PESCHICI LUOGO CELESTINIANO di Teresa Maria Rauzino – Numero 15 – Dicembre 2019

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PESCHICI  LUOGO  CELESTINIANO 

 

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Silone frusta le gerarchie affermando che l’utopia è il rimorso della Chiesa. 

 

Il potere non è mai salvifico, lo è la rinuncia ad esso, come affermazione di libertà e purezza della coscienza: “Servirsi del potere? Che perniciosa illusione! E’ il potere che si serve di noi”.  

 

Il messaggio siloniano sceglie la spoglia forma teatrale per attingere definitiva efficacia, esprimendo un protagonista con un’idea forte, coscienza che sovrasta la persona. Siamo in un’atmosfera francescana, tra echi gioachimiti; “serpeggia nell’aria l’offesa inferta all’eredità spirituale del poverello d’Assisi”. Si avvertono fermenti di rinnovamento. Pietro Angelerio scende dal regno dell’utopia lungo i sentieri del mondo, un mondo che non conosce, nel quale si muoverà con impaccio. Profetico e ammonitore era stato lacopone da Todi che, mettendolo in guardia dai cardinali, assetati di ricchezze per sé e per il parentato, esprimeva il suo dolore per l’accettazione del pontificato.

 

Celestino V, dopo tante ambasce e interiori tormenti, compie l’estremo atto di rinuncia al pontificato, destinato a rimanere l’unico nella storia bimillenaria della Chiesa. 

 

E. tornato fraticello, amato e seguito dai fedeli, viene braccato e incarcerato. In una buia torre soffoca la sua utopia; ma continuerà a brillare la luce della sua coscienza intollerante del compromesso, che ha additato nel potere sotteso all’istituzione religiosa il nemico più pericoloso.  

 

Nel dramma di Silone una versione scenica efficace lascia a certi scorci abruzzesi il palpito dell’arte, unito al sentimento della antica terra madre. Un Abruzzo che non ha niente di turistico, di realistico e visibile in senso esteriore, in cui il seme della predicazione di San Francesco è ancora fecondo.

 

Si svolge una lotta impari tra i fraticelli spirituali, perseguitati dalle autorità 

perché chiedono il ritorno al modo di vivere cristiano, alla povertà 

e semplicità evangelica, e le ragioni della Chiesa. 

 

La notizia dell’abdicazione di Celestino V colpì in maniera dirompente proprio i francescani spirituali, provocando un disorientamento profondo che si risolse in un vero e proprio atteggiamento di rivolta. Costoro, che avevano trovato in lui l’appoggio nella lotta contro i conventuali, si trovarono spiazzati dal fatto eccezionale della sua rinuncia. Pietro da Fossombrone (Angelo Clareno) non accettò di rientrare nell’ordine francescano dopo la soppressione, ad opera di Bonifacio VIII, dei Pauperes Heremite Domini Celestini e con un gruppo di confratelli fuggì in Grecia, mentre Ubertino da Casale contestò la liceità dell’abdicazione, considerando la successione di Bonifacio un’usurpazione.

 

La presenza nel Gargano di “fraticelli” spirituali al seguito di Celestino V 

trova un’eco letteraria ne L’Avventura di un povero cristiano di Silone

Sarebbe stimolante vagliarne l’ipotesi storiografica. 

 

Analizziamo ora il testo della scena V del dramma siloniano. L’azione si svolge in una località impervia, raggiungibile solo in barca, tra Peschici a Vieste, sulla costa meridionale del Gargano. La scena rappresenta un’ampia semigrotta, incavata a mezza costa d’un promontorio roccioso, quasi a strapiombo sul mare. Attorno alla grotta crescono piante di fichidindia e qualche olivastro; davanti vi passa un sentiero che si allarga a forma di terrazzino. Alcuni grossi sassi fungono da sedili. Un fontanile è vicino.

 

Il tempo del racconto è un sereno pomeriggio del mese di maggio 1295. 

Sono passati sei mesi dall’abdicazione di papa Celestino e dall’inizio 

della sua fuga per sottrarsi alle ricerche degli agenti di Bonifacio VIII 

e dei loro concorrenti francesi.  

 

Pier Celestino riposa all’interno della grotta illuminata dal sole ponente; è seduto su un pagliericcio, con la schiena e la testa appoggiate alla roccia, gli occhi chiusi. Due giovani frati, per motivi di prudenza, in abiti civili, aspettano che si svegli per comunicargli le ultime novità: il priore di San Giovanni in Piano ha messo a disposizione una barca con un paio di pescatori per andare in Grecia, nell’isola di Acaia (golfo di Corinto), dove ritroveranno gli amici che li hanno preceduti. Aspettano, per partire, che il vento sia favorevole. Fra Tommaso da Sulmona è giù con i pescatori per definire le ultime questioni pratiche.  

 

Presa la decisione dell’esilio, Celestino ne spiega i motivi ai due fraticelli che gli sono rimasti accanto, dopo che gli altri sono stati imprigionati e pochi sono riusciti a riparare in Grecia: “Figli miei; guardate questa terra, queste pietre, il mare, il cielo; riempitevi l’anima di queste immagini; per ripensarle da lontano.

 

Bisogna amare la propria terra, ma, se essa diventa inabitabile per chi vuole conservare la propria dignità, è meglio andarsene. 

 

La nostra giustificazione non é spregevole poiché non ci viene suggerita dalla pigrizia, ma dalla missione che ci rimane.”  

 

Nel successivo dialogo fra Tommaso e Pier Celestino, c’è il riferimento alla località di Peschici, dove da parte di alcuni marinai si “mormorava” sul povero fuggiasco:  

 

Fra Tommaso: “Mi dispiace d’insistere, ma è meglio sbrigarsi: A Peschici qui vicino, si mormora su di voi Uno dei pescatori: che adesso è tornato di lí è stato interrogato da un gendarme.”  

 

Pier Celestino (rompe gli indugi): “Meglio evitare il rischio, partiamo subito.”  

 

L’azione riprende nel medesimo quadro, un mese più tardi. Vari particolari mettono in evidenza che la grotta è abitata e che è trascorso del tempo dalla scena precedente: alla primavera è succeduta l’estate. Sul sentiero che sale dalla costa, appaiono Matteo il tessitore e la figlia Concetta che, banditi dal Morrone per le loro idee religiose, finalmente, dopo innumerevoli disagi di viaggio, via mare hanno raggiunto i fraticelli di Celestino nell’impervia località garganica. All’improvviso arrivano dal sentiero grida di gioia: appaiono correndo fra Gioacchino e fra Clementino. L’incontro è molto affettuoso, con prolungate e ripetute strette di mano.   

 

Riportiamo alcuni stralci del dialogo:  

 

Concetta: “Sappiamo del naufragio. Dunque, vi eravate imbarcati per la Grecia, e il mare vi respinse. Poi?” Gioacchino: “Al ritorno fummo informati che a Peschici, qui vicino, era giunta una missione per catturare Pier Celestino.”  

 

Clementino: “Dovete sapere che ogni suo minimo spostamento veniva seguito e controllato. Era difficile per lui nascondersi Tuttavia le autorità locali non osavano mettergli la mano addosso per non sfidare la collera dei fedeli.”  

 

Gioacchino: “Per ultimo, però, un capitano della dogana delle pecore aveva avvertito i suoi superiori che Pier Celestino si era rifugiato qui nel Gargano. La denunzia arrivò fino al re che, a dire la verità, si preoccupò di togliere alla cattura ogni aspetto odioso. Ne diede l’incarico a un prelato che ha il titolo di patriarca di Gerusalemme e a vari gentiluomini con le loro famiglie. La delegazione doveva presentarsi a lui come per rendergli onore. Ma Pier Celestino rifiutò la finzione e si consegnò prigioniero.”  

 

Concetta: “Perché non fuggì? Perché voi non vi opponeste alla sua resa?”  

 

Clementino: “Discutemmo parecchio con lui. Ma non ci fu verso di persuaderlo ancora una volta alla fuga, benché i nostri amici di qui la presentassero come assai facile…”  

 

(…) Gioacchino: “Appena soli, ci siamo buttati a capofitto nel lavoro da lui indicatoci. Stiamo costituendo qui, nel Gargano, una base di scambi di messaggi e documenti con gli esuli rifugiati in Grecia e coi nostri amici delle varie province. Stiamo cercando di camuffare questa attività sotto apparenze non sospette, mercantili. Vari barcaioli ci aiutano. Il nostro Clementino è appunto tornato ieri dalla Grecia con scritti del Clareno e di Fra Ludovico. Stasera ve ne leggeremo dei brani: sono di una forza spirituale commovente. Abbiamo già cominciato a farne delle copie per gli amici delle province. (A Concetta): Per farli arrivare a destinazione, potreste approfittare dei prossimi grandi pellegrinaggi; ne discuteremo il modo…”

 

Dopo la rinuncia al pontificato, Celestino si era diretto verso il monastero 

di San Giovanni in Piano, presso Apricena, che seguiva il suo ordine religioso. 

Quattro settimane furono necessarie perché il priore gli procurasse 

un imbarco a Rodi Garganico, il porto più vicino. 

 

La costa a quel tempo appariva sufficientemente attiva nel piccolo cabotaggio per il trasporto delle merci, particolarmente derrate cerealicole e sale, dall’interno; scali abbastanza efficienti e attivi erano Rodi, Peschici e Vieste, che non trascuravano un traffico su più vasta scala con i porti dalmati e con Venezia. Il fuggitivo si imbarca per la Grecia, dove probabilmente intende raggiungere la comunità degli spirituali di Clareno, ma la nave naufraga a quindici miglia da Rodi e a cinque miglia da Vieste.  

 

La località dove egli trascorre nove giorni, prima di essere individuato e consegnato agli emissari di Bonifacio VIII, non è stata individuata precisamente dai biografi coevi (Analecta Bollandiana, Vita C). Due storici locali, Giuliani e Aliota, la localizzano rispettivamente nella spiaggia di S. Maria di Merino, presso Vieste e nell’Abbazia benedettina di Santa Maria di Càlena, a Peschici. 

 

Fonti orali , che si riflettono nella toponomastica dei luoghi, riferiscono 

che Celestino V si rifugia in una zona rupestre, la grotta dell’Abate, 

presso la spiaggia di Calalunga, tra Peschici e Vieste, ed è qui 

che sarebbe stato prelevato dal governatore di Vieste. 

 

Giuseppe Martella, appassionato cultore di storia garganica, riporta nei suoi appunti la seguente ipotesi: “…Papa Celestino trovò rifugio in una grotta di Peschici , quella che noi chiamiamo ‘a grott u papa’. Questa si trova nel bosco di pini a ridosso della punta di Calalunga che nella Carta Geografica dell’Atlante Geografico del Regno di Napoli di Rizzi e Zannoni del 1806 è detta Cannalunga, forse per la sua forma che si allunga nel mare.” 

Un singolare toponimo ci indica di come sia diffusa l’eco della presenza 

di Celestino V nei luoghi suddetti: l’insenatura da cui si diparte il sentiero 

che conduce al complesso rupestre è denominato in dialetto peschiciano 

u’ lale d’ la Croce ( spiaggetta della Croce).

 

La Croce è tipica della simbologia legata al personaggio: il logo dello stemma celestiniano è una Croce con una S intrecciata, simbolo dello Spirito Santo.   Il sopralluogo nella “Grotta dell’Abate” da parte della dott.ssa Giovanna Pacilio della Sovrintendenza Archeologica di Bari, effettuato una ventina di anni fa per verificare la natura dell’insediamento, non ha dato particolari riscontri. Ma la ricerca continua… 

 

 

Scritta nel 1966-67 da Ignazio Silone, L’avventura d’un povero cristiano apparve nel marzo del 1968 nella collana “Narratori italiani” di Mondadori, con una dedica emblematica: “la solita storia”. Dopo un silenzio di secoli della letteratura, l’Autore rilegge in chiave evangelica, non difforme dal Petrarca, la storia di Celestino V, simbolo della inconciliabilità della santità con il potere, postulando un cristianesimo “demitizzato”, sciolto dai legami temporali. La Chiesa, incarnata in Bonifacio VIII, diventa l’esatto pendant ideologico del partito politico, che chiede ai suoi seguaci il prezzo altissimo dell’anima. 

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IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI Parte IV di Francesco Avolio – Dicembre 2019

 

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IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI

 

 Parte IV

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 Correlato parte I

 Correlato parte II

 Correlato parte III

 

1 – Il lessico siciliano e i dialetti “galloitalici”


Raggiunto il 
Lilibeo, si può forse rimanere sorpresi nel ritrovare, un po’ ovunque in Sicilia, voci assai particolari come agugghia ‘ago’dumani ‘domani’, òrbu ‘cieco’, tuma tumàzzu ‘formaggio’, badagghiari ‘sbadigliare’, maritari ‘sposarsi, prender moglie’, scannari ‘uccidere’, tùnniri ‘tosare’, vùgghiri ‘bollire’ e altre ancora. Queste, infatti, oltre a individuare inattese concordanze con il Nord Italia (cfr., ad esempio, il piemontese tumatüma ‘formaggio’ o il ligure tùndar ‘tosare’), si oppongono con una certa evidenza alle corrispondenti voci calabresi settentrionali (e dell’alto Mezzogiorno) acucraicecàtucasualànźuràacciderecarosàvùlleresicuramente più arcaiche.

Il lessico siciliano (e calabrese meridionale), insomma, ci si mostra non di rado più innovatore e anche meno “tipico” di quello del Mezzogiorno continentale.


Come può spiegarsi una simile situazione? Nella testa di molti di noi, infatti, c’è l’immagine (o, se si vuole, lo stereotipo) di una Sicilia regione isolata e conservatrice. Sfrondando di molto un dibattito scientifico ormai annoso, possiamo dire che anche in questo caso c’entrano – sia pure indirettamente – gli Arabi, i quali, dopo la conquista normanna della Sicilia nell’XI secolo, furono spinti, a più riprese, ad abbandonare l’isola, lasciando dietro di sé ampie zone deserte. Per ripopolarle (e ricristianizzarle) alcuni feudatari, provenienti dal Monferrato ed imparentati con la nuova casa regnante, fecero venire coloni dai propri possedimenti (a quel tempo ritenuti generalmente parte della Lombardia), concedendo loro privilegi ed assegnando terre situate in maggioranza nelle zone più elevate, verdi e salubri dell’isola (le più simili a quelle d’origine).

Questi diedero così vita ad una (per noi, oggi) singolare e sconosciuta emigrazione 

dal Nord al Sud – vera anticipazione dell’unità d’Italia – 

e alla cosiddetta Lombardia siciliana;


i loro discendenti sono ancora lì, ad esempio a Novara di Sicilia e a San Fratello (ME), ad Aidone, Nicosìa, Piazza Armerina e Sperlinga (EN), ed hanno conservato, a volte per quasi 900 anni, lingua, costumi, e perfino specialità delle terre di provenienza. Ma un fatto altrettanto eccezionale è che i paesi citati sono solo, come si dice, la punta dell’iceberg: un tempo, infatti, essi – come dimostrano le ricerche storiche e linguistiche recenti svolte, fra gli altri, da Giovanni Tropea, Salvatore C. Trovato e Giovanni Ruffino – erano molti di più, e ciò spiega come mai il lessico siciliano sia stato profondamente permeato da voci di origine settentrionale, o, come dicono gli studiosi, “galloitalica”. Per dare un’idea più concreta della perdurante somiglianza tra i dialetti “galloitalici” di Sicilia e quelli attuali del Nord Italia, citiamo due versi di una filastrocca nella parlata di San Fratello: “Mi côc mi sti det, cu Maria sovra u pet” (mi corico in questo letto con Maria sopra il petto), in cui si osservano, ad esempio, la caduta sistematica delle vocali atone finali delle parole (tranne –a), la semplificazione delle consonanti intense (entrambi i fenomeni si vedono in det e pet) e il passaggio di -p- a -v- (in sovra), tratti assenti in Sicilia e in tutto il Sud, ma ancora oggi riconoscibilissimi dal Piemonte alla Lombardia e all’Emilia-Romagna (ma in det ‘letto’ troviamo anche una spia del contatto plurisecolare col siciliano, e cioè il passaggio della consonante -l-, originaria o ridotta da un precedente -ll-, fino a -d-; cfr. il siciliano bbèddu ‘bello’).

2 – Le radici della presenza greca in Calabria


Varcato di nuovo lo stretto di Messina, se ci spingiamo dopo Reggio Calabria, dapprima seguendo la litorale jonica verso Sud, e poi inoltrandoci lungo la strada che sale verso Bova superiore,

 

entriamo nella zona dove, come si è già accennato, è ancora parlata 

(ma forse, purtroppo, ancora non per molto) una varietà di greco 

(chiamata, sul posto, grico), e che comprende oggi solo gli isolatissimi 

e in parte abbandonati paesi aspromontani 

di Gallicianò e Chorìo di Roghùdi.  

 

Ancora qualche decennio fa, però, erano di parlata greca anche Bova e Roccaforte del Greco, Condofùri, Amendolèa e Roghùdi (paese evacuato nel 1970 in seguito a continue frane e smottamenti), ancora prima (sec. XIX) Cardeto e Montebello, nel XVIII secolo San Pantaleone, Pentedàttilo (che significa ‘cinque dita’), Bagalàdi, San Lorenzo, nel XVI secolo diversi altri centri posti a Nord dell’Aspromonte (Delianuova, Scido, Sinopoli; cfr. Figura 1), mentre ai tempi del Petrarca l’area grecofona includeva pressoché tutta la Calabria meridionale, fino a Squillace e Catanzaro (il suo maestro di greco, madrelingua, era infatti il monaco Barlaam, nativo di Seminara, RC).  

 

Una tale distribuzione, compatta, e indubbiamente diversa da quella, puntiforme, generata da tutte le immigrazioni tardomedievali e rinascimentali che hanno riguardato il Mezzogiorno (come quella albanese, croata, provenzale ecc.),

è stata uno degli elementi alla base dell’affascinante ipotesi di un collegamento

di questi dialetti ellenici – arcaici, ma privi di precisi riscontri nella 

Grecia continentale e insulare – con il greco 

delle antiche colonie della Magna Grecia


(lingua che, va detto, proprio nella Calabria meridionale si mantenne, a livello popolare, ben oltre l’epoca della conquista romana), ipotesi avanzata e sostenuta per decenni dal grande linguista tedesco Gerhard Rohlfs, con il consenso di quasi tutti i colleghi greci, ma avversato, al tempo stesso, da gran parte degli studiosi italiani, con i quali la polemica fu a tratti molto aspra.

3 – Tra Calabria e Lucania


Continuando a risalire la penisola, arriviamo in vista del massiccio del Pollino, tra Calabria e Lucania. Qui, e per l’esattezza a Mezzogiorno dei fiumi Sauro e Agri, e nella Calabria contigua a Nord del Lao e del Crati, si trovano alcuni fra i dialetti più conservativi del gruppo “meridionale”, dove sono rimasti sedimentati fenomeni rari anche nel resto del mondo neolatino o romanzo (i quali, però, è bene sottolinearlo, non danno luogo a drastiche rotture nei confronti delle parlate circostanti).

Questa zona è nota oggi agli specialisti come “area Lausberg”, dal nome 

dello studioso tedesco, allievo di Rohlfs, che la individuò nel 1939, 

descrivendola a fondo


(cfr. Figura 2). Tra le sue caratteristiche conservative ricordiamo un sistema di vocali accentate ancora molto vicino a quello del latino classico, e con precisi riscontri in Sardegna (filë ‘filo’ < FĪLUM, come nivë ‘neve’ < NĬVEM, stèllë ‘stella’ < STĒLLA, come bbèllë ‘bella’ < BĔLLAM, mòrtë ‘morta’ < MŎRTUAM come sòlë ‘sole’ < SŌLEM, crucë ‘croce’ < CRŬCEM come lunë ‘luna’ < LŪNAM), e il mantenimento delle consonanti finali latine -S e -T in alcuni modi, tempi e voci verbali, grazie allo sviluppo di una vocale finale d’appoggio: ad Aliano (MT) vìdësë ‘vedi’, a Teana (PZ) tènëdë na casë ‘ha una casa’, a Oriolo (CS) u sàpësë? ‘lo sai?’, a Maratea (PZ) tènisi ‘tieni, hai’, mi piàciti ‘mi piace’, cu ccapèrati ‘chi capirebbe’ ecc. La conservazione è tanto più rilevante se si fa caso al fatto che la caduta di -S e -T finali latine è molto ben testimoniata già nel I secolo d. C. proprio nel cuore dell’area meridionale, in numerose scritte e graffiti rinvenibili sui muri di Pompei.

4 – Dove finisce il Sud… verso Nord?


Ma, se continuiamo la nostra risalita, e, superando Napoli e la Campania, ci attestiamo nel Lazio meridionale, possiamo chiederci dove finisca il Mezzogiorno dal punto di vista linguistico. I confini amministrativi, infatti (peraltro in questa zona recenti, non anteriori al 1927; Gaeta e Cassino, oggi località laziali, appartenevano infatti alla Campania), non danno indicazioni chiare, e comunque – come si è già detto – non corrispondono mai, nemmeno altrove, a quelli linguistici.  

 

Nella seconda puntata abbiamo parlato di una fascia che unisce il Circeo, sul Tirreno (LT), alla foce dell’Aso (AP) sull’Adriatico, come limite settentrionale dell’area linguistica “meridionale intermedia” o “alto-meridionale”;

ora possiamo precisare che in realtà tale limite, come del resto altri, 

è solo approssimativo (è in buona sostanza quello della chiara e costante presenza della vocale -ë in posizione finale), essendo parecchi i paesi posti a Nord di esso che rivelano ancora tratti tipici del Mezzogiorno.


Come esempio possiamo prendere il dialetto del comune di Sonnino (LT), situato fra Terracina e Priverno, subito a Nord dello storico confine fra Regno delle Due Sicilie e Stato Pontificio (al quale ultimo apparteneva), che, pur mostrando già una fonetica tipica dell’area “mediana” (cioè quella che si estende a Settentrione dei dialetti “meridionali intermedi”), si presenta al tempo stesso fortemente permeato di meridionalismi al livello lessicale e non solo: accattà ‘comprare’ (nel Lazio prevale crombà), accìte ‘uccidere’ vs. ammazzàfatijà ‘lavorare’ vs. lavorà, ’ncignà ‘cominciare, iniziare (ad es. a tagliare un salame)’ vs. comenzà, e ancora dimméllodiccéllo ‘dimmelo, diglielo’ (nap. rimméllë, ringéllë), me sèndo bbóno ‘mi sento bene’ (nap. më sèntë bbuónë) ecc.

Ma anche se continuiamo verso Nord, i tratti meridionali non ci abbandonano 

del tutto, giungendo anzi in prossimità di uno dei due principali 

“spartiacque” linguistici della penisola: la linea Roma-Ancona.


Questa, come del resto l’altra grande demarcazione dialettale, e cioè la linea La Spezia-Rimini, è formata dal sovrapporsi e intrecciarsi di più “confini linguistici” o isoglosse, cioè da linee tracciate, su di una carta linguistica, unendo tutti i punti che, sulla carta stessa, si trovano all’estremità dell’area di diffusione di un certo fenomeno (fonetico, morfologico, sintattico, lessicale ecc.). Sulla linea Roma-Ancona, confluiscono quindi i limiti settentrionali dei tratti più tipici del Centro-Sud (comuni cioè ai dialetti meridionali e a quelli “mediani”), che a sua volta viene così distinto dall’area linguistica toscana o toscanizzata. Si arrestano qui, infatti, fenomeni importanti che abbiamo già incontrato come la metafonesi, il possessivo enclitico, il betacismo, il genere neutro, e antiche voci latine come femmina per ‘donna’ o frate per ‘fratello’ (cfr. Figura 3).

Ma perché questo confine batte proprio qui, e non altrove?


Possiamo concludere con le parole di uno studioso che si è occupato a fondo della questione: la linea Roma-Ancona è infatti

«un confine linguistico antichissimo, in quanto ricalca ancora abbastanza fedelmente la linea che diversi secoli prima di Cristo divideva nell’Italia preromana i territori 

delle popolazioni di lingua etrusca da quelli dei popoli del gruppo linguistico indoeuropeo, italici (Umbri, Sabini) e latini.


Per quanto concerne la Sabina poi, la bassa valle del Tévere da Amelia e Narni fin verso Farfa e Passo Corese segnò anche, nell’alto Medioevo, il limite occidentale dell’espansione del ducato longobardo di Spoleto.»1  

 

Torniamo, insomma, al punto da cui eravamo partiti: non una “arcaicità” linguistica disarmante e anche inspiegabile, ma, semmai, un sinuoso, seducente “filo della continuità”. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

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CODEX… PATRIMONIO DELL’UMANITA’ di Cecilia Perri – Numero 15 – Dicembre 2019

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CODEX…  PATRIMONIO DELL’UMANITA’ 

 

è un evangeliario greco miniato, uno dei più preziosi esistenti al mondo, che contiene l’intero vangelo di Matteo, quasi tutto quello di Marco, del quale mancano solo i versetti 15-20, e una parte della lettera di Eusebio a Carpiano sulla concordanza dei vangeli stessi.

È costituito da 188 fogli, pari a 376 pagine, di finissima pergamena purpurea e in origine doveva certamente comprendere tutti e quattro i vangeli, in uno o due volumi. La scrittura utilizzata è la maiuscola biblica, il testo è distribuito su due colonne di venti righe ciascuna, di cui le prima tre che costituiscono l’incipit dei vangeli sono scritte con caratteri aurei, mentre le altre in argento.
Il Codex è inoltre

 

arricchito da quindici miniature considerate un assoluto capolavoro dell’arte bizantina

 

Probabilmente le miniature oggi conservate non sono tutte quelle che ornavano e illustravano l’evangelario, ma rappresentano certamente un folto nucleo che comprende rievocazione dei fatti neotestamentari, concepiti allo scopo di servire la liturgia della chiesa greca. Il ciclo miniato di Rossano è considerato più di una narrazione illustrata della vita di Cristo; gli studiosi hanno infatti evidenziato il rapporto con le letture della settimana santa nella chiesa bizantina, tradizione ancora in uso in molte comunità della Calabria, sottolineando come le composizioni attingano spesso da più vangeli contemporaneamente.   

 

Le scene raffigurate in sequenza sono: la resurrezione di Lazzaro; l’ingresso di Gesù in Gerusalemme; la cacciata dei mercanti dal Tempio; la parabola delle dieci Vergini; l’ultima cena e la lavanda dei piedi; la comunione degli apostoli; Cristo nel Getsemani; il frontespizio delle tavole delle concordanze; la lettera di Eusebio a Carpiano; la guarigione del cieco nato; la parabola del buon samaritano; Cristo davanti a Pilato; il pentimento e la morte di Giuda; la scelta tra Cristo e Barabba; il ritratto san Marco con la Sophia.

In dieci delle quindici pagine miniate, al di sotto della scena figurata vi sono le figure 

di quattro profeti che reggono con la mano sinistra un rotolo sul quale 

è una loro profezia, mentre con la destra indicano la scena 

che si svolge in alto, per stabilire la stretta connessione 

tra vecchio e nuovo testamento.

 

Protagonista indiscusso delle miniature è la figura di Cristo, raffigurato secondo l’iconografia bizantina. L’espressività dei personaggi, la resa armonica e moderna del movimento, l’uso dei preziosi colori, sono alcuni degli elementi che rendono davvero unico il ciclo miniato. Ciò che rende ancor più affascinante il Codex è la sua storia, ancora oggi avvolta dal mistero. Il Codex è ricordato per la prima volta a Rossano nel 1831 da Scipione Camporota, canonico della Cattedrale, ed è segnalato poi, fugacemente, nel 1846, dallo scrittore Cesare Malpica in un libro-reportage dal titolo La Toscana, l’Umbria e la Magna Grecia, ma viene presentato per la prima volta all’attenzione della cultura europea ed internazionale nel 1879 dai due studiosi tedeschi, Oskar von Gebhardt e Adolf von Harnach, che pubblicano un testo dal titolo Evangeliorum Codex Graecus Purpureus Rossanensis, battezzando ufficialmente il prezioso manoscritto di Rossano.

Molteplici sono ancora oggi gli aspetti problematici dibattuti dalla critica 

e riguardano la precisa datazione del Codex, 

 

il luogo in cui fu realizzato, i tempi e le modalità del suo arrivo nella città di Rossano. La datazione è circoscritta alla metà del VI secolo, mentre più complessa resta la questione relativa al luogo di realizzazione dell’evangelario: esso fu realizzato in uno scriptorium bizantino dell’Impero Romano d’Oriente, ma le diverse tesi oscillano tra la Siria, l’Egitto, la Palestina o la città Costantinopoli, anche se oggi gli studiosi tendono a riconoscere Antiochia di Siria il luogo più probabile di esecuzione.

Circa la committenza è plausibile pensare che sia stato commissionato 

da una figura proveniente dall’ambiente della corte di Bisanzio,

 

dalla famiglia imperiale o dall’alta aristocrazia di corte, per la preziosità dei materiali di cui si compone – pergamena purpurea, inchiostro d’oro e d’argento – il colore porpora era a quel tempo riservato all’imperatore e ai suoi stretti congiunti. Probabilmente fu portato a Rossano dai monaci iconoduli, intorno alla metà del VII secolo, al tempo delle persecuzioni iconoclaste, ma non è da escludere l’arrivo a Rossano coincidente con la sua elevazione a diocesi nel X secolo, che, tra l’altro, coincide con il periodo di maggior splendore della città. Una tesi più recente afferma come il Codex possa considerarsi un dono della principessa bizantina Teofano, sposa di Ottone II e imperatrice del Sacro Romano Impero, la quale nell’estate del 982 tenne corte in Calabria, proprio nella città che da millenni lo custodisce.   

 

Dal 1952 il Codex è conservato nel Museo Diocesano e del Codex a Rossano, piccolo borgo intriso di cultura bizantina, il primo museo diocesano ad essere istituito in Calabria.

Il prezioso manoscritto, riconosciuto il 9 ottobre del 2015 

quale Bene Patrimonio dell’Umanità

 

da parte dell’Unesco ed inserito nella categoria “Memory of the World”, dopo un attento restauro compiuto dall’ICRCPAL, è dal 3 luglio 2016 conservato e tutelato all’interno di un nuovo percorso museale suddiviso in due sezioni, una interamente dedicata al Codex e l’altra alla collezione museale, studiata al fine di valorizzare al meglio l’intero patrimonio artistico della Diocesi.

Un Museo nuovo, in grado di comunicare l’arte anche in relazione alle esigenze 

del visitatore moderno attraverso soluzioni multimediali, quali totem 

che permettono di sfogliare virtualmente il manoscritto, 

video e monitor touch-screen che consentono 

di compiere un vero e proprio viaggio nella storia 

e nell’arte del territorio diocesano. 

 

Il Museo è gestito dall’associazione “Insieme per Camminare”, nata per volere dell’Arcivescovo Mons. Satriano e composta da giovani con varie professionalità, accomunati da un profondo amore verso il territorio. 

 

 

 

 

 

 

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DICI SIBARI E SEI NELLA MAGNA GRECIA di Michele Minisci – Numero 15 – Ottobre 2019

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DICI SIBARI        E SEI NELLA MAGNA GRECIA 

 

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Sibari-toro cozzante in bronzo originale

oggi frazione del comune di Cassano allo Jonio, in provincia di Cosenza, ieri tra i centri più importanti e floridi della Magna Grecia, fu fondata tra il 720 e il 708 a.C. da un gruppo di Achei provenienti dal Peloponneso.  

In breve tempo, divenne la meta di migranti provenienti 

anche da altre aree dell’Ellade, 

a cominciare dalla città di Trezene, antico centro dell’Argolide orientale. Sull’origine e la fondazione della polis scrissero Aristotele e lo storico Strabone, che ancora costituiscono le fonti principali per gli studi in materia. 

 

Ci si è chiesti, spesso, quali potessero essere state le motivazioni che spinsero quegli uomini e quelle donne a lasciare i propri luoghi natii per approdare in terre sconosciute. Molto probabilmente, alla base della decisione, anche allora, c’erano ragioni di natura economica e sociale.

 

Migrazione economica ante litteram, insomma, che coinvolse, 

nell’arco di più decenni, molte migliaia di persone.

 

Le spedizioni erano precedute, solitamente, da una chiamata pubblica, rivolta a tutti coloro che desiderassero imbarcarsi. Attraverso una serie di proclami, gli abitanti di una città venivano informati delle prossime partenze e chi voleva far parte della spedizione andava a registrarsi, lasciando il proprio nominativo ai magistrati.   

 

Scrive lo storico Strabone:

 

«La città raggiunse anticamente tanta fortuna che esercitò il suo potere 

su quattro popoli vicini; ebbe assoggettate 25 città; inoltre con le sue abitazioni, riempiva tutt’intorno lungo il fiume Crati un cerchio di 50 stadi 

(ogni stadio corrisponde a 178 m)».

 

Un contributo notevole alla crescita ed allo splendore di Sibari lo diede senz’altro il territorio. La vasta pianura, vocata per la coltivazione dei cereali, e le colline circostanti, ambienti ideali per i vigneti; i monti, da cui attingere materie prime, come legno e argento, ma anche prodotti come miele e lana.  

 

La città della dolce vita (Triphè), passata alla storia per gli interminabili banchetti, per il sofisticato e ricco abbigliamento, per i giochi in onore degli Dei, per il “culto della tranquillità”. A proposito di quest’ultima, si narra che a Sibari le case erano coperte da teli per impedire ai raggi del sole di disturbare il dolce sonno degli abitanti e che dentro le mura della città erano vietati lavori rumorosi!  

 

Nondimeno, stando alle cronache dello storico Diodoro Siculo, Sibari fu anche protagonista di un’intelligente politica di integrazione a favore dei migranti, prevalentemente italici. A proposito di integrazione, oggi tanto problematica!  

 

Grazie all’accoglienza ed all’inclusione di un numero molto alto di persone, accrebbe, infatti, la sua forza e la sua capacità di espansione, potendo contare su un esercito molto potente e motivato.

Nel massimo del suo splendore, Sibari arrivò a controllare un territorio 

che si estendeva a sud fino alla foce del fiume Traente, 

al confine con Crotone, e a nord fino alla piana del fiume Sinni

 

Sul versante tirrenico la sua influenza arrivò fino a Temesa e Terina, tra le attuali Amantea e Lamezia Terme. Fu proprio per la sua politica espansionistica, evidentemente, che intorno al 520 a.C. entrò in conflitto con Crotone, città guidata da un forte spirito moralista, sotto l’egida della scuola di Pitagora.

All’origine degli attriti tra i due centri, secondo la tesi prevalente, ci sarebbe 

la cosiddetta “questione tirannica”, ovvero l’evoluzione democratica 

del regime sibarita, ad opera di Telys, l’ultimo tiranno di Sibari, 

e del suo impero. 

 

Telys è stato definito «un tiranno di stampo o estrazione democratica», giunto al potere con una rivolta popolare, dunque in maniera diversa dai dittatori tradizionali, che generalmente conquistavano il potere con un colpo di Stato, appoggiandosi all’esercito.

 

La sua politica fu di scontro totale con il potere oligarchico, tant’è che scacciò 

dalla città 500 ricchi aristocratici, confiscandone i beni,

 

ed avviò una vera e propria rivoluzione sociale su basi anti-plutocratiche. Gli esuli, com’è noto, trovarono rifugio a Crotone e questo costituì il casus belli che fece esplodere il conflitto tra le due città. 

 

La battaglia finale sarebbe avvenuta nel 510 a.C., in un’area compresa tra la città di Lacinia e l’attuale Piana di Sibari, nei pressi del fiume Traente.

Crotone si impose con le sue armate guidate da Milone, 

l’atleta olimpionico plurivittorioso divenuto stratega dell’esercito.

 

La città viene distrutta e cancellata definitivamente con la deviazione del letto del fiume Crati sull’abitato. 

La sconfitta di Sibari fu dovuta senza dubbio ad interventi esterni. In occasione della battaglia, fu chiamato infatti Dorieo, figlio della prima moglie di Anassandrida, re di Sparta, che giunse con le sue truppe su esplicita richiesta d’aiuto di Crotone.

Il sito archeologico di Sibari 

 

Il sito archeologico di Sibari è ubicato sulla costa Ionica della Calabria a breve distanza dalla foce del Fiume Crati.

Questa parte del territorio calabro, nota topograficamente come Sibaritide vide 

il sorgere, lo sviluppo, l’espansione e poi il declino della grande polis di Sibari; 

qui furono impiantati, in epoche successive alla distruzione della città greca, sovrapponendosi in parte alle sue rovine, prima il centro ellenistico di Thurii 

e poi quello romano di Copia.

 

Questa eccezionale stratificazione fa di Sibari uno dei siti più estesi ed importanti del Mediterraneo di età arcaica e classica.   

 

L’area del parco archeologico è divisa in settori, ognuno dei quali è identificato con il nome del cantiere di scavo: Parco del Cavallo, Prolungamento Strada, Casabianca, Stombi. Tutti i settori, tranne quello di Stombi, sono visitabili.

La visita al Parco Archeologico della Sibaritide rappresenta un percorso a ritroso 

nel tempo che dalla tarda antichità e dall’età romana scende 

ai livelli della Sibari arcaica dell’VIII secolo a.C.; 

 

bisogna però tener presente che, tranne poche eccezioni, i livelli più profondi e quindi più antichi non sono visibili e che quanto è in luce rappresenta la fase più recente, cioè quella della città romana di Copia. 

Il Museo 

 

Inaugurato nel 1996, il Museo della Sibaritide ospita interessanti reperti di epoca greca e romana (vasellame, lamine d’oro, sculture e decorazioni in terracotta), ma anche materiali recuperati in tombe indigene dell’età del Ferro e manufatti di provenienza greca, fenicia ed egiziana a testimonianza degli intensi traffici marittimi dell’epoca. Nel 2013 un’alluvione ha coperto di fango larga parte degli scavi, oggi fortunatamente recuperati.

La città di Sibari lascia una traccia importantissima nella Storia 

come una delle più importanti e sfarzose città del mondo occidentale,

il cui periodo storico di oltre duecento anni trascorsi proprio qui, nella nostra Calabria, onorano così questa regione bellissima e sventurata allo stesso tempo.  

 

Recentemente il sito Casa Bianca ha ricevuto dalla Unione Europea un contributo di 500.000 € per ampliare l’accessibilità del sito e i percorsi pedonali – come mi dice la dottoressa Adele Bonofiglio, direttore del Museo Archeologico della Sibaritide, e un altro milione di euro per la predisposizione di nuove vetrine per accogliere altri importanti ritrovamenti oltre all’ormai noto reperto bronzeo del 5° secolo a.C. il Toro cozzante.  

 

 

 

 

 

 

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Credit foto: gentile concessione Direzione Museo e Parco Archeologico di Sibari

 

COSENZA CENTRO STORICO E TERRITORIO di Daniela Francini – Numero 15 – Ottobre 2019

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COSENZA  CENTRO  STORICO          E TERRITORIO

 

alcune idee per ridare al centro storico un ruolo territoriale. 

Come appare dalla carta dell’Angelica e del Pacichelli risultano evidenti due linee di attraversamento nel centro storico di Cosenza; per la prima, nella carta dell’Angelica, la via degli Orefici, il tracciato è chiaro; per la seconda, la scritta “via delli Padolisi” si trova ad un livello altimetrico superiore, nella via che oggi è denominata S. Francesco d’Assisi e poi via Giostra Vecchia.  

 

Il primo itinerario, partendo dai porticati, attraversa la Piazza dei mercanti (21) poi la Piazza Maestra al centro dell’itinerario, con il Duomo, (n.1) prosegue per la Piazza degli orefici (43) e si conclude a Porta Chiana (28);  

Il secondo itinerario storico è rappresentato sulla carta dal collegamento della fontana dello Mastro Andrea (n. 36), dalla chiesa di S. Francesco d’Assisi(n.2), dai Padolisi (26), da Capo Piazza (25) e si conclude anch’esso a Porta Chiana (28).  

 

L’inizio e la fine dei due itinerari sono rappresentati nella carta dai numeri in sequenza 29 e 28 che rappresentano rispettivamente l’ingresso, coincidente con i porticati (29) a piazza Valdesi e l’uscita a Porta Chiana(28).    

Oggi il secondo itinerario è riconoscibile salendo da Piazza Valdesi attraverso via Messer Andrea, arrivando a Piazza Berardi, proseguendo su via S. Francesco d’Assisi, percorrendo via della Giostra Vecchia, via Gaetano Argento passando sotto agli archi di Ciaccio, ed arrivando a Porta Piana. [Casella di testo] Al centro del primo itinerario è il Duomo, al centro del secondo itinerario è la Chiesa di S. Francesco d’Assisi.

La successione dei principali avvenimenti della chiesa di San Francesco d’Assisi mostra che in essa è rappresentata tutta la storia dei più importanti

avvenimenti della città 


e che nel suo intorno c’è la sovrapposizione storica di tanti secoli di ritrovamenti e di tante ricchezze ancora da scoprire.   

 

Il lavoro di restauro che abbiamo contribuito a realizzare è stato premiato da scoperte e ritrovamenti anche insperati: l’eliminazione dell’intonaco nella navata principale, nella zona del presbiterio e sugli archi della navata sinistra ha disvelato elementi in pietra locale pregiamente intagliati da maestranze roglianesi, riportati quindi in luce e accuratamente consolidati. Durante i lavori di restauro, si è rinvenuta un’incisione in una pietra della navata sinistra: ROGLIANO G.R.P.F.F.I.1613, datazione non riportata in alcun testo e che ha sottoposto la ricerca storica ad ulteriori approfondimenti.

La chiesa si riconferma testimonianza storica della scuola moglianese, 

maestri artigiani progettisti ed esecutori di opere di straordinaria fattura.


Ogni maestro si avvaleva di una squadra, fatta di manovali ed apprendisti attenti ad imparare, ad apprendere i sistemi di lavoro, le tecniche, il gusto estetico, la stessa cultura; da Napoli in giù ebbero una grande fama erano richiesti un po’ ovunque, specialmente dove le opere erano più impegnative e dovevano assumere i caratteri della solennità e della sontuosità. 

 

Ponti e portali le opere richieste agli scalpellini: gli scalpellini intagliano nella pietra i sogni degli uomini che quei palazzi e quelle chiese vedranno tutti i giorni e dovranno dire chi essi sono e come si pongono di fronte alla storia ed alla società.

Gli scalpellini prendono una pietra ne vedono all’interno una forma 

e con quella riescono a dare forma al confine stesso dell’architettura.


La tradizione assegna ad un gruppo di fratelli, pare fossero in sette, gli “sciardari”, così noti dal soprannome loro attribuito un ruolo d’avanguardia nell’arte calabrese del XVII sec. e un posto di primo piano nell’ambito della stessa dinastia di scalpellini ed intagliatori roglianesi; sciardari furono quei gruppi roglianesi le squadre al lavoro, le carovane fatte di architetti-capomastri, artigiani e manovali in partenza da Rogliano per prestare la loro opera in tutta la Calabria. Il termine deriva probabilmente dal togliere la Scarda, ossia ripulire la pietra dei suoi strati superficiali più deboli e predisporla alla lavorazione e così anche il legno.

Mastro Gerolamo, mastro Giliberto e gli sciardari rappresentano i riferimenti fondamentali che segnano in epoche diverse il fortunato percorso 

della scuola degli architetti e artigiani roglianesi


Oggi assistiamo alla decadenza dei mestieri tradizionali che da noi ormai da tempo non vengono più tramandati e sembra ormai persa ogni possibilità di perpetuare le tecniche, i modi e le regole artigianali di un tempo.   

 

Pochi sono infatti nella nostra regione gli scalpellini che lavorano ancora manualmente la pietra; dalla Chiesa di S. Francesco d’Assisi emerge quanto sia importante promuovere e rilanciare l’artigianato per un’adeguata preparazione sia teorica che tecnico pratica con il recupero dei mestieri tradizionali ed è importante anche per garantire un’attività di vero restauro e conservazione delle testimonianze artistiche del nostro passato.   

 

Il centro storico di Cosenza può contare sulla presenza di un nucleo architettonico di elevato interesse storico costituito dal complesso della Chiesa di San Francesco d’Assisi.  

 

Il Piano di recupero del centro storico può far riscoprire il significato dell’itinerario di storia e cultura della prima rigenerazione urbana a Cosenza e promuovere l’itinerario complementare di via S. Francesco d’Assisi.

Attraverso un riuso mirato di tale notevole struttura si potranno mettere in rete 

le diverse offerte culturali ed Il Centro Storico di Cosenza potrà costituirsi 

come un polo di eccellenza nel panorama calabrese.


Questo ed altro dal libro: “La storia interrotta” a cura di Daniela Francini, Carla Salamanca, Paola Luciano di recente ristampa. 

 

 

 

 

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TEATRO RENDANO TESORO DISTRUTTO E RINATO di Pietro Tarsia – Numero 15 – Ottobre 2019

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TEATRO  RENDANO  TESORO  DISTRUTTO E RINATO 

 

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Cosenza vanta uno dei teatri più importanti del Meridione la cui ultima “incarnazione”, il “Rendano”, è erede di una storia che inizia addirittura nel Rinascimento, con rappresentazioni di opere teatrali e musicali in città risalenti a quelle epoche.

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Alla fine del primo decennio del 1800 Re Ferdinando di Borbone promosse la costruzione di un teatro che però vide la luce solo nel 1830 il “Real Ferdinando”; poi nel 1857 per iniziativa di cosentini amanti dell’arte, di fronte al palazzo della Prefettura venne eretto un teatro in legno, il “Baraccone”, utilizzando gli arredi provenienti dallo smantellamento del Real Ferdinando.  

 

Nel 1877 il Comune decise di realizzare un Teatro Comunale in luogo del “Baraccone”, su progetto dell’ing. Nicola Zumpano, dell’Ufficio tecnico comunale. Ma solo il 20 novembre 1909 con Aida di Verdi, il Teatro Comunale verrà inaugurato.

 

Il Teatro disponeva di una sala con 3 ordini di palchi rivestiti in velluto rosso cremisi, decorazioni pittoriche ed in stucco realizzate da Giovanni Diana di Napoli nella sala, da Enrico Salfi nel soffitto che presentava in gruppi di figure allegoriche le 3 arti sceniche: la Musica, la Danza e la Drammatica.

 

Il sipario ideato da Domenico Morelli ed eseguito dal napoletano Paolo Vetri nel 1901, per fortuna visibile tutt’ora, mette in scena l’ingresso a Cosenza, nel 1433, di Luigi III d’Angiò, duca di Calabria e della giovane sposa Margherita di Savoia. Dopo il blocco delle rappresentazioni causato dalla Prima Guerra Mondiale, la ripresa avvenne nel 1920 e nel 1935 il Teatro venne intitolato al pianista e compositore Alfonso Rendano.

Nel 1943, una bomba destinata al vicino Castello Normanno-Svevo, 

sede della contraerea, colpì in pieno il teatro, distruggendone 

il soffitto e danneggiandolo gravemente. 

 

Il Comune incaricò l’architetto Ezio Gentile della progettazione in stile neoclassico, riproponendo quasi fedelmente lo schema originario con stucchi e decorazioni negli spazi interni (mentre venne realizzato all’ultimo piano un ampio foyer, poi intitolato al maestro e compositore cosentino Maurizio Quintieri)  ed io, venni investito della Direzione dei lavori, tuffandomi con passione in un’impresa, a buon diritto storica, in cui diedi “tutto me stesso”, non risparmiando certo tempo ed energie per la buona riuscita del progetto. Progetto improbo, reso tale dalle intuibili difficoltà di reperimento e selezione di materiali consoni, di controllo e guida delle maestranze neofite all’intento di ricostruzione e recupero di un edificio storico.

 

Grazie all’impegno di tutti quelli coinvolti, fra cui 

l’ing.Giovanni Travaglini, allora Provveditore alle Opere pubbliche 

per la Calabria, e non può certo obliarsi l’interesse primario e pressante 

dell’allora ministro dei Lavori Pubblici, il cosentino Giacomo Mancini, 

la ricostruzione ebbe termine con una alacrità e speditezza

 

oggi incredibili e purtroppo inusitati.   

 

Così già il 7 gennaio 1967 un moto di legittimo orgoglio ci ha consentito di partecipare all’inaugurazione del nuovo, vecchio, rinato “Rendano”, con le note della Traviata di Verdi che obliavano per sempre i rumori orridi di bombe e guerra ancora risonanti.

 

 

 

 

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CASSANO IONIO TRA STORIA E LEGGENDA di Francesco Serra di Cassano – Numero 15 – Ottobre 2019

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CASSANO IONIO TRA STORIA      E LEGGENDA

 

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A Cassano Ionio, in provincia di Cosenza, la natura è stata avara di terra, ma le ha dato in cambio una bellezza scenografica veramente insolita, “oggetto di cupida ammirazione” ai tempi delle incursioni saracene, quando il feroce emiro Al Hasan, dopo averla conquistata nel giugno del 951, scrisse che gli era piaciuta “perché è assai bella”.

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Quanto fosse bella e importante la città, come racconta uno dei suoi biografi, Vincenzo Saletta1, è dimostrato dai numerosi tentativi fatti da Longobardi, Bizantini e Saraceni per impossessarsene.  

 

Nell’anno 969, in particolare, Cassano fu teatro di uno degli episodi più sanguinosi della sua storia. L’imperatore bizantino Niceforo Foca aveva finto di concedere la mano della principessa Teofania al giovane figlio di Ottone di Sassonia (il futuro Ottone II).

 

Ottone, per ricevere degnamente la promessa sposa del figlio, aveva inviato un folto gruppo di persone autorevoli del suo seguito, i quali, presso Cassano,

 

vennero circondati e fatti a pezzi dai soldati bizantini appoggiati dai reparti di stanza proprio nel castello di Cassano. La reazione di Ottone fu “rabbiosa e crudele”: i bizantini furono raggiunti e sopraffatti in contrada Timpone Rosso di Cassano, i prigionieri uccisi, mentre quelli più autorevoli, tra i quali i duchi Antario e Sigifredo, ebbero il naso tagliato e, così mutilati, imbarcati e inviati a Costantinopoli.

La città fu in parte saccheggiata, in parte data alle fiamme,

 

e non si sarebbe salvata dalla definitiva rovina se Ottone non si fosse determinato a perdonare gli abitanti, prendendo la residenza nel castello dentro la città, dove rimase fino al 18 aprile di quello stesso anno, per celebrarvi la Pasqua. 

 

Il problema della fondazione di Cassano2, connesso a quello della sua esatta ubicazione, è un dilemma comune a tutte le città della Magna Grecia e investe i diversi periodi storici (pre-greco, greco e magno-greco) e le relative grandi differenziazioni di costumi, società, istituzioni, alle quali si devono aggiungere le ulteriori trasformazioni avvenute in epoca bizantina e moderna

 

Ad ognuno di questi periodi corrispondono altrettante ubicazioni, 

spesso sensibilmente diverse tra loro, che non sempre 

l’indagine storico-archeologica

è riuscita ad identificare.

 

Per quel che riguarda il primitivo sito di Cassano, allorché la fondarono gli Enotri verso il secolo XIV-XV a.C. con il nome greco di Cossa, “possiamo supporre, sulla base di sicuri indizi […] che esso fosse sulle pendici nord-occidentali del monte Marzio (oggi Pietra del Castello) in una posizione approssimativamente compresa tra la contrada Acquarella ad est di Pancaro e la contrada Appicello al di sopra della riva destra del fiume Eiano”3. Gli Enotri (cultori del vino) erano un popolo dedito soprattutto alla pastorizia ed avevano come simbolo il toro, il vitulus.

La regione prese così il nome di Vitalia, da cui sarebbe poi derivato 

il nome Italia. Sopraggiunta l’emigrazione achea (sec. VIII a.C.), 

“la città si estese verso l’alto, approssimativamente attorno 

all’attuale piazzetta di S. Agostino, dove venne costruita 

la prima fortezza,

 

e verso oriente, oltre il sito dove oggi sorge il rione Pié d’Ulivo, mentre i prischi abitanti venivano sospinti verso la parte occidentale del territorio e costretti, forse in condizioni di semi-cittadini a crearsi nuove fonti di vita nelle terre dell’interno”4.  

 

Dopo la distruzione di Sibari (510 a.C.), anche Cassano venne distrutta dai Crotoniati, che inseguivano i Sibariti in rotta e, così, i suoi abitanti si dispersero, cercando rifugio nelle vicine città, dove rimasero per oltre 60 anni.

Furono i Thurini, insieme ai Sibariti che avevano interessi nel territorio circostante, 

ad aiutare i Cassanesi a ricostruire la loro città, che sorse, secondo 

quanto ricostruisce Saletta, all’incirca nella zona dove si trova 

ancora oggi, incastonata in una natura 

rigogliosa e imprevedibile,

 

circondata da sette colli (Megalite, Astrolomo, Pallice, Pierio, Strongilo, Flaminio, Termi), ai quali è legata gran parte della sua storia e intorno a cui sono stati creati i più interessanti miti della Magna Grecia. La città venne circondata di mura, che esistevano ancora in epoca romana, e l’acropoli venne costruita in alto sulle pendici della Pietra di S. Marco.  

 

I coloni greci, spiega Saletta, “per quello scrupolo religioso tanto bene delineato da Omero, non solo ricreavano nei luoghi dove sbarcavano il profilo toponomastico della patria d’origine, ma lo serbavano sempre uguale ogni volta che erano costretti a mutare sito”.

E’ probabile che la pianta della città fosse ottagonale con due strade principali 

che si incrociavano ad angolo retto, con l’agorà nei punti di incrocio, 

l’acropoli e l’abitazione dell’Egemone nella zona più alta.

 

“Tale pianta, che del resto si riferiva al sistema assiale delle città italiche […] e che risultò di grande effetto scenografico, appare, ancora oggi, chiarissima a chi osservi la città dall’alto della Pietra di Castello”5. Più a sud dell’attuale sito della Cattedrale, venne costruito il tempio di Zeus, mentre le abitazioni vennero costruite sul dorsale sassoso verso l’alto, come a Selinunte, avendo come asse maggiore e centrale l’attuale via della Silicata, abbellita da piccole case costruite ad insulae sui lati, con porte senza archi, con scale esterne appoggiate alle facciate secondo la tecnica greco-romana.   

 

Nell’anno 286 a.C., secondo quanto riferisce Plutarco, la città ebbe un nuovo incremento di popolazione con l’arrivo della vexillatio di coloni romani guidati da C. Flaminio.

La distribuzione di terre ai coloni, data la particolare situazione topografica 

della città, si effettuò verso est e verso sud-est, in tutto il territorio compreso

 tra l’attuale frazione di Lauropoli e quella di Doria, dove sono stati 

rinvenuti frammenti di laterizi e di suppellettili di epoca romana.

 

La denominazione “Lauropoli” è di più recente formazione e risale all’anno 1763, quando la frazione venne ricostruita e ripopolata dalla duchessa Laura Serra. Durante la Repubblica Romana, Cassano fu dichiarata Municipio e, in seguito, poiché parteggiava per Cesare, fu assediata da T. Annio Milone. Nei secoli successivi, dopo gli splendori dell’Ellade e il dominio di Roma (il più lungo in assoluto, dal IV secolo a.C. al 537 d.C.), Cassano rifiorì come uno dei primi comuni calabresi che abbracciò il Cristianesimo (secondo alcune testimonianze vi giunsero per annunciare il messaggio evangelico S. Pietro e S. Marco).

Quando i Bizantini riconquistarono la Calabria, Cassano fu scelta come sede 

di Diocesi, poiché le sue Comunità erano attive ed erano centro di apostolato 

per largo raggio, mentre, all’epoca degli Angioini, divenne feudo 

di Icerio de Mignac, come trascritto nel regio registro del 1284. 

 

Di un certo interesse mitologico è anche lo stemma del comune cassanese che riproduce il Liocorno, mostro leggendario dal corpo di cavallo, testa di cervo, zampe d’elefante e in fronte un solo corno. Secondo i Greci, aveva poteri straordinari e misteriosi.  

 

I sette colli, il centro storico ed il complesso termale rappresentano oggi un percorso culturale di grande interesse che, attraversando i centri di Lauropoli, Doria e Sibari lungo un territorio che si estende ad anfiteatro, da levante a ponente, conduce fino alla splendida Baia della Luna, in cui trovano posto nuovi siti turistici con gli antichi reperti archeologici, testimonianza dei popoli insediatisi in queste terre.

Il paese di Cassano appare ai visitatori anche come lo scenario di un grande presepio, dove colli, boschi, rocce e abitato richiamano in vita tradizioni antichissime 

e leggende, che hanno fuso civiltà diverse nel corso della storia 

e che costituiscono l’humus della più nobile tradizione europea.  

 

 

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1 Vincenzo Saletta, Storia di Cassano Ionio, Casa editrice Studi meridionali, 1966 

2 Fondamentale testo per la conoscenza della storia e delle leggende legate a Cassano è la monografia del 1857 a cura di Biagio Lanza, Monografia della città di Cassano, Edizioni Brenner, 1971. 

3 V. Saletta, cit. 

4 V. Saletta, cit. 

5 V. Saletta, cit. 

 

LE DONNE E LA TRADIZIONE MUSICALE ORALE IN CALABRIA E LUCANIA di Innocenzo Cosimo de Gaudio – Numero 15 – Ottobre 2019

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LE DONNE E            LA TRADIZIONE MUSICALE ORALE IN CALABRIA            E LUCANIA      

PARTE Ii

 

 

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In molte comunità calabro-lucane, specie nei Riti del Venerdì Santo, il canto femminile si sostanzia in spazi e forme antagonisti, sia rispetto all’ufficialità della Chiesa sia a quelli degli uomini. 

Riportiamo, a titolo d’esempio, alcune esperienze in contrasto, rilevate a Cassano allo Jonio e a San Benedetto Ullano1. Nel primo caso,

le donne fanno gruppo a sé: estranee alla organizzazione coreografica 

della processione, procedendo secondo i propri tempi, con numerose soste, 

cantando in cerchio, quasi abbracciate,


marciando spesso a ritroso, apparentemente incuranti di quel che accade nel lungo corteo davanti a loro e, di fatto, al di fuori di ogni controllo da parte della gerarchia ecclesiastica (Foto 1 – 3).  

 

Quasi una processione autonoma dell’Addolorata, all’interno della processione ufficiale2.  

 

La voce delle donne, lacerata e ricca di pathos, vìola lo spazio sonoro circostante, contrappuntando e sovrastando la composta e austera banda e gli acuti suoni delle tube, in uso agli inquietanti flagellanti incappucciati (Foto 4 – 6).

Le piccole Addoloratine, compitissime bambine, agghindate 

con il manto dell’Addolorata dalle Sette Spade

sembrano osservare, sgomente, la scena (foto 7).

 

S. Benedetto Ullano 

 

La kalimera3 costituisce, per tutte le comunità italo – albanesi, un’antichissima tradizione di rilevante interesse storico-letterario, religioso e tradizionale4.

Fra le kalimere più note della raccolta di Variboba5

facciamo riferimento a quella che, nella comunità di San Benedetto Ullano, 

è nota come E keqe penë6, intonata prevalentemente da donne.

 

La struttura quasi sillabica del testo musicale e il fine catechistico (quindi, la tassativa intelligibilità del testo verbale) non rende necessaria alcuna manipolazione e obbliga a minori adattamenti, perché possa aderire al modulo musicale tradizionale, al contrario di come avviene, invece, per altre pratiche di canto femminile7 nell’area (foto 8).

 

In questo caso, l’opposizione è rovesciata:

lmentre a Cassano sono le donne a gestire i tempi e gli spazi della processione, in autonomia e quasi in antitesi ai dettati delle gerarchie ecclesiastiche, qui, 

al contrario, è il gruppo maschile che sembra allontanarsi dai precetti, 

 

mentre intona un canto processionale, il cui testo verbale è tratto dagli Inni Sacri del Manzoni8. A causa di tali comportamenti, il gruppo maschile, è osteggiato o appena tollerato dal clero locale (foto 9). 

 

Tuttavia, specie in queste occasioni solenni, il panorama sonoro della piccola comunità sanbenedettese si complica alquanto. Il particolare assetto urbanistico, organizzato sull’impianto tradizionale in ghitonje, articolate in stretti e angusti vicoli, genera, talvolta, un vero e proprio scambio di ruoli fra i due cori, quello femminile e quello maschile, con interessanti sovrapposizioni e sostituzioni che, inevitabilmente, si riflettono sull’articolazione di entrambi i canti. In alcuni casi, infatti, la più acuta e potente tessitura femminile riesce persino ad oscurare la voce, pur potente e lacerata, del solista maschio.

lelemento che colpisce è la presenza di una dicotomia fra l’atteggiamento penitenziale – espresso in maniera evidente dai flagellanti e dal clero, 

nel primo caso; dalle pie donne, nel secondo –

 

e l’elemento godereccio e/o autonomo del popolo (in entrambi gli esempi, a parti rovesciate), che ci riporta alla mente il celeberrimo Combattimento fra Carnevale e Quaresima di Bruegel il Vecchio9: Battaglia simbolica fra il Carnevale (metà sinistra del quadro) e la Quaresima (metà di destra). Se la parte sinistra del quadro è dominata dall’osteria e dalla crapula dissoluta, la destra è occupata dall’austera mole della chiesa, nella quale entrano ed escono i fedeli: due edifici-simbolo che incarnano stili di vita e visioni del mondo antitetici: un “mondo alla rovescia”10.

 

 

 

 

 

 

 

 

incappucciati

 

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 NOTE

 

1 Entrambe in Provincia di Cosenza. S. Benedetto Ullano, comunità arbëreshë. 

2 Adamo G. (2016)  

3 Dal greco, Buongiorno. 

4 La Chiesa italo-albanese, dal ‘700 in poi, si è largamente servita dei Canti Sacri popolari per impartire la catechesi, alimentare la fede e inculcare la pietà religiosa. 

5 Molte di queste composizioni sono attribuite a un sacerdote di rito greco di San Giorgio Albanese (CS), Giulio Variboba (1704 – 1788), che, sul modello di Jacopone da Todi, nella sua opera, Gjella e Shën Mëris Virgjër, si serviva di questi canti per istruire ed evangelizzare il popolo.  

6 “Tremenda pena”: i vari momenti della passione, il tradimento, l’arresto, la flagellazione, il percorso verso il Calvario e, infine, la crocifissione e morte del Cristo sono vissuti attraverso il riflesso degli stati d’animo di Maria, che, all’acme della sofferenza, emetterà uno straziante vajtim (lamento). 

7 Cfr., De Gaudio, I.C. (1993). 

8 Non è raro rilevare una certa euforia (indotta probabilmente dall’assunzione di alcolici) nei cantori che, a turno, con tanto di corona di spine, portano la Croce durante la Processione; così come non è sporadico osservare piccoli gruppi di cantori che, nelle pause, fra una Stazione e l’altra, consumino, non visti, qualche ‘spuntino’ a base di salumi…  http://leavlab.com/portfolio/diaspora-albanese/ 

9 https://goo.gl/images/AXLJDD Jan Bruegel il Vecchio, Combattimento fra Carnevale e Quaresima, 1559, Vienna, Kunsthistorisches Museum 10 Cfr. Bachtin, M. (2001). 

BIBLIOGRAFIA

 

Adamo, G. (2016) Il rapporto tra gerarchie ecclesiastiche e devozione popolare in Calabria. Un resoconto etnografico e qualche considerazione; in Caliò T. e Ceci L. (a cura di ). L’immaginario devoto tra mafie e antimafia: 1. Riti, culti e santi. Sanctorum. Rieti. Scritture, pratiche, immagini – (AISSCA) Adkins Chiti, P. (1982). Donne in musica. Bulzoni. Roma. 

Amalfi, G. (1994). Cento canti del popolo di Serrara d’Ischia. Ranisio, G. (cur.). Napoli (Iediz.1882)  

Apolito, P. (2014). Ritmi di festa. Corpo, danza, socialità. Bologna. Il Mulino Bachtin, M. (2001). L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Torino. Biblioteca Einaudi Barrio, G. (1979). Antichità e luoghi della Calabria, rist. Cosenza, Brenner Biagiola, S. (1989). Per una classificazione della musica folklorica italiana. Studio sulle ninne nanne. “Nuova rivista musicale italiana”. 1-2: 113-140 Caliò T. e Ceci L. (a cura di ). (2016). L’immaginario devoto tra mafie e antimafia: 1. Riti, culti e santi. Sanctorum. Rieti. Scritture, pratiche, immagini – (AISSCA)  Casetti, A. – Imbriani, V. (1871-72). Canti popolari delle province meridionali. Firenze. E. Loescher. (rist. anastatica Bologna 1968) De Gaudio, I (a cura di), (1990).  Gli Albanesi di Calabria, vol. 1. Università degli Studi di Bologna – ICTM (UNESCO), (libretto e trascrizioni allegati al disco Albatros VPA 8501)  De Gaudio, I.C., (1993). Tecniche polifoniche in un repertorio polivocale di tradizione orale: i Vjersh nelle comunità albanofone della Calabria, (Premio Internazionale Latina di studi musicali – sez. etnomusicologia -), “Quaderni di Musica/Realtà”. Modena. Mucchi Editore De Leo, P. (a cura di). (1988). Minoranze Etniche In Calabria e In Basilicata. Cava de’ Tirreni. Di Mauro. Donato, G. (a cura di), (1985) Polifonisti calabresi dei secoli XVI e XVII – Testi della Giornata di Studi su La Polifonia sacra e profana in Calabria nei secoli XVI e XVII – Reggio Calabria, 26 novembre 1981. Roma. Torre d’Orfeo. Duby, G. – Perrot, M. (2003) Storia delle donne in Occidente. Roma-Bari. Laterza.  Ricci, A. – Tucci, R. (a cura di) (2006). Musica arbëreshe in Calabria. Le registrazioni di Diego Carpitella e Ernesto De Martino. Roma, Squilibri Ricci, A. (2002). I suoni della poesia popolare: “poetiche” e “politiche” nel canto tradizionale calabrese, in Scafoglio, D. (cur). Le letterature popolari: Prospettive di ricerca e nuovi orizzonti teorico-metodologici). Napoli: 489-507 259 Saffioti, T. (1981). Ninne nanne: Condizione femminile, paura e gioco verbale nella tradizione Spera, V. M. (2002). Vedere le parole, ascoltare le figure. In Scafoglio, Domenico (cur.). Le letterature popolari. Prospettive di ricerca e nuovi orizzonti teorico-metodologici. Napoli. ESI Valente, G. (A cura di), Il Viaggio in Calabria dell’Abate Pacichelli, Messina, La Sicilia, s.d.

 

CARAVAGGIO A NAPOLI di Stefania Conti – Numero 14 – Maggio 2019

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CARAVAGGIO A            NAPOLI 

 

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provenienti da istituzioni nazionali e internazionali, e di ventidue quadri di artisti napoletani influenzati o, forse è meglio dire, travolti dalla sua forza innovativa.

Come si sa, Caravaggio visse per qualche tempo a Napoli. La sua fama lo aveva preceduto ed ebbe importanti commissioni. Non solo,

è proprio nel capoluogo partenopeo che inaugurò 

un suo nuovo modo di dipingere, 

più tormentato.


Fu una grandissima affermazione, un successo che non solo lo fece conoscere nei circoli culturali più innovativi e ricettivi, ma gli fece guadagnare un bel po’ di soldini. La tela delle Sette opere di Misericordia (che faceva parte del percorso della mostra), eseguita per il Pio Monte, dove ancora si trova, gli verrà pagata ben 400 ducati. Una cifra stratosferica per l’epoca.

Nell’archivio storico del Banco di Napoli – uno scrigno fondamentale per gli storici: contiene 450 anni di storia della città e del regno borbonico – sono conservati 

i documenti che ci fanno vivere istante per istante, quasi fosse un film, 

il momento in cui il giovane Merisi riceverà la somma. 


In un foglietto di carta, Tiberio del Pezzo, economo del pio Monte, dà le disposizioni e le spiegazioni del perché si deve pagare l’onorario. 

“Banco di Pietà, 9 gennaio 1607. A Tiberio del Pezzo ducati 370. et per lui a Michelangelo da Caravaggio – si legge negli antichi bancali -, dissero a compimento di ducati 400, dissero per un pezzo di un quadro che ha depinto per il Monte della Misericordia, in nome del quale esso Tiberio li paga. Et per noi il Banco del Popolo”. Senonché quella mattina il Banco della Pietà non ha in cassa i fondi per liquidare Caravaggio. Quando la storia da grande diventa minuta, quotidiana! 

 

Il pittore era noto per non avere esattamente un buon carattere (ma intanto aveva già ricevuto l’acconto di 30 ducati). Non ci è dato sapere come l’abbia presa, ma non è difficile immaginarlo. Fatto sta che – dopo le proteste dell’artista – per ricevere i soldi, il Banco di Pietà lo manda al Banco del Popolo. Anche di questo evento abbiamo memoria nell’archivio storico del Banco di Napoli.

“Banco di Santa Maria del Popolo. Pagate per noi – annotano i ligi scrivani – 

a Michelangelo da Caravaggio ducati 370 al quale si pagano 

per polizza de Tiberio del Pezzo”.


Siamo sicuri che questa volta l’inquieto pittore se ne andrà soddisfatto. 

 

Ma vogliamo parlarvi anche di un altro quadro. In realtà un mistero, uno dei tanti enigmi che hanno costellato la vita del grande Merisi.

Sempre nell’archivio storico si trova una disposizione di pagamento 

di una cifra altrettanto favolosa per una grandiosa pala d’altare,


questa volta commissionata da un privato, un mercante d’origine balcanica, tal Nicolò Radolavich. L’opera è descritta con molta precisione dai “ragionieri” del Banco.

“6 ottobre 1606. A nicolò radovich ducati 200. E per lui a Michel Angelo Caravaggio dite per il prezzo de una cona de pittura che l’ha da fare et consignare per tutto dicembre prossimo venturo d’altezza palmi 13 e mezzo 

et larghezza di palmi 8 e mezzo”.


Deve raffigurare la Madonna col Bambino, insieme ad un coro di angeli e a una serie di santi, tra cui San Domenico e San Francesco. Ebbene, di questa pala non c’è più traccia. Forse non è mai stata finita, forse è stata distrutta in un tumulto popolare, o tagliata e venduta in più pezzi. O chissà cos’altro.

A oggi l’unico indizio di uno dei primi capolavori partenopei di Caravaggio è contenuto solo nel prezioso archivio storico del Banco di Napoli.

 

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 Photo credit giuseppemasci  © 123RF.com

 

IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI Parte III di Francesco Avolio – Maggio 2019

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IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI

Parte III

 

 

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 Correlato parte I

 Correlato parte II

Tutti sanno, più che altro per esperienza diretta, che tra il napoletano e il siciliano ci sono parecchie differenze linguistiche, al punto che è difficile confonderli, anche per una persona che abiti nel profondo Nord e che non abbia mai messo piede da quelle parti.

Se insomma, per chi vive più su dell’Appennino e del Po, l’Italia peninsulare appare spesso come un territorio omogeneo, senza grandi articolazioni interne, tuttavia la consapevolezza di una qualche differenza, anche linguistica, tra le due più note e popolose realtà del Mezzogiorno non può dirsi rara o poco comune.

Ma perché napoletano e siciliano sono diversi? E dove si colloca, nello spazio, 

la transizione dall’una all’altra di queste aree dialettali?


Cerchiamo di rispondere in breve a queste due domande, partendo, per comodità, dalla seconda, che ci dà elementi utili anche per rispondere alla prima.

2 – Il “ponte” calabrese


Uno dei maggiori motivi di interesse della posizione linguistica della Calabria sta nel fatto che essa appare solcata, nella sua interezza, da una serie notevole di “confini” linguistici, e proprio da quelli che distinguono i dialetti meridionali dal siciliano. Vediamoli più da vicino, muovendo da Nord verso Sud (cfr. anche la Fig. 1): 

1) il limite del vocalismo “siciliano” (linea I), che compare, in Calabria, a Sud di un discrimine che va all’incirca da Diamante, sul Tirreno, a Cassano, sullo Jonio (ma che in realtà esiste anche nel basso Cilento, in provincia di Salerno, a Sud di una linea che collega più o meno Ascea a Vallo della Lucania). Si tratta di un sistema di sole cinque vocali accentate, nel quale mancano le vocali chiuse é ed ó, e diversi suoni vocalici latini originariamente distinti si sono fusi tra loro: filu ‘filo’ < FĪLU(M), come nivi ‘neve’ < NĬVE(M) e come tila ‘tela’ < TĒLA(M) (nap. filënévë, télë), ma bbèddha ‘bella’ < BĔLLA(M); luna < LŪNA(M), come cruci ‘croce’ < CRŬCE(M) e suli ‘sole’ < SŌLE(M) (nap. lunë, crócë, sólë), ma mòrta < MŎRTUA(M). Secondo ricostruzioni ormai accettate dalla maggior parte degli studiosi, un simile sistema sarebbe il frutto del prolungato contatto, in epoca altomedievale, tra le varietà dialettali neolatine e il greco bizantino, una lingua che è stata, per secoli, di notevole prestigio e di largo uso in tutta la nostra area, e che presentava, fra l’altro, come il greco moderno, proprio un notevole conguaglio di vari suoni vocalici sulle vocali estreme i e u

2) la vocale finale neutra -ë per la maggior parte delle vocali finali (come abbiamo visto nello scorso numero), che in genere non va oltre la linea Cetraro-Bisignano-Melissa (linea H); 

3) le assimilazioni dei nessi consonantici -ND- e -MB- (quannu ‘quando’, chiummu ‘piombo’), sconosciute a Sud della linea Amantèa-Crotone (linea G); 

4) l’uso di tenere per ‘avere’, non con il valore di ausiliare: tène e spalle larghe ‘ha le spalle larghe’, diffusissimo dal Lazio in giù, è ignoto già a Nicastro e a Catanzaro (dove si dice ndavi i spaddi larghi e simili; linea F); 

5) il passato remoto come tempo perfettivo quasi unico, ormai evidente a Sud di Nicastro e Catanzaro (capiscisti? o capisti? ‘hai capito?’; linea D); 

6) la scarsa popolarità dell’infinito in diversi tipi di frasi (cfr. oltre, § 3), che comincia a Sud della stessa linea (la E); 

7) i dittonghi metafonetici (vedi il numero precedente), ignoti a Sud della linea Vibo Valentia-Stilo (fèrru vs. fiérru, bbòni vs. bbuóni; linea C); 

8) l’uso del possessivo enclitico, nelle prime due persone, con molti nomi di parentela e affinità (fìgghiuma ‘mio figlio’, fràttita ‘tuo fratello’), che raggiunge la piana di Rosarno e la Locride, ma non lo stretto di Messina (dove si dice, alla siciliana, mè figghiu, tò frati ecc.; linea A). 

Uno dei dibattiti dialettologici più vivaci della prima metà del Novecento – che ha contrapposto la scuola tedesca di Gerhard Rohlfs a quella italiana di Carlo Battisti, Giovanni Alessio e Oronzo Parlangèli – ha riguardato la persistenza e i caratteri della grecità in Calabria, del resto ancora testimoniata, con una varietà di greco arcaica ed assai particolare, ma ormai moribonda, in alcuni piccoli centri dell’Aspromonte meridionale (Gallicianò, Chorìo di Roghudi, Bova). Di tale dibattito e di queste residue comunità grecofone ci occuperemo, però, nel prossimo numero.

 

3 – Il “tacco d’Italia”


La disputa sulla persistenza del greco ha coinvolto anche i dialetti del Salento (parlati a Sud della linea Taranto-Brindisi, cfr. Fig. 2), che, come del resto quelli della Calabria meridionale, mostrano non solo elementi fonetici e grammaticali molto simili al siciliano, ma anche, per l’appunto, un fondo lessicale e tratti sintattici di ascendenza ellenica.

 

Anche al centro della penisola salentina, infatti, esiste ancora oggi un’enclave 

di lingua greca, la cosiddetta Grecìa, di cui fanno parte diversi comuni 

della provincia di Lecce (fra i quali Calimèra, Castrignano dei Greci, 

Corigliano d’Otranto, Sternatìa);

 

qui la parlata locale, detta usualmente grico, seppure in regresso anche netto, non è ancora nelle condizioni preagoniche riscontrabili, purtroppo, in Aspromonte. Fra i costrutti più sicuramente imputabili all’influsso e/o al diretto contatto con il greco, possiamo ricordare la mancanza di avverbi di luogo atoni corrispondenti agli italiani ci e vi (salentino sciamu crai, calabrese merid. jamu dumani ‘ci andremo domani’) e la già vista, scarsa popolarità dell’infinito, che, dopo verbi esprimenti volontà, intenzione, movimento viene sostituito da cu (erede di QUOD) nel Salento, o da mu, mi, ma (dal lat. MODO) in Calabria e nel Messinese, più il verbo al presente indicativo, coniugato in accordo con il soggetto della reggente (cu e mu, insomma, hanno le stesse funzioni che ha in greco (i)nà): nel Salento ulìa cu ssacciu ‘volevo sapere’ [lett. ‘volevo che so’], m’aggiu dimenticatu cu ddumandu ‘mi sono dimenticato di chiedere’, in Calabria vògghiu mu bbìu ‘voglio bere’ (gr. thèlo nà pìo), jìru mi jòcanu ‘sono andati a giocare’, pinzàu mi parti ‘ha pensato di partire’ ecc. Voci salentine del lessico quotidiano, di carattere conservativo, sono fitu ‘trottola’, sòcru ‘suocero’, spècchia ‘mucchio di sassi’, truddhu ‘trullo, casa rurale con copertura in pietra a falsa cupola’, nazzicare ‘cullare’ e altre.

4 – Le parlate siciliane

 

E torniamo ora a rispondere alla prima delle nostre due domande iniziali: perché il tipo linguistico siciliano è così particolare? Uno dei primi dati di fondo da sottolineare è che

 

i dialetti della Sicilia non sono facilmente classificabili, dato che molti fenomeni 

vi si presentano con una distribuzione “a macchie di leopardo”,


conseguenza, fra l’altro, della particolari vicende storico-demografiche dell’isola, caratterizzate da frequenti calamità naturali (terremoti), immigrazioni e anche rimescolamenti e fusioni di popolazioni diverse. 

Una delle poche distinzioni chiare, individuata nel 1951 dallo studioso 

Giorgio Piccitto, è rappresentata dalla diffusione del già visto 

dittongamento metafonetico di -è- ed -ò- ,


per influsso dei suoni originari latini -I ed -U in fine di parola (cfr. Fig. 3 e quanto detto nel numero precedente): questo, assente nelle maggior parte delle parlate occidentali, dal Trapanese all’Agrigentino occidentale (vèntu ‘vento’, pèri ‘piedi’), nonché nel Messinese e in parte del Catanese, è invece ben noto a molte di quelle centrali (Enna, Caltanissetta) e nella cuspide Sud-orientale (vièntu, pièri e simm.). Palermo, con una lunga fascia costiera circostante, che va all’incirca da Terrasini a Cefalù e a Corleone, presenta invece dittonghi non dipendenti dalla vocale finale, come in cuòsa ‘cosa’ e fièšti ‘feste’. I dittonghi metafonetici sono pure assenti in tutta la Calabria meridionale e nel basso Salento, mentre Lecce e Brindisi conoscono l’esito dittongante in –– da – originaria (bbuènu, bbuèni ‘buono, -i’, ma bbòna, bbòne ‘buona, -e’). 

Secondo gli studi condotti negli ultimi quarant’anni da Giovanni Ruffino, fra i pochi fatti tipici delle parlate della Sicilia nord-orientale ci sono la pronuncia rafforzata di b- iniziale (bbucca anziché vucca ‘bocca’), la conservazione dei nessi -ND- e -MB- (quandu ‘quando’, palùmba ‘colomba’, piuttosto che quannu, palùmma) e grecismi lessicali come armacìa ‘muro a secco’ < gr. ermakìa, còna ‘edicola sacra’ < gr. èikon, grasta ‘vaso’ < gr. gàstra, salamìra ‘geco’ < gr. samamìthion

I dialetti del centro dell’isola, ritenuti in genere più conservativi (ma non sempre ciò è vero), appaiono soprattutto caratterizzati dal passaggio di –l- a –n– prima di consonante dentale o palatale (antu ‘alto’, fanci ‘falce’), da quello di nf- a mp– (mpilàri ‘infilare’, mpurnàri ‘infornare’) e da verbi come riiri ‘sollevare’ < ERIGERE, sdruvigliàrisi ‘svegliarsi’, tiddhicàri ‘solleticare’. 

La Sicilia occidentale, infine, si distingue dalle altre zone dell’isola per la presenza di numerosi arabismi, come caddhu ‘secchio’ < ar. qādūs, casiria ‘vaso da fiori’ < ar. qasrīya, e grecismi come mira ‘cippo confinale’ < gr. mòira. Altri termini di origine araba, di più ampia estensione (spesso sono presenti anche in Calabria) e riguardanti soprattutto l’agricoltura, sono poi, tra i tanti, cirana, giuranna ‘raganella, rana’ < ar. ğarān, gèbbia ‘grande vasca’ < ar. ğābiyah, màrgiu ‘acquitrino, terreno non coltivato’ < ar. marǵ, źźagarèddha ‘nastro’ < ar. zahar. 

Dal punto di vista lessicale, i dialetti siciliani, oltre a mostrare interessanti francesismi (custurèri ‘sarto’ < fr. ant. costurier, racìna ‘uva’ < fr. raisin) e ispanismi (criata ‘serva, domestica’ < sp. criada, ormai arcaico, carnizzèri ‘macellaio’ < sp. carnicer, nella zona di Palermo), appaiono dotati, nel loro complesso, di un certo grado di innovatività rispetto alla maggior parte del Mezzogiorno (compresi il Salento e la Calabria settentrionale). Ma su questo dato di fondo – che è, in effetti, alquanto sorprendente, ed ha suscitato anch’esso vivaci discussioni e polemiche – ritorneremo nel prossimo numero.

 

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Le tre carte geolinguistche sono tratte da: F. Avolio, Bommèspr∂. Profilo linguistico dell’Italia centro-meridionale, San Severo, Gerni Editori, 1995, pp. 142-144. 

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 Correlato parte IV