopo ventitré secoli il nome di Archimede è sinonimo di invenzione e innovazione nel campo della produzione e del design.

L’elenco sarebbe lunghissimo, basti ricordare che, il 14 marzo si festeggia in tutto il mondo il PI greco day (il 3,14 dei paesi anglosassoni, conosciuto anche come costante di Archimede) ove vengono organizzati concorsi di matematica, un momento planetario in onore di Archimede, che viene citato e commemorato. Sempre in onore del nostro genio sono stati nominati sia il cratere lunare Archimede, che l’asteroide 3600 Archimede. Nella medaglia Fields, la massima onorificenza per matematici, in un verso della medaglia c’è il ritratto di Archimede con iscritta una frase a lui attribuita “Transire suum pectus mundoque potiri” (Elevarsi al di sopra di se stessi e conquistare il mondo). Nell’arte Archimede è stato onorato soprattutto da Raffaello nell’affresco vaticano della scuola di Atene, il divino pittore lo rappresenta intento a studiare la geometria, e le sue sembianze sono di Donato Bramante. Anche all’interno della colonna Traiana, costruita da Apollodoro di Damasco, la struttura ad elica dell’interno è visibilmente un preciso richiamo alla vite idraulica ideata da Archimede.

 

Nel corso della propria esistenza anche Leonardo da Vinci dimostrò più volte ammirazione per Archimede, soprattutto per le sue capacità di affrontare proficuamente problemi di statica e di geometria
da cui trarre applicazioni pratiche.

 

Leonardo lavorò a un particolare cannone a vapore (l’architronito) che attribuì al genio di Archimede. Anche Galileo cominciò molto presto a studiare Archimede, che definiva il suo maestro. Particolarmente apprezzati da Galileo furono i trattati “Sui galleggianti e Sull’equilibrio dei piani “. “Voi aspettate io invento; se c’è gente che proprio non sopporto sono gli inventori; il cliente ha sempre ragione” non sono motti del nostro genio siracusano ma di Archimede Pitagorico (Gyro Gearloose) un gallo con i piedi antropomorfizzati e con fattezze umane. Nato nel 1952 dalla penna di Carl Banks con le caratteristiche del nostro eroe, Archimede Pitagorico è un papero da laboratorio straordinariamente intelligente e creativo, che trascorre ore nella sua disordinata officina. Perennemente scapigliato, è apparentemente avulso delle cose terrene, ed è sempre circondato da fogli stracolmi di calcoli e geometrie, papiri da cui difficilmente si separa per distrarsi a parlare col prossimo. Nonostante tutte le stravaganze, l’amatissimo Archimede Pitagorico è destinato a non morire mai, a differenza di Archimede da Syrakousoi, a cui questo lato del carattere risultò fatale. 

 

Seguendo il racconto degli storici proviamo a immaginare 

i suoi ultimi momenti.

 

Siracusa era in festa per il giorno di Artemide quando le legioni di Marcello penetrarono nella città abbandonandosi al saccheggio. Un legionario romano entrò nella casa di Archimede, che probabilmente abitava nell’Acradina. La sua era una tipica casa siracusana del tipo a peristilio, con accesso sulla via principale, dotata di un corridoio d’ingresso che conduceva in un cortile intorno a cui erano disposte le camere. Penetrò in quella di Archimede, che nel frattempo non si era accorto che la città era caduta, con i Romani penetrati all’interno. Il soldato lo trovò con la barba folta, le sopracciglia contratte e la capigliatura scompigliata. Indossava un mantello ed era probabilmente chino su di un tavolo mentre studiava con in mano il suo bastone per tracciare figure. Il legionario gli si avvicinò ordinandogli più volte di seguirlo, ma Archimede lo ignorò completamente, provocando l’ira del soldato che con la daga lo trafisse sul posto.

 

Questa fu la fine di un uomo semplice e puro, con una straordinaria capacità di attenzione e di lavoro, uno spirito di concentrazione 

che spesso gli faceva dimenticare di mangiare, di dormire.

Che gli faceva trascurare la sua persona, a tal punto che si racconta che anche quando si ungeva il corpo con l’olio, con il dito vi conduceva linee e geometrie. Si dice che Marcello fosse afflitto per questa morte, allontanasse l’uccisore, facesse ricerca dei parenti di Archimede rendendo loro onore. Nel 75 a.C., Marco Tullio Cicerone, questore in Sicilia, cercò e scoperse la tomba di Archimede finita nel dimenticatoio, sulla lapide erano scolpiti un cilindro circoscritto ad una sfera con un iscrizione indicante il rapporto tra i volumi e le superfici dei due solidi.

ArchimedeMuore
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