LE PAROLE IN TERRA di Pier Franco Brandimarte – Numero 12 – Ottobre 2018

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LE PAROLE IN TERRA

 

quella dell’Abruzzo settentrionale dove il Tronto segna il confine e si sente l’influenza del piceno.

Tra i lemmi con la A c’è un verbo che si trova solo qui, arregnarsi, ed è significativo. Lo usavano un tempo i marchigiani, i papalini che scendevano a sud, che valicavano il fiume Tronto per raggiungere l’Abruzzo, la prima terra del Regno appunto, quello delle Due Sicilie. Un moto a luogo che per l’inimicizia degli schieramenti si trasformava in un principio bellicoso.

Arregnarsi vuol dire ancora adesso fare a botte, e lo usano da entrambe le sponde senza bisogno che nella zuffa siano coinvolti abruzzesi o marchigiani;


è sparita la connotazione geopolitica, resta solo la generica violenza. Io mi arregno, tu ti arregni, egli si arregna, etc, va bene con chiunque. 

 

Altra violenza, a colpi di verbi, senza spiegazioni: abberresà, scunecchijà, accìde. 

 

La scrèlla è un pezzo di legno, la screllata è il colpo dato con quello. Qualsiasi oggetto minimamente contundente, se si aggiunge –ata, si può dare in faccia a fare male.

 

Ricordarsi poi che morire è sempre riflessivo:

 

I’ m’mòre, tu t’muóre, etc: io mi muoro, tu ti muori. Morire in sé. Morire se stessi, spegnersi come averne avuto abbastanza. Togliersi di mezzo. À ssà muort. Si è morto. Chi l’ha ucciso? La morte. Lui stesso in quanto morte. Morire è diventare morte, farsi morte.

Da piccolo mi sembrava che nessuno, dalle mie parti, avesse troppa voglia di parlare, per quello che serviva bastavano quei cozzi circospetti di dialetto.

 

Bastava far rumore. Nonostante questo, nella normalità degli scambi, degli abbai, improvvisamente partivano ircocervi colorati, composti carnosi e filamentosi che solcavano le conversazioni, termini compatti e ramificati di nervi espressivi che non te ne dimenticavi più. Le parole lavorate da catene di bocche nei secoli e scagliate da certi vecchioni davanti al te stesso bambino.

Certi lemmi, come nomi di re babilonesi, dicevano le traiettorie: 

Nnammónde, lassù, verso il monte, Nabbàlle, verso valle.

 

I verbi che s’innestano nei tessuti del significato, che agucchiano e stringono l’uomo alla cosa: ficcare, incantare, ingannare:’ngarrà,’ngandà, ngannà: morsi, risparmio e sfinimento. Le parole andavano in terra, rimbalzavano per aria. 

 

Rivedo le persone pancitare dopo il pranzo, nel sopore digestivo. Il pancito, pangetà, lo sbadiglio inteso come un palpito dello stomaco. E nelle notti una membrana malefica si stendeva sul respiro: sognavi di annegare, di non tornare più alla superficie

Era la sensazione di sprofondare in una melma, il fondale del lago, 

un pantano, la pandàfeca si diceva, ti è venuta la pandàfeca

 

– il dizionario riporta la credenza che la pandàfeca fosse la molestia di uno spettro scontento. La pandàfeca risaliva da secoli di paludi malariche dove sciami di moscerini scurivano le sponde dei fiumi e dei fossi, nei miasmi. La terra è il fantasma che uccide. L’erosione, i disgeli, le piogge abbondanti in primavera, calcando con le suole la terra si strizza e sforma come una spugna, ne vengono riccioli e bollicine tutt’intorno, si fatica a camminare.

Ci si impantana lavorando sulla M, ‘mbandanà, le aferesi che impastano le parole lavorano di N e di M: ‘mbana, impanare, ‘ndògne, intingere – 

le lettere imbibite nel brodo del complemento.

 

Si veniva a messa dai campi con le scarpe in collo per evitare si sporcassero, alla fontanella della piazza ci si limpiava e calzava. Era tutta terra qua. Una frase nostalgica e pubblicitaria. Ma la pubblicità è sempre pulita mentre il dialetto, in sostanza, è uno sporco che gronda, sono brocche di metallo che cadono nella terra continuamente fangosa e sollevano schizzi e cimurri. E anche le bocche si gettano in terra, e le parole rimbalzano in aria: lu zalluócche, lu ciuótte, lu ciuóppe, lu ciùnghe… 

 

…La ciùta è il sesso della femmina, più conosciuta come fregna, terra madre, regina delle melme, che è come dire un fico maturo spiccato che precipita nel piatto bianco squacquerandosi, sugoso. Mentre da piccoli la si chiamava mozza, paritaria, rispetto al corrispondente membro maschile, nel numero di lettere e nella doppia zeta puntuta, ma la seconda gregaria del primo;

il primo aggressivo con le zeta che tagliano l’aria rapaci; la seconda invece ferita, mancante, mozzata, tranciata del qualcosa originario,

 

come fosse inferiore, come fosse un’invidia del pene. Anche le persone e le cose sono fregne, come nell’italiano vale l’uso di fico e fica, una cosa fica, una persona fica, un fico una fica, un fregno una fregna. La fregnaccia è sempre una cazzata. 

 

E il corpo, altro corpo, sempre caricato, pesante, deforme, animato: la varvaiòzza, ad esempio, è un doppio mento colante, lievito madre di carne, che non finisce mai come fosse l’impasto per un dolce o la massa per gli gnocchi che ognuno, corpulento, si porta addosso.

Terra di morchie, metalli cavi e violenza, terra di allegrie, spiriti e penitenza.

 

(In casa ti possono entrare: streghe, gattimammoni, mazzamarielli, e Sant’Antonio l’eremita.)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Torre di Montone

a Vinicio Ciafrè, poeta del Vibrata

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1 – Il dizionario a cui si fa riferimento è l’opera di V. Ciafrè, Dizionario del dialetto neretese, Artemia edizioni, Mosciano S. Angelo, 2010

 

IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI di Francesco Avolio – Numero 12 – Ottobre 2018

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IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE        E DIALETTI

Parte I

 

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In quasi centosessant’anni di vita unitaria del Paese, sui dialetti sono state dette davvero molte cose, qualche volta giuste, non di rado errate, altre volte, inevitabilmente, in contraddizione fra loro.

Qui possiamo ricordarne almeno una: i dialetti non sono lingue “minori”, bensì “piccole lingue”. La differenza è sottile, ma fondamentale: se infatti le lingue “minori” sarebbero varietà linguistiche di prestigio e valore più basso rispetto ad altre (ad esempio nei confronti delle grandi lingue nazionali), le “piccole lingue” sono invece tali semplicemente perché spesso parlate, ancora oggi, da piccole comunità (ma anche in parecchie città importanti come Napoli, Bari, Palermo, Catania, Cagliari, e, fuori del Mezzogiorno, Roma, Venezia, Trieste ecc.).

Lingue sono, però, e non altro, anche se possono sembrare votate 

ad un destino davvero strano:


da un lato sono infatti esaltate, mitizzate e (spesso senza che ve ne siano validi motivi) rimpiante nostalgicamente; dall’altro derise o disprezzate, e lasciate a lungo fuori dalla porta della scuola e perfino dell’università. Inoltre, queste lingue hanno espresso, per un lunghissimo arco di tempo, ed esprimono in parte ancora oggi, il patrimonio culturale, antropologico, delle comunità che le parlano, cioè quel vasto insieme di esperienze e conoscenze che va spesso sotto il nome di “tradizione popolare” o “cultura popolare”. Le radici profonde dei nostri dialetti sono, come per l’italiano e le altre lingue neolatine o romanze, nel latino parlato.

Si tratta, quindi, non di “figli” dell’italiano stesso, cioè di derivazioni, 

magari “scorrette” (come in molti ancora credono), 

della lingua comune, bensì di suoi “fratelli”, meno fortunati:


tutti hanno il medesimo genitore, vale a dire il latino che era in uso, sia prima di Cristo sia in epoche più tarde, fra le classi popolari di Roma e dell’Italia, con diverse innovazioni, ma anche con parecchi tratti arcaici, a volte risalenti alle tante lingue sulle quali il latino stesso, nel corso della sua lunga espansione, si era sovrapposto (osco, greco, etrusco, celtico ecc., dette tecnicamente lingue di sostrato), nonché con prestiti da quelle entrate in Italia dopo la caduta dell’Impero romano (gotico, longobardo, arabo, dette lingue di superstrato) e in epoca medievale e moderna (provenzale, francese antico e moderno, spagnolo ecc.).

Se si vuole, dunque, i nostri dialetti sono, a pieno titolo, lingue “neolatine” 

o “romanze” proprio come il francese, lo spagnolo, il portoghese o il rumeno

 

l’unica, vera differenza sta nel fatto che queste ultime sono diventate, a un certo punto della loro storia, e con motivazioni e dinamiche diverse da caso a caso, delle varietà a diffusione sempre più ampia, fino a caratterizzarsi per una chiara dimensione nazionale, ufficiale e letteraria. Un’immagine molto fortunata, e da attribuire probabilmente al linguista Max Weinreich (1894-1969), è quella secondo cui, a ben guardare, “una lingua è un dialetto con un esercito e una marina”.

Ma quanti sono i dialetti in Italia? Per strano che possa sembrare, 

è presso che impossibile rispondere a questa domanda:

 

i nostri comuni sono in tutto 8057, ma non è affatto raro il caso in cui il capoluogo comunale possieda una parlata anche molto diversa da quella delle sue frazioni (basti qui ricordare gli esempi di città e cittadine del Centro-Sud come L’Aquila, Pescara, Caserta, Potenza ecc., nonché di moltissimi comuni minori). Ciò fa così innalzare, e di molto, la cifra complessiva, senza nemmeno prendere in considerazione altri fenomeni, antichi e recenti, di variazione interna ai singoli centri abitati (dialetti dei contadini e dialetti dei pastori, dialetti dei pescatori e parlate degli artigiani ecc., che non di rado, infatti, convivevano e convivono in una stessa comunità).

Le “Indie (linguistiche) di quaggiù”?


La nota definizione che dell’Italia meridionale diedero i Gesuiti nel XVI secolo (le “Indie di quaggiù”, appunto), in seguito al rivelarsi di remoti universi contadini nei quali era più che urgente, nella loro prospettiva, l’opera di evangelizzazione – definizione che è stata poi ripresa negli anni Settanta, come titolo di una bella serie documentaristica trasmessa dalla RAI, e, più di recente, con finalità diverse, da alcuni antropologi (Francesco Faeta nel 1996, Gianluca Sciannameo nel 2006) e storici (Giuseppe Maria Viscardi nel 2005) -, sembrerebbe poter essere riutilizzata in riferimento non solo alle tradizioni popolari, e segnatamente a quelle religiose e magico-rituali, ma anche relativamente ai dialetti e alle “tradizioni linguistiche”. Il Sud, cioè, si mostrerebbe a tutta prima – agli occhi del non esperto di cose di lingua – come una sorta di gigantesco serbatoio di arcaismi, a cui attingere in una sorta di affannosa risalita verso le fasi linguistiche più antiche della nostra Penisola. 

 

Non si tratta di un’immagine del tutto falsa, ma è certamente parziale.

Proprio la dialettica conservazione/innovazione o, se si vuole, continuità/mutamento rappresenta infatti una delle prospettive più efficaci e interessanti

nello studio della fisionomia linguistica delle regioni meridionali,


e ciò fondamentalmente perché esse non sono state quasi mai un mondo chiuso, sordo alle innovazioni, isolato dalle principali correnti linguistico-culturali: “uno dei caratteri storico-geografici più salienti del Mezzogiorno è quello di essere, oltre che un paese stretto, un paese aperto, tale sia verso il continente europeo attraverso gli Appennini, sia, soprattutto, verso il Mediterraneo […]. Lungi dall’essere un elemento riduttivo o addirittura negativo, come molto spesso è stato valutato, l’apertura del Mezzogiorno ai più vari apporti esterni ha dato respiro mediterraneo ed europeo alla sua storia e ne ha arricchito culturalmente ed antropologicamente le strutture umane”1.

Non solo quindi, luogo di perturbante arcaicità, in un rapporto 

poco dialettico con il resto dell’Italia, del Mediterraneo e dell’Europa, 

ma soprattutto terra di numerosi e profondi contatti, intrecci 

e anche conflitti linguistico-cultural


(in cui l’arcaismo non è certo assente, ma non è il solo elemento in gioco), che non sono visibili solo nelle pur cospicue tracce lessicali lasciate dalle numerose dominazioni straniere – come si dice e si scrive di solito –, ma riscontrabili un po’ in tutti gli aspetti dell’espressione linguistica, dal lessico alla fonetica, dalla grammatica (morfologia) alla sintassi, e non riguardano unicamente francese, spagnolo, greco o arabo (cioè le lingue più blasonate e, quindi, nobilitanti). 

 

È proprio questo che, in diverse puntate, cercheremo di vedere un po’ più da vicino. 

 

(Segue)

 

 

 

 

 

 

 

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1 – F. Barra, Il Mezzogiorno nelle relazioni internazionali, in G. Galasso, R. Romeo (a cura di), Storia del Mezzogiorno, vol. IX, Aspetti e problemi del Medioevo e dell’età moderna, Tomo 2, Napoli, Edizioni del Sole, 1992, p. 162)

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La copertina del Dizionario Dialettale delle Tre Calabrie di Gerhard Rohlfs, fra le principali opere dialettologiche del Novecento, che mette subito in relazione fatti dialettali e tradizioni popolari (nello specifico, i costumi tradizionali maschili della Calabria ultra, a sin., e della Calabria citra, a destra).

La “lotta” tra forme conservative (derivate dal lat. cras) e forme innovative riguardanti la parola ‘domani’ nei dialetti dell’Italia centro-meridionale (Carta 347 dell’ Atlante linguistico e etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale, in sigla AIS, versione on line predisposta dall’ ing. G. Tisato dell’ISTC di Padova).

 

GARGANO ANNO 1000 di Menuccia Fontana – Numero 12 – Ottobre 2018

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GARGANO ANNO 1000

 

Pietro II Orseolo, il 26 maggio, partiva a vele spiegate, al comando della Flotta “Velis Libratis”, per Parenzo, Pola, Zara che saranno le tappe di una marcia trionfale.

A Spalato è accolto con onore ma il suo obiettivo è venire a patti con quelle genti slave che un tempo gli erano ostili. Dopo uno scontro durissimo ne esce vittorioso, la flotta Venetica torna alla base e l’Orseolo potrà assumere il titolo di doge dei Venetici e dei Dalmati.

Ed è in questa veste che nell’anno 1002 al comando della flotta Veneta 

si dirige e approda sulle coste del Gargano.


Ma non è questa la meta, la spedizione è diretta a Bari, la città assediata dai Saraceni da terra e da mare. È il 3 settembre del 1002, la flotta va verso il Gargano, il promontorio dalla morfologia tormentata, “l’isola che non c’è”. 

Li accoglie una luce abbagliante, le case bianche, e un mare che ha già il colore di un autunno alle porte, un Adriatico calmo in cui si riflettono le verdi pinete che lo circondano.

A poca distanza dalla città di Vieste c’è una piccola isola che non ha 

neanche un nome, la si indica come “l’isolotto del faro”; 


sull’isola c’è una grotta (luogo di culto della Venere Sosandra dal III secolo Avanti Cristo); bisogna fermarsi, Bari è lontana, ed è qui che i Veneziani lasciano una splendida testimonianza, non inedita ma ignorata anche dalla storiografia Veneziana. 

 

La grotta (magazzino per i fanalisti) conserva molte iscrizioni graffite, questo il testo dell’epigrafe, tradotta dal latino, che ricorda il passaggio della flotta veneta:

“In nome di Dio e del Salvatore Nostro Gesù Cristo, nell’anno 1002 dall’incoronazione, nel mese di settembre il giorno 3 nell’indizione prima, 

entrò in questo porto il signore Pietro doge dei Veneti e dei Dalmatici, 

con cento navi pronto alla guerra contro i Saraceni che assediavano Bari”.


La testimonianza già piena di orgoglio in quel primo passaggio fu poi completata (dalla stessa mano?) al momento del ritorno della flotta verso Venezia con una precisazione:

“il Doge combatté con loro alcuni li uccisero, altri li misero in fuga”.  


La città di Bari non ha dimenticato e ricorda l’avvenimento con una festa popolare – “Vidua Vidue” – di saluto a Venezia. Tutta la storia della Puglia conduce al mare, il mare è la sua vita, la sua ricchezza, la sua religione, anche i suoi santi vengono dal mare. Come ha detto Giovanni Macchia (francesista pugliese), “una dolce ansietà di Oriente si scopre sulle sue coste.” È uno scrigno che ancora nasconde piccoli tesori, a svelarli sarà “la Puglia illuminista” per farne dono a questa terra così bella che dimentica il passato. La storia si può nascondere anche su un piccolo isolotto al largo di Vieste ma è un nostro dovere civico renderla un “libro aperto” su cui si possa leggere.

 

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DEL DIVARIO NORD SUD E ALTRO di Tommaso Russo – Numero 12 – Ottobre 2018

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DEL DIVARIO NORD SUD e altro

 

Forse perché sorvegliato dai toni ufficiali di una certa storiografia delle ricorrenze, il dibattito sull’Unificazione, svoltosi nei dintorni del 150°, ha affrontato in modo sommario alcuni capitoli della storia nazionale come le coppie Risorgimento e Mezzogiorno, Stato e Mezzogiorno. Si deve a un gruppo di studiosi se quei nuclei tematici sono stati oggetto di una vivace discussione in casa Clio di cui qui se ne offre una sintesi.

 

Tra storici, economisti storici, storici economici, in molti hanno partecipato. Primo argomento affrontato è stato l’avvio del divario. Giuseppe Galasso colloca la “bipartizione dell’Italia” alla discesa, nel 568, dei Longobardi che si spinsero fino in Campania creando un principato autonomo tra Benevento e Salerno. Per secoli, si seguirono nella Penisola dinastie diverse e solo l’unificazione “porrà termine tredici secoli dopo” a quella divisione. 

 

Infatti è quell’esito con le sue conseguenze a riproporre la domanda sulla genesi del divario e a caratterizzare i contenuti della polemica.

 

In un suo pamphlet ricco di dati, cifre, report e stime, Emanuele Felice 

sente l’esigenza: di fornire una narrazione veritiera sul divario, l’origine, 

le cause; di illustrare le tesi assolutorie e accusatorie per l’agire pubblico 

dei meridionali, in particolare per i gruppi dominanti;

 

di polemizzare con Vittorio Daniele e Paolo Malanima: con i loro scritti hanno fatto da grancassa ai neoborbonici. In altra sede successiva, la risposta non si è fatta attendere. Entrambi, rigettando l’accusa di essere criptoborbonici, hanno sottolineato la conformità dei loro dati a quelli del collega. La differenza è nella data di origine. Per Felice non va ricondotta all’evento unitario, alla politica della Destra, alla presunta inferiorità dei meridionali. Nel crocevia unitario, sostiene, i ceti dominanti indigeni, «una minoranza privilegiata», scelsero la via della rendita. Sembra, però, il caso di aggiungere che all’appuntamento unitario le elites meridionali giunsero prive di un programma politico e, quindi, senza possibilità di negoziare con quelle piemontesi. 

 

Invece, Daniele e Malanima spostano agli ultimi decenni dell’800 la genesi del divario, allorquando l’Italia si incammina sulla strada dell’industrializzazione. Qui, par di capire che, in quel torno di anni, si esaurirono gli effetti benefici del corredo portato in dote dal regno delle Due Sicilie allo Stato nascente; che il ceto politico nazionale non fu in grado di elaborare un programma di sviluppo generale del Paese, ma solo un piano di lavori pubblici e di interventi in funzione anticiclica a sostegno dei settori industriali in ascesa. 

 

Studiosi come Stefano Fenoaltea, Giovanni Vecchi et alii, con i loro calcoli, stimano che l’«effetto unificazione» non fu destabilizzante per il Sud. Nei decenni centrali dell’800 partecipò del più generale trend del Paese. Ai loro occhi la questione non è la distanza fra le due parti, ma quella «tra l’Italia e i paesi progrediti dell’Europa». Si può aggiungere che quando l’Italia, alla fine dell’800, comincia a entrare nel novero dei paesi industrializzati, per reggerne l’urto sceglie una doppia velocità, sacrificando quella parte di territorio che nel frattempo si era indebolita. 

 

Salvatore Lupo partecipa al dibattito riprospettando talune riflessioni dell’esperienza della rivista Meridiana. Si tratta di punti chiave: la diversità tra storia del Mezzogiorno e questione meridionale; la differenza tra questione sociale e questione meridionale (gramscianamente intesa); la necessità di «liberare la storia del Mezzogiorno dagli stereotipi»; infine, la tesi che «il Mezzogiorno tra momenti di divergenza e convergenza col Settentrione», in 150 anni, ha partecipato allo sviluppo italiano «nel suo complesso». Vale a dire una forte attenuazione del dualismo e delle differenze fra le zone del Paese, tanto da far scomparire la questione meridionale. 

 

Ciò, a suo tempo, suscitò l’ira di Galasso e di settori della storiografia gramsciana. 

 

Renata De Lorenzo, recuperando il nocciolo della riflessione di Galasso, ha confermato che tra le due parti del Paese la differenza esisteva già nei decenni preunitari. 

 

Pier Luigi Ciocca ha aperto un nuovo cantiere di scavo. Attiene al binomio agricoltura-grande brigantaggio. Ovvero, ai danni da questo apportati a quel comparto produttivo con le sue azioni: abigeato, incendi di raccolti, di stalle e masserie, distruzione di vigneti e colture arborree (noccioleti, uliveti, agrumeti…). Quanti anni necessitarono, si chiede lo studioso, per ricostituire intero quel patrimonio agro-pastorale? Questa domanda ha senso se si considera anche il suo rovescio. Quale fu il volume del danno procurato dalla legislazione speciale, legge Pica in primis, sul mercato tra città e campagne meridionali? Anche questo è un laboratorio da esplorare. 

 

Altre suggestioni si configurano ma qui possono essere elencate solo come titoli per capitoli di ulteriori indagini. Si tratta, infatti, della nascita del pre-giudizio antimeridionale; della diacronia tra costruzione dello Stato (State building) e formazione della Nazione (Nation building); dell’esigenza di definire il grande brigantaggio come lotta di classe o moto demanialista, scontro legittimista o guerra civile o combinazione di alcune tra queste determinazioni. Di certo, non fu una jacquerie.

Il Pil come indicatore di sviluppo di una comunità non sempre ne misura i contenuti 

in modo reale e veritiero. E se ciò vale per il ‘900, è d’obbligo la prudenza per l’800 meridionale, preunitario, per il quale necessitano altri indici per capire 

il più vasto dei Regni italiani usciti dal congresso di Vienna.


Con la Prammatica De Regimine studiorum (1770) Ferdinando IV, sottraendolo ai Gesuiti, istituisce un nuovo sistema scolastico pubblico, statale e laico. Tra cambiamenti e continuità è durato fino al 1860 in quanto era chiaro il modello di società che rifletteva o che doveva riprodurre. 

 

1811: Murat perfeziona l’impianto ferdinandeo con un Decreto organico. 1816: il restaurato borbone lo assume con qualche modifica negli Statuti per i Reali Collegi e Licei. Viene così a configurarsi un sistema di educazione e istruzione in grado di reggere il confronto con altri apparati istruttivi europei e con quello del Lombardo-veneto, ritenuto il migliore. 

 

Un altro cammeo fu la Reale Scuola per gli ingegneri di Ponti e Strade, Acque, Foreste e Pesca diretta da Carlo Afan de Rivera. Nacque durante il Decennio francese; quindi, prima della milanese Società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri (SIAM) sorta, nel 1838, per volontà di Enrico Mylius.

La Scuola napoletana si distinse in tutta Europa per il suo know-how scientifico 

e tecnologico; per la buona pratica didattica di inviare in Francia, Inghilterra, Germania, Russia propri studenti e docenti a fare esperienze. 

Valeva anche il cammino inverso.


Numerosi furono docenti e studenti europei che vennero nel Regno, per esempio, a studiare il ponte di ferro a catene sospese sul fiume Garigliano e poi quello sul fiume Calore progettati dall’ing. lucano Luigi Giura e ancora funzionanti. 

 

Nel decennio 1830-40, le Società economiche, in specie quelle di Basilicata, Salerno, Terra di Lavoro, svolsero una meritoria azione di: divulgazione di nuovi criteri di coltivazione, diffusione dell’istruzione agraria, inviti all’associazionismo. 

 

Nei decenni preunitari l’istruzione nell’arte del mare, di antica tradizione, pur tra difficoltà finanziarie e organizzative, dette vita a un prestigioso sistema formativo. I due convitti di San Giuseppe a Chiaia e del Carminiello al Mercato, istituiti per ospitare gli orfani dei marinai, affrontando un cammino non semplice, riuscirono, nel 1818, a trasformarsi in collegio dei Pilotini e poi a trasferirsi a Meta di Sorrento. Ciò che ne aveva promosso il successo era una doppia convinzione: la formazione unitaria degli addetti alla marina militare e a quella mercantile; la considerazione del mare, il Mediterraneo, come asse centrale dell’economia del Regno. 

 

Con quanto detto non si intende esaurire il vasto panorama istituzionale del Mezzogiorno preunitario. Tutto ciò non comporta una rappresentazione autoconsolatoria ora per allora; né mette capo a una beatitudo temporum. Al contrario. Quelle istituzioni sono gli indici che invitano a una diversa interpretazione. Sono un universo di saperi. Il loro tratto di modernità consiste nell’essere una risorsa unitaria e immateriale con riflessi sullo sviluppo complessivo. La Scuola di Ponti e Strade aveva una visione olistica della natura. I licei avevano un doppio percorso istruttivo. Gli studenti imparavano le materie comuni e anche quelle di indirizzo: agraria, giurisprudenza, medicina.

La sintesi tra saperi di cui quel sistema era depositario dette vita all’unità tra storia 

e natura, tra civiltà e cultura. Solo una facile propaganda, a la lord Gladestone, 

o una storiografia interessata, hanno potuto svillaneggiare o passare sotto silenzio questo corredo di lunga durata portato in dote alla nuova Italia.


L’andamento del divario non è mai stato lineare. Comincia a crescere negli ultimi decenni tra ‘800 e ‘900. Continua negli anni della grande guerra. Aumenta durante il fascismo con la crisi del ’29 e la politica autarchica. Non accenna a diminuire negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto. La risalita comincerà negli anni della ricostruzione e del boom economico, quando lo Stato col suo intervento avvierà un circolo virtuoso. 

 

Già agli inizi del ‘900, con la legislazione d’emergenza (1904-06), lo Stato intervenne in alcune regioni meridionali. La mancanza però di una idea di pianificazione delle risorse rese quell’intervento parziale.

 

Anche il progetto elettro-irriguo di Nitti affidava allo Stato un ruolo centrale. 

 

Bisognerà attendere il secondo dopo guerra quando un gruppo di tecnocrati di formazione nittiana, passati indenni dal fascismo alla Repubblica, muterà la direzione dell’intervento nel Mezzogiorno. Le risorse saranno finalizzate all’infrastrutturazione come primo passo per l’industrializzazione in una logica di complementarietà e di unificazione del mercato. Le due parti del Paese dovevano unificarsi con un piano di sviluppo generale raccolto in una grande produzione legislativa: il piano INA-CASE, la Cassa per il Mezzogiorno, la riforma stralcio con l’intento di costruire il “sistema Italia”: almeno nelle intenzioni. Lo Stato aveva una funzione regolativa non sostitutiva del mercato. Anche i grandi flussi migratori parteciparono, a loro modo, a questo progetto di unificazione. Questa stagione irripetibile,1947-1952, dispiegherà i suoi effetti positivi fin verso il 1964 dando tangibili segnali di diminuzione del divario.

Gli anni ’50, inoltre, fanno registrare nel Mezzogiorno una interessante fioritura: 

case editrici, giornali, riviste, circoli culturali. In una parola: da un lato gli intellettuali riscoprono la loro funzione civile nel conio di una nuova mediazione fra gruppi sociali e Stato e fra questo e la comunità locali; dall’altro lato la vivacità di quegli anni 

vive senza contributi pubblici ma sull’entusiasmo e sulla passione civile 

che era riuscita a suscitare.


Il decennio 1950-60 costituisce, dunque, un momento alto nella vita del Mezzogiorno durante il quale questa parte del Paese ripropone la sua offerta immateriale alla direzione dello Stato con figure giuridiche, amministrative, direttive come era stato in precedenza. Tutto ciò necessita della riemersione critica di vecchi e nuovi contenuti, noti o meno, e di una diversa interpretazione pena un divario irrecuperabile. Non solo economico.

 

 

 

 

Del divario nord sud
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  Bibliografia 

 

Daniele, V.-Malanima, P. Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011, Rubettino, 2011 

 

De Matteo, L. Una “economia “alle strette” nel Mediterraneo. Modelli di sviluppo, imprese e imprenditori a Napoli e nel Mezzogiorno nell’Ottocento, ESI, 2013 

 

Felice, E. Perché il Sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013 

 

Galasso, G. (a c. di) Alle origini del dualismo italiano. Regno di Sicilia e Italia Centro-Settentrionale dagli Altavilla agli Angiò (1100-1350), Rubettino, 2014 

 

Giannola, A. Mezzogiorno oggi: una sfida italiana, in Cassese, S. (a c.di), Lezioni sul meridionalismo, Il Mulino, 2016.

 

A NAPOLI LA MAGIA DELLA MUSICA di Stefania Conti – Numero 12 – Ottobre 2018

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A napoli la MAGIA DELLA MUSICA

 

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Un posto dove i suoni si accavallano, ma non è mai cacofonia. Entrare qui è come entrare in un mondo avvolto nella magia.

La magia della musica. Si chiama S. Pietro a Majella, è l’antico conservatorio. Ma non solo: è un museo, un archivio, un insieme unico al mondo per varietà e preziosità di strumenti musicali, partiture, quadri, testimonianze.

Complessivamente cinque secoli di formazione musicale, nello scorrere
dei quali 
si è formato un numero elevatissimo di eccellenti compositori 

che portarono lo stile napoletano nelle corti di tutta Europa.


Tanto che lo scrittore e politico francese Brosses nel 1739 definisce la città partenopea, la capitale mondiale della musica. In effetti lo era. Mozart venne ad ascoltare il compositore napoletano Jommelli e l’ex direttrice del conservatorio, Elsa Evangelista, ci racconta di una lettera del grande musicista al padre, in cui gli dice che un concerto a Napoli vale dieci concerti in Austria. Ma qui sono passati anche Wagner e Donizetti, Mercadante, Bellini, Verdi. E tanti tanti altri. Per i nostri giorni, un nome su tutti: Riccardo Muti, allievo di S. Pietro a Majella che gli ha dedicato una sala, da lui stesso inaugurata.

 

La storia di questo conservatorio vale la pena di essere raccontata. La scuola in quanto tale nasce nel 1808, ma tutto comincia nel 1500, come dimostra un antico documento custodito nell’archivio.

 

A Napoli esistevano allora quattro orfanatrofi nei quali si era cominciato a insegnare catechismo e canto. Piano piano il canto diventa più importante

 

perché i pii istituti scoprono che gli orfanelli con una bella voce sono sempre più richiesti per i cori nelle chiese e nelle ricorrenze religiose e poi, con il passare del tempo, anche nelle feste dei nobili. Era diventato di gran moda esibire queste voci bianche nei salotti. Naturalmente gli orfanotrofi si facevano pagare per queste prestazioni. E la parte musicale diventa preponderante, trasformando così i brefotrofi in conservatori. Non solo conservatori. Masina Boccia, dirigente dell’archivio, ci spiega che erano vere e proprie aziende musicali, ricchissime perché gestivano un patrimonio immenso grazie a lasciti e testamenti, come si usava fare con le opere di beneficienza.

 

I prelati erano precisi e ordinati, scrivevano e catalogavano tutto, e ci hanno lasciato un patrimonio di documenti attraverso il quale è possibile ricostruire
la storia dell’insegnamento musicale dal ‘600 ad oggi.

 

E anche questa è una particolarità di S. Pietro a Majella. Infatti non c’è studioso, ricercatore o semplice appassionato che qui non abbia trovato cibo per la sua anima. I quattro brefotrofi nell’800 borbonico vengono unificati e si comincia anche a conservare gli strumenti più importanti o appartenuti ai grandi compositori. Nasce così un museo, piccolo, ma ricchissimo. C’è, per esempio, l’arpetta di Stradivari – noto per i suoi sublimi violini – un pezzo unico al mondo. C’è il fortepiano di Cimarosa, un prezioso calamaio di Scarlatti, una mandola della prima metà del XVIII secolo. C’è il cembalo donato dalla zarina Caterina seconda di Russia a Paisiello, un musicista di scuola napoletana amatissimo all’estero. Questo cembalo, oltre ad avere un valore storico, è particolare perché da un lato è strumento musicale, dal lato opposto – aprendo una specie di coperchio – diventa una sorta di scrittoio.   

 

Può bastare? No, perché qui ci sono anche le partiture originali dei grandi della musica:

studenti e docenti avevano l’obbligo di lasciare le loro composizioni presso la scuola. Stiamo parlando di Paisiello che è stato il primo direttore, 

Pergolesi, Donizetti, Cimarosa, Mercadante.

 

Per il gusto degli appassionati segnaliamo che sono conservati anche gli autografi di questi grandi, ritratti e alcune foto degli alunni eccellenti e non, di ieri e di oggi. Tracce di uno straordinario passato, messaggi per uno straordinario presente.

 

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NICOLA PECCHENEDDA DA POLLA di Nadia Parlante – Numero 12 – Ottobre 2018

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NICOLA PECCHENEDDA  DA POLLA

 

 

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Soprattutto autentica, efficace, comunicativa. Un “corpus” di opere davvero immenso quello dell’artista di Polla, non ancora definitivo che, di anno in anno, si arricchisce di nuove scoperte autografe, come le splendide Nozze di Cana e La Piscina Probatica, forse bozzetti per opere di maggiori dimensioni, rintracciate in una collezione privata fiorentina.

Dalla natia Polla, nel salernitano, Nicola Peccheneda di strada ne aveva fatta tanta.


Le modeste commissioni di paese, poi la decisione maturata in famiglia di andare a Napoli a perfezionarsi nell’arte della pittura e del disegno in qualche bottega importante. 

 

Nella capitale del Regno dei Borbone si era trasferito da tempo suo fratello Francesco, esperto giureconsulto che non tarderà ad inserirsi nell’ambiente cortese, uomo stimatissimo dallo stesso sovrano tanto da essere promosso, anni dopo, all’ambita carica di segretario della Real Camera di Santa Chiara e caporuota. Mastro Carlo “fabricatore”, il padre di entrambi, aveva messo su un’impresa edile di tutto rispetto che l’arte di Nicola, una volta rientrato al paese, avrebbe impreziosito con il suo operato.

E così fu. Una famiglia, quella dei Peccheneda di Polla, di “mastri” muratori, 

artigiani sapienti e operosi che in maniera capillare, ha lavorato 

sinergicamente tra Basilicata e Campania,.

 

supportata dall’opera talentuosa di Nicola, che nelle chiese realizzate dall’impresa paterna e in molte altre, ha lasciato dipinti e ampi cicli pittorici distintivi per originalità e fattura. 

 

Polla, Atena Lucana, Sant’Arsenio, Padula, Caggiano, Sassano, Vibonati, Buccino, Altavilla Silentina, Petina, Giffoni Valle Piana, Marcianise (CE), senza escludere le molteplici commissioni lucane: Melfi, Marsiconuovo, Brindisi di Montagna, Picerno, Brienza… Non si contano poi le opere distrutte o disperse.

 

I primi studi sull’artista e la sua bottega, effettuati dagli studiosi Vittorio Bracco 

e Antonella Cucciniello, sono stati favoriti dalla riscoperta e dalla necessità 

di catalogare l’immenso patrimonio artistico ferito dal sisma del 1980

 

ed hanno fatto luce su una vicenda esistenziale e artistica tutt’altro marginale della pittura devozionale campana del XVIII secolo, favorendo la valorizzazione, il restauro e la giusta ricollocazione storico-critica delle sue opere, che si va ulteriormente arricchendo ma certamente non può ancora dirsi conclusa. I notevoli apporti documentari degli ultimi venti anni, hanno tracciato un profilo meno incerto della sua attività artistica e quella della fiorente impresa edile familiare, che tuttavia andrà ulteriormente indagata, soprattutto per quanto riguarda il periodo della formazione napoletana, ancora piuttosto lacunoso di informazioni. 

 

Il pittore, che si era formato nell’ambito della cultura raffinata della capitale del Regno, allora all’apice di una stagione artistica senza precedenti, pur avendo la possibilità di inserirsi nell’entourage cortese napoletano, scelse la periferia come luogo di vita e di lavoro, riuscendo ad “importare” i fortunati modelli napoletani di matrice solimenesco-demuriana, innestandoli in un linguaggio personale e distintivo, senza mai perdere il senso di una coerenza stilistica che rimane sostanzialmente fedele a se stessa.

Tale formula espressiva conciliò le esigenze devozionali del popolo 

e quelle della committenza, assicurandogli molto lavoro

 

senza tuttavia negare al pittore una certa libertà personale e la possibilità di realizzare le sue aspirazioni sociali, spiccatamente antibaronali, che gli aprirono anche le porte della politica. Una vicenda singolare quella dei due Peccheneda, l’artista e l’avvocato, i fratelli di Polla che, grazie alla loro intraprendenza e capacità, riuscirono a superare le barriere sociali della loro umile nascita e a guadagnarsi l’ammirazione dei contemporanei e la considerazione dei posteri, ponendosi a modello di quella nuova borghesia che faticosamente tentava di emergere dal mai sopito strapotere feudale, e proprio al culmine del secolo dei Lumi, ribadiva attraverso la forza delle idee e dell’arte, l’inesauribile e sapiente vivacità creativa e intellettuale della periferia.

 

 

Quello di Nicola Peccheneda è un linguaggio pittorico inconfondibile, ricercato e contemplativo che, dopo quasi tre secoli, riesce ancora a coinvolgere chi entra nelle chiese della Basilicata e del Vallo di Diano e a trasportarlo in un’atmosfera velata, plasmata da una devozione dai toni classici, aulica e popolare allo stesso tempo.

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ALESSANO, LA PIAZZA DEI DUE CASTELLI di Giusto Puri Purini – Numero 12 – Ottobre 2018

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ALESSANO,  LA PIAZZA dei due castelli 

 

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importante borgo del sud Salento, chiamato Messapia dai Greci, “terra fra i due mari”, non si può prescindere da un balzo a ritroso nella storia tumultuosa della penisola salentina, protesa nel Mediterraneo e terra di approdo per tanti naviganti, lontana dai condizionamenti dei grandi centri urbani di allora, Roma, Sparta, Atene.

Vennero dall’Oriente i Messapi e gli Spartani, che occuparono le terre dei Dauni 

e dei Pucezi dando inizio ad una rivalità secolare, narrata da Erodoto, 

che non finiremo mai di ringraziare per le sue cronache 

puntuali e precise.


In molti dei miei viaggi ho seguito con cura i suoi racconti, dalla Puglia salentina alle lontane porte dell’Anatolia ai confini con la Siria. Memorabile la vista da lui descritta, in un viaggio via mare, lungo le coste della Lycia (nel 300 circa a.C.), delle migliaia di fiammelle che sgorgavano dalla terra, lungo i declivi dei monti circostanti, discendenti verso il mare, accanto all’Olimpia Jonica, a ricordare lo schianto al suolo della Chimera, colpita dal dardo infuocato di Bellerofonte.

Lucani e Messapi, popoli di grandi guerrieri, sconfissero gli spartani 

di Taras (Taranto) nel 473 a.C., consolidando, fino alla conquista romana,

 la supremazia sulla “Calabria”, l’antico nome della penisola salentina.


L’avvenimento fu ricordato da Aristotele che precisa: “Accadde un po’ dopo che i Persiani invasero la Grecia.” Queste premesse ci fanno capire l’impronta profonda e strutturale che i Messapi lasciarono sul territorio. Guerrieri e contadini, lo trasformarono profondamente con le loro architetture megalitiche, facendo largo uso del duro, morbido zoccolo di pietre calcaree, di cui il territorio salentino è composto, aprirono inoltre nuovi itinerari e rotte nel basso Mediterraneo. Anche Tucidide li cita, nella sua Storia, durante la guerra del Peloponneso, tra Atene e Siracusa, dove furono caricati, alle isole Cheradi (Porto Cesareo), 150 lanciatori di giavellotto messapi, capitanati da Arta, un potente capo locale. La dodecapoli messapica nella penisola salentina, vedi l’analogia con quella etrusca, riguardava 16 città, di queste Vereto, dista pochi chilometri da Alessano.

La lunga dominazione romana dal 230 a.C. portò nel Salento 

infrastrutture e opere pubbliche,


come la via Appia fino a Brindisi, che divenne un porto importantissimo per Roma, con lo scalo verso la Grecia e l’Oriente lontano, vi fiorirono in quei tempi anche grandi personalità ed artisti, quali Livio Andronico, Quintinio Ennio e Marco Pacuvio. A Brindisi tristemente morì il grande Virgilio. Ai Romani succedettero i Bizantini, i Longobardi, poi i Normanni, i Veneziani, gli Svevi, gli Angioini, gli Aragonesi, infine i Borboni. Molteplicità di culture intrecciate ed a volte fuse, determinarono un’unicità del Salento, terra dalle fondamenta strutturali antropologicamente potenti ed aperta verso le terre d’oltremare. Durante la dominazione Angioina, Alessano fu capoluogo di Contea, dal mare di Capranica del Capo fino alla dorsale di Specchia.

Alessano, quindi, ebbe il suo momento di massimo splendore e sviluppo 

tra il XV ed il XVI secolo,


importanti famiglie nobiliari si succedettero, i Della Ratta, i Del Balzo, i De Capua, i Gonzaga, i Guarini ed altri, garantendovi il prestigio e lo sviluppo del territorio. S’insediarono anche numerose famiglie di mercanti-commercianti veneziani ed una piccola comunità ebraica, il centro città si arricchì di numerosi palazzi in stile rinascimentale e si svilupparono arte e cultura. 

 

In particolare il Palazzo Ducale ed il Palazzo Sangiovanni, rispettivamente, oggi, della famiglia Sangiovanni e di una importante famiglia belga, gli Adriaenssen, affacciati entrambi sulla stessa piazza, Piazza Castello, sul cocuzzolo più alto di Alessano, a coronamento finale di un centro storico ricco e modulato.

Il Palazzo Ducale, importante centro di cultura durante il governo dei Gonzaga, 

è un castello fortificato a forma di quadrilatero,


con torri e merli ed un ampio parco giardino e frutteto all’interno. Fu realizzato nel tardo ‘400 durante il governo dei feudatari Del Balzo, di cui resta memoria nella stella a sedici punte, simbolo della casata.

La facciata del Palazzo Sangiovanni, invece, riprende il motivo 

delle bugne diamantate del Palazzo dei Diamanti a Ferrara,


all’interno una struttura architettonica più articolata, immersa nei giardini di frutta e negli oliveti secolari. 

 

“Il Palazzo S.Giovanni” o la “casa del Mercante” (o la “casa del Cavaliere”) e le “Silenti Attenzioni” del Vasari. Palazzo dei Diamanti o Sangiovanni ad Alessano (Lecce)…così si chiama il capitolo a cura di Ferruccio Canali e di Virgilio Carmine Galati, dedicato ad “Alessano, la più grande Signoria del Salento meridionale, lo sviluppo urbano e i suoi Palazzi tra Quattro e Cinquecento”. Scrive Galati: “Alla severità dei fortificati anni precedenti, nel tardo Cinquecento compaiono vezzi di gusti antiquari come finestre che richiamavano quelle realizzate da Giorgio Martini ad Urbino, oppure decorazioni a bugna di diamante, estese circoscritte o a filari verticali scalati zigzaganti ed ancora paramenti a fasce bicromatiche.

Un nuovo modello decorativo, se non tipologico si era dunque fatto strada 

anche nella parte meridionale del ‘Golfo di Venezia’ dall’Apulia al Salento,


all’interno dei gruppi baronali e nei ceti emergenti (con singolari realizzazioni anche in Sicilia e Campania)”. Le corti feudali procedevano ad un aggiornamento e ad una qualificazione delle loro residenze, mentre i mercanti, arricchitisi con i traffici transadriatici, caratterizzavano le loro abitazioni. Leandro Alberti ricorda Alessano così:

“Alessano con luoghi ben coltivati, ed ornati di belle vigne, di olive, di aranci e di altri alberi fruttiferi, che paiono giardini, dando gran piacere ai ‘Riguardanti’”.

Oggi, i due Palazzi, lassù, nell’alto di Alessano, Piazza Castello, in parte ristrutturati con l’intervento di validi architetti, godono della fortuna di aver avuto 

proprietari avveduti e ricchi d’iniziative.


Entrambi i Palazzi si aprono al pubblico, a momenti, in un fervore d’iniziative artistiche e culturali, ora mostre, concerti, avvenimenti, ricevimenti, incontri con moderni “viandanti” italiani ed europei, alla ricerca di quel mondo semi-nascosto italiano, che dovrebbe diventare permanente, pieno di quei tanti tesori d’arte e di cultura, punti di riferimento della continuità storica di Alessano.

 

 

 

 

 

 

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SAN CLEMENTE A CASAURIA E I SUOI DUE PADRI di Gianluca Anglana – Numero 12 – Ottobre 2018

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SAN CLEMENTE A CASAURIA

 

 

E I SUOI DUE PADRI

 

Mandrie di bovini osservano impassibili gli itinerari degli umani. Cavalli allo stato brado brucano con indifferenza. Dal fianco della montagna risalgono nuvole. Panorami da Gustave Doré. 

Una bambagia di nubi sembra poggiarsi soffice sulle sommità spoglie. È quassù che si rende omaggio al Sovrano degli Appennini. Il “Tibet d’Italia” accoglie i viandanti del ventunesimo secolo, pellegrini versione 2.0. Un mare di verde. Onde di pascoli disegnano avvallamenti che paiono curve di donna.

 

Rocca Calascio all’imbrunire: quando ormai il profilo dei monti è solo un acquarello su carta di riso. Questo è un luogo stupendo e spettrale a un tempo. Le rovine dell’antica fortezza svettano sulle cime. Tra le pietre erose dal tempo, il vento sibila: sembra il lamento di una qualche Catherine che tormenta ancora il suo Heathcliff. 

 

L’Abruzzo e la bellezza. L’Abruzzo e il silenzio.

 

La quiete è quella dell’Abbazia di San Clemente a Casauria,


contrada di Castiglione a Casauria, provincia di Pescara. La riconosci subito dalla sua squadrata austerità. Il suo portico è solenne e severo: si apre in tre archi, di cui solo i laterali a sesto acuto.

 

Questa magnificenza si deve a due uomini.

La sua fondazione certamente a un Franco: Ludovico II1


Oltre che Imperatore, Ludovico divenne anche Re d’Italia e fu particolarmente attivo nelle regioni meridionali della Penisola. Ebbe molti grattacapi. Faticò non poco per tenere a bada i Saraceni a Sud2; indispettì i Greci piantando in asso la figlia del Basileus Teofilo preferendole Engelberga dei Supponidi3, una delle famiglie più influenti dell’aristocrazia franca (mogli e buoi…); litigò a più riprese con Papa Niccolò I e soprattutto entrò in conflitto con il principe beneventano Adelchi. Costui gli si ribellò nell’871, aizzandogli contro i dignitari del Ducato: la coppia imperiale fu tenuta in cattività per un mese intero e liberata solo dopo avere «promesso di non cercare di vendicarsi e soprattutto di non ricomparire più con le sue schiere nel territorio di Benevento»4. Dopo il rilascio, Ludovico piegò su Roma: qui ricevette da Papa Adriano II le reliquie del martire Clemente.

È in questi anni, precisamente a partire dall’871 secondo il Chronicon Casauriense (oggi conservato alla Bibliothèque Nationale de France)5, che l’Imperatore 

ordinò di erigere in Casauria un monastero


(dapprima dedicato alla Santissima Trinità, quindi appunto a San Clemente), che si ergesse come segno inequivocabile della sua presenza rispetto all’Italia meridionale anarchica. 

 

Un simbolo della maestà imperiale o un gigantesco ex voto per la fine della prigionia.

La Regola fu quella di San Benedetto.


Forte della sua posizione strategica
«lungo il fiume Pescara, ai confini dei ducati di Spoleto e Benevento e presso la Via Claudia-Valeria, l’Abbazia al tempo dell’Abate Lupo nel 911 vantava i possedimenti in quasi tutta la regione»6. Per via delle cospicue donazioni, il Monastero condivise con altri del suo stesso ordine la medesima sorte scintillante.7

Poi il buio, dovuto all’invasione dei Saraceni nel 916 e a quella dei Normanni 

nel 10768.  Il Cenobio ritrovò il suo splendore solo grazie a Leonate, 

consacrato abate nel 1156


Costui intendeva restituirgli lustro: fu anche per questo che ne concepì la facciata come una sorta di accesso trionfale, perché fossero chiari a tutti il prestigio e la potenza di quella comunità. Egli morì il 25 Marzo 1182 e non fece in tempo a vedere completato il suo progetto. Ai lavori contribuirono maestranze provenienti da più parti: sicuramente dalla Puglia e dalla Borgogna.

 

Il portico appare tutt’ora poderoso, ingentilito da quattro bifore e sormontato 

da un oratorio dedicato a San Michele Arcangelo, alla Santa Croce 

e a S. Tommaso Becket,

 

uno di quei santi inglesi «di rango aristocratico – vescovi e nobili laici – che si erano opposti al potere regio»9 e la cui fama si propagò in tutta Europa: la canonizzazione dell’Arcivescovo di Canterbury avvenne nel 1173. Allora, già da circa cento anni, gli Abati di Casauria sottoponevano le questioni di loro competenza non più agli imperatori, bensì ai papi. 

 

All’interno della lunetta sovrastante il portale principale, Leonate è raffigurato nell’atto di presentare a Clemente la chiesa rimessa a nuovo. 

 

Più sotto,

 

un architrave narra le origini dell’Abbazia: la sua genesi è a Roma, 

dove Adriano II consegna a un più che mai deferente Ludovico II 

la teca contenente i resti del Santo;


accompagnato da Suppone armato (parente di Engelberga?), l’Imperatore segue l’asino carico delle reliquie; nei pressi dell’Abbazia circondata dalle acque del fiume Pescara, il Sovrano consegna a Romano, primo Abate del Monastero, lo scettro abbaziale e il potere sui fertili feudi circostanti.

I capitelli, su cui poggia l’architrave, insegnano cosa sia il male e cosa il bene:


sul capitello di sinistra (la regione del male), un drago è la calunnia, che sussurra all’orecchio di un uomo le parole del peccato; sul capitello di destra (la regione del bene), in groppa ad un animale fantastico, un uomo volge le spalle al vizio e ne rifugge per sempre.

Nella lunetta sovrastante il portale laterale di sinistra, San Michele Arcangelo 

infilza il drago, simbolo del male.


Maria col Bambino, tutrice dei pellegrini, è assisa sul portale di destra. 

 

Racchiusi negli stipiti come dentro a delle garitte, sono a guardia quattro re, forse i carolingi Ugo, Lotario, Lamberto e Berengario. 

 

All’Abate Gioele (1182-1189) va ascritta la porta bronzea centrale.

L’interno, a tre navate, è spoglio ed elegante.


Il pezzo forte è l’ambone, la cui cassa poggia su quattro colonne ed altrettanti capitelli adornati di palme. Queste, simbolo del martirio, sono scolpite nell’atto di dischiudersi in una successione facile a indovinarsi, se si guardano i capitelli in senso antiorario, partendo dal primo sulla destra. Un invito ai fedeli ad aprirsi alla parola del predicatore. E ce n’è anche per lui: lungo il perimetro del manufatto, scorre in latino l’esortazione ai retori della Chiesa a condurre una vita coerente con le proprie omelie. Dei fiori sono mirabilmente scolpiti. Un’aquila afferra un libro, che a sua volta sormonta un leone (questa gerarchia verrà invertita sulle colonnine esterne all’abside), e guarda al candelabro poggiante su un’ara adornata di quattro teste leonine.

 

L’altare, al di sotto di un ciborio, è in realtà un sarcofago paleocristiano 

della fine del IV secolo o degli inizi del V.


Al suo interno, era forse conservato il reliquiario di alabastro, che oggi si trova alla destra della mensa, protetto da una teca, e

all’interno del quale furono deposte le ossa di Clemente.


Per nostra fortuna, oggi possiamo ancora ammirare questi capolavori.

 

Ciò grazie alla tenacia di un uomo:

Pier Luigi Calore. È lui il secondo padre.


A lui, vissuto nel diciannovesimo secolo, mille anni dopo Ludovico, si devono la riscoperta e la valorizzazione di questi luoghi: sfidò la burocrazia, investì energie e pagò in prima persona, allo scopo di salvarli dal grave stato di degrado in cui li avevano ridotti i terremoti, le devastazioni delle solite truppe francesi, l’incuria e la cupidigia degli uomini ai quali erano stati affidati10. Amico di Gabriele D’Annunzio che lo stimava, lottò con tenacia fino ad ottenere la dichiarazione di San Clemente quale monumento nazionale con un regio decreto del 28 giugno 1894. 

 

Ed è a lui che è intitolato l’antiquarium nei locali adiacenti alla chiesa, dove sono raccolti alcuni reperti di eccezionale fattura (come il capitello decorato con aquile di federiciana memoria che ghermiscono una serpe oppure la commovente statua della Madonna con Bambino, in pietra della Maiella). 

 

In questo piccolo museo, non puoi non chiederti che volto abbiano i Pier Luigi Calore dei nostri giorni, sempre che ne esistano. E rabbrividisci, nell’uscirne, alla lettura dell’ammonimento di Basilide di Alessandria11 appeso al muro di sinistra (la regione del male), augurandoti che sia tutto fuorché una profezia:

 

“E verrà… il tempo in cui non vi saranno uomini spirituali, ma soltanto ignoranti 

che rifiutano ciò che appartiene allo spirito”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1 – Nipote di Ludovico I il Pio, fu il primogenito di Lotario I e di Ermengarda di Tours. Fu incoronato Imperatore a Roma, nell’Aprile dell’850, da Leone IV. Morì a Ghedi nel bresciano. Le sue spoglie riposano nella Basilica di Sant’Ambrogio a Milano (cfr: www.treccani.it).

2 – Nell’871 condusse una spedizione a Bari, per strapparla ai Musulmani: v. UTET, Torino, 1967, p. 519: «di tutti i Carolingi fu quegli che più si interessò al nostro Paese e più caldamente vagheggiò il disegno di riunirlo in un solo Regno».

3 – Il fidanzamento contratto a Treviri con la principessa bizantina nell’842 fu rotto unilateralmente da Ludovico, il quale tra l’851 e l’853 sposò Engelberga, figlia del conte di Parma, Adalgiso (www.treccani.it).

4 – Ibidem.

5 – Su: www.sanclementeacausaria.beniculturali.it (invece, su www.regione.abruzzo.it, l’anno di fondazione è individuato nell’873).

6 – Opuscolo illustrativo del MIBACT – Polo Museale dell’Abruzzo.

7 – «Per il rapido moltiplicarsi delle donazioni la proprietà dei monasteri benedettini assunse presto proporzioni grandiose» F. Panzini-A. Rogmann, Pagine di critica storica, Ferraro, 1990, p. 75.

8 – Le notizie storiche e le informazioni di ordine artistico sono attinte ai siti internet indicati nella nota 5.

9 – André Vauchez, La santità nel Medioevo, Il Mulino, 1989, p. 124-125.

10 – San Clemente divenne oggetto di un istituto denominato Commenda Perpetua, consistente nella pratica di affidare abbazie o monasteri in difficoltà a cardinali o prelati affinché ne risollevassero le sorti: spesso offriva a gente priva di scrupoli, anche all’interno della Chiesa, l’occasione di depauperare gli stessi enti che si sarebbero dovuti salvaguardare.

11 – Eresiarca gnostico del II secolo d.C.

 

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LA FONDAZIONE FORTUNATO di Francesco Antonio Genovese – Numero 12 – Ottobre 2018

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LA FONDAZIONE FORTUNATO

 

 

 

RIONERO IN VULTURE, GIUSTINO FORTUNATO e NINO CALICE

 

1. Rionero città di frontiera. In che senso? Aveva ragione il compianto Nino Calice quando affermava che Rionero in Vulture, oggi importante centro dell’articolazione urbana della Basilicata, è stato (lo è ancora?) un paese di frontiera, nel senso di un luogo urbano senza conti da regolare con centri sociali e di potere preesistenti, feudali o clericali, spregiudicata, diversamente da Melfi, dove la presenza plurisecolare di vescovi e feudatari aveva dato luogo ad una società verticale, gerarchica e perciò timida, portata alla dipendenza1. Dopo la secessione dal Vescovo di Rapolla, fatta per ragioni fiscali dal 1314 al 1330, passando sotto la circoscrizione di Atella (e già questo dice del carattere della città), accogliendo nuove genti di ogni tipo, dagli albanesi di Scutari alle maestranze di ogni genere e provenienza (irpina, sannitica o pugliese: un melting pot unico in quella Basilicata moderna) in occasione dei tagli al bosco del Gualdo o alle pendici del Vulture, di commerci vari, 

 

“Rionegro” divenne un paese aperto e mobile, passando dagli originari 500 ai 9000 abitanti nel secolo dei lumi, capace di sfuggire, per la sua connaturata diffidenza 

e inquietudine, anche all’opera missionaria di un S. Alfonso dei Liguori.  


Ne venne fuori una realtà urbana viva ma anche aspra, “senza esclusione di colpi, di intrighi, di malandrinerie, di calunnie, di bugie, di vendette”, in cui ogni volta “bisogna ricominciare daccapo”, ricucendo gli strappi “dei costumi, delle feste, delle classi, delle case, dei quartieri, delle piazze”2

2. La Famiglia Fortunato e don Giustino a Rionero.

 

Secondo la ricostruzione di Calice, neppure i Fortunato sfuggirono a questa realtà conflittuale, nonostante le apparenze ieratiche delle due ultime figure rappresentative di questa importante famiglia del nostro Sud e della nostra storia nazionale: Ernesto e Giustino. Nel capitolo intitolato Dove è finito il barone Rotondo? Calice racconta di una vicenda di ordinaria turbativa degli incanti. Nel 1837, la Mensa vescovile di Melfi mette in vendita i diritti di enfiteusi sui beni della tenuta di Gaudianello, in agro di Lavello (città che con Venosa, assieme alle due già menzionate, completa il quadrilatero dei grandi centri della Basilicata settentrionale), estesi ben 3900 tomoli (terre a bosco e pascolo), quelli che diverranno dal 1872 il cuore dell’azienda modello cerealicolo-pastorale organizzata e diretta da Ernesto Fortunato3.

 

Alla gara i Fortunato offrirono 2400 ducati e i Rotondo 2600 ducati (i Tedesco di Minervino non erano competitivi) ma la tenuta venne aggiudicata ai Fortunato, con lo stratagemma dell’elevazione posteriore dell’offerta, passata da 2400 a 2800 ducati, non senza che una tale opportunità (non del tutto trasparente) fosse divenuta possibile grazie a qualche intervento extra ordinem: un favore del vescovo di Melfi ad Anselmo Fortunato (allora, a Napoli, Presidente della Corte dei conti) o la promessa di non riscattare il canone enfiteutico4. E la promessa venne persino imposta agli eredi da don Giustino con il suo testamento5. Sta di fatto che,

 

vincendo quella gara, i Fortunato innescarono il volano dello sviluppo della loro potenza economica, quella stessa (intelligentemente e progressivamente amministrata da Ernesto: la guida imprenditoriale della famiglia) 

che consentì di garantire al più noto fratello Giustino di recitare 

un ruolo di grande importanza nella politica 

e nella vita civile nazionale.

 

Ci sarà poi da stupirsi tanto se, dopotutto, sui Fortunato, nel 1861, verranno riversate accuse di protezione verso i briganti e se gli accusati sdegnosamente abbandoneranno Rionero per trasferirsi a Napoli? Quello, Rionero, era pur sempre un Paese di frontiera, di lotte politico-sociali aspre, “senza esclusione di colpi, di intrighi, di malandrinerie, di calunnie, di bugie, di vendette”, in cui ogni volta “bisogna ricominciare daccapo”.

 

Il Palazzo Fortunato, perciò, resterà vuoto fino al 1878 quando avvenne la ricucitura tra la Città e il suo più illustre notabilato, con il sindaco (Pierro) 

che va incontro ai due fratelli fuori dal paese e va a riverire 

il candidato al Parlamento nazionale.

 

Ernesto, perciò, poté tornare a Gaudiano, a gestire l’azienda più avanzata dell’intera Basilicata (e fra le più avanzate dell’intero Mezzogiorno), mentre Giustino da parlamentare vivrà tra Napoli (la residenza di via Vittoria Colonna) e Roma, con brevi rientri estivi a Rionero e Gaudiano. Ci sarà da stupirsi ancora se nel 1917, passeggiando a Rionero con alcuni degli amici più fedeli, don Giustino verrà ferito da un esaltato che l’aveva accusato di essere responsabile, addirittura, della guerra? Ma stavolta Fortunato non tornerà più a Rionero, fino al giorno della sua morte, avvenuta il 23 luglio 1932. Purtroppo, occorrerà solo quella per conseguire finalmente il desiderio “di vivere nella gratitudine vostra, miei concittadini”6?

 

3. Rionero si è veramente riappacificata con Giustino Fortunato? 

 

A Rionero, sulla piazza principale c’è il Palazzo Fortunato, composto dal fabbricato di circa cinquanta stanze, da un giardino e da un cortile, per una superficie di circa 4000 metri quadri: un importante monumento architettonico che vide passare, ospiti della famiglia, personaggi storici di rilievo: Giuseppe Bonaparte, Ferdinando di Borbone, Giuseppe Zanardelli, Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Francesco Saverio Nitti.

 

Oggi il Palazzo ospita la Fondazione Fortunato e la Biblioteca di famiglia, forte di circa 11.000 volumi, tra cui molte cinquecentine e libri dal Seicento all’Ottocento; nelle scuderie, un Museo della Civiltà Contadina e l’archivio storico e fotografico della famiglia e del Comune di Rionero nonché, quasi un paradosso, 

anche una mostra permanente sul Brigantaggio.

 

La città sembra essere definitivamente riconciliata con il suo più importante personaggio, il grande intellettuale e meridionalista che gli ha dato prestigio e fama.

Ma le iniziative della comunità locale non si può dire che siano del tutto all’altezza del grande concittadino e della sua storia, basti vedere anche semplicemente il sito internet che dovrebbe orientare il visitatore ed il curioso, per non dire lo studioso del pensiero e dell’organizzazione familiare.

 

Ma forse sarebbe anche il caso di pensare ad un Parco Letterario Giustino Fortunato, per far conoscere i luoghi della sua vita

 

(perlomeno di quella non vissuta a Napoli): un’iniziativa – possibile anche solo in sede locale, sebbene non riferita strettamente ad uno scrittore o un poeta, ma a uno storico, a un politico e politologo di razza, a uno statista come pochi – che farebbe svanire del tutto il dubbio circa il fatto che la sua città natale abbia mantenuto ancora qualche ombra sull’intellettuale nazionale di cui può invece trarre incondizionato vanto.

Sembra allora che la città si sia fatta perdonare per quegli screzi sol perché un altro intellettuale e politico rionerese, Nino Calice, ha dedicato ai Fortunato alcune opere importanti della sua complessiva produzione storica e politologica.

Non solo. La casa editrice da Lui fondata ha anche stampato alcune opere di don Giustino e, tuttora, dopo la morte del fondatore, mostra di proseguire la sua preziosa attività

 

4. Un erede rionerese per don Giustino: Nino Calice.

 

La verità è che Nino Calice (1937-1997), professore di storia e di filosofia nei licei, ma poi anche consigliere regionale (eletto con il PCI), Sindaco del Comune di Rionero, deputato al Parlamento e poi Senatore della Repubblica, componente del Consiglio d’Europa, fondatore del centro studi Giustino Fortunato, storico, e protagonista di tante iniziative culturali e politiche, oltre che di importanti ricerche storiche anche sulla vita della Basilicata, è indubbiamente – si proprio Lui – il vero erede di don Giustino e non solo per le ragioni legate alla comune origine cittadina.

 

Il ponte di passaggio tra le due figure mi pare ascrivibile alla grande tradizione democratico-liberale nazionale, quella che ha avuto varie declinazioni, 

fino al sacrificio personale, di importanti e prestigiose figure,

 

da Salvemini a Fortunato, dai Fratelli Rosselli a Giovanni Amendola, da Gobetti a Nitti, di cui si è detto, in gran misura, erede il cessato Partito comunista italiano (o importanti parti di esso), che se ne è intestato, pur tra distinguo e precisazioni, il filo della continuità.

La coscienza di tale linea è ancor viva, come si è visto e sentito, nel corso di un convegno svoltosi di recente (il 5 dicembre 2017) nel Castello di Lagopesole (Avigliano), non lontano da Rionero, proprio dedicato alla figura di Nino Calice. Giorgio Napolitano, ad esempio, ha scritto del suo commilitone politico:

 

“Se noi avessimo dieci, venti Rionero nel Mezzogiorno, coltivate, dissodate 

da organizzatori culturali come Nino Calice, credo che sarebbe un po’ diverso 

il Mezzogiorno da quello che è,

 

o potremmo essere meno allarmati di come, purtroppo, dobbiamo esserlo. Io mi auguro che davvero i giovani, ai quali tocca l’impresa del rilancio della politica, prendano esempio dalla lezione di Nino Calice”. Emanuele Macaluso, a sua volta, ha dichiarato: “Quando penso a figure come Nino Calice penso subito a cos’è stato il Partito comunista italiano, perché io penso che Calice è stato quello che è stato, nella sua specifica complessità, perché c’è stato il Partito comunista. E il Partito comunista è stato quel che è stato perché ci sono stati uomini come Nino Calice”.

Più specificamente, sul rapporto tra Calice e Fortunato, uno storico di matrice cattolico-democratica, Giampaolo D’Andrea, ha affermato:

 

“Nino Calice ci ha lasciato una grande passione civile e per la storia della sua terra 

e del Mezzogiorno. Passione ereditata da tutta una tradizione che in Basilicata 

è molto viva e che lui riannoda spesso con quella di Giustino Fortunato.

 

Una lettura non dico sorprendente ma non consueta negli intellettuali della sua generazione e della sua ispirazione culturale è la rivalutazione che fa del meridionalismo fortunatiano insieme alla rivalutazione del meridionalismo classico e con le spinte alla modernizzazione che inevitabilmente sono venute. In uno dei suoi ultimi saggi fece una riflessione lucidissima sull’illuminismo diffuso in Basilicata e su quello che aveva rappresentato, caratteristiche di una riflessione culturale che ha influenzato anche le sue posizioni politiche nel dibattito sui temi che di volta in volta si presentavano alla sua attenzione. Ha cercato di inserire la Basilicata in un contesto più ampio del Mezzogiorno per riconnetterlo all’Italia e in sintonia con la tradizione dei grandi meridionalisti della nostra terra come Fortunato e Nitti non ha mai pensato alla Basilicata come un’isola né felice né infelice e mai ha pensato al Mezzogiorno separatamente dall’Italia. Questo era un punto fermo della posizione dei meridionalisti: non rivendicavano attenzioni per il Mezzogiorno ma solo perché il Mezzogiorno potesse contribuire meglio al futuro dell’Italia.”7

 

 

C’è solo da sperare che la città di frontiera, se tale essa è ancor oggi, nel suo continuo dubitare, non sia troppo irriconoscente anche con Nino Calice,

poiché sono certo che il più giovane intellettuale, vissuto nel secolo scorso, avrebbe approvato (e lavorato per) la creazione di un Parco letterario dedicato alla complessa e poliedrica figura di Giustino Fortunato. Un simile Parco, coinvolgendo una gran parte del territorio della Basilicata Settentrionale (le ricerche storiche di Giustino, da sole, creerebbero una mappa-reticolo dei luoghi storici da lui riscoperti e individuati, traendoli dall’oblio e dalla dimenticanza; senza dire dei luoghi delle Strade ferrate propugnati come direttrici di sviluppo o dell’azienda familiare di Gaudiano o dei giovani intellettuali lucani, provenienti da tanti piccoli centri, da lui seguiti, valorizzati ed incoraggiati), si inserirebbe nello stesso rilancio dell’immagine della Regione, perché percorsa da un tenace filo di pensiero liberal-democratico, di respiro nazionale. 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1- N. Calice, Rionero. Pagine sparse e disperse, II ed. 2012, p. 41.

2- N. Calice, ivi, p. 50.

3 – N. Calice, Ernesto e Giustino Fortunato: l’azienda di Gaudiano e il Collegio di Melfi, Bari 1982. Dello stesso A. si veda anche: La famiglia Fortunato, in AA.VV, La Borghesia tra Ottocento e Novecento in Basilicata. Storie di famiglie, Rionero in Vulture 2006, pp. 87-102.

4 – Così N. Calice, Rionero. Pagine sparse e disperse, p. 57. La vicenda era già stata ricordata in Id. Ernesto e Giustino Fortunato, cit. pp. 20-21 ove riporta anche la partecipazione alla polemica di Basilide Del Zio e Gennaro Araneo.

5 – Id. Ernesto e Giustino Fortunato, cit., p. 21.

6 –  G. Fortunato, Agli elettori del Collegio di Melfi, 10 febbraio 1909.

7 – Sul convegno, si rinvia a quanto scritto dall’Agenzia giornalistica della Regione Basilicata: http://www.consiglio.basilicata.it/consiglioinforma/detail.jsp?otype=1120&id=3399954#ad-image-0.

 

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L’ECONOMIA DELLA BELLEZZA di Patrizia Di Dio – Numero 12 – Ottobre 2018

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L’ECONOMIA DELLA BELLEZZA

 

Palermo, la mia città, può essere presa a simbolo di una Italia che investe sulla sua bellezza e sulla sua capacità di meravigliare il mondo intero, nonché quale emblema delle grandi potenzialità del Sud che, tuttavia, non si sono ancora compiutamente espresse a vantaggio di chi ci vive.

Come il Sud, Palermo è metafora di città splendida e nello stesso tempo decadente, dalle enormi potenzialità e grandi stimoli, eppure spesso in indolente inerzia; memoria di ferita e lacerazione, eppure esempio di recupero fascinoso 

e stimolante, antico e moderno insieme.


Città in cui abbiamo il percorso arabo-normanno patrimonio dell’UNESCO da un lato e che ospita, dal 16 giugno al 4 novembre nel 2018, “Manifesta 12”, una delle più importanti iniziative di arte contemporanea al mondo, la biennale itinerante europea. E sempre quest’anno, è capitale italiana della cultura 2018. Insomma, emblema insieme del nostro passato e del nostro futuro, di crisi e di opportunità. Palermo è anche una storia di impegno in campo umanitario, dove Stato, istituzioni, forze dell’ordine fino al più semplice dei cittadini, agiscono senza esitazioni.

Mentre le discussioni in Europa e in Italia si imperniano su cosa e chi deve fare, 

qui si fa senza chiedersi a chi tocca, pensando solo che ci sono cose 

che non posso attendere.


Noi del Sud siamo fatti così ed è in fondo la nostra grandezza. C’è poi la convivenza, l’esempio materiale di interazione e interscambio tra diverse componenti culturali di provenienza storica e geografica eterogenee che, a Palermo, ha generato un originale stile architettonico e artistico, lo stile arabo-normanno. Di eccezionale valore universale, vi sono mirabilmente fusi elementi bizantini, islamici e latini, capace di volta in volta di prodursi in combinazioni uniche e sincretiche.

La nostra storia di accoglienza e integrazione è il nostro paradigma di bellezza.

 

Palermo è la città dove l’Arcivescovo, monsignor Lorefice, per il discorso in occasione del festino, che si celebra ogni anno da oltre 390 anni in onore di Santa Rosalia, la nostra santuzza patrona, ha espresso considerazioni sulla dignità, sul significato di umanità e sul valore di appartenenza a un sistema e a una comunità di “senso”: parole che ci toccano particolarmente, non solo per la forza innovativa e profondamente cristiana ma anche per l’anelito a porre le basi di un rinnovato modo di intendere le prospettive della nostra vita. Perché, come dice l’Arcivescovo, “le relazioni vere nascono e crescono dove c’è sintonia, c’è finezza, c’è rispetto, ascolto”. Insomma dove c’è bellezza!

La città di Palermo, luogo simbolo di incontro di culture, di religioni, della possibilità 

di vivere nel segno della solidarietà e della pace, esempio di riconciliazione 

e rispetto reciproco, muove nella direzione di un’Economia consapevole 

del livello valoriale della società che le dà vita. Valori che rispecchiano

 quella che chiamo Economia della Bellezza. 

 

Il Sud è considerato, appunto, sinonimo di Bellezza, in virtù del suo patrimonio culturale, artistico, monumentale, paesaggistico, ma anche per la sua alimentazione, il gusto, il design e la moda. La ripresa deve partire da questo immenso patrimonio materiale unito a quello immateriale di Benessere, per un nuovo modello economico, di cui imprenditori e imprenditrici illuminate sono interpreti e protagonisti. Ritengo anche che, nella prospettiva di un mondo futuro dominato dalla tecnologia, si debba coltivare il fattore umano, riportando l’individuo al centro delle dinamiche produttive e riservando alle relazioni umane un posto di prim’ordine nelle strategie aziendali. Per noi, dunque, l’Economia della Bellezza si esprime con una cultura d’impresa che sa guardare lontano e che promuove comportamenti virtuosi sempre più attenti all’individuo e alla comunità, permeata delle specificità femminili di cura, visione dell’altro, “ricerca di senso”, coraggio, istinto ecologico, cultura, relazioni, solidarietà.

L’economia della bellezza che desideriamo promuovere, quindi, è anche
Economia del nuovo Umanesimo, che rappresenta la necessità
di favorire, nel concreto, una visione dell’umanità con una
prospettiva 
arricchente, migliorativa, inclusiva,


fatta di amore, cura, passione, sensibilità, ascolto: l’arte, il paesaggio, il cibo, la musica, la lingua coniugati con il saper vivere, con la capacità di entrare in sintonia, di creare relazioni empatiche, di esaltare intuito, creatività e abilità, cioè i talenti che ci contraddistinguono nel mondo. È un immenso patrimonio di ricchezza, un giacimento ancora quasi del tutto da utilizzare in tutte le sue potenzialità.

Una irripetibile pluralità che determina, nel suo insieme, quello “stile di vita” 

che il mondo intero ci invidia e tenta di imitare.

 

Un tesoro unico che ci appartiene e che abbiamo il dovere di proteggere e valorizzare, per vivere meglio il Sud di oggi e per lasciare ai cittadini di domani un Sud migliore; ma soprattutto per costruire subito nuove opportunità che consentano ai nostri “cervelli”, e in generale a giovani e meno giovani, di non essere costretti ad andar via, abbandonando. 

 

Questo Sud non può più attendere. Va riconosciuto, guardato con attenzione, raccontato con passione, per costruire prosperità. E dunque non solo pensando a quelle attrattive evidenti e generalmente riconosciute presenti nelle grandi città, come la mia Palermo, ma anche a tutti gli angoli più nascosti, e tuttavia non meno affascinanti, che costituiscono le caratteristiche riconnesse alle identità culturali e sociali tipiche delle piccole città e dei piccoli borghi.

Credere nell’Economia della Bellezza significa costruire un’identità 

competitiva per il Meridione,


contribuendo al rilancio del Paese e trasformando il suo straordinario potenziale in una risorsa strategica di sviluppo economico e sociale.

 

 

 

 

 

 

 

 

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