IL PREZZO DELL’ONESTÀ PASQUALE JULIANO di Francesco Antonio Genovese – Numero 16 – Febbraio 2019

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IL PREZZO DELL’ONESTÀ.  PASQUALE JULIANO 

 

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Tra le personalità di rilievo del Mezzogiorno d’Italia non ha ancora trovato il posto che merita un uomo che mostrò grande coraggio ed onestà in tempi difficili (come diremo):

parlo del commissario di Polizia Pasquale Juliano, originario della Puglia, ma a lungo vissuto a Matera, in Basilicata, dove aveva cominciato la sua carriera in Polizia, dopo aver svolto la professione di avvocato; professione a cui fu costretto a tornare nel 1980.

 

Vale la pena di ricordare le sue vicende personali, 

perché di grande insegnamento, ancor oggi. 

 

Ma è necessario andare indietro nel tempo, di circa cinquant’anni, ossia nel 1969; ora che – come si è detto di recente1 – la verità non è monopolio dell’autorità ma è, piuttosto, figlia del tempo. 

 

Ebbene, secondo la consuetudine storiografica sul terrorismo italiano postbellico2, l’inizio della lunga stagione che avrebbe insanguinato l’Italia (e che è divenuta celebre come quella della strategia della tensione: così ebbe a battezzarla The Guardian) è individuabile

nella giornata del 15 aprile 19693, quando a Padova, nottetempo, 

una bomba esplose (con gravi danni, per fortuna solo alle cose)  


nello studio del Rettore dell’Università patavina: il prof. Enrico Opocher, uno dei maggiori filosofi del diritto del novecento italiano, ebreo e tra i fondatori del Partito d’Azione in Veneto. 

 

L’indagine sul quel primo misfatto, nell’ambito della Questura di Padova (dove pure operava un’articolazione più specifica: il cd. Ufficio politico) venne affidata al capo della squadra mobile,

 

il dr. Pasquale Juliano, che – a 37 anni e, senza tirarla troppo per le lunghe, con provata puntualità e capacità – arrivò a individuare i responsabili 

in un nucleo di estremisti neri che da qualche tempo 

cospirava con armi ed esplosivi.  


Tra i leader di quel gruppo vi era un neolaureato in giurisprudenza, che aveva avuto come relatore (con una tesi su Platone) proprio il prof. Opocher: si trattava di Franco Giorgio Freda (detto Giorgio, non Franco, come poi è invalso nella pubblicistica nazionale), seguace di Julius Evola, che da poco aveva, a sua volta, cominciato un’attività editoriale (con la sigla Ar: “Aristocrazia ariana”) ed aveva aperto anche una libreria (la Ezzelino) dove gli estremisti solevano riunirsi, specie in ore serali.

Juliano decise di far sottoporre l’utenza di Freda ad intercettazioni telefoniche: intercettazioni di cui si perderanno però le tracce, proprio a seguito 

delle vicende che colpirono il Commissario,   


salvo a recuperale qualche anno dopo, da parte del giudice istruttore di Treviso, Giancarlo Stiz (attento e coraggioso magistrato, scomparso da pochi anni) che assieme a Pietro Calogero (sostituto procuratore, allora a Treviso), per qualche tempo ebbero le mani, molto abili ed efficaci, sull’inchiesta che poi dovettero trasferire a Milano. 

 

Oltre alle investigazioni sulle conversazioni telefoniche,

il commissario Juliano cercò di penetrare nel cerchio chiuso dei cospiratori 

per mezzo di informatori che, tuttavia, si resero disponibili – come successivamente sarebbe emerso – solo allo scopo di metterlo in condizioni di impotenza,


preparando una trappola in suo danno (tanto era la potenza, la protezione e l’arroganza di quel gruppo di criminali). Uno di loro, infatti, dopo avergli dato le prove del possesso illecito delle armi da parte di un appartenente al gruppo, così da guadagnarsi la fiducia dell’investigatore, farà sì che, al momento del fermo di un altro di loro colto nella flagranza del possesso di un ordigno, il fermato farà una callida dichiarazione menzognera: “La bomba me l’ha data Juliano”.  

 

Così l’uomo che aveva individuato la pista nera nella progressione degli attentati dinamitardi che, a partire dal 15 aprile 1969 insanguineranno l’Italia, e che, unico tra gli uomini delle forze di polizia del Paese, aveva cominciato l’attività di assicurazione delle prove per inchiodare i responsabili alle accuse che loro competevano, finiva nel tritacarne di una giustizia matrigna.

 

Il commissario Juliano, infatti, si vedrà scippare l’inchiesta, che verrà insabbiata, 

e Lui stesso finirà sotto processo, accusato di aver costruito 

le prove contro i terroristi.   

Un potente funzionario dell’UAR del Ministero dell’Interno4, il dr. Elvio Catenacci, viene appositamente a Padova per chiedergli di dare le dimissioni dalla Polizia. Al suo rifiuto, viene sospeso dalle funzioni e dallo stipendio (evento allora rarissimo, se non unico). 

 

Un teste genuino che avrebbe dovuto testimoniare di circostanze utili a scoprire la macchinazione (il povero Alberto Muraro, un ex carabiniere divenuto portiere dello stabile di piazza Insurrezione, a Padova, dove abitava Massimiliano Fachini, legato al solito gruppo nero) morirà precipitando inspiegabilmente nella tromba delle scale, e così

 

al testimone chiave dell’inchiesta condotta dal commissario Juliano contro il gruppo Fachini-Freda-Ventura, che avrebbe dovuto testimoniare solo due giorni dopo, viene chiusa definitivamente la bocca. 


Da Ruvo di Puglia dove è costretto a trasferirsi perché privato del lavoro (e dove viene accolto a braccia aperte dalla famiglia della moglie5), il commissario di Ps Pasquale Juliano invia al giudice padovano, Ruberto, un memoriale difensivo nel quale riferisce di essere stato informato da quel confidente che esisteva una organizzazione, responsabile di attentati, che faceva capo a un «certo avvocato Freda da Padova» e a un bidello dell’istituto Configliachi di Padova (Marco Pozzan); ma

gli occorreranno ben dieci anni per dimostrare completamente 

la sua innocenza, che trionferà solo nel 1979,  


quando  sarà  assolto  da tutti  i capi d’imputazione  e la stagione delle bombe avrà quasi concluso il suo tragico corso.  

 

Quando verrà reintegrato nelle funzioni di poliziotto, Juliano chiederà di tornare a lavorare laddove era partito, a Matera.

ma non resterà a lungo in Polizia, anche perché quel blocco di carriera, 

gli ha fatto passare avanti troppi colleghi ed anche gente 

che non ha avuto la sua onestà intellettuale  


nell’adempimento del dovere, svolto – per lui sì, si può dire – con disciplina ed onore, come raccomanda l’art. 54 della Costituzione. 

 

Un’onestà intellettuale che manifesterà anche quando, intervistato sulla prevaricazione subita, dichiarerà di aver capito fino ad un certo punto di aver individuato una cellula terroristica dalle profonde innervature (cfr. M. Dianese-G. Bettin, La strage, cit., p. 119). 

 

Al giornalista dell’Avvenire, Antonio Maria Mira, che per primo lo intervisterà dopo tanto oblio racconterà: «Ancora oggi ricevo telefonate anonime con minacce e insulti»;

«Avevo già intuito che dietro Freda e Ventura ci doveva essere qualcun altro.
Lo capii dalle protezioni che scattarono in loro difesa. Anche politiche. Italiane 

e straniere, come sta emergendo dall’inchiesta del dottor Salvini»6. 


Era ben informato Juliano, perché seguiva con attenzione – come avrebbe fatto meglio a fare la Procura della Repubblica di Milano – il lavoro del giudice milanese, che finalmente gli dava ragione. «È arrivato là dove stavo arrivando anch’io. E io non avevo i pentiti. Magari li avessi avuti. Avevo solo dei confidenti, ma a questi allora si credeva poco».

 

Nel 1980, tornerà a svolgere quella professione che aveva lasciato per entrare 

in Polizia: l’avvocatura, nel foro di Matera, laddove lascerà definitivamente 

il suo posto proprio il 15 aprile (una data fatale) 1998, 

morendo ad appena 66 anni;

 

lo studio legale passerà così a uno dei figli, Antonio, che prosegue tutt’ora la sua attività forense giustamente orgoglioso di colui che gli ha lasciato il testimone (se ne veda l’intervista in calce al volume A. Beccaria-S. Mammano, Attentato imminente, cit.). 

 

Aspettiamo tutti ora che una strada di Padova, di Milano o di Matera sia intitolata al suo illustre nome. 

 

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[1] E. Deaglio, La Bomba. Cinquant’anni di Piazza Fontana, Milano, 2019, p. 115 e ss. 

[2] Da ultimi: M. Dondi, 12 dicembre 1969, Bari, 2018, p. 24 e ss.; La strage di Piazza Fontana, a cura di A. Carioti, Milano 2019, p. 223; M. Dianese-G. Bettin, La strage degli innocenti, Milano 2019, p. 114 e ss.; P. Calogero, La strategia della tensione e piazza Fontana, in L’Italia delle stragi, a cura di A. Ventrone, Roma, 2019, p. 3 

[3] In realtà altri episodi violenti vi erano già stati a Padova: il 5 febbraio 1969 vi era stato un attentato dinamitardo al quotidiano Il Gazzettino, che aveva cagionato un incendio alla sede del giornale, e il 29 marzo 1969 vi era stato uno scoppio di ordigni nei pressi della sede del Siulp (cfr. M. Dianese-G. Bettin, La strage, cit., p. 115).

[4] Sul quale apparato: cfr. G. Pacini, Il cuore occulto del potere. Storia dell’Ufficio affari riservati del Viminale (1919-1984), Roma, pp. 234

[5] cfr. M. Dianese-G. Bettin, La strage, cit., pp. 117-118; A. Beccaria-S. Mammano, Attentato imminente, 2009

[6] Sull’enorme lavoro svolto dal Giudice Istruttore Guido Salvini si veda ora l’importante volume, anche in parte autobiografico: G. Salvini-A. Sceresini, La maledizione di Piazza Fontana, Milano 2019, pp. 611

 

ROBERTO MUROLO IL FINE DICITORE di Fernando Popoli – Numero 16 – Febbraio 2020

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ROBERTO  MUROLO IL FINE DICITORE

 

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La guerra era terminata da poco e la gente aveva voglia di divertirsi, di riprendere vecchie abitudini, di trascorrere giornate liete e allegre. Il compleanno di mia madre cadeva il cinque gennaio e mio padre, che era innamoratissimo di lei, faceva di tutto per festeggiarla nel modo migliore.   

 

Egli era il cugino di Amilcare Imperatrice che suonava il contrabasso con Roberto Murolo,

il fine dicitore che incantava tutta Napoli con le sue dolci melodie,


sussurrate con la sua voce seducente e intonata come uno chansonnier del passato. Attraverso questo cugino, Murolo, Continisio e lo stesso Imperatrice venivano invitati a casa nostra per cantare e suonare in onore di mia madre che era una donna molto romantica. Ricordo che prendevano un cachet di centomila lire che, all’epoca, era una cifra considerevole per una serata in famiglia, ma l’atmosfera che si creava e le canzoni che venivano cantate e suonate erano meravigliose. “Munasterio ‘e Santa Chiara”, “Scalinatella”, “Reginella”, risuonavano nel nostro salotto con quei versi stupendi che ancora ricordo… T’aggio vuluto bene a te…Tu m’è vuluto bene a me! Mo’ nun ‘nce amammo cchiù, Ma ‘e vvote tu distrattamente pienze a me! Reginè quanno stive cu mmico… Intorno ai tre musicisti c’eravamo noi sette figli tutti piccolini e alcuni parenti, in rigoroso silenzio,

 

ammaliati dalle parole, dai suoni, dalle melodie che vibravano nell’aria

 

e ci affascinavano, ci coinvolgevano, ci incantavano, per portarci lontano e cullarci in un mondo di dolci sensazioni, come da lievi flutti marini.  

 

Murolo era figlio d’arte, il padre Ernesto era stato un grande poeta dialettale, a sua volta questi era figlio illegittimo di Eduardo Scarpetta, il padre dei tre fratelli De Filippo.

Egli si era formato nei salotti di Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio, 

Ferdinando Russo e Raffaele Viviani, respirando arte e poesia.

Da giovane era stato un ottimo tuffatore, conquistando importanti riconoscimenti, ma poi, dopo aver studiato chitarra, formò il “Mida Quartet” con Enzo Diacova, Alberto Arcomone e Amilcare Imperatrice e girò per otto anni in Europa, dal 1938 al 1946, esibendosi tra teatri, teatrini e caffè musicali per campare alla meglio.

Tornato in Italia, affina il suo repertorio con le su citate canzoni e si esibisce con grande successo al Tragara di Capri e in altri posti alla moda conquistando il pubblico napoletano.Inizia anche ad incidere dischi, per la Telefunken Durium,

 

e la radio, allora regina incontrastata delle famiglie, diffonde la sua musica 

di continuo diventando ben presto un beniamino degli ascoltatori.

 

Anche il cinema si accorge di lui e interpreta alcuni ruoli in “Catene”, “Tormento”, “Menzogna”, “Saluti e baci”, dove alterna parti recitate a parti solamente cantate, insieme ad Amedeo Nazzari, Yvonne Sanson, Nilla Pizzi, Yves Montand.  

 

Un brutto episodio lo segnò a tal punto che decise di ritirarsi dalle scene e vivere nell’ombra. Poi, lentamente, la passione per il canto e la musica presero il sopravvento e riprese la sua carriera mietendo grandi successi con il pubblico che riconobbe in lui il fine dicitore di un tempo.

 

Si dedica quindi alla registrazione di album monografici ispirati ai grandi poeti napoletani che erano stati suoi maestri: Salvatore Di Giacomo, 

Ernesto Murolo, Raffaele Viviani e Libero Bovio.

 

Vince come autore il festival di Napoli nel 1959 con la canzone: “Sarrà chi sa”, interpretata da Teddy Reno e scrive altri testi di successo.  

 

Studia con il chitarrista Edoardo Caliendo il grande repertorio della musica napoletana a partire dal milleduecento sino ai suoi giorni e pubblica una Antologia cronologica della canzone napoletana che resta un testo basilare per la comprensione e la conoscenza di quest’ arte.  

 

Nell’ultimo periodo della sua attività canta,

si esibisce e incide insieme a Mia Martini, Enzo Gragnaniello, Fabrizio de André 

e alla Nuova Compagnia del Canto Popolare, Lina Sastri, Edoardo Bennato, Daniele Sepe, Amalia Rodrigues venendo riconosciuto come

il più grande interprete della canzone napoletana.

 

Nel 1995 viene nominato Grande Ufficiale della Repubblica dal presidente Scalfaro e nel 2002 Cavaliere di Gran Croce da Ciampi. In quest’anno, al festival di Sanremo, gli viene consegnato il prestigioso premio alla carriera. Per il suo novantesimo compleanno, Renzo Arbore realizza lo special: “Roberto Murolo Day, ho sognato di cantare”, prodotto da Raisat.  

 

Nel 2003 lascia la vita terrena e assurge definitivamente alla gloria dei grandi interpreti di Napoli e va a riposare per sempre al cimitero di Poggioreale. La sua casa in Via Cimarosa, al Vomero, è sede della Fondazione Murolo. 

 

 

anni di rinascita dell’Italia, di speranze e di sogni. 

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ADORNO FILOSOFO DA SIRACUSA A FIRENZE di Aurora Adorno – Numero 16 – Febbraio 2020

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ADORNO  FILOSOFO    DA SIRACUSA A FIRENZE 

 

dalla ricorrenza della morte di mio nonno Francesco Adorno, nato nel ‘21 nella bella Siracusa da sua madre Laura e dal padre Corrado Adorno Avolio, 

erede di un’antica e nobile famiglia, e morto a Firenze il 19 settembre del 2010, dopo pochi mesi dall’aver “dato le dimissioni da tutto ciò che era”, come lui stesso mi disse, con quegli occhi tanto intensi quanto azzurri, da far invidia al cielo.  

 

Quattro mesi dopo, Luciana Bigazzi, sua preziosa moglie, segue l’adorato marito, sua ragione di vita, lasciando nella nostra famiglia un vuoto significativo al quale, forse inconsciamente, ho cercato di dare un senso con la stesura di un libro

 

Francesco Adorno. Un filosofo a Firenze –

 

in cui la mancanza delle nostre chiacchierate, dell’intreccio delle nostre scoperte, dello scambio di pensieri e di stimoli, mi ha spinta a ricercare un dialogo interiore con la mia cara nonna, dando vita alla voce narrante di una biografia, o raccolta di memorie, comunque la si voglia chiamare.  

 

La ricerca della saggezza, della verità intesa non solo come insieme accademico di conoscenze, ma come un valore totale al quale tutti dovremmo aspirare, è il leitmotiv di quella mia piccola opera, ed è anche l’eredità che Luciana e Francesco ci hanno lasciato: saper pensare con la propria testa, rimettere sempre tutto in discussione e saper criticare gli eventi storicamente.  

 

Ho usato i vocaboli che essi usavano, liberato i loro pensieri da minuscoli blocchetti di appunti dalle pagine sbiadite dal tempo,

indagato sulla loro sofferenza, sulla gioia e sul dolore di un amore 

che nasce durante la seconda guerra mondiale,

 

sboccia e diviene un legame unico, speciale, nella cornice di una città d’arte come Firenze, colpita dalle bombe prima, infangata dall’alluvione poi, i ricordi intrisi di un’infanzia vissuta a Siracusa dove Francesco Adorno nasce e si forma come pensatore.  

 

Francesco e Luciana proseguono con forza la loro vita.

Dopo i primi anni passati a Siracusa, dalla quale egli viene significativamente 

colpito e che lascerà in lui un forte fermento creativo, 

Francesco si laurea in un bunker nel ‘44


e negli anni a venire diviene professore, pensatore e scrittore, oltre che il direttore della “Colombaria” (Accademia Toscana di Scienze e Lettere di Firenze) per molti anni. Le lettere e le poesie raccolte nel libro fanno luce sulla sensibilità e la ricerca interiore di quest’uomo che per suo stesso dire custodiva in sé due facce: quella del “poeta” (sul quale la terra d’origine aveva avuto un forte richiamo), sensibile ed esteta, e quella del “freddo pensatore”.  

 

In tutta la sua vita egli ricerca un equilibrio tra queste due differenti facce di una stessa medaglia, nata forse la seconda per proteggere la prima. 

Un carattere duro con chi non lo conosceva abbastanza, quella fede cieca nelle regole e le contraddizioni di un giovane dalle idee marxiste, che ostentava però le sue nobili origini, i dogi a Genova e le forti radici siciliane di cui egli si ricordava sempre e di cui incarnava i colori e i profumi, il carattere fiero.  

 

Dalle rovine greche, il Tempio di Apollo, il Teatro greco che amava ricordare, era nata la passione per quell’antica civiltà costellata da grandi pensatori e da divinità e miti che hanno contribuito a costruire il nostro e il suo pensiero.

Ed ogni volta che in quella terra baciata dal sole egli faceva ritorno, 

ogni volta giunto a Villa San Giovanni egli la vedeva comparire all’orizzonte 

ed esclamava contento come un bambino che ha fatto ritorno a casa: 

“L’isola, l’isola!”. 


Allungava il braccio, la indicava con l’indice e Siracusa gli sorrideva baciata dal sole e dal profumo degli aranci, così poi alla fine della stagione egli la salutava con quel velo di malinconia negli occhi di chi lascia la propria terra e non sa quando vi farà ritorno. 

Ma egli non è solo in questo suo percorso, ha vicino a sé una donna magnifica nella sua semplicità, dotata di spiccata intelligenza e di una genuina saggezza che completano il giovane pensatore. Luciana è stata gli occhi di Francesco quando i suoi non funzionavano più, le sue gambe quando quelle del marito non rispondevano ai comandi del cervello, correggendo lei stessa le bozze, il braccio proteso sempre pronto a sostenerlo quando lui smarrito in “quel mondo delle idee” a lui tanto caro, inciampava e cadeva.  

 

Nonostante le malattie e la fragilità fisica, egli, grazie ad una grande forza d’animo e di carattere tipica delle sue antiche radici sicule, riesce a studiare andando oltre:

si occupa di tradurre le opere dei grandi filosofi greci, quelli che nella sua infanzia 

ha potuto ammirare attraverso i resti custoditi nella bella Sicilia,


si interroga sulla condizione dell’uomo, sul saper pensare e criticare storicamente, sull’ethos e la politeia, prendendo a modello la maieutica di Socrate ed educando, dal verbo educere, cioè tirando fuori dai suoi studenti la loro verità, in quel fare tipico della maieutica socratica che ormai aveva fatta sua. 

Non gli interessava, come lui stesso diceva sempre, “la lezioncina imparata a memoria”, ma il poter constatare nei suoi studenti una capacità dialettica, la sveltezza nel ragionamento.

“Ognuno deve pensare con la propria testa” è uno dei moniti 

che egli ci ha lasciato in eredità 


insieme a quella sete di sapere e di conoscenza di noi stessi e delle cose tutte che hanno segnato la sua vita e quella delle persone a lui vicine.  

 

Nelle lettere degli anni della guerra, nei diari e nelle riflessioni troviamo sin dagli scritti giovanili una struggente propensione verso il mettersi e rimettersi in discussione sempre, ogni giorno, in un continuo divenire.

 

L’incontro e scontro con l’adorata moglie Luciana si combatteva sul campo della ragione:

l’intelligenza colta, raffinata ed esteta di Francesco trovava il suo completamento 

nella mente saggia e brillante della moglie che spesso e volentieri 

lo spronava a ragionare in maniera più semplice e concreta.


In questo rispecchiarsi l’uno nell’altra, nel crescere insieme da quel primo sguardo tra i banchi di un corso di dattilografia, attraverso le lettere scambiate tra il filosofo innamorato e la sua amata durante il tempo di guerra, seguendo i fiumi dell’alluvione fino ad arrivare alla vecchiaia ed infine alla morte, insieme, sempre.  

 

A Luciana ho dedicato il libro, a quella donna riservata ma schietta, dagli occhi color nocciola che sempre lasciavano intravedere la verità, a una giovane donna che voleva lavorare, ma alla quale non è stato concesso, poiché ai tempi “non stava bene”, e che per cercare lo scopo di tutta la sua vita si dedica al marito e al volontariato. 

Non è solo la spalla del lavoro mentale e di studioso del marito, ma ne è lo stimolante artefice, arrivando lei dove lui non arrivava e viceversa, correggendo e rileggendo insieme ogni parola, verso per verso, opera per opera. 

Lasciamoci ispirare dalle grandi biografie di uomini che mossi da alti ideali hanno fatto la storia della nostra cultura, dall’amore vero che arriva là dove ogni uomo da solo non riesce ad arrivare: oltre la vita e la morte, oltre il dolore e la sofferenza.

Francesco Adorno ha apportato il suo significativo contributo
come promotore e organizzatore di cultura: 


negli anni ‘50 ha collaborato con la Nazione, con il Museo e Istituto Fiorentino di Preistoria, con l’Ente Cassa di Risparmio, la Società Toscana per la Storia del Risorgimento, ha diretto il Dipartimento di Filosofia d’Ateneo, l’Accademia delle Arti del Disegno e, oltre che a Firenze, ha dato il suo contributo all’Unione Accademica Nazionale e all’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo, portando la sua competenza nei centri di cultura internazionali.  

 

Tra le tante opere e traduzioni, ricordiamo il celebre manuale di storia della filosofia redatto con Tullio Gregory e Valerio Verra per la casa editrice Laterza nel 1973, sul quale tanti di noi si sono formati durante gli anni del liceo e dell’università

Conoscere la vita dei grandi uomini significa conoscere le origini del pensiero 

di questa nostra bella Italia, 


significa guardare per le strade e saper immaginare una cartolina in bianco e in nero con le immagini del passato, quel passato che ci ha resi così come siamo divenuti e al quale dovremmo ogni tanto fermarci a guardare, prendendo esempio e spunto da chi, durante tutta la sua vita, si è occupato del significato delle cose e si è interrogato sul perché ed il percome di questa grande avventura chiamata esistenza.  

 

 

 

 

 

  

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NAPOLI MON AMOUR di Giuditta Casale – Numero 16 – Febbraio 2020

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NAPOLI  MON AMOUR

 

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“È con sincera convinzione che diamo ad Alessio Forgione il benvenuto nella categoria dei veri scrittori”, 

lo afferma Ernesto Ferrero, come si legge sul retro della bellissima copertina del secondo romanzo, Giovanissimi, per la collana La Stagione della casa editrice milanese NN Editore, la stessa con cui lo scrittore napoletano ha esordito nel 2018 con Napoli mon amour, che nel frattempo è diventato anche un progetto teatrale per il Teatro Mercadante di Napoli con la regia di Rosario Sparno, oltre ad aver vinto il Premio Berto 2019.

 

C’è una stretta, e nello stesso tempo originale, continuità e contiguità tra i due romanzi, soprattutto attraverso i rispettivi protagonisti: il trentenne, precario e asfittico, Amoresano, e l’adolescente e acerbo Marocco.  

 

Già in Napoli mon amour Marocco gioca un ruolo da comparsa come ricorda Forgione:  

 

c’è un rapporto evidente tra Amoresano e Marocco, descritto in “Napoli mon amour” stesso, di cui Marocco è un personaggio, nella prima parte, che entra in un bar e dice delle cose riguardo la situazione del Napoli e Amoresano è insofferente, perché le reputa delle sciocchezze. Poi Marocco scompare, Amoresano va avanti e scompare anche lui e torna Marocco, che diventa il protagonista di “Giovanissimi”.

 

Ma ancora più interessante è il dettaglio che Forgione aggiunge:   

 

in “Napoli mon amour” Amoresano parla di un racconto che ha scritto e in cui ci sono due ragazzini che spacciano. E se quel racconto fosse diventato un romanzo? L’autore di “Giovanissimi” è Amoresano?

 

E se provassimo davvero a considerare il protagonista di Napoli mon amour 

come l’autore di Giovanissimi, al posto di Alessio Forgione?    

 

Non solo si potrebbe crederlo, ma è affascinante l’idea di leggere Giovanissimi come il romanzo, finalmente pubblicato, di Amoresano, sollecitato a scrivere in Napoli mon amour dal suo idolo letterario: La Capria, che fortunosamente incontra in uno dei passi più memorabili del romanzo.   

 

«Mi disse che i miei racconti gli erano piaciuti moltissimo.» 

«Lei ha stile, Amoresano» continuò «e, cosa ancora più rara, lei possiede una voce. Un buon narratore, cos’altro è se non una voce che ti sussurra all’orecchio? E lei quella cosa ce l’ha».  

 

Il limite che La Capria riscontra nella scrittura di Amoresano è la mancanza di contemplazione, perché rimprovera al giovane di essere troppo immerso nella storia. Amoresano tenta una giustificazione: come scrittore di “persone povere” (e in Giovanissimi ritorna l’attenzione alle fasce più disagiate, non solo in termini economici ma anche sentimentali e sociali) l’immersione potrebbe essere una cifra stilistica per rendere la scrittura più credibile. Sulla questione, però, La Capria è irremovibile: «Non penso, Amoresano. Vede, la buona narrazione è fatta tutta alla stessa maniera».  

 

In Giovanissimi, Alessio Forgione (forse proprio perché nella voce di Amoresano?) riesce a trovare un equilibrio perfetto e suggestivo tra l’immersione nella storia, già presente in Napoli mon amour, e “la visione aerea” suggerita da La Capria ad Amoresano, la capacità sorprendente di «innalzarsi sulla storia. Come se ci volasse sopra», nonostante la narrazione in prima persona del protagonista.

 

Un altro forte elemento di unione tra i due romanzi è il quartiere napoletano 

in cui entrambi sono ambientati: Soccavo. 

 

Un elemento di continuità non solo voluto, ma studiato anche nelle differenze stilistiche con cui è trattato.  

 

In Napoli mon amour il quartiere appare poco, – evidenzia Forgione – in Giovanissimi è a tutti gli effetti un personaggio; uno dei più importanti a dire il vero. Ricordo una mail che scambiai con Eugenia Dubini, ch’è l’editore e anche la persona che mi accende la luce e mi consente di guardare alle cose che faccio con più chiarezza. Lavoravamo alla revisione di Napoli mon amour ed Eugenia mi disse che c’era poco del quartiere, che appariva sfocato e che non si capiva bene che funzione avesse e perché nominarlo se poi non ne parli davvero. Le risposi che nel prossimo libro, ovvero Giovanissimi, avrei chiarito la faccenda del quartiere, che non potevo toglierlo e doveva fidarsi.

Che la presenza così viva del quartiere sia dovuta allo sguardo “aereo” 

di Amoresano, che scrive del giovane Marocco? 

 

È ad Amoresano, che vive a Soccavo come Marocco, che Alessio Forgione ha affidato la descrizione del quartiere, che invece in Napoli mon amour era rimasto volutamente sottotraccia, perché Amoresano ne era il protagonista e non l’autore?  

 

Nella rappresentazione della città di Napoli attraverso Soccavo, Alessio Forgione dimostra la raggiunta maturità di sguardo, consapevolezza letteraria e voce stilistica. Un passaggio necessario e voluto, un rimando e un superamento che unisce strettamente l’esordio alla seconda prova.

Ad unire, ancora, i due romanzi, c’è l’amore e la donna: Nina per Amoresano, 

Serena per Marocco. La forza salvifica e l’emozione di sentirsi vivi e trasformarsi 

in esseri desideranti, mentre la vita con le sue angustie 

vuole soffocare ciò che si vorrebbe essere. 

 

Nell’amore entrambi i personaggi provano a trovare sé stessi, a dare un senso a ciò che vivono, a lasciare una traccia. Napoli mon amour e Giovanissimi potrebbero dunque essere due capitoli, di certo indipendenti ma che letti in successione si illuminano e riverberano l’uno nell’altro, riuscendo a spiegare con forte immediatezza e senza edulcorazioni ciò che siamo a trent’anni oggi e ciò che siamo stati “per la prima volta” a quattordici.  

 

Un romanzo di formazione il primo, dalla parte dei trentenni che si scontrano con la realtà liquida e flessibile dei nostri tempi; e un romanzo di formazione il secondo, che ci riporta al passato, per rintracciare dei fili, introspettivi ed emotivi questa volta, che si tendono verso il futuro.

Ancora più affascinante pensare che Alessio Forgione nel dipanare questi fili da Napoli mon amour a Giovanissimi abbia voluto sperimentare la sua voce 

nel raccontare di Amoresano, e quella di Amoresano nel raccontare di Marocco.

 

In questo gioco raffinato di specchi letterari, potremmo persino credere che Amoresano sia l’alter ego di Forgione, come Marocco di Amoresano, e che tutti e tre in questo preciso momento se ne stiano in un bar con una birra ghiacciata in mano a discutere del Napoli e della tattica di gioco.  

 

«Dicono che i napoletani parlino al passato remoto, ma è un’idea sbagliata» le dissi […] «secondo me è più che vedono il futuro, il presente e il passato come un’unica striscia dritta, come se esistessero tutti nello stesso istante e quindi sapessero che niente potrà mai davvero cambiare». 

 

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CASTEL CAPUANO E LA RESPUBLICA DEI TOGATI di Roberto Giovene di Girasole – Numero 16 – Febbraio 2020

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CASTEL CAPUANO E LA RESPUBLICA   DEI TOGATI

 

lo si deve contestualizzare sul piano storico, oltre che su quello sociale, politico e urbanistico di Napoli.

Solo studiando la storia della città ed il ruolo che ebbero il Castello e la zona circostante si possono comprendere appieno le ragioni che spinsero don Pedro de Toledo, nel 1536, a modificarne quella che oggi definiremmo la “destinazione d’uso”, individuandolo come sede dei tribunali, funzione che il Castello ha assolto fino al 2007. Vi ebbero sede la Gran Corte della Vicaria, che era divisa in quattro ruote, due civili e due criminali; il Sacro Regio Consiglio Collaterale di Stato, che giudicava in appello e trattava le cause tra i feudatari; la Regia Camera della Sommaria, che aveva competenza finanziaria e fiscale; il Tribunale della Zecca, che sovraintendeva ai bolli ed alle unità di misura; il Tribunale della Bagliva, che trattava le cause minori.

La città di Neapolis, costruita dai coloni greci che già avevano fondato 

gli insediamenti di Ischia (Phitecusae) e Cuma, ha resistito ad innumerevoli cataclismi, quali terremoti ed eruzioni vulcaniche,


fino ad oggi, quando come è noto è possibile visitarne il centro antico medievale, la cui pianta urbanistica, composta da cardini e decumani, ricalca perfettamente il tracciato greco e poi romano, parzialmente visibile al di sotto dell’attuale piano stradale, per esempio accedendovi dalla chiesa di S. Lorenzo Maggiore. Come ben sanno velisti, pescatori ed appassionati del mare, nonostante la vicinanza della città allo 
sterminator Vesevo, a salvare la città sono stati i venti, che l’hanno preservata sospingendo ceneri e lapilli verso l’entroterra e le costiere sorrentina e amalfitana, come dimostrato dalle rovine della magnifica città commerciale romana di Pompei e di quella di Ercolano. 

 

Alle città di Nola e di Capua conducevano le strade che partivano dalle più importanti porte di accesso alla città, porta Nolana e Porta Capuana, quest’ultima posta al limite est dei due decumani maggiori, che costituivano l’accesso dall’entroterra alla città.

Grande e magnifica Porta Capuana, era stata costruita sul perimetro delle mura aragonesi con alle spalle Castel Capuano, il più antico della città. 


La zona, fortificata fin dall’epoca del ducato bizantino1, quindi prima dell’epoca normanna alla quale tradizionalmente si fa, invece, risalire la fondazione del castello, probabilmente edificato su di una preesistente fortificazione, è stata per secoli il centro politico e culturale di Napoli, che dalla zona greco-romana cominciava ad espandersi verso ovest, fino al punto dove sorse l’altra fortificazione, il Maschio Angioino, che aveva la differente funzione di proteggerla dai pericoli provenienti dal mare.

Non più, quindi, semplice fortezza militare, ma vero e proprio castello,  

nel XII secolo l’edificio assunse la funzione preponderante di residenza reale quando nel 1266 divenne la dimora di Carlo I d’Angiò, 


durante gli anni della costruzione del Maschio Angioino2. Ma fu solo alla fine del 1400 che l’edificio smise di essere anche una fortezza, in conseguenza dell’ampliamento della cinta muraria intrapreso da Ferrante d’Aragona e portato avanti dal figlio Alfonso, che ne determinò l’inglobamento all’interno della cinta muraria.

Erano possenti quanto architettonicamente magnifiche le mura difensive, 


che dall’apice costituito dall’attuale ex Caserma Garibaldi, oggi sede dell’Ufficio del giudice di Pace del Tribunale di Napoli, dove sono ancora visibili le grandi torri cilindriche, scendevano lungo il tracciato di una parte dell’odierna via Rosaroll, in qualche tratto ancora visibili lungo la corte dei palazzi ottocenteschi che le hanno inglobate, per poi piegare fino alla nuova Porta Capuana, anch’essa ricostruita sul finire del ‘400 su progetto di Giuliano da Maiano. Una passeggiata lungo questo tracciato, completamente al di fuori del circuito turistico, pur non essendo lontano dalla celeberrima zona dei decumani, è un’affascinate scoperta di strade oggi popolari, dove si mescolano colori intensi, odori tipici della cucina napoletana e vestigia del passato.

Una delle arterie che maggiormente rispecchia la magnificenza architettonica ed urbanistica raggiunta da questa parte della città nella seconda 

metà del ‘400, è via S. Giovanni a Carbonara 


che, nonostante la presenza di strutture alberghiere e ricettive, non è ancora adeguatamente valorizzata e conosciuta dai visitatori e dai turisti. Come tradizione consolidata in tutte le grandi città del mondo, i nobili ed i ricchi mercanti per secoli hanno costruito i loro palazzi vicino alle residenze reali. Così è accaduto a Napoli, nelle adiacenze di Castel Capuano; in seguito, a via Toledo all’epoca del vicereame spagnolo e alla Sanità, quando dopo la costruzione della Reggia di Capodimonte vennero edificati i palazzi nobiliari tuttora esistenti, lungo il percorso che compivano in carrozza i Sovrani per raggiungere la nuova dimora dal palazzo Reale. Questi edifici vennero realizzati ad una quota rialzata rispetto all’antica sottostante zona, destinata invece alle sepolture fin dall’età ellenistica (i grandi ipogei sono stati parzialmente portati alla luce da recenti attività di scavo). 

 

La chiesa di S. Giovanni a Carbonara, costruita tra la metà del ‘300 ed il primo ventennio del XV secolo, con il monumento funebre di Re Ladislao di Durazzo e la cappella Caracciolo del Sole, edificata nel 1427 dal potente Gran Siniscalco del Regno Sergianni Caracciolo, amante della regina Giovanna II (poi assassinato all’interno di Castel Capuano a seguito di una congiura e quivi sepolto), sono una pregevole testimonianza della prima architettura rinascimentale a Napoli.  

 

Si comprende allora perché, dovendo riunire in un solo edificio le diverse giurisdizioni della città, e dovendo trovare un luogo simbolico, che rispecchiasse la grandiosità del potere regio in nome del quale la giustizia era amministrata, nessun edificio poteva essere più adatto dell’antico castello. Nei sotterranei vi erano le prigioni.

Per l’edificio di Castel Capuano comincia una nuova vita, quella più conosciuta, legata alla amministrazione ininterrotta della Giustizia 

per 470 anni, dal 1536 al 2007,  


anno in cui anche il settore civile, seguendo l’esempio di quello penale che si era trasferito nel nuovo tribunale al Centro Direzionale tra il 1994 ed il 1997, abbandonò definitivamente l’antico maniero. Impossibile nell’ambito di questo breve scritto ripercorrere, anche solo per sommi capi, le innumerevoli storie e cronache legate alla vita dei tribunali e dei  processi.

In esso si svolsero le vicende più importanti di quella che alcuni storici hanno definito la Respublica dei togati, con riferimento al ruolo preminente,

nella vita politica del Regno di Napoli, svolto dal ceto dei togati, 

composto dagli Avvocati e dai Magistrati. 


Anche il Sacro Regio Consiglio Collaterale di Stato, istituito da Alfonso d’Aragona nel 1442, affinché giudicasse in grado di appello sulle più importanti sentenze civili e penali, fu trasferito in Castel Capuano.

In precedenza le sentenze erano inappellabili e solo il Sovrano
poteva riformarle, anche nominando nuovi giudici. 


Venne definito sacro perché presieduto da Re in persona. Poiché il Re non poteva sempre essere presente fu, in seguito, creata la figura del Presidente: “furono in ogni tempo innalzati in tal carica personaggi chiari ed illustri…Il Sacro Collegio non solo rivede i gravami degli altri Tribunali, ma giudica altresì in prima istanza le cause di maggior momento. Esamina le maggiori Cause civili, le cause dè Baroni, e le cause feudali, giudica dello stato delle persone…” 3 

 

In epoca precedente all’800 era spettata al Consiglio collaterale anche “l’appellazione dei decreti dell’Assessore consultore del Protomedico della nostra città, il quale ha giurisdizione civile e criminale sopra le persone che esercitano l’arte medica e altri sudditi che mancano per ragion dell’arte, o esercitano la medicina senza esservi graduati” 4.

Nel 1739 in Castel Capuano fu istituito il Supremo Magistrato di Commercio che riunì le competenza che in precedenza “si agitavano nel Grande Ammirante, nell’Arte della Seta e della Lana; nella delegazione dei cambi…” 5 


Nel castello, che per secoli ospitò la colonna dove per volontà del Vicerè spagnolo il fallito doveva salire a capo scoperto e restarvi per un’ora, esposto al pubblico ludibrio, si svolsero certamente processi sommari e ingiusti, in particolar modo quelli contro gli oppositori politici, ma si sviluppò anche in maniera marcata l’attività di un ceto di Avvocati che non temevano di sfidare il potere costituito, pur di vedere affermati i principi di libertà e di giustizia. Ricordiamo, nel 1850, il processo a carico di Luigi Settembrini, Nicola Nisco, Carlo Poerio, Michele Pironti, Filippo Agresti, tutti componenti della setta “Unità italiana” e imputati per cospirazione contro lo Stato. Il processo si snoda lungo ben 24 udienze e “gli avvocati fanno sentire la loro voce. Si oppongono, protestano contro i testimoni d’accusa Giuseppe Marini Serra, Enrico Cenni, Francesco Bax.” 6.

Ma già in epoche precedenti gli Avvocati napoletani si erano distinti 

per la loro azione in difesa dei diritti contro l’assolutismo regio: 


basti pensare alla Prammatica del regno di Napoli elaborata da Berardo Tanucci nel 1774, poi abrogata con legge del 1791, con la quale per la prima volta viene imposto a tutti i giudici della città di Napoli di motivare le sentenze; e il patrocinio dei meno abbienti introdotto a Napoli in epoca sveva, ad opera dell’imperatore Federico II, che istituì un avvocato dei poveri.

A Napoli fu creata anche una confraternita laicale di avvocati, 

quella di S. Ivo (Ivone), protettore degli avvocati, comparsa 

nel XVIII secolo con esclusivi scopi di beneficenza. 


Nella chiesa dei Santi Apostoli vi è la cappella di S. Ivone, “ch’è la seconda a destra entrando nella chiesa vedesi il deposito del presidente del sacro regio consiglio Vincenzo Ippolito, lavorato dal Sammartino. Quivi trovasi eretta una pia congrega laicale di avvocati, riuniti sotto il patrocinio di S. Ivone, che fu pietoso difensore dè poverelli. I governatori di essa, ricevute le suppliche dè poveri, in pubblica ragunanza mettono a disanima le loro ragioni, e trovandola causa regolare, se ne commette la difesa ad uno dè confratelli, a spese della congrega” 7

 

Fu proprio per tramandare ai posteri la storia di quanti, avvocati e patrioti, si erano battuti contro l’assolutismo, nell’anelito di una società più giusta e di un processo più equo, dove l’accusato potesse realmente difendersi dalle accuse, dinanzi a giudici che non fossero ciecamente obbedienti alla volontà del Governo, che

il 5 marzo 1882 furono collocati in Castel Capuano 13 busti, 


degli avvocati Francesco Ricciardi, Gaspare Capone, Davide Winspeare, Felice Parrilli, Giuseppe Raffaelli, Francesco Maria Avellino, Giuseppe Poerio, Pasquale Borrelli, Domenico Capitelli, Mario Pagano, Giuseppe Pisanelli, Nicola Nicolini e Roberto Savarese, in quello che oggi è denominato “Saloncino dei busti” (tranne quello di Savarese). Fu il primo nucleo di quella sorta di Pantheon dell’Avvocatura napoletana, costituitosi nei decenni successivi, con i busti collocati in quella che fu la grande sala della Corte di Appello di Castel Capuano, già sala della Regia Camera della Sommaria, oggi denominato Salone dei Busti, e quelli della Biblioteca De Marsico, che ricorda le figure di più di cinquanta Avvocati.  

 

Senz’altro la funzione di palazzo di Giustizia ebbe l’effetto di sottoporre l’edificio a continui rimaneggiamenti per far fronte alle esigenze di vita pratica dell’amministrazione della giustizia che ne hanno compromesso la preesistente architettura.

Oggi è in corso, finalmente, un importante progetto di restauro dell’edificio, 


all’interno del quale sono stati riscoperti alcuni ambienti, non ancora restaurati ed aperti al pubblico, come del resto l’intero complesso monumentale, eccezion fatta per alcuni uffici e per la prestigiosa e preziosa Biblioteca degli Avvocati, gestita dall’Ente Biblioteca di Castel Capuano Alfredo de Marsico.

La Biblioteca ha più di un secolo di vita. 


Fu, infatti, ufficialmente inaugurata il 19 luglio 1896, per essere in seguito trasferita dove si trova oggi, vale a dire in una delle più grandi sale del Castello, che fu sede della Gran Corte criminale prima e poi della Corte di Assise, nell’ottobre del 1936.

Un brulicare di persone, giudici, avvocati, cancellieri, testimoni, gente comune, 

nel tempo aveva trasformato il Cortile di Castel Capuano in una vera e propria Agorà, nella quale incontrarsi e discutere non solo di processi e condanne 

ma anche di affari e commerci.  


Infatti l’accesso al cortile era aperto al pubblico e privo di controlli, e cosi è stato fino agli anni ’60, poi a seguito di una sparatoria avvenuta all’interno dell’affollato cortile venne limitato l’accesso e predisposto un controllo all’ingresso. 

 

Un’Agorà che assolveva ad un ruolo molto importante poiché consentiva al popolo, in nome del quale, venuto meno l’assolutismo regio, si amministra la Giustizia, di controllare effettivamente, de visu, lo svolgimento dei processi, rendendo effettiva la pubblicità del dibattimento, uno dei principi fondamentali dello stato di diritto.

E quel popolo, composto da individui appartenenti a tutte le classi sociali, assiepandosi nelle sale, sempre non sufficientemente grandi 

per accoglierlo tutto, non si limitava ad assistere 

ma in qualche modo partecipava 

alla vicenda processuale, 


non mancando di esprimere rumorosamente consenso per una convincente arringa difensiva oppure dissenso per una difesa inefficace o per una condanna ritenuta ingiusta. E’ andata avanti così per secoli, con l’interesse anche venale di chi aveva scommesso su una condanna oppure un’assoluzione, e di quanti viaggiatori, uomini di cultura o semplici curiosi assistevano alle udienze, nel tentativo di comprendere la realtà, difficile, complessa, dalle infinite sfaccettature della città partenopea.

 

 

 

 

 

 

 

 

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! – Cfr. A. Aveta, in Castel Capuano, la cittadella della Cultura  e della legalità. Restauro e valorizzazione, Elio de Rosa Editore, p. 17, che sul punto cita lo storico dell’architettura Giancarlo Alisio. 

2 – B. De Divitiis, in Castelcapuano da Reggia a Tribunale, a cura di Fabio Mangone, Massa editore, p. 33.   

3 – Cfr. Notiziario ragionato del Sacro Regio consiglio e della Real camera di S. Chiara, edito a Napoli il 24 marzo 1802.  

4 – Ibidem   

5 – Ibidem  

6 – M. Tita, in Il potere dei conflitti: testimonianze sulla storia della Magistratura italiana, a cura di Orazio Abbamonte, Giappichelli editore. 

7 – G. Ajello, Napoli e i luoghi celebri delle sue vicinanze, stabilimento tipografico di Gaetano Nobile, volume 1, p. 265. 

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SICILIA. UNA NESSUNA CENTOMILA di Gaia Bay Rossi – Numero 16 – Febbraio 2020

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SICILIA. UNA NESSUNA CENTOMILA

 

 

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“La Sicilia è il puntino sulla i dell’Italia […] il resto mi par soltanto un gambo posto a sorregger un simil fiore”.

Hessemer, come tanti giovani aristocratici che si cimentarono nel Grand Tour, da Goethe a Tocqueville, da Dumas a Ruskin a Maupassant, rimase incantato da questa terra unica, straordinario insieme dei lasciti delle tante popolazioni che qui si stanziarono nell’arco dei secoli: fenici, greci, romani, ostrogoti, bizantini, arabi e normanni, francesi e spagnoli, tanto per citarne alcuni.

Possedere o perdere la Sicilia, l’isola più grande del Mediterraneo,
ha sempre rappresentato l’affermazione o la fine degli imperi
e delle civiltà che si sono incontrate con lei.


Grazie a questa preziosa miscellanea, la Sicilia può vantare di essere stata il primo Stato al mondo ad avere un Parlamento, istituito nel 1129 dal normanno Ruggero II (quando l’Inghilterra ne vide la creazione solo nel 1264).

 

Un Parlamento che non aveva le rappresentanze solo di clero e nobiltà, 

ma anche quelle delle città libere e che permise la piena collaborazione 

tra le varie etnie e fedi religiose.  

 

Non dimentichiamoci che la Cappella Palatina a Palermo è l’unico luogo di culto che mette insieme due religioni: la cristiana (nei due riti, cattolico e ortodosso) e l’islamica. Uno spirito di tolleranza religiosa e civile che nel resto d’Europa sarà riconosciuta solamente nel 1598 con l’editto di Nantes di Enrico IV di Francia. Si può tranquillamente affermare che il regno normanno-svevo in Sicilia ha posto le basi dello Stato moderno nell’isola.

In Sicilia è nata la letteratura italiana per mezzo della scuola siciliana.  

 

Dante fu un estimatore della lirica siciliana e del volgare con cui si esprimeva, tanto da commentare nel De Vulgari Eloquentia: “Il volgare siciliano si attribuisce fama superiore a tutti gli altri per queste ragioni: che tutto quanto gli italiani producono in fatto di poesia si chiama siciliano; e che troviamo che molti maestri nativi dell’isola hanno cantato con solennità”. La poesia lirica della scuola siciliana ebbe anche il merito di aver introdotto il sonetto (inventato da Jacopo da Lentini nella prima metà del Duecento).

Sempre in Sicilia si è avuto il più importante moto popolare europeo, quello dei Vespri del 1282 contro gli Angioini, dominatori francesi dell’isola  

 

(va segnalato che Dante, che in quella data aveva solo diciassette anni, nell’VIII canto del Paradiso indicherà come Mala Segnoria il regno angioino di Sicilia). Quindi, oltre alla capacità di crescita e assimilazione, la Sicilia esprimeva anche forza, carattere e ribellione. 

 

La più arguta e precisa definizione della Sicilia mi è stata data, in un’occasione culturale e conviviale, dal Governatore della Sicilia, Nello Musumeci, che mi ha spiegato che “la Sicilia è l’esagerazione dell’Italia. Nel bene e nel male. Se l’Italia ha la criminalità, la Sicilia ha la mafia; se l’Italia ha bellezze artistiche, la Sicilia ha capolavori straordinari di tutte le epoche, sia in terra sia sotto il mare; se l’Italia ha ottimi cibi, la Sicilia sorprende con tutte le sue variegate specialità.” 

 

La Sicilia è una terra antropologicamente complessa, storicamente e culturalmente divisa in due.

Da oriente a occidente si trovano due Sicilie uguali e contrarie, caratterizzate 

da usi e costumi diversi, ma anche da colori e sapori alternativi 

che pure riportano sempre alla medesima “sicilianità”  

 

fatta di tradizioni, orgoglio, accoglienza, attaccamento alla terra, e di tutto ciò che spinse Giovanni Falcone a dire: “Noi abbiamo avuto cinquecento anni di feudalesimo. Se ci si rendesse conto che il siciliano è prima di tutto siciliano, poi medico, avvocato o poliziotto, si capirebbe già meglio”. 

 

La Sicilia orientale, fu la parte maggiormente influenzata dalla civiltà greca, che ebbe inizio nel 756 a. C. con la fondazione della prima colonia, Zancle, l’odierna Messina. Seguirono Naxos, a lungo considerata la prima colonia greca, Siracusa, Catania, Megara Hyblaea, Gela, Selinunte, Akragas (Agrigento). L’80% di questi territori si trova

nella Sicilia orientale, dove i greci imposero la loro cultura raffinata, 

la loro architettura, le loro abitudini: fu la prima, vera, 

grande rivoluzione culturale del Mediterraneo.  

 

La Sicilia greca ha contribuito a formare dei siciliani lavoratori e imprenditori: se a Catania di notte c’è il terremoto e tutti scendono in piazza, subito dopo arriva l’uomo a vendere i palloncini!  

 

Non dimentichiamo che grandi filosofi e scienziati greci, come Archimede e Pitagora, nacquero in Sicilia e qui diffusero i loro insegnamenti. Mi piace ricordare, e non in tono polemico, la risposta di un siciliano con spiccato senso dell’umorismo ad un noto imprenditore che ha affermato: “Se voglio la cultura vado a Parigi, in Sicilia ci si va solo per il mare e il cibo”. La risposta è stata: “Volevo solo ricordarle che quando io, a Siracusa, discutevo di matematica, geometria, fisica, ottica, idraulica e meccanica, a Parigi vivevano sugli alberi. Distinti saluti. Archimede”.

Tutto questo mentre la Sicilia occidentale era, come dice l’antropologo e scrittore palermitano Franco La Cecla, “tutta presa dagli almeno quindici secoli 

di presenza africana, punica, cartaginese”.  

 

Gli arabi arrivarono in Sicilia nel IX secolo e la loro presenza fu stabile fino al 1492, quando Ferdinando II Il Cattolico, re di Spagna, stabilì l’espulsione per chiunque non fosse di religione cristiana, quindi musulmani ed ebrei. Al contrario, come abbiamo visto,

durante il regno degli Altavilla prima e di Federico II poi, cristiani ed arabi avevano convissuto tranquillamente in un clima fertile e creativo, che aveva arricchito 

e migliorato la Sicilia intera e, in particolar modo, la parte occidentale.  

 

Testimonianze di quella convivenza sono termini linguistici come il nome di alcune località: Alcamo (al-qamah, terra fertile), Marsala (marsa Allāh, porto di Dio), Salemi (salam, pace) ma anche in centinaia di parole siciliane: bagghiu: cortile (da bahah), cassata: il dolce di ricotta (da qashata), mischinu: poverino (da miskīn), taliàri: guardare, osservare (da ṭalaʿa), zaffarana: zafferano (da zaʿfarān) ecc. 

 

Per non parlare degli edifici con la cupola, denominati ‘cuba’, o delle località che iniziano con il toponimo ‘Cal’ (in arabo qalʾat castello o fortezza) come Calascibetta, Calatabiano, Calatafimi, Caltabellotta, Caltagirone, Caltanissetta, Caltavuturo. 

 

A Palermo c’è il palazzo della Zisa (dall’arabo al-ʿAzīza, la splendida) all’interno del parco reale normanno, il Genoardo (sempre dall’arabo Jannat al-arḍh ovvero “paradiso della terra”), che rappresenta uno dei migliori esempi del connubio di arte e architettura normanna e decorazioni e ingegnerie arabe, tanto da essere stato riconosciuto nel 2015 Patrimonio dell’umanità Unesco nell’ambito dell’ “Itinerario Arabo-Normanno di Palermo, Cefalù e Monreale”.

Nei rapporti tra Sicilia e mondo arabo, lo scrittore, saggista e giornalista siciliano Vincenzo Consolo così si è espresso: “Vengo dalla Sicilia, la regione 

più araba d’Italia e una terra fra le più arabe al mondo […]  

 

Con la civilizzazione araba, durata due secoli e mezzo, la Sicilia attraversò una sorta di rinascimento: scoprì le tecniche dell’agricoltura, vide fiorire le arti e la scienze e diffondersi princìpi di uguaglianza e tolleranza”.  

 

Ma c’è ancora un’ulteriore caratteristica da toccare sui risultati delle diverse dominazioni in Sicilia, e riguarda la gastronomia: i grani (oggi qui se ne coltivano ben 52 tipi) sono arrivati grazie agli spagnoli, il cuscus è arrivato dal nord Africa intorno al 1300 (oggi il particolare cuscus trapanese è inserito tra i “Prodotti agroalimentari tradizionali siciliani”), la pesca del tonno con la mattanza è stata introdotta da un Rais, persona di origine araba, la pasta con le sarde è l’invenzione di un cuoco arabo del generale Eufemio da Messina, il vino siciliano ha oggi la sua fortuna perché gli antichi greci spiegarono ai siciliani la coltivazione della vite nel VIII sec. a.C., e la cassata, nata in un convento nel 1400, nei secoli fu integrata dagli ingredienti introdotti dalle varie dominazioni: frutta candita dagli arabi, cioccolato dagli spagnoli e pasta di mandorle dai normanni.  

 

Resta un’ultima fondamentale questione ancora irrisolta nel confronto tra le varie parti della Sicilia: si dice arancino o arancina? 

 

 

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PESCHICI LUOGO CELESTINIANO di Teresa Maria Rauzino – Numero 15 – Dicembre 2019

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PESCHICI  LUOGO  CELESTINIANO 

 

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Silone frusta le gerarchie affermando che l’utopia è il rimorso della Chiesa. 

 

Il potere non è mai salvifico, lo è la rinuncia ad esso, come affermazione di libertà e purezza della coscienza: “Servirsi del potere? Che perniciosa illusione! E’ il potere che si serve di noi”.  

 

Il messaggio siloniano sceglie la spoglia forma teatrale per attingere definitiva efficacia, esprimendo un protagonista con un’idea forte, coscienza che sovrasta la persona. Siamo in un’atmosfera francescana, tra echi gioachimiti; “serpeggia nell’aria l’offesa inferta all’eredità spirituale del poverello d’Assisi”. Si avvertono fermenti di rinnovamento. Pietro Angelerio scende dal regno dell’utopia lungo i sentieri del mondo, un mondo che non conosce, nel quale si muoverà con impaccio. Profetico e ammonitore era stato lacopone da Todi che, mettendolo in guardia dai cardinali, assetati di ricchezze per sé e per il parentato, esprimeva il suo dolore per l’accettazione del pontificato.

 

Celestino V, dopo tante ambasce e interiori tormenti, compie l’estremo atto di rinuncia al pontificato, destinato a rimanere l’unico nella storia bimillenaria della Chiesa. 

 

E. tornato fraticello, amato e seguito dai fedeli, viene braccato e incarcerato. In una buia torre soffoca la sua utopia; ma continuerà a brillare la luce della sua coscienza intollerante del compromesso, che ha additato nel potere sotteso all’istituzione religiosa il nemico più pericoloso.  

 

Nel dramma di Silone una versione scenica efficace lascia a certi scorci abruzzesi il palpito dell’arte, unito al sentimento della antica terra madre. Un Abruzzo che non ha niente di turistico, di realistico e visibile in senso esteriore, in cui il seme della predicazione di San Francesco è ancora fecondo.

 

Si svolge una lotta impari tra i fraticelli spirituali, perseguitati dalle autorità 

perché chiedono il ritorno al modo di vivere cristiano, alla povertà 

e semplicità evangelica, e le ragioni della Chiesa. 

 

La notizia dell’abdicazione di Celestino V colpì in maniera dirompente proprio i francescani spirituali, provocando un disorientamento profondo che si risolse in un vero e proprio atteggiamento di rivolta. Costoro, che avevano trovato in lui l’appoggio nella lotta contro i conventuali, si trovarono spiazzati dal fatto eccezionale della sua rinuncia. Pietro da Fossombrone (Angelo Clareno) non accettò di rientrare nell’ordine francescano dopo la soppressione, ad opera di Bonifacio VIII, dei Pauperes Heremite Domini Celestini e con un gruppo di confratelli fuggì in Grecia, mentre Ubertino da Casale contestò la liceità dell’abdicazione, considerando la successione di Bonifacio un’usurpazione.

 

La presenza nel Gargano di “fraticelli” spirituali al seguito di Celestino V 

trova un’eco letteraria ne L’Avventura di un povero cristiano di Silone

Sarebbe stimolante vagliarne l’ipotesi storiografica. 

 

Analizziamo ora il testo della scena V del dramma siloniano. L’azione si svolge in una località impervia, raggiungibile solo in barca, tra Peschici a Vieste, sulla costa meridionale del Gargano. La scena rappresenta un’ampia semigrotta, incavata a mezza costa d’un promontorio roccioso, quasi a strapiombo sul mare. Attorno alla grotta crescono piante di fichidindia e qualche olivastro; davanti vi passa un sentiero che si allarga a forma di terrazzino. Alcuni grossi sassi fungono da sedili. Un fontanile è vicino.

 

Il tempo del racconto è un sereno pomeriggio del mese di maggio 1295. 

Sono passati sei mesi dall’abdicazione di papa Celestino e dall’inizio 

della sua fuga per sottrarsi alle ricerche degli agenti di Bonifacio VIII 

e dei loro concorrenti francesi.  

 

Pier Celestino riposa all’interno della grotta illuminata dal sole ponente; è seduto su un pagliericcio, con la schiena e la testa appoggiate alla roccia, gli occhi chiusi. Due giovani frati, per motivi di prudenza, in abiti civili, aspettano che si svegli per comunicargli le ultime novità: il priore di San Giovanni in Piano ha messo a disposizione una barca con un paio di pescatori per andare in Grecia, nell’isola di Acaia (golfo di Corinto), dove ritroveranno gli amici che li hanno preceduti. Aspettano, per partire, che il vento sia favorevole. Fra Tommaso da Sulmona è giù con i pescatori per definire le ultime questioni pratiche.  

 

Presa la decisione dell’esilio, Celestino ne spiega i motivi ai due fraticelli che gli sono rimasti accanto, dopo che gli altri sono stati imprigionati e pochi sono riusciti a riparare in Grecia: “Figli miei; guardate questa terra, queste pietre, il mare, il cielo; riempitevi l’anima di queste immagini; per ripensarle da lontano.

 

Bisogna amare la propria terra, ma, se essa diventa inabitabile per chi vuole conservare la propria dignità, è meglio andarsene. 

 

La nostra giustificazione non é spregevole poiché non ci viene suggerita dalla pigrizia, ma dalla missione che ci rimane.”  

 

Nel successivo dialogo fra Tommaso e Pier Celestino, c’è il riferimento alla località di Peschici, dove da parte di alcuni marinai si “mormorava” sul povero fuggiasco:  

 

Fra Tommaso: “Mi dispiace d’insistere, ma è meglio sbrigarsi: A Peschici qui vicino, si mormora su di voi Uno dei pescatori: che adesso è tornato di lí è stato interrogato da un gendarme.”  

 

Pier Celestino (rompe gli indugi): “Meglio evitare il rischio, partiamo subito.”  

 

L’azione riprende nel medesimo quadro, un mese più tardi. Vari particolari mettono in evidenza che la grotta è abitata e che è trascorso del tempo dalla scena precedente: alla primavera è succeduta l’estate. Sul sentiero che sale dalla costa, appaiono Matteo il tessitore e la figlia Concetta che, banditi dal Morrone per le loro idee religiose, finalmente, dopo innumerevoli disagi di viaggio, via mare hanno raggiunto i fraticelli di Celestino nell’impervia località garganica. All’improvviso arrivano dal sentiero grida di gioia: appaiono correndo fra Gioacchino e fra Clementino. L’incontro è molto affettuoso, con prolungate e ripetute strette di mano.   

 

Riportiamo alcuni stralci del dialogo:  

 

Concetta: “Sappiamo del naufragio. Dunque, vi eravate imbarcati per la Grecia, e il mare vi respinse. Poi?” Gioacchino: “Al ritorno fummo informati che a Peschici, qui vicino, era giunta una missione per catturare Pier Celestino.”  

 

Clementino: “Dovete sapere che ogni suo minimo spostamento veniva seguito e controllato. Era difficile per lui nascondersi Tuttavia le autorità locali non osavano mettergli la mano addosso per non sfidare la collera dei fedeli.”  

 

Gioacchino: “Per ultimo, però, un capitano della dogana delle pecore aveva avvertito i suoi superiori che Pier Celestino si era rifugiato qui nel Gargano. La denunzia arrivò fino al re che, a dire la verità, si preoccupò di togliere alla cattura ogni aspetto odioso. Ne diede l’incarico a un prelato che ha il titolo di patriarca di Gerusalemme e a vari gentiluomini con le loro famiglie. La delegazione doveva presentarsi a lui come per rendergli onore. Ma Pier Celestino rifiutò la finzione e si consegnò prigioniero.”  

 

Concetta: “Perché non fuggì? Perché voi non vi opponeste alla sua resa?”  

 

Clementino: “Discutemmo parecchio con lui. Ma non ci fu verso di persuaderlo ancora una volta alla fuga, benché i nostri amici di qui la presentassero come assai facile…”  

 

(…) Gioacchino: “Appena soli, ci siamo buttati a capofitto nel lavoro da lui indicatoci. Stiamo costituendo qui, nel Gargano, una base di scambi di messaggi e documenti con gli esuli rifugiati in Grecia e coi nostri amici delle varie province. Stiamo cercando di camuffare questa attività sotto apparenze non sospette, mercantili. Vari barcaioli ci aiutano. Il nostro Clementino è appunto tornato ieri dalla Grecia con scritti del Clareno e di Fra Ludovico. Stasera ve ne leggeremo dei brani: sono di una forza spirituale commovente. Abbiamo già cominciato a farne delle copie per gli amici delle province. (A Concetta): Per farli arrivare a destinazione, potreste approfittare dei prossimi grandi pellegrinaggi; ne discuteremo il modo…”

 

Dopo la rinuncia al pontificato, Celestino si era diretto verso il monastero 

di San Giovanni in Piano, presso Apricena, che seguiva il suo ordine religioso. 

Quattro settimane furono necessarie perché il priore gli procurasse 

un imbarco a Rodi Garganico, il porto più vicino. 

 

La costa a quel tempo appariva sufficientemente attiva nel piccolo cabotaggio per il trasporto delle merci, particolarmente derrate cerealicole e sale, dall’interno; scali abbastanza efficienti e attivi erano Rodi, Peschici e Vieste, che non trascuravano un traffico su più vasta scala con i porti dalmati e con Venezia. Il fuggitivo si imbarca per la Grecia, dove probabilmente intende raggiungere la comunità degli spirituali di Clareno, ma la nave naufraga a quindici miglia da Rodi e a cinque miglia da Vieste.  

 

La località dove egli trascorre nove giorni, prima di essere individuato e consegnato agli emissari di Bonifacio VIII, non è stata individuata precisamente dai biografi coevi (Analecta Bollandiana, Vita C). Due storici locali, Giuliani e Aliota, la localizzano rispettivamente nella spiaggia di S. Maria di Merino, presso Vieste e nell’Abbazia benedettina di Santa Maria di Càlena, a Peschici. 

 

Fonti orali , che si riflettono nella toponomastica dei luoghi, riferiscono 

che Celestino V si rifugia in una zona rupestre, la grotta dell’Abate, 

presso la spiaggia di Calalunga, tra Peschici e Vieste, ed è qui 

che sarebbe stato prelevato dal governatore di Vieste. 

 

Giuseppe Martella, appassionato cultore di storia garganica, riporta nei suoi appunti la seguente ipotesi: “…Papa Celestino trovò rifugio in una grotta di Peschici , quella che noi chiamiamo ‘a grott u papa’. Questa si trova nel bosco di pini a ridosso della punta di Calalunga che nella Carta Geografica dell’Atlante Geografico del Regno di Napoli di Rizzi e Zannoni del 1806 è detta Cannalunga, forse per la sua forma che si allunga nel mare.” 

Un singolare toponimo ci indica di come sia diffusa l’eco della presenza 

di Celestino V nei luoghi suddetti: l’insenatura da cui si diparte il sentiero 

che conduce al complesso rupestre è denominato in dialetto peschiciano 

u’ lale d’ la Croce ( spiaggetta della Croce).

 

La Croce è tipica della simbologia legata al personaggio: il logo dello stemma celestiniano è una Croce con una S intrecciata, simbolo dello Spirito Santo.   Il sopralluogo nella “Grotta dell’Abate” da parte della dott.ssa Giovanna Pacilio della Sovrintendenza Archeologica di Bari, effettuato una ventina di anni fa per verificare la natura dell’insediamento, non ha dato particolari riscontri. Ma la ricerca continua… 

 

 

Scritta nel 1966-67 da Ignazio Silone, L’avventura d’un povero cristiano apparve nel marzo del 1968 nella collana “Narratori italiani” di Mondadori, con una dedica emblematica: “la solita storia”. Dopo un silenzio di secoli della letteratura, l’Autore rilegge in chiave evangelica, non difforme dal Petrarca, la storia di Celestino V, simbolo della inconciliabilità della santità con il potere, postulando un cristianesimo “demitizzato”, sciolto dai legami temporali. La Chiesa, incarnata in Bonifacio VIII, diventa l’esatto pendant ideologico del partito politico, che chiede ai suoi seguaci il prezzo altissimo dell’anima. 

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IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI Parte IV di Francesco Avolio – Dicembre 2019

 

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IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI

 

 Parte IV

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 Correlato parte I

 Correlato parte II

 Correlato parte III

 

1 – Il lessico siciliano e i dialetti “galloitalici”


Raggiunto il 
Lilibeo, si può forse rimanere sorpresi nel ritrovare, un po’ ovunque in Sicilia, voci assai particolari come agugghia ‘ago’dumani ‘domani’, òrbu ‘cieco’, tuma tumàzzu ‘formaggio’, badagghiari ‘sbadigliare’, maritari ‘sposarsi, prender moglie’, scannari ‘uccidere’, tùnniri ‘tosare’, vùgghiri ‘bollire’ e altre ancora. Queste, infatti, oltre a individuare inattese concordanze con il Nord Italia (cfr., ad esempio, il piemontese tumatüma ‘formaggio’ o il ligure tùndar ‘tosare’), si oppongono con una certa evidenza alle corrispondenti voci calabresi settentrionali (e dell’alto Mezzogiorno) acucraicecàtucasualànźuràacciderecarosàvùlleresicuramente più arcaiche.

Il lessico siciliano (e calabrese meridionale), insomma, ci si mostra non di rado più innovatore e anche meno “tipico” di quello del Mezzogiorno continentale.


Come può spiegarsi una simile situazione? Nella testa di molti di noi, infatti, c’è l’immagine (o, se si vuole, lo stereotipo) di una Sicilia regione isolata e conservatrice. Sfrondando di molto un dibattito scientifico ormai annoso, possiamo dire che anche in questo caso c’entrano – sia pure indirettamente – gli Arabi, i quali, dopo la conquista normanna della Sicilia nell’XI secolo, furono spinti, a più riprese, ad abbandonare l’isola, lasciando dietro di sé ampie zone deserte. Per ripopolarle (e ricristianizzarle) alcuni feudatari, provenienti dal Monferrato ed imparentati con la nuova casa regnante, fecero venire coloni dai propri possedimenti (a quel tempo ritenuti generalmente parte della Lombardia), concedendo loro privilegi ed assegnando terre situate in maggioranza nelle zone più elevate, verdi e salubri dell’isola (le più simili a quelle d’origine).

Questi diedero così vita ad una (per noi, oggi) singolare e sconosciuta emigrazione 

dal Nord al Sud – vera anticipazione dell’unità d’Italia – 

e alla cosiddetta Lombardia siciliana;


i loro discendenti sono ancora lì, ad esempio a Novara di Sicilia e a San Fratello (ME), ad Aidone, Nicosìa, Piazza Armerina e Sperlinga (EN), ed hanno conservato, a volte per quasi 900 anni, lingua, costumi, e perfino specialità delle terre di provenienza. Ma un fatto altrettanto eccezionale è che i paesi citati sono solo, come si dice, la punta dell’iceberg: un tempo, infatti, essi – come dimostrano le ricerche storiche e linguistiche recenti svolte, fra gli altri, da Giovanni Tropea, Salvatore C. Trovato e Giovanni Ruffino – erano molti di più, e ciò spiega come mai il lessico siciliano sia stato profondamente permeato da voci di origine settentrionale, o, come dicono gli studiosi, “galloitalica”. Per dare un’idea più concreta della perdurante somiglianza tra i dialetti “galloitalici” di Sicilia e quelli attuali del Nord Italia, citiamo due versi di una filastrocca nella parlata di San Fratello: “Mi côc mi sti det, cu Maria sovra u pet” (mi corico in questo letto con Maria sopra il petto), in cui si osservano, ad esempio, la caduta sistematica delle vocali atone finali delle parole (tranne –a), la semplificazione delle consonanti intense (entrambi i fenomeni si vedono in det e pet) e il passaggio di -p- a -v- (in sovra), tratti assenti in Sicilia e in tutto il Sud, ma ancora oggi riconoscibilissimi dal Piemonte alla Lombardia e all’Emilia-Romagna (ma in det ‘letto’ troviamo anche una spia del contatto plurisecolare col siciliano, e cioè il passaggio della consonante -l-, originaria o ridotta da un precedente -ll-, fino a -d-; cfr. il siciliano bbèddu ‘bello’).

2 – Le radici della presenza greca in Calabria


Varcato di nuovo lo stretto di Messina, se ci spingiamo dopo Reggio Calabria, dapprima seguendo la litorale jonica verso Sud, e poi inoltrandoci lungo la strada che sale verso Bova superiore,

 

entriamo nella zona dove, come si è già accennato, è ancora parlata 

(ma forse, purtroppo, ancora non per molto) una varietà di greco 

(chiamata, sul posto, grico), e che comprende oggi solo gli isolatissimi 

e in parte abbandonati paesi aspromontani 

di Gallicianò e Chorìo di Roghùdi.  

 

Ancora qualche decennio fa, però, erano di parlata greca anche Bova e Roccaforte del Greco, Condofùri, Amendolèa e Roghùdi (paese evacuato nel 1970 in seguito a continue frane e smottamenti), ancora prima (sec. XIX) Cardeto e Montebello, nel XVIII secolo San Pantaleone, Pentedàttilo (che significa ‘cinque dita’), Bagalàdi, San Lorenzo, nel XVI secolo diversi altri centri posti a Nord dell’Aspromonte (Delianuova, Scido, Sinopoli; cfr. Figura 1), mentre ai tempi del Petrarca l’area grecofona includeva pressoché tutta la Calabria meridionale, fino a Squillace e Catanzaro (il suo maestro di greco, madrelingua, era infatti il monaco Barlaam, nativo di Seminara, RC).  

 

Una tale distribuzione, compatta, e indubbiamente diversa da quella, puntiforme, generata da tutte le immigrazioni tardomedievali e rinascimentali che hanno riguardato il Mezzogiorno (come quella albanese, croata, provenzale ecc.),

è stata uno degli elementi alla base dell’affascinante ipotesi di un collegamento

di questi dialetti ellenici – arcaici, ma privi di precisi riscontri nella 

Grecia continentale e insulare – con il greco 

delle antiche colonie della Magna Grecia


(lingua che, va detto, proprio nella Calabria meridionale si mantenne, a livello popolare, ben oltre l’epoca della conquista romana), ipotesi avanzata e sostenuta per decenni dal grande linguista tedesco Gerhard Rohlfs, con il consenso di quasi tutti i colleghi greci, ma avversato, al tempo stesso, da gran parte degli studiosi italiani, con i quali la polemica fu a tratti molto aspra.

3 – Tra Calabria e Lucania


Continuando a risalire la penisola, arriviamo in vista del massiccio del Pollino, tra Calabria e Lucania. Qui, e per l’esattezza a Mezzogiorno dei fiumi Sauro e Agri, e nella Calabria contigua a Nord del Lao e del Crati, si trovano alcuni fra i dialetti più conservativi del gruppo “meridionale”, dove sono rimasti sedimentati fenomeni rari anche nel resto del mondo neolatino o romanzo (i quali, però, è bene sottolinearlo, non danno luogo a drastiche rotture nei confronti delle parlate circostanti).

Questa zona è nota oggi agli specialisti come “area Lausberg”, dal nome 

dello studioso tedesco, allievo di Rohlfs, che la individuò nel 1939, 

descrivendola a fondo


(cfr. Figura 2). Tra le sue caratteristiche conservative ricordiamo un sistema di vocali accentate ancora molto vicino a quello del latino classico, e con precisi riscontri in Sardegna (filë ‘filo’ < FĪLUM, come nivë ‘neve’ < NĬVEM, stèllë ‘stella’ < STĒLLA, come bbèllë ‘bella’ < BĔLLAM, mòrtë ‘morta’ < MŎRTUAM come sòlë ‘sole’ < SŌLEM, crucë ‘croce’ < CRŬCEM come lunë ‘luna’ < LŪNAM), e il mantenimento delle consonanti finali latine -S e -T in alcuni modi, tempi e voci verbali, grazie allo sviluppo di una vocale finale d’appoggio: ad Aliano (MT) vìdësë ‘vedi’, a Teana (PZ) tènëdë na casë ‘ha una casa’, a Oriolo (CS) u sàpësë? ‘lo sai?’, a Maratea (PZ) tènisi ‘tieni, hai’, mi piàciti ‘mi piace’, cu ccapèrati ‘chi capirebbe’ ecc. La conservazione è tanto più rilevante se si fa caso al fatto che la caduta di -S e -T finali latine è molto ben testimoniata già nel I secolo d. C. proprio nel cuore dell’area meridionale, in numerose scritte e graffiti rinvenibili sui muri di Pompei.

4 – Dove finisce il Sud… verso Nord?


Ma, se continuiamo la nostra risalita, e, superando Napoli e la Campania, ci attestiamo nel Lazio meridionale, possiamo chiederci dove finisca il Mezzogiorno dal punto di vista linguistico. I confini amministrativi, infatti (peraltro in questa zona recenti, non anteriori al 1927; Gaeta e Cassino, oggi località laziali, appartenevano infatti alla Campania), non danno indicazioni chiare, e comunque – come si è già detto – non corrispondono mai, nemmeno altrove, a quelli linguistici.  

 

Nella seconda puntata abbiamo parlato di una fascia che unisce il Circeo, sul Tirreno (LT), alla foce dell’Aso (AP) sull’Adriatico, come limite settentrionale dell’area linguistica “meridionale intermedia” o “alto-meridionale”;

ora possiamo precisare che in realtà tale limite, come del resto altri, 

è solo approssimativo (è in buona sostanza quello della chiara e costante presenza della vocale -ë in posizione finale), essendo parecchi i paesi posti a Nord di esso che rivelano ancora tratti tipici del Mezzogiorno.


Come esempio possiamo prendere il dialetto del comune di Sonnino (LT), situato fra Terracina e Priverno, subito a Nord dello storico confine fra Regno delle Due Sicilie e Stato Pontificio (al quale ultimo apparteneva), che, pur mostrando già una fonetica tipica dell’area “mediana” (cioè quella che si estende a Settentrione dei dialetti “meridionali intermedi”), si presenta al tempo stesso fortemente permeato di meridionalismi al livello lessicale e non solo: accattà ‘comprare’ (nel Lazio prevale crombà), accìte ‘uccidere’ vs. ammazzàfatijà ‘lavorare’ vs. lavorà, ’ncignà ‘cominciare, iniziare (ad es. a tagliare un salame)’ vs. comenzà, e ancora dimméllodiccéllo ‘dimmelo, diglielo’ (nap. rimméllë, ringéllë), me sèndo bbóno ‘mi sento bene’ (nap. më sèntë bbuónë) ecc.

Ma anche se continuiamo verso Nord, i tratti meridionali non ci abbandonano 

del tutto, giungendo anzi in prossimità di uno dei due principali 

“spartiacque” linguistici della penisola: la linea Roma-Ancona.


Questa, come del resto l’altra grande demarcazione dialettale, e cioè la linea La Spezia-Rimini, è formata dal sovrapporsi e intrecciarsi di più “confini linguistici” o isoglosse, cioè da linee tracciate, su di una carta linguistica, unendo tutti i punti che, sulla carta stessa, si trovano all’estremità dell’area di diffusione di un certo fenomeno (fonetico, morfologico, sintattico, lessicale ecc.). Sulla linea Roma-Ancona, confluiscono quindi i limiti settentrionali dei tratti più tipici del Centro-Sud (comuni cioè ai dialetti meridionali e a quelli “mediani”), che a sua volta viene così distinto dall’area linguistica toscana o toscanizzata. Si arrestano qui, infatti, fenomeni importanti che abbiamo già incontrato come la metafonesi, il possessivo enclitico, il betacismo, il genere neutro, e antiche voci latine come femmina per ‘donna’ o frate per ‘fratello’ (cfr. Figura 3).

Ma perché questo confine batte proprio qui, e non altrove?


Possiamo concludere con le parole di uno studioso che si è occupato a fondo della questione: la linea Roma-Ancona è infatti

«un confine linguistico antichissimo, in quanto ricalca ancora abbastanza fedelmente la linea che diversi secoli prima di Cristo divideva nell’Italia preromana i territori 

delle popolazioni di lingua etrusca da quelli dei popoli del gruppo linguistico indoeuropeo, italici (Umbri, Sabini) e latini.


Per quanto concerne la Sabina poi, la bassa valle del Tévere da Amelia e Narni fin verso Farfa e Passo Corese segnò anche, nell’alto Medioevo, il limite occidentale dell’espansione del ducato longobardo di Spoleto.»1  

 

Torniamo, insomma, al punto da cui eravamo partiti: non una “arcaicità” linguistica disarmante e anche inspiegabile, ma, semmai, un sinuoso, seducente “filo della continuità”. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

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RENZO ARBORE E IL SUO SUD PREDILETTO di Gaia Bay Rossi – Numero 15 – Dicembre 2019

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 RENZO ARBORE e il suo sud prediletto 

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nella sua bella casa romana, immersa nel verde, con la vista sulla città e naturalmente piena di oggetti dallo svariato grado di utilità, e poi libri, vinili, fotografie, il tutto condito da un mix di pop e colore. 

Renzo Arbore è un vero, completo, poliedrico artista, termine che, oggi così abusato, appare come una deminutio capitis per un personaggio come lui. E nello stesso tempo è un gran signore, un gentiluomo del Sud, colto, sensibile, aggraziato ed elegante anche nel pensiero e nelle parole, che riporto integralmente così come da lui espresse.

Myrrha, come ha letto, si dedica a dare rilievo a tutto ciò che di bello, 

importante e meritevole di divulgazione viene prodotto nel Mezzogiorno d’Italia. 

In primo luogo lo chiedo a lei, perché è lei stesso un’eccellenza del Sud: 

c’è qualcosa che vorrebbe sottolineare del nostro Sud 

per iniziare questa intervista?  


Beh, se vai sfruculiando un artista, non può non dirti che il Sud – lo dico senza nessun campanilismo – dal punto di vista artistico è forse più produttivo del Nord, ma non solo in Italia. Nel Sud del mondo, aiutati dal sole, c’è una vitalità artistica forse più ampia, più abbondante, non voglio dire migliore, di tutta la restante parte. Pensiamo alla cultura napoletana, alla cultura siciliana, e poi da tutti i punti di vista, anche musicale, umanistico, giuridico, il Sud è veramente un’eccellenza italiana che va fatta conoscere. Tutto questo riconoscendo che il Nord è sicuramente più produttivo dal punto di vista economico e che è molto ospitale nei nostri confronti, perché noi del Sud dobbiamo andare al Nord e far sposare la nostra creatività con l’operosità del Nord. Tutto questo naturalmente ricordando che la Capitale d’Italia è al centro e che ci sono due isole bellissime che sono la Sicilia e la Sardegna.

Con l’Orchestra Italiana ha girato sud e nord non solo dell’Italia ma del mondo.  

 

Devo dire che io ho veramente girato il mondo con la mia Orchestra Italiana, che da 28 anni è diventata l’orchestra stabile più longeva nella storia della musica, e sottolineo “orchestra stabile”. Più lunga, nel jazz, di quella di Duke Ellington che è durata quindici anni. E io con ‘sti napoletani duriamo da 28 anni e siamo andati per il mondo con le canzoni napoletane arrangiate da me.

 

Come Caravaggio, che non era di Napoli ma ha lavorato a lungo a Napoli 

ed è stato determinante per la formazione della pittura napoletana, 

così lei con l’Orchestra Italiana ha in qualche modo consolidato, 

accresciuto e creato una nuova memoria della canzone napoletana 

in Italia e nel mondo.  

 

Ti ringrazio che me lo riconosci, perché c’era un grande equivoco in cui erano caduti persino gli artisti napoletani. Gli artisti napoletani che avevano solo due maître à penser, vendevano la Napoli antichissima popolare e snobbavano la canzone napoletana borghese. C’era un’antipatia da parte di questi due personaggi che non nomino per le canzoni napoletane borghesi, perché queste canzoni bellissime, tranne in pochissimi casi, uno o due, sono state scritte tutte da borghesi, intellettuali finissimi, professori, dirigenti, avvocati e cantavano la Napoli popolare ma erano borghesi, e questo per loro era l’handicap. Così gli artisti napoletani, suggestionati da questi maître à penser così autorevoli, hanno creduto che queste canzoni fossero canzoni del passato. È come credere che la Traviata o la Toccata e fuga di Bach siano pezzi del passato. Non si accorgevano che queste canzoni hanno delle melodie, nelle quali noi italiani, e in particolar modo i napoletani, eccelliamo, che sono le più belle del mondo e le poesie, perché non le chiamiamo soltanto parole, le poesie più belle del mondo. Perché se uno prende Salvatore Di Giacomo, e quindi i grandissimi, come anche Ernesto Murolo, hanno scritto delle liriche meravigliose, sposate a una musica meravigliosa. Io non esito a dire, da colui che ha conosciuto e pratica tutta la musica del mondo, che le canzoni eterne più belle del mondo sono le canzoni napoletane. Poi ci sono le canzoni americane degli anni Trenta, ma sono canzoni molto più commerciali, molto meno profonde, sempre bellissime, Gershwin, Cole Porter; poi ci sono le canzoni brasiliane degli anni Cinquanta, ma quelle popolari forse più importanti dopo le canzoni napoletane sono le canzoni messicane, che tutti ritengono siano cubane o argentine, e invece no, sono messicane. Lì c’è un patrimonio bellissimo, ignorato dalla cultura mondiale, non si sa perché. Come lirica e come melodia le canzoni messicane sono fortissime, però quelle napoletane sono molte, ma molte, ma molte di più.

Le canzoni napoletane parlano spesso di amori tormentati o sofferti. 

 

Sì, è lo stesso soggetto delle canzoni messicane, anche quelle napoletane parlano di amori tormentati, gelosie, morti.

 

Quindi è vero quello che Einstein ha scritto alla figlia e cioè che l’amore
è “la più invisibile e potente delle forze, […] la quintessenza della vita”. 

 

Certo. Queste canzoni parlano d’amore, perché l’amore perbacco è quello lì, meraviglioso, che poi ha mille e mille sentieri. Perché io stesso mi meraviglio, ascoltando le canzoni napoletane antiche, ma non solo le più famose, di come sono andati a scovare certi tic di innamorati, certi momenti, certi vizi. Io ho fatto un film che si chiama Che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene, anche questa è un’intuizione bellissima. Lei lo sta lasciando e lui si lamenta e dice: “Perché mi hai portato in questo posto magico, meraviglioso, degli innamorati, se non mi vuoi più bene”. Ecco, nelle canzoni napoletane ci sono mille di queste idee, anzi di più. Questa è la bellezza di queste canzoni del Sud che adesso sto tentando di far apprezzare dall’Unesco, sperando di farle riconoscere come Patrimonio dell’Umanità. È stata riconosciuta la pizza, che è una cosa straordinaria, spero anche nel valore aggiunto delle canzoni napoletane che sono cantate anche in Cina o in Corea dai loro tenori e soprani, peraltro con accenti meravigliosi. Dovunque sono andato in Cina, ho sempre trovato delle persone a cui ho fatto cantare ‘O sole mio e non puoi immaginare con quanta dedizione ed entusiasmo. Ma poi non solo in Estremo Oriente, anche arabi, tunisini, li ho visti cantare ‘O sole mio. Questa è, non la canzone napoletana più famosa del mondo, ma proprio la canzone più famosa al mondo. Dopo viene Summer Time, e dopo Let it be.

Il suo grande amico Luciano De Crescenzo, da me intervistato qualche anno fa 

per Myrrha, mi raccontò che ‘O sole mio non è stata scritta a Napoli, 

come tutti pensano, ma a Odessa. E questo spiega il perché 

di questa ode al sole, mentre se fosse stata scritta a Napoli, 

dove il sole c’è sempre, non si spiegherebbe. 

 

Sì, ma te lo dico da foggiano, che ha vissuto sette anni a Napoli e ci va spesso: a Napoli loro non capiscono che sono baciati dal sole in quella maniera straordinaria. Napoli è esposta completamente a sud, quindi dal porto, da Castellammare fino al monte di Procida è esposta a sud, così come anche Amalfi e Positano. Quindi il sole quando c’è, quasi sempre, bacia quella città in maniera totale e straordinaria.

A Napoli anche lei è rimasto incantato dal Cristo velato? 

 

È bellissimo. Io ci andavo quando ancora non lo conosceva nessuno. Pensa che mi portò uno studente di medicina. Mi disse: “Devo andare a vedere i due scheletri” (le macchine anatomiche esposte nella cavea sotterranea ndr). Perché in quelli il principe di Sansevero aveva fermato tutto l’impianto circolatorio, non si sa come. Aveva iniettato qualcosa che avrebbe dovuto fermare il sangue e invece era rimasto tutto, c’erano persino i capillari.  Comunque, a Napoli ci sono dei capolavori. Come dice Sgarbi, Napoli è una città che è già cultura. È la verità, Napoli con tutte le dominazioni, con quello che ha avuto, la Napoli sotterranea, è una città che trasuda cultura da tutte le parti e la trasmette. Poi ci sono altre cose meravigliose che i napoletani non sanno e che io individuo da pugliese. A Napoli, siccome non hanno molto il senso pratico come noi pugliesi, o come i romani, i milanesi ecc., fanno anche delle meravigliose cose superflue, inutili. E questo è il segreto della creatività! Perché uno dice: “Io sono appassionato di piante e voglio fare un innesto, voglio fare una cosa particolare”, e da quella semplice azione magari salta fuori una scoperta eccezionale. Non hanno quella cosa tipicamente italiana del “a che serve? Come ci guadagniamo? A chi lo vendiamo?”, loro non partono da questo criterio, ma dalla passione. Ho la passione di dipingere Napoli capovolta? Non venderò mai un quadro, ma lo faccio perché mi piace. Questo è molto singolare e bellissimo.  Ma finiamo di parlare di Napoli se no poi si incavolano i miei amici pugliesi. Anzi, a questo proposito ti racconto una cosa che abbiamo rilevato con il mio amico Lino Banfi, pugliese come me. Noi naturalmente, essendo pugliesi ma innamorati della cultura napoletana come tutti i pugliesi, abbiamo notato una cosa. Banfi, che è curioso, ha detto: “Sai perché i napoletani ridono più di noi? Perché noi pugliesi un po’ invidiamo quelli che stanno meglio di noi”. Noi diciamo: “Oh, guarda che bella moglie che ha il mio amico”, e la guardiamo con invidia, o anche quello che ha la macchina più grande, quello che ha successo ecc. Mentre i napoletani indulgono di più al sorriso perché guardano quelli che stanno peggio di loro. Il napoletano dice: “Meno male che non dormo nell’automobile come questo poveretto”. Hanno questo atteggiamento di essere contenti del loro stato e sono abbastanza soddisfatti rispetto a quelli che stanno peggio di loro. Hanno sempre avuto a che fare con la miseria, con le disgrazie, con le dominazioni, quindi hanno un atteggiamento che la rende una città sorridente, come dico io.

 

Prima di Napoli c’è stata Foggia. 

 

Sì, ho parlato bene di Napoli ma voglio parlare bene anche della mia fucina, Foggia, “reale e preferita dimora di Federico II”. Noi avevamo una proprietà che abbiamo venduto nel dopoguerra, che era proprio la tenuta di caccia di Federico II, in località Cervaro. È una città che non ha grandi vestigia dell’antichità, ma la provincia rispetto alla grande città ti permette di stare per strada e di conoscere tutti: il figlio del ricco, quello che scappa di casa, il delinquente, il poliziotto, il venditore di nocelle, il corteggiatore, la ragazza generosa, tutta una fauna umana. Io poi ho ancora la mia casa in centro, scendo e incontro dei passanti che sono già miei amici, che sono quelli del tennis o quelli con cui ho studiato, mi accodo e si fa la famosa passeggiata per il corso parlando di cose inutili. Che però ti educano, perché incontri quello che ti racconta come si smista la corrispondenza nei vagoni postali delle ferrovie e quell’altro che invece faceva il pilota degli aeroporti militari ad Amendola, il più grande aeroporto militare d’Italia. Insomma, tutte conversazioni interessanti e anche a volte totalmente inutili come quelle del bar notturno, che poi io ho messo anche in Quelli della Notte: “È meglio il mare o la montagna?” Quelle conversazionacce inutili… Così in quegli anni ho conosciuto un campionario umano molto, molto vasto. Dovevo, per sconfiggere la noia, organizzare delle cose culturali, ma anche degli scherzi notturni, quindi una maniera goliardica di passare la sera, perché senza le ragazze che andavano a casa alle otto noi ci ritrovavamo che non sapevamo che fare. Quindi la provincia è diventata una palestra e poi c’era il carattere di noi pugliesi, che abbiamo la grande voglia di sprovincializzarci. Sai, quello che si dice a Bari, “se Parigi avesse lu mare sarebbe una piccola Bari”, è in realtà una spia popolare della nostra voglia di sprovincializzarci. Abbiamo un po’ il complesso di appartenere al profondo Sud, anche se non è poi così profondo come la Sicilia.

Come diceva saggiamente Luciano De Crescenzo, 

“si è sempre meridionali di qualcuno”. 

 

Già. Il pregiudizio che si ha sul Sud in generale è inutile e dannoso. Tu di una persona puoi vederne i difetti e non calcolarne i pregi. Persino di Leonardo da Vinci puoi dire male, puoi dire che non portava a termine le cose, che era vanitoso perché si è autoritratto ecc.

Come vi siete conosciuti e riconosciuti (tra persone fuori del comune ndr

con Luciano De Crescenzo? 

 

Noi ci siamo conosciuti perché avevamo la stessa fidanzatina. Io stavo a Sorrento e avevo ‘sta fidanzatina, Luciano stava a Napoli e aveva ‘sta fidanzatina. La mia fidanzatina diceva: “Vado a Napoli perché sono amica di Luciano De Crescenzo, ingegnere”. Io le chiedevo: “Ma siete fidanzati?” “No”. E la stessa cosa diceva a Luciano su di me. Poi in seguito ci siamo conosciuti, ci siamo confrontati e da lì siamo diventati amici. Naturalmente, siccome era una fidanzatina occasionale estiva, è diventata la prima risata con Luciano, e sul piano della risata ci siamo intesi subito. Noi avevamo una matrice goliardica tutti e due. La goliardia che era ed è considerata una cosa deteriore, perché naturalmente c’è anche una goliardia deteriore, però era una fucina di risate da parte di intellettuali o di futuri intellettuali, che appartenevano tutti all’Unione Goliardica Italiana, pensa a Eugenio Scalfari, Luciano De Crescenzo, Bettino Craxi, Pannella, erano tutti UGI, e tanti altri intellettuali. Erano i ragazzi svegli di quella generazione, prima della mia, che stando all’università aderivano a questo movimento goliardico, per cui mescolavano il basso con l’alto, le leggi della chimica con le parolacce o la religione ecc., ma la matrice era quella ridanciana della goliardia. Questa era la matrice anche per me e Luciano. Poi coincidevano le passioni per la cultura napoletana e per la canzone napoletana che avevo praticato e bazzicato nei sette anni della mia permanenza napoletana. Perché io mi sono laureato in giurisprudenza, ma invece di metterci quattro anni ce ne ho messi sette, perché suonavo anche, frequentavo gli americani, dirigevo il circolo napoletano del jazz, frequentavo Roberto Murolo, Sergio Bruni, tutti i cantanti napoletani, e in più gli studi. Questa cultura con Luciano l’abbiamo condivisa, lui era di una generazione precedente, generazione straordinaria, perché era quella di Raffaele La Capria, di Antonio Ghirelli, di Giorgio Napolitano, di Franco Rosi, grande regista, di Domenico Rea, di Giovanni Ansaldo direttore del “Mattino”. C’era una cultura napoletana meravigliosa, tradizionale, c’era un grande rispetto tra il popolo e la cultura borghese napoletana, che poi è stata cancellata ed equivocata col laurismo. Con Luciano siamo stati amici fino alla fine. È stato sottovalutato dalla critica snob dei “non venditori di libri”, perché Luciano li vendeva. Ha venduto più di venti milioni di libri in tutto il mondo, è lo scrittore che ha venduto più libri al mondo, più di Umberto Eco. E comunque le vendite sono una cosa e il valore un’altra, e Luciano è sicuramente da approfondire. Ora sto rileggendo i suoi libri e ci sono tantissime idee e pensieri profondissimi.

Cosa sta preparando adesso?  

 

Adesso sto preparando due revival, uno con Banfi e Mirabella, un programma pugliese, e poi un programma napoletano ricordando i cento anni dalla nascita di Renato Carosone che ricorrono quest’anno. Speriamo di farlo con Stefano Bollani che è un grandissimo pianista, un’eccellenza italiana anche lui.  Poi mi sto dedicando molto al mio canale: renzoarborechannel.tv dove h24 vengono passate sia cose mie, sia programmi che mi piacciono, che condivido o che sono nelle mie corde: Edith Piaf, Yves Montand, Aretha Franklin, io praticamente faccio il video jockey, mi diverto a mettere dei video che poi servono sia per i millennials, che non li conoscono, ma anche per i nostalgici, Aldo Fabrizi, Lulù, Sandra e Raimondo. Questa è la cosa che più mi affascina, fare il video jockey.

 

Prima mi raccontava una cosa interessantissima sulle origini del jazz. 

 

Sì, ho fatto con Riccardo Di Blasi un programma di un’ora e mezzo per Rai 2 sulle origini siciliane del jazz che vengono sottaciute dagli americani. In realtà, il primo disco nella storia del jazz è stato scritto e composto da un siciliano, Nick La Rocca, trombettista di genitori siciliani, padre di Salaparuta e madre di Poggioreale (entrambe in provincia di Trapani ndr) che, con alcuni altri siciliani trapiantati a New Orleans, fondarono l’Original Dixieland Jass Band (poi trasformato in Jazz) che servì di ispirazione perfino ad Armstrong che lo dice nella sua biografia. Nick La Rocca ha fatto il primo disco nella storia del jazz che si chiama Livery Stable Blues e ha fatto un celeberrimo brano che si chiama Tiger Rag, uno standard che ha fatto il giro del mondo. Ma la verità è che il contributo dei siciliani, così come quello dei neri, dei francesi e dei canadesi che stavano a New Orleans in quel periodo è stato determinante per l’invenzione della musica jazz. A New Orleans c’è un museo italo-americano e c’è anche la più antica gastronomia italiana dove si va a mangiare gli anelletti e le cose siciliane. A New Orleans nel 1835 cominciarono ad arrivare gli italiani perché il governo americano, che aveva comprato la Louisiana dalla Francia, offriva dei terreni gratis a chi era disposto a coltivarli e quindi da Palermo, ma soprattutto dalla zona di Salaparuta, si trasferirono in tanti. Quindi lì c’è una cultura antichissima, perché non erano neanche emigranti, erano coloni. Grazie a questa trasmissione sulle origini siciliane del jazz sono diventato palermitano ad honorem!

Una chicca meridionale per chiudere? 

 

Voglio ricordare che l’America ha avuto i primi italiani amati dagli americani, come Rodolfo Valentino, un attore meraviglioso, che era pugliese di Castellaneta, e un altro pugliese di Foggia, anzi di Cerignola, che è amatissimo dagli americani, che lo fecero sindaco di New York e gli intestarono anche un aeroporto, ora il secondo a New York, che era Fiorello La Guardia. Spero sempre che qualcuno possa decidere di fare una fiction, perché è una storia bellissima, su questo personaggio che fu tanto amato dagli americani.

 

Bene caro Renzo Arbore, ci aspettiamo tante altre belle sorprese da parte sua! 

 

 

Azzurra Primavera
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IL MAESTRO DEI MAESTRI EDOARDO SCARPETTA di Fernando Popoli – Numero 15 – Dicembre 2019

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IL MAESTRO DEI MAESTRI EDOARDO SCARPETTA

 

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Da piccolo, preso da un infrenabile desiderio infantile prodomo del suo destino,

costruì un teatrino di legno dove si divertiva a far recitare dei pupi di stoffa 

con la sorellina Gilda, unica spettatrice.


All’età di nove anni il padre, funzionario statale, lo portò al celebre teatro San Carlino dove il grande Antonio Petito, famoso Pulcinella, recitava. La visione di quella maschera brutta, con rughe sulla fronte e sguardo inquietante gli rimase impressa e segnò la sua scelta, ammaliandolo completamente.  

 

All’età di quattordici anni fu scritturato dall’impresario Salvatore Mormone e debuttò al San Carlino nella commedia dialettale Cuntiente e guaje dove recitava in una piccola parte con poche battute. Quello fu l’inizio di una grande ascesa, il pubblico cominciò a notarlo, a seguirlo, ad apprezzare il suo talento dirompente e comunicativo, a punto tale che il grande

 

Antonio Petito, che pure in precedenza non l’aveva preso in considerazione, 

gli affidò la parte di Felice Sciosciammocca

 

(alla lettera: soffia in bocca), che faceva da spalla a Pulcinella, un personaggio divertente, ingenuo e svampito che è rimasto nel teatro napoletano per decenni.  

Petito scrisse alcune commedie su misura per lui Feliciello mariuolo de’ na pizza e Felice Sciosciammocca creduto guaglione ‘e n’anno” ottenendo un grande successo di pubblico che prese in simpatia definitivamente questo giovane attore. 

Scarpetta passò da una compagnia all’altra mietendo sempre unanimi consensi, quando c’era lui i teatri erano pieni.   


Intanto Petito era morto e il San Carlino versava in condizioni critiche, quasi disperate, fu allora che l’attore decise di rilevarlo; lo mise completamente a nuovo e iniziò lì una nuova stagione teatrale aggiornando il repertorio e modificando la sua recitazione ispirandosi ai vaudevilles francesi, rielaborandoli e reinventandoli sempre con il principio che il pubblico voleva ridere, ridere, ridere. 

In breve calcò i palcoscenici di tutti i teatri d’Italia consolidando la sua fama 

e arricchendosi; scrisse altre commedie, tra queste quella più famosa, 

tramandata ai suoi discendenti e a tanti altri attori napoletani: 

Miseria e Nobiltà.


La storia di un giovane nobile innamorato di una ragazza figlia di un cuoco arricchito, amore ostacolato per motivi di classe sociale dai genitori, dove Sosciammocca e un altro spiantato si fingono parenti nobili della ragazza per far superare l’ostacolo, con tutta una serie di situazioni comiche poiché ad un certo punto entrano in scena i veri nobili di quella casata.  

 

Miseria e Nobiltà ebbe un grande successo di pubblico e di critica insieme 

ad altre due commedie di Scarpetta: Nu turco napolitano e O miedeco d’e pazze.


Queste tre commedie furono in seguito portate sullo schermo dal grande Totòche fece di Sciosciammocca una memorabile interpretazione ancora oggi godibilissima da spettatori di tutte le età. Attore e commediografo consacrato, Scarpetta ebbe una vita sentimentale travagliata e

si unì a più donne dalle quali ebbe figli legittimi e figli illegittimi come i tre fratelli 

De Filippo che raccolsero da lui il talento e il fuoco sacro dell’arte teatrale

 

segnando in seguito una pietra miliare nella recitazione del teatro di tutti i tempi.
Nel 1889 ottenne un memorabile successo con 
Na santarella al TeatroSannazzaro di via Chiaia. Tutta Napoli, elegante e mondana, accorse al piccolo teatro, e con gli incassi della commedia l’attore si fece costruire una villa sulla collina del Vomero chiamata Villa la Santarella, dove sulla facciata principale fece scrivere la celebre frase «Qui rido io!», ancora oggi viva nella memoria dei napoletani.  

Ebbe anche una lite giudiziaria per i diritti di una commedia, La figlia di Iorio,con il Vate, Gabriele D’Annunzio, dalla quale però uscì vincitore ma anche amareggiato per l’insuccesso che ebbe la rappresentazione.

Nel 1909 si ritirò dalle scene, stanco e deluso, lasciò in eredità al figlio Vincenzo il personaggio di felice Sciosciammocca e scrisse un saggio sul commediografo Raffaele Viviani. 


Morì nel 1925 all’età di 72 anni e il suo funerale a Napoli fu imponente. Oggi riposa in pace nelle cappelle delle famiglie De Filippo, Scarpetta e Viviani al cimitero di Santa Maria del Pianto a Napoli.  

La sua arte è rimasta ed è spesso ripresa da altri attori napoletani, la sua dinastia si è estinta, dei suoi discendenti non è rimasto più nessuno ma il ricordo di lui è vivo nella memoria di tutti gli amanti del teatro. 

 

il maestro dei maestri del teatro popolare napoletano, il capostipite di una grande famiglia di attori ormai del tutto estinta, padre di Eduardo, Titina e Peppino De Filippo, di Vincenzo Scarpetta, di Eduardo Scarpetta in arte Passarelli, di Pasquale De filippo, e nonno di Luca De Filippo e Mario Scarpetta. 

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