L’INDIANO CHE AMAVA IL NOSTRO SUD di Giorgio Salvatori – Numero 14 – Maggio 2019

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L’INDIANO    CHE AMAVA      IL NOSTRO SUD

 

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quando giunse, per la seconda volta, in Italia fu recarsi sulle rive del lago d’Averno, a Pozzuoli. Era affascinato dalla leggenda della Sibilla Cumana e dai miti e dalle leggende dei popoli italici.

 

Gli piaceva l’Italia, ma amava, in particolare, il Sud,

 

per il calore delle relazioni interpersonali, per il legame tra gli uomini e la terra, per la concezione dilatata della famiglia, così simile, affermava, al tyospaye, la famiglia allargata della sua cultura atavica e tradizionale, in cui ogni bambino può contare su una o più madri e su diversi padri o nonni se i genitori biologici vengono a mancare per sempre o anche temporaneamente. “Cerco ciò che unisce le nostre culture e le nostre tradizioni”, diceva, “non ciò che ci separa”.

 

Sarebbe tornato più volte in Italia, dedicando al Sud un’attenzione speciale.

 

Austero, sobrio, capelli sciolti lunghi fino alle spalle, cappellone calato sulla fronte, Birgil era parco nel parlare, a meno che non trovasse una platea disposta ad ascoltare le narrazioni mitopoietiche del suo sfortunato popolo, quei Lakota delle grandi praterie nordamericane che noi conosciamo come i famosi e bellicosi Sioux, “Serpenti” secondo il nome improprio datogli dai primi pionieri e missionari bianchi che, a loro volta, avevano appreso, storpiandolo, dagli indiani Chippewa. Avevo conosciuto Birgil nel rigido inverno del 1990, durante una cavalcata che si richiamava ad un episodio storico e doloroso della sua gente e che ha assunto, nel ricordo di chi vi ha partecipato, il sapore della leggenda. Ne parlerò più avanti.

 

Era nato a Kyle, Birgil, nella riserva di Pine Ridge, nel South Dakota, la terra, 

per intenderci, di Nuvola Rossa e di Cavallo Pazzo. Una volta il cuore 

del vastissimo territorio dei Lakota Sioux,

 

oggi ridotto ad un’isola di un arcipelago di terre selvagge, ancora vaste, agli occhi di un europeo, ma malignamente ritagliate, dal governo federale, negli ambienti meno ospitali e climaticamente difficili del West, in altre parole: una ghiacciaia d’inverno e un forno rovente d’estate. Non a caso, la più estesa porzione delle sette riserve Sioux, ha un nome illuminante, Bad Lands, Terre Cattive, Maledette, nomen omen. “Il sud del mondo”, mi disse una volta, “è quasi sempre uguale, qui come in Italia, meno ricco materialmente, meno fortunato, ma non disposto ad accettare, in cambio della rinuncia alle proprie usanze e memorie storiche, la mela avvelenata dell’opulenza materiale”. Birgil, però, guardava avanti, pur invitando il suo popolo a non dimenticare la propria lingua e a non tradire lo spirito e la cultura degli antenati.

Non malediceva Cristoforo Colombo, non lanciava anatemi sugli invasori whasp 

e mostrava di non condividere fino in fondo neppure gli eccessi delle proteste 

che, sulla scia dei black panters, avevano caratterizzato, negli anni Settanta, 

la politica delle frange più radicali dell’American Indian Movement.

 

Considerava ogni contaminazione ideologica moderna un tradimento della tradizionale visione del mondo degli indiani delle praterie. Una visione solo apparentemente anarco-individualista, in realtà una concezione del mondo ordinata e dotata di una straordinaria forza centripeta, “pan monoteista”, imperniata sulle regole della natura, della madre terra e dell’universo, con una gerarchia di valori che poneva al primo posto la vita spirituale, seguita dal coraggio, quindi dalla tutela dei più deboli e dalla difesa delle tradizioni. Un sistema di valori che era, ed è, ben rappresentato dalla loro cerimonia più importante, la Danza del Sole, che i tradizionalisti hanno ripreso a celebrare, intorno al solstizio d’estate, dopo la fine del divieto imposto, fino ad anni recenti, dal governo federale. Chi non è più giovane ricorderà sicuramente un film crudo, ma realistico, Un uomo chiamato cavallo, in cui la cerimonia religiosa, che si svolge intorno ad un palo e prevede il digiuno totale, veniva descritta nei minimi dettagli. Basta rileggersi autori quali Mircea Eliade, René Guenon o Frithjof Schuon, per comprendere che si è di fronte allo stesso principio, lo stesso simbolo rappresentato, nelle tradizioni religiose dell’emisfero settentrionale, e non solo, dall’Axis Mundi, l’albero cosmico, l’asse, cioè, che collega la Terra al Cielo. Il significato ultimo della vita raggiunto attraverso il coraggio e il sacrificio. Si tratta, insomma, di una visione del mondo completamente opposta allo stile di vita contemporaneo, ispirato ad una libertina ed egotistica tavola di valori. La visione tradizionale del mondo Lakota è però altrettanto lontana dal furore iconoclasta e radicale che soffia nei ghetti metropolitani americani, nelle periferie degradate dove abita chi, a torto o a ragione, si sente escluso dall’american dream

Gli indiani tradizionalisti, di cui Birgil Kills Straight resta una figura di riferimento, 

non chiedono di partecipare al sogno americano, non rivendicano sindacalmente paghe più alte, non vogliono vivere nelle periferie urbane. Cercano, tra immense difficoltà e diverse contraddizioni, di restare, semplicemente, indiani,

 

vivendo nei territori ancestrali, vicini alla natura e alle ossa e agli spiriti dei loro antenati. Perfino nelle recenti proteste contro il progetto per la costruzione di un oleodotto che taglierebbe in due il residuo territorio Sioux i tradizionalisti hanno mantenuto un atteggiamento saggio: fermo, ma pacifico. L’obiettivo centrale non è contestare le politiche energetiche di Trump, ma difendere la natura e i luoghi sacri, a costo di restare poveri. Impossibile? Probabilmente sì, ma Birgil credeva in questa terza via. Per questo non amava  seguire  la strada delle violente contestazioni anti americane, per questo, come molti altri nativi, aveva servito la bandiera a stelle e a strisce indossando, da giovane, la divisa militare senza vergogna o complessi di colpa;

 

per questo era stato ospite di diverse trasmissioni radiofoniche e televisive, 

negli Stati Uniti, in Europa, in Italia, per parlare della cultura tradizionale 

del suo popolo, per questo aveva pubblicato libri e aveva incontrato, 

a Roma, perfino Papa Wojtyla,

 

per favorire il dialogo della sua gente con la Chiesa di Roma e chiedere il definitivo riconoscimento del diritto dei popoli nativi di seguire, ciascuno, il proprio destino e le proprie tradizioni. 

 

A chi è affascinato dalla cultura degli indiani delle praterie, però, Birgil Kills Straight era noto soprattutto perché fu uno dei primi e più seguiti animatori della storica Cavalcata in Memoria di Piede Grosso, un evento che, nell’inverno del 1990, vide confluire centinaia di pellirosse nei territori che vanno dal Nord Dakota fino al confine con il Nebraska. Qui, dopo un lungo viaggio a cavallo e con temperature polari, che toccarono l’ultimo giorno i 40 gradi sotto zero, si svolse la cerimonia in ricordo delle vittime della strage di Wounded Knee, avvenuta esattamente cento anni prima: trecento indiani Lakota inermi, tra i quali donne e bambini, massacrati dal settimo cavalleria.

 

Una troupe del Tg2, insieme con una della CNN e un’altra della BBC, seguì 

quella cerimonia. Io c’ero. Intervistando Birgil per il TG2 gli chiesi se avesse sentimenti di rivalsa nei confronti dei bianchi. “No”, mi rispose. 

“Non cerchiamo vendette. Noi tradizionalisti non crediamo 

che i bianchi siano peggiori o migliori di noi.

 

È la nostra visione del mondo che era e resta diversa, perciò chiediamo che questa diversità venga riconosciuta e rispettata. Non c’interessa avere maggiori opportunità di affermazione economica e sociale nella melting pot americana, noi vogliamo soltanto restare fedeli ai nostri antenati e ricomporre quello che noi chiamiamo il Cerchio Sacro, il Changleska Wakan, questo è stato l’obiettivo centrale della nostra cavalcata commemorativa. Il Cerchio Sacro rappresenta l’equilibrio, l’armonia dell’uomo nel mondo. Si è interrotto durante il massacro del nostro popolo. Dobbiamo ricostruirlo insieme, perché, se ci pensate bene, quel cerchio è anche vostro”. L’importanza di ricomporre il Cerchio Sacro fu anche il fulcro di un emozionante discorso che Birgil tenne di fronte ad una platea, ammirata e stupita, nel remoto centro molisano di Ielsi. A Ielsi era stato invitato dal promotore del Premio internazionale collegato alla stagionale Festa del Grano, il regista e documentarista Pierluigi Giorgio, uno degli storici autori di Myrrha.

 

Qui gli fu assegnato un riconoscimento speciale diretto a suggellare, 

con la cerimonia della piantumazione di un albero simbolico, 

il legame tra due meridioni solo geograficamente lontani, 

il Molise e il Sud Dakota,

 

tra il popolo italiano e il popolo Lakota. Fu emozionante vedere questo “pellerossa” circondato da giovani e meno giovani che, dopo una iniziale timidezza, lo inondarono di domande sulla vita che si svolge oggi nelle riserve indiane e Birgil interessarsi alle nuove opportunità di lavoro agricolo per i giovani molisani. Accadeva nell’estate del 2008. Birgil si dichiarò commosso e onorato del gemellaggio e affermò che il Sud del Bel Paese è ancora talmente ricco di tradizioni, suggestioni, analogie con la storia e la cultura del suo popolo, che varrebbe la pena di difenderne meglio i valori fondamentali e assicurarne la continuità con le giovani generazioni.

 

“Qui, in Molise, mi sento a casa”, disse ricevendo il premio, e aggiunse 

“mi riconosco nelle motivazioni con cui mi è stato assegnato 

il riconoscimento: difendere la dignità e l’identità culturale 

delle piccole comunità e delle etnie diverse”.

 

Birgil Kills Straight non è più tra noi, ha raggiunto i suoi antenati durante “la luna in cui i rami degli alberi si spezzano per la neve”, ovvero lo scorso febbraio. Le sue speranze e i suoi insegnamenti, però, restano, sono ancora vivi e, soprattutto, pieni di vigore.

 

 

 

 

 

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ADRIANO OLIVETTI A MATERA di Tommaso Russo – Numero 14 – Maggio 2019

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ADRIANO OLIVETTI a MATERA

 

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Preceduta da un glamour costruito intorno a lei e diffuso dalle riviste “Life”, “Fortune”, “Time” di proprietà del marito, l’editore Henry Robinson Luce, Claire Booth (1903-1987) giunse in Italia alla vigilia delle elezioni del 1953 che segnarono la fine del centrismo DC con la sconfitta della legge truffa.

8 - Adriano Olivetti 1925

Aveva 50 anni quando arrivò come ambasciatrice USA per restare fino al 1956. Nel triennio romano si circondò di personaggi come Vittorio Cini, Dino Grandi, Leo Longanesi, Indro Montanelli, Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno che, pronti a tutto, facevano da sponda al suo viscerale anticomunismo e integralismo cattolico. Narrano, in proposito, le cronache diplomatiche che al termine di una udienza in Vaticano durante la quale aveva tenuto un discorso di fuoco sull’obbligo di essere cattolici, cristiani e credenti, Pio XII la congedasse dicendo “Signora cara, si ricordi che anche io sono cattolico e non ho bisogno di essere convertito”. 

 

Altri desideri quali mettere fuorilegge il PCI, organizzare con Montanelli strutture paramilitari, bloccare le commesse a quelle aziende in cui era forte la CGIL, rivelano il suo piano per condizionare la vita politica italiana. Anche Adriano Olivetti, ritenuto a torto un comunista, ne pagò le conseguenze. Su pressioni della signora, Angelo Costa, allora capo di Confindustria, inviò una lettera a tutti gli associati in cui consigliava di non acquistare macchine da scrivere Olivetti. Un nome fra quanti ubbidirono: Montecatini.

Da quel delicato microcosmo degli affetti che è Lessico famigliare di Natalia Ginsburg, affiora un giovanile ritratto di Olivetti. Aveva “una barba incolta e ricciuta, di colore fulvo; aveva lunghi capelli biondo-fulvi”. Giuseppe Levi, docente universitario, padre di Natalia e Camillo, padre di Adriano, a loro volta, 

“Avevano in comune il socialismo, e l’amicizia con Turati”, 

di qui la simpatia di entrambi per quel particolare 

riformismo meneghino pragmatico e razionale.


Camillo, di origini ebraiche, e la moglie Luisa Revel, figlia di un itinerante pastore valdese, erano orgogliosi di appartenere a due minoranze religiose. Di questa condizione ne fecero una ragione esistenziale, un costume civile, educando i loro figli al senso di responsabilità, al rispetto quasi religioso per i diritti e i doveri di sé e degli altri, al gusto per il rischio. In Adriano la saldatura tra etica protestante e spirito del capitalismo fu un tratto distintivo ma non unico. 

 

Poco più che quarantenne, con alle spalle il suo antifascismo, è membro dell’UNRRA (United Nation Relief Rehabilitation Administration); magna pars nel CASAS (Centro Autonomo di Soccorso ai Senza Tetto); membro autorevole della Commissione economica per la Costituente. A coronamento del suo impegno per il Movimento di Comunità diventa deputato nella III legislatura repubblicana. Nei due anni di attività parlamentare, prima che la morte lo cogliesse, nel febbraio 1960, a soli 59 anni, firmò con altri colleghi un progetto di legge abrogativo delle norme che consentivano il tiro al piccione ma anche al passero, allo storno, alla tortora. Era il 31 luglio1958. 

 

Nella relazione al progetto si sottolineava come quella pratica non fosse “popolare e sportiva” ma un’attività ristretta a pochi che “traggono divertimento in un ambiente di lusso e di mondanità (…). Lo sterminio di questi animali per lo spasso di pochi facoltosi è veramente ingente”. Solo molto dopo le Olimpiadi romane del 1960 il piattello sostituì i volatili nei club e nei circoli esclusivi. 

 

Un anno dopo presentò da solo la sua seconda proposta di legge. Si trattava di abolire l’art. 12 della LUN (Legge urbanistica Nazionale) del 1942. Quell’articolo consentiva ai Comuni consorziati di approvare un PRG intercomunale. Bastava però il veto di un solo sindaco per bloccare tutto.

Olivetti ebbe sempre a cuore le questioni legate allo sviluppo urbano, all’edilizia e non solo perché Presidente dell’INU. Era convinto che sul regime dei suoli e sulla loro destinazione che si risolveva il conflitto tra interessi della rendita speculativa, bisogni collettivi, razionalità e ordine dello sviluppo edilizio di una città.

 

Il 5 aprile 1960 Franco Ferrarotti “deputato del Movimento di Comunità”, padre nobile della sociologia italiana, nella sua appassionata commemorazione di Olivetti alla Camera ne evidenzia alcuni tratti. Dice come l’industriale eporediese si collocasse molto al di sopra della “miserabile prospettiva del paternalismo padronale corrente”; come fosse convinto della necessità di introdurre novità, ricerca e sperimentazione nel ciclo produttivo. E proseguendo ricorda lo sguardo particolare di Olivetti per il Mezzogiorno che gli appariva “il banco di prova della democrazia italiana” e per il quale “aveva elaborato un piano organico di sviluppo industriale”. Ne costituivano l’essenza più intima: il rispetto per il territorio comunitario, la partecipazione diretta dei cittadini alle decisioni più importanti che li riguardavano, la programmazione. Pozzuoli e Matera che alludevano rispettivamente all’industria e all’agricoltura ne erano la filigrana. 

 

Nel suo “Viaggio in Italia”, effettuato per conto della RAI tra il 1953 e il 1956, Guido Piovene giunge anche a Matera. Ne tratteggia lo sviluppo urbano tra il moderno e i Sassi e scrive che lì, insieme con altri abitanti, vivono “oltre 1200 protestanti (…) che appartengono alle sette più popolari e visionarie quali i battisti e soprattutto i pentecostali”. Lo scrittore vicentino si sofferma sul clima culturale in città nel quale scorge un certo “radicalismo politico negli ambienti cattolici”, anche se in misura maggiore “La funzione critica è esercitata soprattutto da un gruppetto di giovani legati al Movimento di Comunità (…). Le loro idee compaiono in un settimanale, “Basilicata” ”.

Si può scorgere in questo accenno l’esistenza di un rapporto tra Olivetti e Matera che nel corso degli anni ’50 diventerà sempre più stretto e fecondo.

 

Se oggi quel nesso è riemerso, nel dibattito storiografico, non è certo per l’evento Matera 2019 frutto, come sostengono giustamente taluni, di una potente negoziazione tra potere politico e risorse naturali del territorio regionale. Ripensare quel legame e la stagione a cui dette vita torna utile per uno sguardo sulle miserie del presente appena velato dalla spettacolarizzazione mediatica dei Sassi; e per misurare l’incidenza che quel torno di anni ebbe nell’introdurre elementi di cambiamento e di modernità nel tessuto cittadino. 

 

Leonardo Sacco, uno dei giovani critici intravisti da Piovene, in un commosso ricordo in morte di Olivetti, apparso su “Basilicata” 3/1960, racconta che nel marzo 1946 acquistò in un’edicola a Matera un “giornale di tipo insolito”. Era “Comunità”. Dalla lettura di quella rivista ne ricavò la convinzione che per uscire “dal caos” di allora occorresse “veder chiaro e veder nuovo”. Vale a dire guardare alle novità e non alle permanenze, alle fratture e non alle continuità del ‘900 italiano.

La presenza degli olivettiani è segnalata da una lunga relazione
del prefetto 
di Matera del 25 maggio 1957 al Ministero degli Interni 

dove da poco si era insediato Fernando Tambroni.

 

Scrive che i Circoli di Comunità erano nati prima del 1954 quando invece era comparso il Movimento di Comunità. Presenti “con finalità esclusivamente culturali”, in breve tempo erano riusciti ad animare un dibattito su quali mezzi fossero necessari “per la risoluzione dei problemi sociali, riguardanti in particolare il basso tenore di vita delle popolazioni del Mezzogiorno d’Italia rispetto a quelle del Nord”. Molto attivi nel Circolo materano erano alcuni giovani. Pietro Ricciardi insegnante “distaccato presso il Provveditorato agli studi” è descritto “elemento piuttosto fazioso” nella preoccupata nota prefettizia. Ricciardi girava nei Comuni del materano col suo Bibliobus per avvicinare adulti, vecchi, bambini alla lettura convinto che la cultura fosse un forte strumento di emancipazione. Attivi erano anche Francesco P. Nitti e Nicola Strammiello, entrambi docenti. E Sacco, naturalmente, che in una riunione a Milano del Movimento era stato eletto “membro della direzione politica centrale del detto Partito”. 

 

Da altra fonte archivistica si apprende che nel 1958 in Basilicata esistevano 56 Circoli (23 nel materano, 33 nel potentino); in quell’anno essi costavano a Olivetti 1.107.000 lire. Saranno ridotti a 14: 2 nel potentino, 2 nel materano, quasi a segnare una migliore efficienza culturale e operativa di questi ultimi. Le cause del ridimensionamento vanno ricercate nella crisi del Movimento e nelle decisioni del gruppo aziendale di operare tagli e finanziamenti.

 

I Circoli possedevano un patrimonio inestimabile in libri e riviste: sociologia, psicologia motivazionale, management, economia, antropologia;

 

l’abbonamento a tante riviste fra cui “Casabella”, “Comunità”, “Il Ponte”, “Lo Spettatore italiano”, “Nord e Sud”, “Paragone”. Era un universo di saperi nuovi, sperimentali, scientifici, tecnici su cui si esercitava la censura delle culture comunista, cattolica, crociana. Matera fece da cavia per la diffusione di questi contenuti culturali in tutto il Mezzogiorno subendone per prima l’influenza e il lascito successivo.

Ruotavano intorno ai Circoli studenti universitari, insegnanti, avvocati, medici, ingegneri, eruditi locali. Non si creda che quelle figure sociali segnassero il carattere elitario e aristocratico degli olivettiani. Suggeriscono, ancora oggi, l’esistenza 

di processi di mobilità sociale che nel tessuto regionale tendevano a superare 

la bipolarità braccianti-agrari, con cui era rappresentata la regione.

 

Nelle contrade lucane, in specie materane, di quegli anni, la presenza e le attività culturali degli olivettiani fecondarono un processo di educazione alla democrazia, alla cultura politica, alle curiosità culturali che guardava alle nuove generazioni nella convinzione che la modernità avesse bisogno anche di un côté critico, etico e libero nel pensiero. In seguito non si è avuto nulla di simile. 

 

A partire dal 1949 Olivetti fa giungere a Matera un gruppo di scienziati sociali, di tecnici, di urbanisti, di esperti nel management delle risorse e della progettazione. Bastano alcuni nomi per cogliere nel loro profilo un forte èthos pubblico, per misurare competenze specifiche, spessore culturale, qualità intellettuali. Si va da Ludovico Quaroni a Giovan Battista Martoglio, da Guido Mazzucchelli-Nazdo a Riccardo Musatti, a Rigo Innocenti; da Lidia De Rita a Tullio Tentori, a Eleonora Bracco. Saranno essi, con i materani Nitti, Ricciardi, Sacco ed altri, che attraverso la volontaria presenza sul campo, col metodo dell’inchiesta partecipata tenuta a battesimo proprio a Matera, con grandi idealità, tenteranno di dare corpo al sogno olivettiano. Membri della “Commissione di studio sull’agro e la città di Matera”, voluta nel 1951 dall’UNRRA-CASAS Prima Giunta, quindi da Olivetti, essi contribuirono a gettare le basi per la legge sullo sfollamento dei Sassi, a sostenere per Matera la necessità del PRG, a pianificare la costruzione del borgo rurale “La Martella”.

Con le dovute cautele e le differenze di spazio e tempo, i borghi rurali olivettiani rinviano all’esperienza dei villaggi operai.

 

Per questi, per esempio, si pensi ai Crespi di Canonica d’Adda, ai Marzotto di Valdagno, ai Rossi di Schio. Sono tutti industriali tessili, cotonieri, ossia il settore più forte del capitalismo italiano tra fine ‘800 e ‘900 ineunte. Il loro paternalismo, però, s’interrompeva sul tema della libertà individuale. Se un operaio veniva sorpreso fuori dal villaggio a frequentare la sede sindacale della FIOT (Fed. Ind. Operai Tessili) o la sez. socialista veniva subito cacciato. In ossequio a questo stile la FIAT schederà più di 100.000 operai nel secondo dopoguerra. Non così nelle fabbriche Olivetti, dove libertà individuale, dignità del lavoratore, alti salari, investimenti in ricerca, elevato tasso di innovazione, erano a base della produttività e della commercializzazione dei manufatti. 

 

Pur ripetendo alcuni criteri ispiratori del villaggio operaio, “La Martella” aveva fattori di diversità ideale e progettuale. Il borgo doveva avere tutti i servizi, dalla farmacia alla scuola, ospitare non più di 2/300 famiglie per dare l’immagine di una struttura comunitaria e non di un alveare. Doveva essere al centro dei terreni dati in proprietà in modo da ridurre il viaggio da casa al lavoro. Il tempo così liberato era destinato a una sociabilità alta: letture, biblioteca, cinema, viaggi culturali, corsi di formazione per introdurre innovazioni nelle tecniche colturali. Ciò nonostante, il trasferimento di abitanti dai Sassi a “La Martella” andò a rilento e subì forme di ostruzionismo. 

 

I primi a spostarsi, è il caso di ricordarlo, furono molti di quei battisti e pentecostali di cui Piovene aveva segnalato la visionarietà. La loro numerosa presenza a Matera deriva dall’apostolato religioso e laico del Monaco Bianco che agli inizi del ‘900, in concomitanza con la nascita del sindacalismo rivoluzionario nel Mezzogiorno, aveva guidato le lotte bracciantili, contro gli agrari materani, per il diritto di spigolatura, le otto ore, salari più dignitosi.

Interessata da un visibile processo di mobilità sociale, Matera visse in quel decennio uno sviluppo edilizio pubblico e privato all’altezza del mutamento. In mancanza 

di una pianificazione urbanistica il rischio era la costruzione di una città-mostro. Nell’immaginario olivettiano, invece, gli interessi della comunità, i suoi bisogni 

e i desideri dovevano trovare nella pianificazione, nella classificazione 

delle aree e dei suoli una rispettosa e armonica realizzazione 

con l’intero territorio comunitario.

 

Si pensi a Pozzuoli. Nel suo discorso del 1955 ai lavoratori, Olivetti sosteneva come la fabbrica costruita “di fronte al golfo più singolare del mondo (…) si è elevata all’idea dell’architetto, in rispetto alla bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno”. Fu Luigi Cosenza l’architetto realizzatore di quell’armonia. 

 

I comunitari materani utilizzarono “Basilicata” come strumento di lotta, di denunzia degli scempi edilizi ottenendo risultati favorevoli più a Matera che a Potenza. Si batterono per anni perché il conflitto tra disordine e irrazionalità della rendita speculativa non travolgesse del tutto l’armonia comunitaria. Gli alterni risultati ottenuti per effetto della potenza delle controparti (in primis Emilio Colombo) non scoraggiarono gli olivettiani. La loro resistenza può considerarsi frutto di una triplice azione: percepirsi portatori di saperi tecnici e scientifici con cui sostenere il conflitto; sentirsi parte di un più ampio disegno modernizzatore; riconoscersi sintesi tra l’alta tradizione di impegno civile propria degli intellettuali meridionali e le novità dei tempi.

Il capitalismo comunitario, ovvero l’idea che “il capitale azionario delle grandi 

e medie imprese deve appartenere in parte alla comunità” locale 

e che alla gestione e proprietà devono partecipare insieme 

“i lavoratori, la Comunità e lo Stato regionale”, fu sconfitta.

 

Concorsero a ciò l’ostilità pregiudiziale e ideologica di Claire Booth Luce e la miopia di Confindustria. L’associazione, infatti, ritenne preferibile la scorciatoia dei finanziamenti pubblici, la distribuzione dei dividendi anziché il loro reimpiego in ricerca, sviluppo, innovazione. Nonostante la politica di alti salari, Olivetti si trovò a fare i conti anche con l’opposizione della CISL, più che della CGIL. 

 

Lo schema teorico del federalismo olivettiano (Comunità e Stato regionale) non incrinava né l’Unità del Paese, né la solidarietà reale. Nel 1952-54 il gruppo aveva deciso “di trasferire al Sud il suo potenziale di incremento produttivo”. A causa di una ennesima crisi che aveva investito il Canavese, la politica di riassorbimento dei disoccupati negli stabilimenti di Ivrea non poteva avvenire come era accaduto in precedenti situazioni. Pur tuttavia, ricorda Olivetti agli operai di Pozzuoli, nessuno “ebbe a lamentarsi (…). Perché nella coscienza dei nostri operai del Canavese è vivo il senso di solidarietà con i fratelli della Campania, della Calabria, della Lucania”. 

 

L’abbandono del Mezzogiorno, le scorribande leghiste e neoborboniche (che lo stanno attraversando), l’autonomia differenziata costituiscono un pericolo per la democrazia italiana. La lotta contro questo scenario è il lascito migliore dello “sguardo” di Olivetti e va mantenuto vivo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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NOTA

 

Le fonti archivistiche e bibliografiche sono qui elencate per documentare il virgolettato presente nel testo. 

 

Archivio centrale dello Stato, Roma: Min. Int. Partiti politici 1944-1964 b.113. 

 

Archivio storico Olivetti, Ivrea: Seg. del Movimento di Comunità Lucania, bb.1-9. 

 

Camera dei Deputati Atti Parlamentari. 

 

G. Baglieri, M. Fabbri, L. Sacco, Cronache dei tempi lunghi, Lacaita, 1965. 

 

F. Bilò, E. Vadini, Matera e Adriano Olivetti. Ed. di Comunità, 2013. 

 

R. Giura Longo, Per Matera si cambia, pref. di Angelo R. Bianchi, Ed. Giannatelli, 2018. 

 

R. Musatti et alii, Matera 1955, Ed. Giannatelli, 1996. 

 

A. Olivetti, Ai lavoratori, Ed. di Comunità, 2012. 

 

Id. Città dell’uomo, Ed. di Comunità, 2015.

 

 

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“Courtesy Archivio Fondazione Adriano Olivetti” www.fondazioneadrianolivetti.it

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I PARCHI LETTERARI DELLA BASILICATA di Giuditta Casale – Numero 13 – Gennaio 2019

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I PARCHI LETTERARI DELLA BASILICATA 

 

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furono promulgate le nuove leggi, dette Constitutiones Melfitane, perché la cerimonia dell’emanazione si tenne nel Castello lucano di Melfi, una delle dimore più amate dall’imperatore, in cui aveva convocato la Grande Assise di Baroni e Vescovi del Regno.

Il corpus di duecento leggi davano un assetto legislativo completo ed organico per ogni aspetto della vita amministrativa, sociale ed economica del Regno. Considerato l’atto di nascita dello stato amministrativo moderno, la raccolta pone Federico II sulla linea di Cesare, Teodosio e Giustiniano, riaffermando l’universalità del diritto romano.

A secoli di distanza, da un altro castello una giovane donna disperata, 

Isabella Morra, confida le sue pene al fiume Sinni,


che in prossimità del castello devia il corso con un’ansa per asciugare le lacrime da cui scaturisce una delle voci più interessanti della poesia del XVI secolo, isolata da corti e salotti letterari. Nella breve vita, Isabella Morra non riuscì mai ad allontanarsi da Favale, l’odierna Valsinni in provincia di Matera, dove era nata intorno al 1520, e dove fu uccisa probabilmente dai fratelli per vendetta e gelosia tra il 1545 e il 1548. Invano dall’alto del castello normanno, divenuto una prigione, avrebbe guardato il mare in attesa dell’arrivo salvifico del padre, nella speranza di essere portata via dal “denigrato sito”, che ancor oggi risuona dei suoi poetici lamenti. 

 

Morte precoce e violenta anche per

Mario Francesco Pagano, immortalato da Giacomo Di Chirico, 

pittore lucano della metà dell’Ottocento,


mentre accetta senza cedimenti la condanna a morte, all’indomani della caduta della Repubblica di Napoli, per la quale aveva scritto insieme ad altri quattro giuristi la Costituzione, pubblicata il 1 giugno del 1799. Era partito giovinetto dal piccolo borgo lucano di Brienza, dove era nato nel 1748, per proseguire gli studi a Napoli, e diventare il brillante giurista, letterato, filosofo e saggista, uno dei più importanti nomi dell’illuminismo italiano. 

 

Il 15 luglio 1935 una condanna altrettanto ingiusta cadeva su 

Carlo Levi, ritenuto pericoloso dal Fascismo per attività politica 

nociva agli interessi nazionali.

 

I tre anni di confino avrebbero dovuto essere scontati a Grassano, ritenuta poco sicura per la vicinanza della stazione ferroviaria, e sostituita con un paese inaccessibile: Aliano. Indimenticabile per lui e per i numerosi lettori di “Cristo si è fermato ad Eboli”, sparsi dovunque nel mondo, l’arrivo in paese. Il paesaggio lunare rimase impigliato nelle mani di scrittore e pittore, indelebile, tanto da divenire sua patria d’adozione e ultimo ricovero, perché è lì che riposa come da lui voluto all’indomani della morte nel 1975. 

 

Come la casa abitata da Levi ad Aliano gli lascia posare lo sguardo sull’immensità del paesaggio, così “’U Paazze”, la casa natale di Albino Pierro nella piazza del centro storico di Tursi, dove era nato nel 1916, domina su una vista incantevole, motivo di ispirazione lirica costante: il torrente Pescogrosso, il convento di San Francesco e i dirupi del rione Rabatana, a cui sono dedicati i suoi versi più celebri.

Federico II, Isabella Morra, Mario Francesco Pagano, Carlo Levi, Albino Pierro: personalità divise da distanze temporali consistenti, differenti i contesti storici 

e umani, esistenze di spessore segnate da vicende difficilmente assimilabili. 

Cosa le lega tra loro?


Quale percorso congiunge Melfi, Valsinni, Brienza, Aliano e Tursi, oltre a essere territori lucani? 

 

C’è una connessione per un viaggiatore attento alla letteratura e spinto a credere che i luoghi e i paesaggi natii o abituali influenzino lo sguardo e l’indole del soggetto che li vive? Quante volte guardando un paesaggio abbiamo sentito scorrere un brivido e risalire prepotentemente alla memoria parole, versi, frasi letti? Non potrebbe essere diversamente visto che il paesaggio è fonte d’ispirazione costante per scrittori e poeti, artisti e intellettuali. Binomio insolubile, radicato nella coscienza, nonostante la sorte possa spingere lontano, come avviene per Pagano o Pierro, o al contrario rendere intimi e propri luoghi “distanti” da quelli considerati originari, come per Levi.

Il nesso che volevo evidenziare tra le biografie e i luoghi da cui scaturiscono 

è racchiuso nella seguente affermazione:


I Parchi Letterari® assumono il ruolo di tutela letteraria di luoghi resi immortali da versi e descrizioni celebri che rischiano di essere cancellati e che si traducono nella scelta di itinerari, tracciati attraverso territori segnati dalla presenza fisica o interpretativa di scrittori. Un singolare percorso che fa rivivere al visitatore le suggestioni e le emozioni che lo scrittore ha vissuto e che vi ha impresso nelle sue opere 
(Stanislao Nievo) È l’idea di partenza da cui si mosse nel 1992 il pronipote di Ippolito Nievo, a sua volte scrittore, per dare corpo e motivazione all’ambizioso ed entusiasmante progetto dei Parchi Letterari. Tale è Melfi grazie alla personalità “stupenda” di Federico II; Valsinni per essere immortalata da Isabella Morra nei versi che l’hanno resa celebre; Brienza per i natali illustri a Mario Francesco Pagano; Aliano che da prigione diventa patria elettiva per Carlo Levi; Tursi conosciuta in più di trentasei lingue grazie ai versi sublimi e malinconici di Albino Pierro.

 

Un paesaggio che senza dimenticare la sua valenza turistica, anche in senso economico, la valorizza sul piano storico-testimoniale attingendo alla forza immortale della letteratura, anche in termini di tutela, custodia e salvaguardia.

“Per questi motivi I Parchi Letterari® sono fatti di accoglienza, di visite guidate, 

di eventi spettacolarizzati, e prevedono la possibilità di coinvolgere anche 

le realtà imprenditoriali identificative dall’enogastronomia all’artigianato”, 

come si legge sul sito www.parchiletterari.com, curato ed esaustivo,


in cui i tanti parchi letterari che costellano il territorio italiano trovano il luogo deputato per attrarre il lettore e comunicare le attività che autonomamente gestiscono.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Castello di Isabela Morra

 Il Castello di Isabela Morra

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UN RICORDO DI GIOSE RIMANELLI di Pierluigi Giorgio – Numero 13 – Gennaio 2019

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UN RICORDO  di GIOSE      RIMANELLI

 

1997. Fratello Giose, occhi di gatto, lo acchiappai per la coda e quasi per caso in America al mio scalo aereo South Dakota-Roma, reduce – io – dell’ospitalità di un gruppo d’indiani della prateria; lui, in fase di trasferimento – eterno gitano mai domo – dal Minnesota al Massachusetts con la moglie Sheryl da lui chiamata “Ciliegia”.

Micio micione, camaleontico nello sguardo, che si tramuta in serpentello beffardo: sempre che azzannarti ne valga la pena! Ma poi, d’un tratto, il sorriso ironico, sornione si liquefa in amichevole dolcezza, come quello di un bambino tenero a cui non puoi che voler bene. Tutto, su un corpo ancora massiccio: “Paisà!” gli urlo, scuotendo gli assonnati passeggeri in transito che vagano alla ricerca di parenti o del prossimo volo come zombi inebetiti dall’ora e dal viaggio: “Il solito emigrante italiano!” avranno pensato. “Mi hai sconvolto i piani con l’insistenza di conoscermi proprio in questo frangente” – Giose esordisce, esplorandomi tutto – “ma sono felice!” L’abbraccio è energico, franco e lo sguardo, ancora un po’ incredulo, si fa all’improvviso raggiante. Il tempo di accompagnarmi in albergo e di ritrovarci al mattino dopo, solo poche ore più tardi, in lavanderia dove Ciliegia e lui si son trascinati dietro due sacchi di panni accumulati nell’eterno viaggio d’avvicinamento e ricerca di una nuova dimora.

Un incontro breve quanto un respiro, solo due ore alla partenza del sottoscritto: 

a cosa dare la precedenza?


Con l’alito addosso di un tempo tiranno, Giose ascolta e ti assale con una cascata di parole; ed io con una vita da raccontargli. Li aiuto a piegare lenzuola, asciugamani, camicie, pigiami, mutande e calzini; parliamo di lui e parliamo di me e parliamo di patria e Molise, spesso ingrato ed amato.

“Ho portato il Molise sempre con me, col cuore e negli scritti, in tutto il mondo girato: come faccio a rinnegare quella mia terra?


Altro non ci resta, caro amico della macchia, di tenerci ancor più vicini con il pensiero e la parola, continuando tuttavia ad amarla, quei luoghi, quelle memorie e lasciando scorrere sotto il ponte, come acqua che va a perdersi, quei malintesi, le sgarberie, le forzature e sforzature politiche…” Ho provato simpatia e affetto immediato per quest’uomo – “Crescerà!” predisse – per questo fratello più grande di una ventina d’anni, trovato (ri-trovato) fra i risvolti o le righe di un racconto che mi riportò ad amare la mia terra da cui ero “fuggito”. Soprattutto il libro “Molise Molise”…! Mi accompagnano all’aeroporto: un altro abbraccio. Scambio reciproco -quasi in un rito arcano – di gilet (il mio) e di un cappellone old-west (il suo) così agghindati: “Fratello Giose, ho scavalcato oceani e ci siamo rincorsi per gli States sfidando tempo e ragione pur d’incontrarci e conoscerci, ma non siamo riusciti a fermare il tempo”… “Pierluigi carissimo, sei passato come un fulmine e te ne ringrazio, perché insieme abbiamo addomesticato il difficile!”… “Arrivederci in Molise, Giose! A presto, spero: faremo uno spettacolo un giorno insieme!” gli preannuncio con veggenza spiritata… In Molise, mi giunge un sonetto che benevolmente mi dedica. Come in uno specchio, ci vedo riflesso lui stesso e la sua delusione:

“Molise, Amore di terra lontana: prima che l’inverno ci sorprenda, questo smarrito amante senza mondo ripasserà l’Atlantico profondo per distendersi sotto 

la tua tenda. Su quest’amore han malignato a fondo i senza cuore, 

scarsi di leggenda, imbavagliati dentro una tregenda d’ignoranza sapiente, 

a tutto tondo. Questo smarrito amante ha ben pagato la sua fede: 

desiderio e pienezza, un manoscritto sempre ben arato sia nel tormento 

della fanciullezza che nella quieta questua d’un alato riavere il perso, 

l’amata carezza…”.


Come atto d’amore nei riguardi della stessa patria, gli mandai imbustata terra, semi e petali della regione, insospettendo – come lui suppose – i controllori americani… L’impulsività costa, ma come tentare la via della saggezza con lui e lui con me? Come si poteva imbrigliare l’impulso e la voglia – quasi settimanale – di un confronto seppur epistolare? Mi vien da ridere!!! 

 

Un anno passa e gli comunico che l’abborracciato zibaldone di testi (i suoi) è pronto: mi sono basato su un collage di scritti, libri e racconti di vita. L’idea gli piace e poi… poi “un’enormefolleinfinitaquasincalcolabile” sfilza di cifre sulla bolletta telefonica. “Oggi abbiamo consumato le linee internazionali!” mi fa. Costa meno vederci…! A una settimana dalla prima teatrale, arriva ed è sufficiente un solo abbraccio per intenderci. Ci ritroviamo a stagliuzzare, incollare, riscrivere, riordinare le tessere letterarie di un puzzle esaltante: il mondo, tutto il mondo è tra le quattro pareti di casa mia… “Buona notte!” “Buona notte!” e dopo mezz’ora siamo di nuovo in piedi a trascinar pantofole, perché il sonno non viene e quindi è meglio lavorare… Gli sparo lì la proposta: “Anche tu sarai di scena! Tu racconti la tua vita ed io sarò il tuo alter-ego, quello della creatività letteraria, dei tuoi testi, che dà voce alle tue poesie! “Ok?” “Ok!” Nasce: “L’Arcangelo e il ragazzo: Giose e io”.

L’intuizione è giusta: Giose per la prima volta in assoluto che interpreta se stesso! 

Lui è un simpaticissimo, ottimo, spontaneo animale da palcoscenico! 

Sarà teatro nel teatro.


Attorno a noi, un gruppo di musicisti bravissimi (a cui affido le musiche scritte da Giose) ed una danzatrice: è un lavoro frizzante, culturalmente valido, eccitante, non localizzato, ma tutto ciò per sole tre insufficienti repliche: Campobasso, Isernia, Casacalenda. L’esperienza teatrale, le notti insonni, le risate attorno ad un tavolo ci accomunano, ci affratellano ancor di più, ma arriva il momento del ritorno e “gli anni scivolano come passi su bucce di banane” scriverà un giorno. 

 

2018. “L’emozione non ha voce…” recita una canzone di successo di Mogol interpretata da Celentano.

Dall’America il 6 gennaio arriva purtroppo la notizia: Giose, l’eterno itinerante, 

è andato a raccontar storie tra le nuvole…


Undici mesi dopo, su un’idea che suggerii al Rettore dell’Università di Campobasso Gian Maria Palmieri, siamo ad onorarlo in una due giorni di Convegno dedicato interamente a lui e la sua fervente, strabordante creatività letteraria (con lo spettacolo “Giose&Giose” compreso, organizzato il 5 e 6 del dicembre scorso dall’Università di Campobasso (UNIMOL) su Giose Rimanelli (Casacalenda – CB/1925 – New York 2018). Dal 1960 si era trasferito negli Stati Uniti ed è stato Professore Emerito d’Italiano e Letteratura Comparata all’Università di Stato di New York ad Albany. Personaggio eclettico e simpaticamente fuori dagli schemi, scrittore transculturale, ha pubblicato romanzi, narrative di viaggi e racconti sia in italiano che in inglese. All’attività narrativa ha unito quella della poesia, del teatro, del giornalismo e della critica letteraria in italiano ed inglese. 

 

Fra gli eccelsi relatori -perlopiù docenti universitari newyorkesi – Gino Tellini, Antonio Vitti, Anna Maria Milone, Luigi Montella, Giorgio Patrizi, Luigi Bonaffini, Romana Capek-Habekovic, Sebastiano Martelli… La maggior parte giunta dalle Università degli States. Prima fra tutti, la moglie di Giose, Sheryl Lynn Postman – docente della University of Massachusetts di Lowell – la più attenta a proteggere la “verità” di pensiero ed umana di Rimanelli:

un eclettico scrittore – per mole autoriale – da non confinare soltanto 

nella memoria dei primi libri,


“Tiro al Piccione” (tradotto in film da un giovane Giuliano Montaldo) o “Il mestiere del furbo” (condanna dei “salotti letterari” del tempo) ma neppure nella definizione “molisano”, né tantomeno italo-americano, bensì, più appropriatamente, quale autore italiano transculturale! L’idea è quella di istituire un Premio letterario internazionale, atto a preservare la memoria di uno scrittore che, pur avendo rivolto sovente la sua attenzione letteraria alla terra natia (portata ovunque come il guscio di una chiocciola), è indubbiamente di gran spessore e calibro internazionale! 

 

A conclusione, la riproposizione vent’anni dopo – prodotto dalla Incas Cinematografica – del Recital-Spettacolo “Giose&Giose” (un tempo il già citato “L’Arcangelo e il ragazzo”) nell’Aula Magna dell’Unimol, ed io questa volta ad interpretare, necessariamente, proprio l’amico Giose Rimanelli!

Si, l’emozione non ha voce… 

Mi piace ricordarlo nelle ultime battute dello spettacolo in proscenio, 

l’uno accanto all’altro, con in mano una valigia vuota:


GIOSE: “Stanco della vita, Giose?” PIERLUIGI (alter ego di Giose): “Terribilmente”. GIOSE: “Fai due passi? Ti seguo da molto, sai?” PIERLUIGI: “Sei Giose…?” GIOSE: “Viaggio, vedi la valigia?” PIERLUIGI: “E cosa contiene?” GIOSE: “Guarda!” PIERLUIGI: “Ma è vuota?” GIOSE: “Si, ma una volta era piena zeppa. Infine ho dovuto buttar via tutto.” PIERLUIGI: “Ma se è vuota, a che serve?” GIOSE: “Si riempirà di nuovo… La vita continua”…

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Mai incontrato prima, lo riconosco all’istante – come non potrei? – 

 mentre mi accoglie all’aeroporto americano all’una di notte, con bermuda 

alle ginocchia ed un cappellone bianco a tesa larga quanto un ombrello 

da spiaggia calcato su un viso netto, tagliato da un’accetta; due baffoni 

da zingaro e, al di là di larghe lenti chiare su un promontorio 

da pugile, due tagli netti, marcati marcati, che ti scrutano l’anima 

e ti scherniscono dentro.

 

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IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI Parte II di Francesco Avolio – Numero 13 – Gennaio 2019

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IL mezzogiorno  FRA LINGUE          E DIALETTI

Parte II

 

 

Verso Nord, le parlate tecnicamente definibili come “meridionali intermedie” giungono all’incirca all’altezza di una fascia che unisce il Circeo, sul Tirreno (LT), 

alla foce dell’Aso, sull’Adriatico (AP), passando per Ceprano (FR), Sora (FR), 

Avezzano (AQ), L’Aquila e Accùmoli (RI), mentre, verso Sud, includono per intero 

la Basilicata, valicando il massiccio del Pollino, in provincia di Cosenza, 

fino al fiume Coscile, e, più a Oriente, raggiungono le città pugliesi 

di Taranto, Martina Franca (TA), Ceglie Messapica e Ostuni


(BR, Francavilla Fontana e Brindisi sono invece già salentine, cioè meridionali estreme, come quelle calabro-sicule). 

 

L’intera penisola calabrese viene poi a configurarsi come una sorta di lungo ponte fra i dialetti meridionali e quelli siciliani, i quali, invece, per non pochi fenomeni, fanno gruppo a sé (come vedremo nel prossimo numero). 

 

Le parlate meridionali intermedie si distinguono da quelle delle aree vicine per la contemporanea presenza di almeno due fenomeni:

1) il passaggio di tutte o quasi tutte le vocali finali al suono –ë, la cosiddetta “e muta” o “indistinta” che sarebbe più corretto definire “vocale centrale media”, ben nota 

a lingue come il francese (faire ‘fare’) o l’inglese (about ‘circa’):


napoletano aggë ‘ho’ < HABEO, nirë ‘nero’ < NIGRU(m), ma anche ‘neri’ < NIGRI, sèttë ‘sette’ < SEPTE(m), ùnnëcë ‘undici’ < UNDECI(m), fémmënë ‘femmina, donna’ < FEMINA(m); questa vocale, come si è visto dagli ultimi due esempi, può spesso comparire anche nella altre sillabe non accentate (fërràrë ‘fabbro’, sèntënë ‘sentono’ ecc.), e, in qualche parlata, soprattutto del versante adriatico, perfino come vocale accentata principale (ad Atri, Te, mëtrë ‘metro’, a Stigliano, Mt, mërë ‘muro’). 

 

Una parziale eccezione, da questo punto di vista, è rappresentata da una serie di dialetti che si estendono dalla valle del Garigliano fino alla Basilicata sud-occidentale, attraverso la media valle del Volturno, una parte del Beneventano, la bassa Irpinia, l’alto Sele e il Cilento (cioè la zona del Mezzogiorno che nel Medioevo fu più marcatamente longobarda), i quali mostrano invece vocali finali e interne ancora in vario modo percepibili.

2) Lo sviluppo, almeno in tracce, del nesso latino pl- in /kj-/ (scritto chi-):

 

nap. chianë ‘piano’ < PLANUM, chiòvërë ‘piovere’ < PLOVERE, chiummë ‘piombo’ < PLUMBU(m) ecc.

2 – Il ruolo e la posizione linguistica di Napoli

 

Napoli, la capitale – su cui molte zone del Regno hanno gravitato per secoli, 

con cospicui e a volte patologici fenomeni di inurbamento – pur avendo esercitato 

a lungo una riconoscibile leadership, non ha mai affidato quest’ultima 

ad una politica linguistica appositamente pianificata.

 

Del resto, sono stati e sono molto dibattuti, anche oggi, i rapporti che intercorrono tra il napoletano e le parlate ad esso limitrofe, e tra la zona più propriamente “campana” e le altre zone linguistiche del Mezzogiorno. Semplificando e sintetizzando, si può affermare che se da un lato è senz’altro vero che in una fascia di territorio piuttosto ampia tutt’intorno a Napoli esistono varietà dialettali molto simili a quella cittadina (al netto delle piccole differenze che intercorrono tra comuni e perfino tra frazioni, che del resto si ritrovano in tutta Italia, e sono anzi una caratteristica di fondo del nostro Paese; v. Fig. 1), è però altrettanto facilmente verificabile che, all’interno del territorio amministrativamente campano, esistono transizioni fonetiche di un certo rilievo nel contesto dialettale meridionale, e ciò malgrado la plurisecolare presenza del prestigioso modello partenopeo (come spesso accade, i confini amministrativi non hanno alcun valore dal punto di vista linguistico). Fra queste citiamo, in Irpinia e ad Est di Salerno, come anche nel Cilento e nel Vallo di Diano, gli esiti di -cj- in -zz- (fazzë ‘faccio’ < FACIO, nap. faccë, vrazzë ‘braccio’ < BRACIUM, nap. vraccë) e di -ng- + e, i in -ng- (chiangë ‘piangere’, nap. chiagnërë, móngë ‘mungere’, nap. mógnërë), nonché lo sviluppo -ll- > -dd- (jaddë ‘gallo’, ddà ‘là’), che anticipano quanto si osserva più a Oriente e anche nell’estremo Mezzogiorno.

3 – Alcuni tratti particolarmente diffusi


Sulla base di una lunga tradizione di studi – nella quale spiccano i nomi di Clemente Merlo (1879-1960), Gerhard Rohlfs (1892-1986), Oronzo Parlangèli (1923-1969), Franco Fanciullo, Nicola De Blasi, e le gradi imprese dell’Atlante linguistico Italo-Svizzero (AIS, fondato nel 1919 dagli studiosi svizzeri Karl Jaberg e Jakob Jud) e dell’Atlante Linguistico Italiano (ALI, fondato nel 1924 da Matteo Bartoli) – possiamo identificare una significativa serie di tratti fonetici e grammaticali tipici di ampie aree del Mezzogiorno. Fra questi: 


• la “metafonesi”, cioè l’innalzamento delle vocali accentate -é- ed -ó-, che diventano rispettivamente -i- ed -u- per influsso delle vocali finali -i e -u latine originarie (a Napoli acitë ‘aceto’, pilë ‘pelo, -i’, munnë ‘mondo’, pullë ‘pollo, -i’ ecc. ), e di -è- e -ò-, che invece, nelle stesse condizioni, possono dittongarsi (piéttë ‘petto, -i’, piérë ‘piedi’, uóssë ‘osso’, fuóchë ‘fuoco, -chi’) 

 

• il “betacismo”, cioè il doppio esito di v– e b-, che di norma è v- in posizione iniziale e tra vocali, –(b)b- dopo consonante o alcuni monosillabi (nap. na vòtë ‘una volta’, ma tre bbòtë ‘tre volte’); 

 

• l’uso del “possessivo enclitico”, cioè posposto e privo d’accento, con i nomi di parentela, soprattutto nelle prime due persone singolari (fìgliëmë ‘mio figlio’, sòrëtë ‘tua sorella’); 

 

• la conservazione, con ulteriori sviluppi, del “neutro” latino, attuata sia attraverso un particolare articolo usato con gruppi di nomi che non ammettono una forma plurale (e che spesso erano neutri già in latino: a Monticchio, aq, lë vinë ‘il vino’ < vinu(m), lë férrë ‘il ferro inteso come metallo’ < ferru(m), ma u férrë ‘il ferro da stiro’, pluralizzabile e dunque maschile), nonché con aggettivi e verbi sostantivati (lë ruscë ‘il colore rosso’ vs. u ruscë ‘la persona dai capelli rossi’, lë campà ‘il vivere’), sia tramite aggettivi e pronomi dimostrativi diversi dai corrispondenti maschili (nap. chéstë nun o ssaccë ‘questa cosa non la so’, ma a cchistë nun o saccë ‘questa persona non la conosco’: in tutti i casi il dimostrativo neutro è non metafonetico, quello maschile è invece metafonetico). 

 

Vi sono poi altri fenomeni meno diffusi: larga parte della Puglia e la Lucania contigua, ad esempio, oltre ad essere caratterizzate da vistosi dittonghi (a Martina Franca, ta, sóulë ‘sole’, a Bitonto, ba, fòichë ‘fico’, a Melfi, pz, léucë ‘luce’), che giungono verso Nord fino all’Abruzzo (a Lanciano, ch, spàusë ‘sposa’), ci mostrano anche il caratteristico sviluppo j-, dj-, g + e, i > š (suono come quello dell’italiano sciame, ma un po’ più debole): šamë ‘andiamo’, da un precedente jamë < eamus, óšë ‘oggi’ < hodie, frìšë ‘friggere’ < frigere ecc.

 

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La gran parte dell’area linguistica meridionale (detta anche “meridionale intermedia” o “alto-meridionale”) coincide con una vasta porzione di quello che fu il Regno di Napoli, il più esteso stato preunitario d’Italia, collegato al resto della penisola da importanti direttrici Nord-Sud, come il litorale adriatico, la conca aquilana e la valle del Sacco-Liri, che, in varia misura, hanno potuto attenuare l’isolamento determinato, nella regione abruzzese, dai più elevati rilievi appenninici.

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Carta linguistica dell’Italia, con indicazione delle minoranze linguistiche o comuità alloglotte (elaborazione di Elena Crescenzi dalla Carta dei dialetti d’Italia di G. B. Pellegrini, Pisa, Pacini, 1977).

La tabella mostra come due dialetti, uno degli immediati dintorni di Napoli (Afragola), l’altro della Costiera amalfitana (Ravello, Sa); non solo siano assai vicini tra loro e al napoletano cittadino, ma concordino alternativamente con quest’ultimo riguardo ad alcuni tratti molto frequenti nel parlato d’uso quotidiano.

La copertina di uno dei volumi dell’Atlante Linguistico Italiano, fondato a Torino da Matteo Bartoli nel 1924 e pubblicato dall’attuale direttore, Lorenzo Massobrio, presso l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato.

 

LA GROTTA DELL’ARCANGELO GUERRIERO di Giorgio Salvatori – Numero 13 – Gennaio 2019

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LA GROTTA DELL’ARCANGELO GUERRIERO

 

Secondo le Scritture Sacre questa domanda risuonò come un tremendo ammonimento nei cieli quando Michele, l’Arcangelo che guidò le schiere angeliche contro Satana, cacciò dalla volta celeste le creature spirituali che, con un atto di superbia, si erano ribellate a Dio.

L’iconografia cristiana lo raffigura alato, fiero, con la spada sguainata, 

nell’atto di schiacciare un drago o una creatura infernale. Prefigurazione celeste 

di San Giorgio, sua più terrestre emulazione. Angelo guerriero, dunque, 

ma anche guaritore e protettore dei giusti. 

 

In queste vesti è apparso in frequenti ierofanie nell’Occidente cristiano. Lungo la penisola sono diverse le narrazioni di episodi legati a manifestazioni improvvise dell’Arcangelo, dal Piemonte alla Sicilia, con una frequenza accentuata nel meridione dello Stivale. 

In Puglia, in particolare, la sua epifania è attestata ripetutamente 

nell’area del promontorio montuoso del Gargano.


Una presenza costante che ha generato miti, leggende e un culto devozionale che, originatosi nel Medio Evo, è giunto fino alla nostra epoca senza perdere vigore né vitalità. Le ragioni di questa devozione sono molteplici.

La più importante è da ricercarsi nella marcata ripetizione delle apparizioni.

 

Esse hanno donato al luogo della prima manifestazione dell’Arcangelo, una grotta vasta e profonda, un’aura di sacralità ormai radicata nella memoria delle popolazioni del Gargano. Non meno rilevante, per la forte devozione popolare, è l’aspetto terrifico che la figura di Michele condivide con la sua immagine salvifica e benefica, aspetto che, da sempre, è accolto e riconosciuto nella tradizione cristiana: ferreo giustiziere divino per i malvagi, dunque, e salvatore misericordioso per gli oppressi, senza alcuna contraddizione. 

 

È proprio il suo aspetto terrifico ad accogliere i visitatori all’ingresso della grotta di San Michele, a Monte S. Angelo, in Gargano:

‘‘terribile è questo luogo’’ c’è scritto sulla porta della basilica da cui si accede alla grotta. ‘‘Terribilis est locus iste, hic domus dei est et porta coeli’’.

 

Va precisato, tuttavia, che la traduzione più aderente al significato biblico (Genesi, 28, 17) e la più ortodossa per la Chiesa, dovrebbe essere la seguente: ‘‘Questo luogo deve suscitare rispetto, questa è la casa di Dio e la porta dei Cieli”. Oggi, condizionati, dalla sindrome di Dan Brown, molti preferiscono porre l’accento sul presunto significato esoterico della frase che compare, identica, anche all’ingresso di altri templi cristiani e, tra questi, sul frontone della famosa chiesa di Santa Maria Maddalena di Rennes-le-Château.

Torniamo all’origine della nostra storia, a quel lontano 490, anno della presunta, prima apparizione dell’Arcangelo in Puglia, la prima secondo alcuni, 

tra le decine attribuite a San Michele, in tutta Europa.


In quell’anno, secondo la leggenda, un allevatore di buoi del Gargano si mise alla ricerca di un toro scomparso dalla sua stalla. Quando lo ritrovò, dopo una lunga e spasmodica caccia, lo vide coricato nella penombra di una grotta dall’accesso impervio. Irato per la ricerca estenuante e perché l’animale non si lasciava avvicinare, il mandriano incoccò una freccia nel suo arco e la scagliò rabbiosamente verso il toro. Inspiegabilmente il dardo, sempre secondo la leggenda, dopo aver percorso un breve tratto, si girò verso l’arciere e si conficcò sul corpo del malcapitato, facendolo sanguinare. Alcune versioni della storia accennano inoltre ad una sfolgorante luce proveniente dalla cavità più profonda della spelonca. L’uomo corse subito a narrare l’accaduto a Lorenzo Maiorano, vescovo di Siponto. Il prelato rimase talmente turbato da quel racconto che, durante la notte, ricevette in sogno la visita dell’Arcangelo Michele. Questi gli rivelò che la grotta in cui aveva trovato rifugio il toro gli era sacra e che egli ne era l’eterno custode. Aggiunse poi che là, dove si apriva la caverna, potevano essere rimessi i peccati di chi vi si fosse recato in sincera contrizione. Dopo alcune, iniziali, titubanze, la Chiesa riconobbe nel luogo la presenza di Michele, l’Arcangelo venerato come un santo.

Si trattò invece, secondo l’esegesi più laica e profana, della prima sostituzione cultuale del mito pagano di Ercole vendicatore, armato di clava, fortemente 

presente nell’area garganica, con quello dell’Arcangelo Michele 

che si fa giustizia impugnando la spada.


Comincia così la vicenda che lega in modo inestinguibile Michele, il guerriero di Dio, alle popolazioni della Montagna del Sole, il Gargano. Dopo nuove manifestazioni dell’Arcangelo, negli anni e nei secoli successivi, e dopo miracolose guarigioni da pestilenze, processioni di fedeli e pellegrinaggi di santi e di cavalieri crociati nella grotta consacrata, l’epifania di Michele in Gargano divenne leggenda, culto e patrimonio dell’intero Occidente. 

 

Apparizioni simili seguirono un po’ dovunque nell’Europa ormai cristianizzata, quasi tutte collegate a luoghi di culto che, ancora oggi, per i devoti, ne sono testimonianza e formano quella che viene chiamata la ‘‘Via Micaelica’’: da Shelling Michael, in Irlanda, a Saint Michael Mount, in Inghilterra e poi Mont Saint-Michel, in Francia, la Sacra di San Michele, in Piemonte, l’isola di Symi, nel Dodecaneso.

Alcune epifanie sono sorprendenti. La più stupefacente è quella che ebbe luogo 

nel XII secolo, ancora una volta in Italia, più precisamente a Chiusdino, 

nelle colline selvose della Toscana.


È qui che un cavaliere, in cerca di gloria (come Francesco di Assisi prima della conversione) rimase atterrito quando, all’improvviso, venne investito da una luce accecante. Il bagliore emanava da una figura luminosa, l’Arcangelo che lo affrontò mentre il cavaliere, armato e a cavallo, stava per attraversare, fisicamente e metaforicamente, un ponte. Un incontro che lo trasformò da ‘‘miles belli’’ a ‘‘miles Christi’’ grazie al gesto di rovesciare la spada, che in questo modo divenne una croce, per poi infiggerla, prodigiosamente, nella dura roccia (la spada nella roccia è un mistero non svelato, ma documentato da analisi e ricerche effettuate da studiosi dell’Università di Pavia). Quel cavaliere, poi riconosciuto come santo, si chiamava Galgano. 

 

Non può sfuggire neppure al più distratto dei lettori che questo nome rievoca, per impressionante assonanza, quello di Gargano, termine che, storicamente e geograficamente, contrassegna sia il promontorio montuoso pugliese sia, in alcune versioni della leggenda della grotta, il nome del proprietario del toro fuggito dalla mandria. 

Fascino, mistero, carisma, spiritualità emanano dalla figura di Michele, 

venerato da tutte e tre le religioni del Libro: 

Ebraismo, Cristianesimo, Islam.


L’angelo che, insieme a Gabriele, istruì Maometto sulla volontà di Allah per i musulmani, Arcangelo e Santo per i cattolici, Arcangelo e basta per gli ebrei, ma anche per i cristiani ortodossi. Cuore del suo culto resta quella grotta a Monte S. Angelo, in Gargano, cui si accede attraverso una basilica in cui transitano ancora oggi migliaia di fedeli. Nel corso dei secoli vi si sono recati papi e condottieri, principi e plebei e diversi santi. Tra questi Padre Pio da Pietrelcina, il più amato in terra di Puglia e tra i più venerati nel mondo.

Eppure leggendo l’interminabile elenco dei visitatori della grotta, 

ciò che più colpisce, ma non sorprende, l’animo del lettore 

è il pellegrinaggio di San Francesco.


Dopo aver percorso, a piedi e con mezzi di fortuna, l’itinerario che lo separava dalla caverna dell’Arcangelo, il Santo di Assisi giunse all’ingresso della grotta e lì si fermò in silenzio. ‘‘Non sono degno di entrare in un luogo così sacro’’, furono, secondo i biografi, le sue parole. Una frase che racchiude insieme la grandezza del fraticello di Assisi e la forza prodigiosa e sovrannaturale che ancora emana dalla Grotta dell’Arcangelo. 

 

Per tutte queste ragioni la miracolosa caverna del Gargano è, per moltissimi devoti, il santuario più importante tra i tanti luoghi di culto cristiano diffusi lungo la penisola.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La parola Michele, infatti, si potrebbe tradurre in ‘‘Chi è come Dio’’? Che in ebraico suona: ‘‘mi kha El’’?

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EDINA ALTARA. “LA PITTRICE CANTASTORIE” di Stefania Conti – Numero 13 – Gennaio 2019

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EDINA ALTARA. “LA PITTRICE CANTASTORIE” 

 

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Edina Altara

Ma Edina Altara era tutt’altro. O meglio, era bellissima, certo, ma soprattutto era pittrice, illustratrice, ceramista, decoratrice e – a un certo punto della sua vita – anche creatrice di moda. 

 

Poliedrica e raffinata, ribelle e borghese. Ma soprattutto testarda come poche, convinta della sua vocazione e capace di emergere in un mondo maschile – di quegli anni, poi, quando una donna artista era considerata una poco di buono o giù di lì. 

 

Nata a Sassari nel 1898 da una famiglia facoltosa, terza di quattro figlie, riceve un’educazione normale. Fin da bambina però preferisce matite e forbici alle bambole. <Non ho mai avuto bambole costruite da altri>, racconterà quando era già famosa. Col passare degli anni comincia a confezionare collage di un certo pregio. Una tecnica, tra l’altro, che lei, così attenta alle novità e così piena di entusiasmo, conosceva perché era stata già adottata dagli inizi del ‘900 da esponenti del Cubismo come Braque e Picasso. 

 

Nel 1916 partecipa alla Mostra della Mobilitazione Civile a Sassari, con un suo collage in carta, tela e filo. Due mesi dopo è a Milano, alla Mostra campionaria del giocattolo italiano, dove ottiene la medaglia d’argento con dei giocattoli in cartone colorato. Ha solo 18 anni.

 

Il suo lavoro viene segnalato da critici come Margherita Sarfatti, 

Vittorio Pica e Ugo Ojetti.

 

Raffaello Giolli (tra i maggiori critici e studiosi d’arte del periodo) è entusiasta al punto di usare uno dei suoi collage per la copertina della sua rivista “Pagine d’arte”. L’anno dopo, durante la mostra della Società degli Amici dell’Arte di Torino, il re Vittorio Emanuele III acquista il collage “Nella terra degli intrepidi sardi” (noto anche con il titolo “Jesus salvadelu”), ora esposto al Quirinale. E’ la consacrazione dell’artista. Il suo nome oltrepassa l’isola. 

 

Lei non si ferma e continua a sperimentare nuove tecniche. Costruisce giocattoli di carta colorata e si dedica alla ceramica, disegna piatti, piattini, mattonelle che saranno prodotti da una ditta sassarese. Ma quando la collaborazione finisce, insieme alle sorelle Iride e Lavinia dà vita ad una piccola azienda al femminile, che nella Sardegna di quegli anni, era quasi un miracolo. 

 

Sposa un illustratore e sceneggiatore noto, Vittorio Accornero (suo è l’iconico foulard Flora di Gucci creato per Grace Kelly e ancora oggi apprezzato dalle signore) e con lui si trasferisce a Milano. Sono una coppia che oggi diremmo glamour,

frequentano il bel mondo, Edina diventa una icona di stile. Ma il matrimonio 

non dura e nel 1934 si concentra nella moda, 


lavora con filati e broccati, apre un atelier, disegna per riviste come “Grazia” e “Rakam”. 

 

Negli anni ‘40, una svolta. All’ombra di Giò Ponti, architetto e designer già famosissimo, acquista maggior peso il ruolo di pittrice e decoratrice. Orna, tra l’altro, numerosi arredi firmati dal designer (è pur sempre una donna). Disegna e decora arredi e mobili di cinque transatlantici (tra cui l’Andrea Doria). La collaborazione, che dura fino agli anni ‘60, esalta la sua creatività e i suoi lavori vengono pubblicati su autorevoli riviste, come “Stile” e “Domus”.

Giò Ponti la definisce “la pittrice cantastorie”, perché in tutti i suoi lavori 

c’è un filo rosso: la Sardegna.


Tutta la sua voglia di cambiare, tutta l’attenzione allo stile futurista, il suo essere ribelle e moderna non spezzerà mai l’amore per la sua isola.  

 

 

 

Capelli corvini lunghi e morbidi. Occhi neri penetranti, con un trucco intenso e ammaliante. Un vestito da sera elegantissimo. Una femme fatale, di quelle che tanto piacevano a Gabriele D’annunzio.

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SILVIO SPAVENTA. IL NOVECENTO, SECOLO DEL LAVORO di Raffaele Colapietra – Numero 13 – Gennaio 2019

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       SILVIO SPAVENTA.           IL NOVECENTO,     SECOLO DEL LAVORO

 

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A questa linea egli si serbava fermamente fedele, dopo qualche sbandamento durante il rigidissimo ergastolo di Santo Stefano: Italia e Vittorio Emanuele, nel 1860, persecuzione implacabile e indifferenziata di borbonici, camorristi e garibaldini, fino alla sanguinosa repressione dei moti torinesi di fine 1864 per il trasferimento della capitale a Firenze.

 

Spaventa lasciava il potere per poco meno di un decennio, entrando a consumare un’esperienza nel Consiglio di Stato che si dovrebbe conoscere meglio per intendere il suo pensiero in proposito, nessuna reazione immediata, ad esempio, all’abolizione del contenzioso amministrativo nel 1865 ad opera del guardasigilli Pisanelli, uomo di Destra e meridionale come lui, e suo amicissimo personale.

Spaventa è ministro dei lavori pubblici nel dicembre del 1873 

in un gabinetto Minghetti tutt’altro che “piemontese”


e la novità d’ambiente che subito lo colpisce sono le società più o meno anonime fiorite nel frattempo, un’escrescenza capitalistica internazionale che egli non comprende, denunziandone subito, ed esclusivamente, l’egoismo e le immoralità spicciole nella gestione ferocemente privatistica delle ferrovie italiane, donde la “gioia segreta” di poter eliminare tale gestione ad opera di stranieri “i più audaci avventurieri e speculatori che si siano mai visti” ed in favore di uno Stato da “adorare” in quanto “dirige un popolo verso la civiltà” intesa quest’ultima “quale unità della coltura e del benessere” ed identificandosi esso Stato con “un’assoluta necessità sociale” (marzo e giugno 1876).

Spaventa non avrebbe visto questo Stato trionfare contro “la frode, 

il raggiro, l’aggiotaggio e tutti gli altri vizi” delle società anonime, 

i suoi stessi elettori abruzzesi lo avrebbero escluso e costretto 

a rifugiarsi nella Bergamo “capitale dei Mille”


ma altresì roccaforte del cattolicesimo sociale dei Radini Tedeschi, Rezzara, Agliardi, Suardo, il mondo da cui sarebbe venuto fuori il futuro Giovanni XXIII e che condizionava Spaventa nella sua requisitoria dell’aprile 1877 contro gli estremismi laicisti del guardasigilli Mancini che lo aveva escluso dal Consiglio di Stato (avrebbe riparato ben presto Zanardelli, l’uomo delle aborrite società anonime) anche nelle sue novità più indiscutibilmente liberali, l’abolizione del carcere per debiti, le modifiche alla condizionale e alla libertà provvisoria, il voto amministrativo alle donne (era stato Spaventa ad ammetterle come telegrafiste, esempio immediato ed illustre Matilde Serao, ma ciò alla luce del puro e semplice “tornaconto finanziario”, marzo 1875, cioè perché pagate di meno).

“Nessun pubblico impiegato possa, una volta investito del suo ufficio legittimamente, esserne arbitrariamente privato” ecco la parola d’ordine che Spaventa innalzava 

alla Camera nel novembre 1877 ed avrebbe mantenuto per un decennio 

con i suoi corollari:


l’auspicata esclusione degli impiegati dalla lotta dei partiti politici, “il bisogno di vivificarne l’ambiente” attraverso organi speciali concordati tra il potere esecutivo e quello legislativo, grazie ai quali “la libertà costituzionale diventa concreta, diventa quello che deve essere, non semplice partecipazione alla formazione delle leggi ma partecipazione alla loro esecuzione” donde “l’uomo veramente libero, che fa a sé la propria legge e l’esegue da sé” (giugno 1878). Cose del genere avrebbe ripetuto Giovanni Gentile tra il delitto Matteotti ed il 3 gennaio, allorché si parlò correntemente di uno Spaventa in camicia nera e di una tessera fascista a Spaventa.

Croce aveva posto da un pezzo lo zio al vertice del proprio personale pantheon risorgimentale, accanto a De Sanctis e Carducci: ma Gentile non va dimenticato, 

né con lui Salandra, che di Spaventa era stato allievo


e che, tanto a Chieti nel giugno 1922 per il centenario della nascita, quanto nel 1928, in merito alla crisi di fine secolo, aveva obiettato più o meno direttamente a Croce in termini da ripensare con attenzione.

Un ripensamento sistematico dell’esperienza risorgimentale era intanto 

quello che il Nostro veniva svolgendo nei suoi ultimi anni, 


i pieni poteri del 1859 soffocatori di ogni autonomia provinciale alla luce di una indipendenza che era arrivata a subordinare la libertà (marzo 1879) ed a consentire un’ingerenza dello Stato obiettivamente inevitabile alla quale si reagisce privilegiando l’amministrazione sulla politica sotto l’egida suprema della monarchia “che in questa missione ha la sua nuova ragion d’essere” (maggio 1880, in evidente chiaroscuro con ciò che parecchi anni prima aveva sostenuto Angelo Camillo De Meis e ben al di là dell’auspicata elettività del Sindaco, che monopolizzava l’attenzione nell’atmosfera pre-elettorale dell’epoca). 

 

Appunto l’allargamento del suffragio avrebbe richiamato il Nostro a Chieti nel dicembre 1882 ma egli si sarebbe mantenuto fedele a Bergamo in nome di un organicismo conservatore tutt’altro che alieno dal cattolicesimo del Zentrum tedesco, il diritto elettorale “non individuale ma pubblico per operare il bene altrui e adempiere un dovere” donde la speranza che

“facendo partecipe del governo dello Stato altri ceti che abbiano intenti ed ideali diversi dalla borghesia si produca quella differenziazione di partiti che oggi manca” 

e che è dovuta al “principio essenzialmente radicale” (e borghese) 

del protagonismo del pensiero a fini di governo,


protagonismo che “si è provato inefficace ed inetto a riedificare ciò che deve continuare ad esistere”, scopo a cui debbono adempiere, in funzione essenzialmente conservatrice (e perciò latamente cattolica), gli “altri ceti” chiamati sul proscenio dalla riforma elettorale (e perciò tutt’altro che sovversivi). 

 

Sbarazzatosi di fatto delle novità di tipo tedesco che Guido Baccelli pretende di introdurre nelle strutture universitarie “istituzioni sociali indipendenti dallo Stato” con la loro nebulosa “libertà d’imparare” (gennaio 1884), ribadito il carattere letterario e retorico del patriottismo quarantottesco che aveva indotto ad un’assurda azione puramente rivoluzionaria una Destra “parte media che doveva fare ad un tempo da propulsione e moderatrice dello Stato” (settembre 1885), il canto del cigno parlamentare del Nostro, marzo 1886, prima delle novità crispine del Senato e della nuova specifica sezione del Consiglio di Stato, prende atto dell’esaurimento del ciclo trasformistico, il principio nazionale che degenera in nazionalistico con le sue vocazione imperialistiche, bellicose e protezioniste, il principio democratico pacifista volto essenzialmente a sollevare le sorti delle classi inferiori.

Questo “sollevamento”, lo ripetiamo, non ha nulla di sovversivo 

e molto di paternalistico,


contribuisce essenzialmente alla definizione dei partiti politici (lo avrebbe ben inteso Giolitti nel 1892), si sarebbe identificato (settembre 1886) con “una classe che non ha altra base che il suo lavoro e diventa sempre più numerosa, ed aspira naturalmente a venir su ed a migliorare il suo stato”: ma poiché “la libertà stessa è spesso contraria agli sforzi che le classi operaie fanno per riuscirvi” la grande novità del Nostro, schiettamente democratica di fatto anche al di là dell’intenzione, è la scoperta e la valorizzazione della scuola popolare “l’officina in cui devono farsi i nuovi italiani… nella quale il sapere diventa carattere e le cognizioni opere”:

in altre parole, dall’Ottocento secolo della storia di De Meis al Novecento 

secolo del lavoro di Spaventa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

aveva dato la misura della levatura politica e dell’orientamento strategico del venticinquenne Silvio Spaventa, unità italiana monarchica sotto l’egida di Carlo Alberto Re di Sardegna.

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L’ANTICA BOTTEGA DEL LEGNO CHE SUONA di Michele Minisci – Numero 13-Gennaio 2019

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       L’ANTICA BOTTEGA        DEL LEGNO CHE SUONA

 

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Parliamo di Rosalba De Bonis, l’ultima di una dinastia di liutai, famosi in tutto il mondo, che da 500 anni costruiscono strumenti musicali a corda, tra i quali va segnalata la chitarra battente, la cui particolarità consiste nella sua sonorità. E’ chiamata così anche perché le corde debbono essere percosse e non pizzicate e la quinta corda, o scuordo, dà una nota cupa. 

 

Nell’Italienische Geigenbauber, l’almanacco del gotha dei liutai, si parla dei De Bonis come di una dinastia. C’è un Francesco I, Francesco II, un terzo, un quarto, come ci sono i Giacinto, i Michele, i Nicola, i Vincenzo, i Rosario, e infine Rosalba, l’ultima della dinastia, variamente alternati come i rami di un albero genealogico imperiale.

L’abilità, il gusto raffinato della linea e tutti i segreti per ottenere dagli strumenti 

un suono armonioso che i grandi musicisti conoscono bene, 

vengono custoditi gelosamente e tramandati di padre in figlio.


La bottega d’arte, posta al centro dell’antico Rione della Giudecca, nel comune di Bisignano, in provincia di Cosenza, dove ormai Rosalba De Bonis, l’ultima della dinastia, lavora da sola, è un ambiente luminoso, inconfondibile; le forme-modello dei vari strumenti musicali sono appese alle pareti, i molti attrezzi antichi da lavoro, ben ordinati, sembrano tanti elementi decorativi dell’ambiente. Le linee degli strumenti sono l’una diversa dall’altra, i legni rari sapientemente invecchiati e trattati con vernici speciali; i vari intarsi, le decorazioni, sono veri capolavori di sapienza, di calcolata straordinaria sapienza, perché ogni elemento, anche quello decorativo, contribuisce alla più pura musicalità degli strumenti.   

Sono secoli di storia, la storia di una Calabria segreta e inattesa, 

quella della musica. Le vicende di una bottega dove con gli stessi scalpelli, 

le stesse forme, gli stessi legni, soprattutto con lo stesso amore, 

qualcuno ripete ogni giorno il miracolo di creare uno strumento vivo.

Violini, chitarre, mandolini, ukulele, tutto nasce in questa bottega in modelli identici da secoli. I nipoti diventano padri, poi nonni, poi se ne vanno vedendo che gli ultimi nati sono già pronti a prendere il posto lasciato vuoto, per continuare quel lavoro che non deve finire mai. Rosalba mi dà appuntamento davanti alla sua bottega e subito mi rapisce: parla metà in italiano e metà calabrese-cosentino; occhi neri come la pece, sguardo limpido, sincero, ma quasi inquisitore, come a voler proteggere, davanti ad un estraneo, i suoi lavori, la sua arte, la sua genialità, nonostante la cordialità con cui mi concede questa intervista. 

 

Mentre mi mostra i modelli da cui ricava poi le sue chitarre, Rosalba mi racconta la storia del legno da cui sono state ricavate le sue ultime chitarre, legno di palissandro brasiliano, una partita del 1957, arrivata a Battipaglia dal porto di Napoli, che ora non si trova più in commercio, lasciata ad invecchiare per decenni. E poi tira fuori da un cassetto ciotoli di colla risalenti al 1915, uguale a quella che si usava nel ‘700; e poi mi porta nello stanzino dove c’è una piccola officina, con al centro una base in muratura, di lato un mantice, della cenere forse ancora calda, e

mi spiega come lavora col fuoco per addomesticare, piegare il palissandro 

alla sua volontà, alla sua idea di chitarra,


all’anima che vuole infondere ad un semplice pezzo di legno. 

 

E la tecnica di Rosalba è la stessa che si usava nel 1500, uguale alla tecnica utilizzata per modellare le gondole di Venezia, le chitarre spagnole. E’ qui che Rosalba ha un moto di orgoglio spontaneo e sincero, quando mi dice che non le piace la chitarra spagnola, la chitarra classica è quella italiana. 

 

Punto. Ricorda poi quando ai primi del ‘900 i suoi lontani parenti andavano in giro, con in spalla la viertula, insomma la bisaccia, piena di chitarrine, per venderle nei mercatini di tutta la Calabria. Poi sono arrivate le prime mostre, i primi concorsi e i riconoscimenti in tutto il mondo.

“Un vero liutaio inizia questo lavoro a sette anni, per essere considerato 

un liutaio perfetto. Io ho iniziato che avevo vent’ anni 

e ci lavoro solo da altrettanti anni


– mi dice Rosalba – e non faccio ancora la chitarra perfetta, come timbrica, forse come estetica ci sono vicino… e poi sono l’unica donna della dinastia a lavorare con le chitarre – e sottolinea questo aspetto con determinazione, forse per ribadire un suo orgoglio femminista, ricordando la contrarietà in famiglia per questa sua decisione di impegnarsi in questo lavoro – …e poi è mancina… dicevano per dissuadermi… 

 

Ricordo che zio Vincenzo e anche mio padre, Costantino, solo dopo la mia cinquantesima chitarra battente hanno detto …ci siamo…. Ho deciso di impegnarmi nella costruzione della chitarra classica solo dal 2013, e ne ho fatte già una decina e penso che quando ne costruirò altre dieci forse raggiungerò la perfezione. Farò la chitarra classica perfetta del 2000 – mi dice con un largo sorriso e un’impennata di orgoglio -. Pensa che ci vogliono dai 40 ai 50 giorni per costruirne una”.

A questo punto Rosalba mi racconta delle tante visite ricevute 

nella sua bottega dai tanti chitarristi-cantanti italiani,


di diversa estrazione musicale, come Roberto Murolo, Pino Daniele, Celentano, però in incognito, Fred Bongusto, e poi Eugenio Bennato, della Compagnia di Canto Popolare, che da quando scoprì la chitarra battente, nel 1976, contribuì a renderla molto popolare. “Per non parlare di Modugno, che incontra mio zio Nicola sul treno e gli compra una de Bonis seduta stante: pensa un po’! Ma ho saputo che anche Fabrizio De Andrè ha suonato una De Bonis”. 

 

Ma l’episodio che Rosalba ricorda di più e con infinito orgoglio è quello riguardante

la prima visita in Italia di Segovia, il grande chitarrista spagnolo, 

invitato in una trasmissione per la Rai, con la fila dei liutai italiani 

che gli presentavano le proprie chitarre da utilizzare 

per il concerto italiano e lui scelse la De Bonis.


Ma chi prenderà il posto di Rosalba de Bonis, fra cent’anni? 

 

“E chi lo sa… – mi risponde Rosalba allargando le braccia – Mio figlio ha dodici anni e ho anche diversi nipoti, ma nessuno di loro, per ora, ha mostrato interesse per le nostre chitarre. Vedremo…. mai dire mai”. 

 

Finisce qui il mio incontro con Rosalba de Bonis, una liutaia calabrese, un mito nel mondo della liuteria internazionale, e mentre ci salutiamo mi dice ancora, con malcelato orgoglio: “Io voglio proteggere la mia tradizione, la mia particolarità, e non voglio che finisca”. 

 

Che gli dei ti siano propizi, Rosalba.

 

 

Lavora con le sue mani per carpire al legno un segreto. Legno di palissandro, di abete, di ebano, di acero, di mogano. Tante parti che, assemblate poi insieme, daranno vita, dopo settimane, mesi, di intenso lavoro, alle sue chitarre.

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GENTE MOLTO PER BENE. JOHN FANTE E L’ABRUZZO di Alessio Romano – Numero 13 – Gennaio 2019

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GENTE MOLTO PER BENE. JOHN FANTE E L’ABRUZZO

 

Per John Fante, italoamericano di seconda generazione, nato in America e che non sapeva parlare italiano, conoscendo solo qualche parola di dialetto ascoltata in casa, l’Abruzzo è puro mito. La terra primitiva dove è nato il padre, Nicola Fante, muratore che per sfuggire al freddo e alla miseria della sua terra, ha attraversato l’oceano, migrante economico, per lasciare le montagne appenniniche e raggiungere quelle così simili del Colorado.

È da qui, da questo padre e da questi ricordi, che tutto il lavoro letterario

di John Fante prende le prime mosse. 


Già nell’incipit del suo primo romanzo pubblicato (Aspetta primavera, Bandini), prima ancora di Arturo Bandini, suo alter ego e ritratto dell’artista da giovane, compare il personaggio di Svevo Bandini, padre di Arturo: 

 

“Avanzava, scalciando la neve profonda. Era un uomo disgustoso. Si chiamava Svevo Bandini (…). Detestava la neve. Faceva il muratore e la neve gelava la calce tra i mattoni che posava (…). Anche da ragazzo, in Italia, in Abruzzo, detestava la neve. Niente sole, niente lavoro. Adesso viveva in America, nella città di Rocklin, Colorado. (…). Le montagne c’erano anche in Italia, simili a bianchi monti a pochi chilometri di distanza verso occidente. Le montagne erano un gigantesco abito bianco caduto come piombo sulla terra.”1 

 

E ancora più avanti, nello stesso romanzo, l’Abruzzo diventa l’argomento di un divertente e divertito dialogo tra Svevo e una ricca e colta vedova americana: 

 

“E così lui era italiano. Splendido. (…). Doveva sentirsi orgoglioso delle sue origini. Non sapeva anche lui che la culla della civiltà occidentale era proprio l’Italia? Aveva mai visto la cattedrale di San Pietro, gli affreschi di Michelangelo, l’azzurro del Mediterraneo. E la Riviera? No, non li aveva mai visti. Le disse con parole semplici che era abruzzese, e non si era mai spinto a nord, nemmeno a Roma. Aveva lavorato duro, fin da ragazzo. Non aveva avuto tempo per nient’altro. L’Abruzzo! La vedova sapeva tutto. Ma allora aveva sicuramente letto le opere di d’Annunzio, era abruzzese anche lui. No, non l’aveva letto, quel d’Annunzio. Ne aveva sentito parlare, ma non l’aveva mai letto. Sì, sapeva che quell’uomo importante era della sua provincia. La cosa gli faceva piacere, sentiva gratitudine per d’Annunzio. Finalmente aveva trovato un terreno comune, ma con suo grande sconforto s’accorse di non avere nient’altro da dire sull’argomento.”

Ma l’Abruzzo di John Fante è soprattutto un piccolo paese, 

Torricella Peligna, quel paese che, ci ha insegnato Cesare Pavese, 

“ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”. 


Un paese che, per quanto lontano e mai visitato realmente, per John Fante è la garanzia di radici, di gente che a prescindere dal tuo ritorno, è rimasta ad aspettarti, come effettivamente è stato. Torricella Peligna è un luogo primordiale, l’Eden della sua mitologia familiare. Un mondo-paese popolato da personaggi leggendari come il suo antenato brigante Mingo di cui proprio il padre lo esorta a scriverne la storia nel romanzo Full of Life

 

“Un uomo coraggioso, mio zio Mingo. Era un Andrilli, fratello di tua nonna. L’hanno appeso proprio là, in Abruzzo. I Carabinieri… Due proiettili nella spalla. Ma l’hanno appeso lo stesso. E sua moglie lì, che piangeva. Sessantuno anni fa. L’ho visto con i miei occhi. Coletta Andrilli, bella donna.”2

Ma l’Abruzzo è anche un ingombro di cui sbarazzarsi. Su John Fante infatti 

c’è tutto il peso del pregiudizio razziale nei confronti degli italiani. 


I dago, mangia-spaghetti, selvaggi ubriaconi, violentatori e assassini, mafiosi, sporchi come maiali. È un tema caro a Fante soprattutto trattato nella sua raccolta di racconti Dogo red. Il successo letterario vagheggiato da Arturo Bandini serve anche a questo: è la chiave di quel riscatto sociale per sconfiggere il pregiudizio che su di lui incombe in quanto italiano.

Per l’Abruzzo, John Fante è un nipote smarrito, un figliol prodigo letterario 

mai tornato, ma che ha reso immortale e conosciuta in tutto il mondo 

la piccola comunità di Torricella Peligna (nel Sangro Aventino, 

in provincia di Chieti) che ormai da più di dieci anni 

lo celebra in un festival3 a lui dedicato.


John Fante non è mai tornato nel paese del padre, proprio per paura di infrangere la sua natura mitologica. Ma sono tornati lì i suoi figli, soprattutto il poeta e scrittore Dan Fante, venuto a mancare da qualche anno, proprio per essere protagonisti di questa celebrazione annuale che ha portato lì scrittori, registi e musicisti di fama mondiale (Sandro Veronesi, Romana Petri, Ryan Gattis, Paolo Virzì, Frank Spotnitz, Vinicio Capossela, Nada, Enrico Rava, Gianni Vattimo solo per citarne qualcuno), tutti complici di questo rito collettivo: il chiudersi di un cerchio, il ritorno a casa dell’eroe dopo la sua odissea. 

 

John Fante è però stato in Italia per il suo lavoro di sceneggiatore. Nelle lettere che scrive da Roma ha un giudizio molto negativo del suo popolo di origine, una preoccupazione che condivide proprio con il figlio Dan: 

 

“Gli italiani sono farabutti, ladri, malversatori, bugiardi, truffatori. Mi danno la nausea. Sii contento del tuo lato tedesco e inglese4. E soprattutto sii contento di essere americano. Per quanto riguarda me, vorrei essere un Ubangi con un osso nel naso.”5 Ma subito dopo Fante sembra quasi pentirsi delle sue parole, deve tornare in lui quel “ricordo di vecchie camere da letto, e il ciabattare di mia madre verso la cucina”6. Aggiunge infatti:

“Ma credo sia così per Roma, città di ladri, e che in provincia sia diverso. 

Mi dicono che gli abruzzesi sono gente molto per bene.”  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Una storia di amore e odio dal passato utile a comprendere le difficoltà del nostro presente. 

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1.Traduzione di Caro Corsi, Aspetta Primavera, Bandini, Einaudi, 2005.

2.Traduzione di Alessandra Osti, Full of life, Einaudi, 2009.

3.John Fante festival “Il Dio di mio padre” direzione artistica di Giovanna Di Lello organizzato dal Comune di Torricella Peligna dal 2006.

4.Da parte della madre Joyce Smart, sposata da Fante nel 1937.

5.Da Tesoro, qui è tutto una follia, a cura di Francesco Durante, traduzione di Alessandra Osti, Fazi editore, Roma.

6.Dalla nuova prefazione di Fante a Aspetta primavera, Bandini.

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