L’ARBËRESHË IN CALABRIA UN PATRIMONIO DA TUTELARE di Michele Minisci – N.20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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L’ARBËRESHË IN CALABRIA UN PATRIMONIO DA TUTELARE

 

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ma la più folta è sicuramente l’Arbëreshë, gli albanesi d’Italia, con le prime pattuglie arrivate attorno al XV secolo per sfuggire all’avanzata turco-ottomana in tutti i Balcani, insediandosi specialmente nel nostro Sud ed in maniera più massiccia in Calabria, dove tutt’ora abitano circa 100.000 persone

Ma gli anziani se ne vanno e si portano via i proverbi, le canzoni, i pezzi di un mondo e così tutte le comunità minoritarie d’Italia, anche se in modi ed a livelli diversi, stanno affrontando la sfida del declino. A meno che non ci sia qualcuno che, realizzato il valore di ciò che si sta perdendo, incoraggi la collettività alla riscoperta delle proprie radici.  

 

E’ quello che sta facendo il Comune di Vaccarizzo Albanese – piccolo centro collinare di poco più di mille abitanti ai piedi della Sila Greca, di fronte alla pianura di Sibari, ricca di secolari uliveti e dorati aranceti, ed al mare Jonio – con il suo Museo del Costume Arbëreshë, cui è collegata una suggestiva Sagra annuale del costume, con delegazioni da moltissimi paesi. 

Il Museo, situato nel Palazzo Cumano (uno dei più antichi del paese), istituito dall’Amministrazione Comunale e da Papàs Giuseppe Faraco nel 1984, e faticosamente ma appassionatamente diretto da Silvia Tocci, custodisce vestiti originali – alcuni con più di 100 anni di vita – provenienti da molti paesi albanesi della Calabria.

Oggi, nell’Arberia – quel nucleo formato da un pugno di questi paesini 

che si affacciano sulla costa jonica così chiamato in omaggio 

alla madre patria – ci saranno appena 2-3 donne 

che portano ancora il costume tradizionale,


benché. stia prendendo piede, per volontà delle giovani ragazze, di sposarsi col costume di gala Arbëreshë.   

Ma vediamo più da vicino queste meraviglie, aiutati dalle precise e dettagliate note che si trovano nel sito del Comune

 

Il nostro costume, gelosamente custodito di generazione in generazione, 

rappresenta ancora oggi un forte simbolo d’identità 

e di appartenenza etnica


Esso è legato allo sviluppo dei tempi, nel senso che non si può non tenere conto dei rapporti intercorsi tra la nostra cultura e quella ufficiale, ma ciò nonostante, pur differenziandosi per fogge e colori, ha mantenuto intatta la nomenclatura originaria delle aree di provenienza albanese e la composizione di alcuni elementi: il diadema nuziale, il velo, la camicia con merletto, la lunga gonna a fitte pieghe, la cintura.

 

Il costume, indossato oggi solo da qualche anziana donna, in passato 

faceva parte della dote di ogni ragazza, che lo avrebbe portato 

nelle più importanti circostanze della sua vita.

 

Il vestito di gala si indossava infatti il giorno delle nozze, con una vestizione che era un vero e proprio rito, e poi in occasione di ricorrenze liete legate all’ambito familiare e sociale, o in quelle più importanti del ciclo dell’anno. La consuetudine di indossare il costume tradizionale si ritrovava poi in occasione di un lutto e, fino a non molto tempo fa, era anche uso vestire la salma con il proprio vestito nuziale. La sposa, in aggiunta alla dote normale, riceveva dei costumi da indossare oltre che nei giorni festivi, anche nei giorni feriali. Il costume Arbëreshë presenta, pertanto, diverse tipologie: il costume di gala, il costume di mezza festa ed ancora il costume giornaliero e quello di lutto.

 

Il materiale utilizzato per realizzare questi costumi era la lana per i contadini, 

mentre per il ceto più elevato il cotone, il lino e la seta, stoffe spesso prodotte 

nella chiusa economia domestica, così come i costumi 

che con esse venivano confezionati. 


Dal Settecento in poi, le diverse condizioni economiche e sociali permisero agli Arbëreshë d’Italia di affidare la cucitura delle varie fogge a maestri artigiani locali che iniziarono ad arricchire i costumi secondo il grado di ricchezza di chi lo richiedeva, variando la qualità, la fattura e la quantità degli ornamenti. Tutto ciò determinò l’adozione di tessuti più preziosi (laminati in oro, velluto, ecc.) che giungevano soprattutto da Napoli, centro di irradiazione culturale per le comunità Arbëreshë e, come per tutto il Mezzogiorno.

 

Il giorno delle nozze la sposa indossava lo splendido costume di gala.


La lunga camicia di lino o cotone bianco, con collo ornato da preziosi merletti lavorati all’uncinetto o in tulle, aveva una profonda scollatura chiusa da un piccolo copripetto di cotone bianco e ricami a vista. Sulla camicia vi era un corpetto corto, aperto sul davanti, in tessuto laminato in oro, color amaranto come la sopragonna. Il corpetto aveva, inoltre, polsi, lembi e la parte delle spalle ornati da preziosi galloni in oro. Particolarmente belle ed elaborate erano la gonna e la sopragonna a fitte pieghe ottenute con la tecnica del vapore, la prima in raso di seta laminato in oro nelle tonalità del rosso e ampio gallone in oro, la seconda sovrapposta a questa, in seta pura laminata in oro e con gallone in oro di colore solitamente rosa. La sopragonna veniva sollevata sul davanti e fissata dietro, in modo da consentire alla sposa di mostrare anche la gonna. Attorno alla vita la sposa indossava una sottile cintura in fili d’oro o argento con chiusura a rettangolo posta all’altezza del ventre e ricamata con gli stessi motivi ornamentali del diadema nuziale. Questi due elementi erano il simbolo distintivo della donna coniugata. 

I capelli venivano raccolti sulla nuca in trecce e annodati con fettucce bianche a cui si univano due piccole trecce laterali tramite un nastro nero, in modo da formare un unico chignon sul quale era posto il diadema nuziale. 

Il costume era completato da una stola di raso color amaranto bordata da gallone in oro e portata sulle spalle, da un velo in fili d’oro, o in tulle rosso con ricami in oro che ricopriva il volto ed il capo della sposa, da calze di cotone bianco lavorate ai ferri e scarpe rivestite dello stesso tessuto della sopragonna. 

Il vestito di gala era, infine, reso più prezioso dagli ornamenti in oro indossati: la collana d’oro rosso e doppio pendente a fiocco, con ciondolo decorato da smalti colorati, all’anulare della mano destra l’anello della fede, sul merletto una spilla, alle orecchie splendidi orecchini con frangia che riprendevano i motivi ornamentali della collana e della spilla. 

 

Il costume di mezza festa,

 

indossato dalla sposa per recarsi in chiesa le domeniche dopo le nozze, per visite di cortesia o in occasione di feste, comprendeva la lunga camicia di lino o cotone bianco con collo ornato da merletto, la gonna a fitte pieghe in raso color amaranto ornata sull’orlo da ampio gallone in oro, oppure, se si trattava di occasioni meno importanti, la gonna pieghettata in seta grezza e cotone o in lana pettinata, ornata lungo il bordo inferiore da una striscia di tessuto in raso verde. Il corpetto, confezionato con panno nero o velluto, era ornato alle spalle ed ai polsi da larghe fasce di galloni in oro; le maniche erano rifinite da preziosi ricami, sempre in oro, a motivi floreali. Il vestito di mezza festa era, inoltre, completato da un grembiule di seta color azzurro ricamato con fili d’oro, da un fazzoletto da testa di seta giallo o arancione ed infine da uno scialle verde o marrone di lana pregiata, ornato da frange.      

 

Sono pochissime oggi le donne anziane che indossano

 

il costume giornaliero, semplice all’apparenza sia nella foggia che nei tessuti, 

ma, in realtà, non facile né da indossare, né da portare.


La lunga camicia di lino o cotone bianco è indossata sotto una sorta di gilet in cotone resistente di vari colori, con la funzione di sorreggere il seno. La profonda scollatura della camicia è chiusa da un piccolo copripetto, in modo da coprire meglio il seno e consentire, un tempo, alcuni movimenti compiuti durante il lavoro nei campi. Il corpetto è in raso, lana o velluto nero, ricamato con filo di seta nero. La gonna è in cotone rosso, con il fondo ornato da una balza arricciata. Il capo è coperto da un fazzoletto di cotone o lana legato dietro la nuca, il grembo da un grembiule di cotone.

 

La sagra del Costume Arbëreshë che si tiene ogni anno: 

è un’occasione di promozione, oltre che di valorizzazione 

del nostro patrimonio culturale.


Nei tre giorni di festa si può assistere a convegni, mostre e sfilate dei tradizionali costumi provenienti da numerose comunità Arbëreshëe e, in serata, all’esecuzione di balli e canti tradizionali da parte dei gruppi presenti, il tutto accompagnato dalla degustazione di piatti e dolci tipici.   

 

Ecco, questo è tutto quello che rimane – e meno male – nella nostra memoria di Arbëreshë, ovvero degli albanesi d’Italia, sbarcati attorno alla metà del XV secolo. Ma la cosa ancora più grave – mi sottolinea infine con rammarico Silvia Tocci – è che si sta perdendo anche la lingua. Certo, per molti anni sono stati in vigore finanziamenti statali e regionali a difesa delle minoranze linguistiche con corsi di lingua albanese in alcune classi delle elementari e medie, ma da oltre dieci anni non esistono più (sic!). 

 

 

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IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE di Agostino Picicco – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2020

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IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE

 

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Al di là dei favoleggiati tesori nascosti dai briganti in antiche torri, le cui storie avventurose e romantiche si raccontano ancora oggi, magari con meno fascino di un tempo,

il fenomeno del brigantaggio meridionale postunitario è progressivamente 

disvelato nei suoi aspetti più prosaici.


Contribuisce a quest’opera di verità la recente pubblicazione dello studioso Valentino Romano, autore di vari volumi sul tema, con particolare attenzione alle radici sociali del fenomeno. Nel volume “Un popolo alla sbarra” (Secop Edizioni), Romano porta alla luce

gli atti processuali relativi alla lotta al brigantaggio attuata 

dal Generale marchese Emilio Pallavicini, 


inviato a debellare definitivamente il fenomeno, con poteri speciali rispetto alla giustizia e ai compiti di polizia ordinari.  

Il Generale è già noto alla storia perché il 29 agosto 1862 aveva guidato la colonna che all’Aspromonte aveva fermato la spedizione che Garibaldi conduceva dalla Sicilia per la conquista di Roma e aveva ordinato l’attacco durante il quale lo stesso Garibaldi fu ferito. Superata la resistenza opposta dai volontari garibaldini,

Pallavicini ottenne la resa di Garibaldi.


Tra il 1863 ed il 1864, riuscì a sgominare le bande dei briganti, facendo pagare un grande prezzo in vite umane. Pallavicini e la sua “Colonna Mobile”, comprendente vari reparti dell’Esercito,

fu infatti inviato dallo Stato a sedare le rivolte,


settore in cui era militarmente esperto, e lo fece in modo spregiudicato pur di raggiungere gli obiettivi che si era posto, senza tenere conto del valore della vita umana e delle istanze sociali del popolo. E così riuscì a sconfiggere e distruggere nella zona murgiana della Puglia le bande di Ninco Nanco, Carmine Crocco, Ciucciariello (Riccardo Colasuonno). Ecco allora che –

esaminando le carte dell’epoca – emergono i tanti casi di briganti fucilati 

durante i trasferimenti, mentre tentano la fuga 

(così dicono i rapporti della scorta), 

e non si tratta di casi isolati.


É fondato il sospetto che si tratti di un modo per liberarsi di loro evitando pastoie burocratiche e procedure garantiste.  

Il libro di Romano rivela, grazie all’esame dei documenti processuali e di polizia, tutta una casistica, anche umana, con storie di paese, drammatiche e talvolta ironiche, di un mondo di povertà in cui si incontrano soldati, grassatori, manutengoli, pubblici amministratori che facevano a “scaricabarile” delle loro incombenze. 

Il brigantaggio, che è sempre tema attuale di studio, diventa la feritoia per esaminare la storia post unitaria, al di là degli stereotipi e delle posizioni ideologiche.  

L’esame approfondito delle sentenze, proposto dall’autore, denuncia il pressapochismo spesso doloso della giustizia militare, in qualche caso rimediato dalla magistratura ordinaria.

Essere parenti di un brigante era in sé una colpa, lo stesso incrociare per caso

i briganti per strada, portare una pagnotta in più in tasca (fosse anche per i figli) 

voleva dire voler rifornire di viveri i briganti.


Tante ingiustizie furono evitate, a prezzo di discredito e di numerosi mesi in carcere, che non prevedevano risarcimenti di alcun genere. 

Il contesto è quello di una società poverissima, dove non lavorare un giorno voleva dire la fame per la famiglia, e dove il furto in fattoria, da parte dei briganti, di un mulo o di un maiale, il primo come strumento di lavoro e il secondo come mezzo di sostentamento, era un danno gravissimo. Quanto descritto nel libro di Romano ci restituisce

una realtà complessa ancora da studiare e interpretare bene, 


perché non si è ancora trovata la verità. E il contributo dell’autore va proprio in questa direzione

 

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NOBILI INTELLETTI PER GLI INTERESSI DEL SUD di Tommaso Russo – Numero 19 – Dicembre 2020 – Gennaio 2021

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NOBILI INTELLETTI PER GLI INTERESSI DEL SUD

  L’ASSOCIAZIONE NAZIONALE PER gLI INTERESSI DEL MEZZOGIORNO D’ITALIA: ANIMI  

 

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Le origini 

 

 

Nel dicembre 1908 un violento terremoto distrusse Messina e Reggio. Si costituirono subito Comitati di solidarietà in molte città d’Italia per far fronte ai danni. Il vicentino Giovanni Malvezzi (1887-1972), componente del board del Credito italiano, vicedirettore dell’IRI, arrestato per partecipazione alla Resistenza, fu uno dei primi manager-filantropi a concretizzare il suo impegno per il Mezzogiorno. All’indomani del sisma, con Umberto Zanotti Bianco (1889-1963) prese a girare l’Aspromonte occidentale per un’inchiesta sui Comuni disastrati. Al termine del lavoro, mentre facevano rientro a casa, nella stazione di Pizzo i due si imbatterono in Padre Giovanni Semeria. Accusato di modernismo e perciò costretto da Pio X ad andare all’estero, il “prestigioso barnabita” li ascoltò attentamente: “Non esaurite la vostra azione con qualche bel racconto;” – disse – “bisogna agire, seriamente agire se volete ottenere qualcosa in questa disgraziata terra”. 

 

Quell’invito, innestandosi sull’entusiasmo di entrambi, avrebbe dato vita, di lì a poco, all’ “unica forza finora organizzata in Italia per il risveglio delle provincie meridionali”, come disse Giustino Fortunato. 

 

Avevano pensato a lui, o a Leopoldo Franchetti, o a Sidney Sonnino come a padri nobili per il loro progetto di “risveglio”. Dopo una prima riunione a Oria di Valsolda, nella villa di Antonio Fogazzaro, e dopo un secondo incontro a Oreno, nella villa del conte Fulco Tommaso Gallarati Scotti, Malvezzi, Zanotti Bianco, il nobile lombardo e altri partecipanti individuarono in Franchetti la persona adatta per quello scopo. Andarono a trovarlo a Firenze, a Villa Wolkonsky. Dopo un’appassionata discussione, accettò di essere il primo presidente effettivo dell’Associazione.

 

Il 9 marzo 1910, in Senato, presidente onorario Pasquale Villari, Franchetti 

e vice Luigi Bodio (il padre della statistica italiana), si costituiva l’ANIMI. 

 

Nel quinquennio 1910-1915 tra i primi finanziatori si ricordano alcuni ministeri (Interno, Pubblica Istruzione, Grazia e Giustizia, Tesoro) e tre istituti bancari (Bankitalia, Banco di Napoli, Cassa di Risparmio di Torino). Dal 1918 Bonaldo Stringher con l’industriale milanese Ettore Rusconi formerà la coppia di vicepresidenti.   

 

Dopo il 1918 si amplia il fronte dei finanziatori. Accanto a Banca Commerciale 

e Banco Italiano di Sconto si collocano numerose industrie, 

 

fra cui Ansaldo, Breda, Ilva, Ferriere Piemontesi, Pirelli. Nel secondo dopoguerra la platea si allarga ancor più: Banco di Santo Spirito, MPS, Credit e poi tante imprese, fra cui: Chatillon, IBM, Istituto Romano di Beni Stabili, Montecatini.  Il governatore Donato Menichella era il vice di Ivanoe Bonomi. 

 

La costruzione della fitta rete di finanziamenti, di rapporti sociali e istituzionali va attribuita senz’altro a Zanotti Bianco, che la tenne in vita anche in momenti difficili.  

 

In giro con l’ANIMI per il Mezzogiorno 

 

A favorire la realizzazione dei progetti ANIMI, di cui qui se ne offre una sintesi, fu l’idea che solo la divulgazione dei saperi e delle conoscenze applicate alla vita e al lavoro quotidiani potesse sollevare le sorti del Sud.     

 

In mezzo secolo (1910-1960) furono creati asili infantili, scuole diurne, serali 

e festive, biblioteche, ricreatori, cicli di conferenze dalla storia del Risorgimento 

alla necessità dell’igiene individuale e collettiva negli asili e nelle scuole. 

Vennero organizzati a Gerace e a Taranto corsi di formazione per maestri sui temi dell’igiene scolastica e domestica, su tracoma, malaria, Tbc, alcolismo. Nel 1912-1913 a Taranto venne aperta una scuola di disegno per gli operai dell’Arsenale. Visto il successo, se ne aprì a Reggio una di arte applicata all’industria. 

 

Nell’asilo infantile di Melicuccà furono selezionate “le prime maestre laiche con patente per scuole materne” e conoscenza del metodo Montessori. Altri asili, nel 1920, vennero aperti in Calabria, Campania e Puglia. Nel primo anno di vita si aprirono biblioteche a Bernalda, Castrovillari, Lauria, Metaponto, Palmi, Reggio, Roccella, Taranto e Villa San Giovanni.    

 

Furono costituite cooperative di pescatori, istituite “cattedre ambulanti 

per la previdenza e la mutualità”, istituti diagnostici “per le malattie 

del sangue, del petto, dello stomaco, nervose”. 

 

Il terremoto del 1914 nella Sicilia occidentale e quello del 1915 nella Marsica videro l’ANIMI impegnata con tutti i suoi mezzi e risorse.Alla fine del conflitto si costruirono in Calabria laboratori di tessitura e scuole di taglio e cucito per ragazze. 

 

Durante il fascismo la realizzazione dei progetti si fece complicata a causa dell’autonomia che l’ANIMI volle sempre conservare. Tuttavia continuò, per esempio, l’apertura di biblioteche dell’Associazione che via via si fusero con le popolari, dando vita “a biblioteche di cultura con comuni sale di studio”.  

 

Con la Collezione di studi meridionali passata da Vallecchi a Lacaita, con la pubblicazione annuale dell’Archivio storico per la Calabria e Lucania, con la Società Magna Grecia e col suo periodico Atti e Memorie della Magna Grecia, con la Biblioteca Giustino Fortunato, la più specializzata sui temi del meridionalismo con i suoi quarantamila volumi,

 

l’ANIMI oggi può essere considerata un prestigioso centro 

di ricerche e studi sul Mezzogiorno. 

Nota finale 

 

Mette conto sottolineare che l’ANIMI nasce negli anni centrali dell’età liberale, del riformismo giolittiano e si avvale del clima di entusiasmo e ottimismo che pervadeva quel decennio.  

  

Chi furono i protagonisti di quell’avventura e quali 

le ragioni che la resero importante?

 

Agli incontri nelle ville parteciparono esponenti di quel cattolicesimo tormentato ma aperto al nuovo (Fogazzaro), desideroso di misurarsi dal di dentro con l’eresia del Novecento: il modernismo. Infatti Antonio Aiace Alfieri (primo direttore in Calabria seguito da Alessandro Marcucci), Alessandro Casati e Gallarati-Scotti nel 1907 fondarono la rivista Rinnovamento che di quella corrente cattolica per breve tempo fu autorevole espressione. 

 

Quel milieu culturale inoltre era segnato dalla presenza, in parte, di un capitalismo finanziario moderno e razionale; dal costume filantropico di settori della borghesia e della nobiltà lombarde attente nel suscitare e guidare processi di cambiamento; dalle coordinate teoriche del miglior liberalismo del primo Novecento.

 

Infine, la ragione principale per i risultati ottenuti in un ambiente difficile 

è da ricercarsi nella forte carica di eticità presente nell’azione 

di ogni singolo componente di quel gruppo. 

Senza enfasi, si può affermare che quel manipolo di uomini dette vita ad una stagione del meridionalismo mai più veduta in Italia.  

 

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Piccola bibliografia 

 

Alatri Giovanna, Una vita per educare tra arte e socialità: Alessandro Marcucci (1876-1968), Milano, Unicopli, 2006. 

 

L’ANIMI nei suoi primi cinquant’anni di vita, Collezione di studi meridionali, Roma, 1960. 

 

Calbi Mimmo, Un violento companatico. Umberto Zanotti Bianco e la Basilicata, Bari, Palomar, 1992. 

 

La divina droga. Chinino e lotta alla malaria in Italia all’alba del Novecento, Milano, La Vita Felice, 2015. 

 

Galante Garrone Alessandro, Zanotti-Bianco e Salvemini. Carteggio, Napoli, Guida, 1983. 

 

Per una storia dell’ANIMI (1910-2000). I Presidenti, Manduria, Pietro Lacaita, 2000. 

 

Russo Tommaso, Istruzione e sociabilità in Basilicata 1900-1921, Milano, Franco Angeli, 2004. 

 

Semeria Giovanni, Lettere pellegrine, Venosa, Osanna,1991. 

 

Zanotti-Bianco Umberto, La Basilicata. Storia di una regione del Mezzogiorno dal 1861 ai primi decenni del 1900, Venosa, Osanna,1989. 

 

UNA INEDITA NARRAZIONE A SUD di Giuditta Casale – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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una inedita narrazione a sud

 

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La voce della classe intellettuale che l’ha segnato e disegnato è stata quasi dimenticata e sommersa dalla dicotomia tra aristocratici e cafoni, o cancellata dal ritratto di un Sud ricco di tradizioni ancestrali e lontano dalla modernità.  

 

Ed ecco che mi imbatto felicemente in 

 

due romanzi che colmano quel vuoto narrativo: Breve storia del mio silenzio (Marsilio) di Giuseppe Lupo e Sud (Bompiani) di Mario Fortunato, due scrittori indiscutibili 

e autorevoli della narrativa contemporanea italiana.


Lo sguardo intimo e privato, anche se dispiegato con un diverso respiro e ritmo narrativo, più affine al 
mémoire per Giuseppe Lupo e più legato al romanzo storico per Mario Fortunato, è l’elemento che nel libro della mia memoria ha intrecciato e intessuto tra loro i recenti romanzi di entrambi. 

Breve storia del mio silenzio è un’autobiografia intellettuale che passa attraverso l’omaggio ai genitori dello scrittore, come evidenzia la dedica: “ai miei genitori, i primi maestri, e a tutti gli altri che lo sono stati”. È il racconto della propria formazione infantile e giovanile, mediata dal padre e dalla madre, entrambi maestri elementari, aperti alla modernità che si manifesta attraverso la cultura, i libri, i giornali, le case editrici, la scuola, in un piccolo paese della Basilicata.

   

Giuseppe Lupo attraverso la figura dei genitori rappresenta una Lucania colta, 

aperta, interessata e curiosa tra gli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso,

 

che finora non ha trovato uno spazio letterario e una narrazione romanzesca per quanto riguarda la Lucania nello specifico dello scrittore, e la narrazione del Meridione a sud di Napoli nella dimensione più generale della letteratura italiana. Breve storia del mio silenzio riempie così un vuoto nella narrazione di sé che gli scrittori lucani hanno proposto della loro terra.  

 

“La Lucania” – afferma Giuseppe Lupo – “è stata raccontata spesso attraverso alcuni stereotipi, primi fra tutti la civiltà contadina e il suo contrario. Io non ho vissuto la Lucania dei contadini. La Lucania che io ho vissuto fino a 18 anni, cioè fino a quando non sono partito per Milano, è una terra ancora premoderna, ma che ha tutto il desiderio di varcare la soglia della modernità. In più aggiungo che la Lucania vissuta e filtrata attraverso la mia famiglia ha molto a che vedere con il movimento di uomini, di libri e di idee che negli anni Sessanta e Settanta è stato particolarmente attivo. Da qui discende questo mio romanzo.

 

È sbagliato pensare che in Lucania non sia esistito un dibattito intellettuale parallelo 

al tentativo di varcare la soglia del moderno compiuto dai nostri emigranti.

 

All’interno di questo panorama si colloca la storia della mia famiglia, in particolar modo di mio padre, che è stata una presenza lucida nel dibattito e forse anche originale, avendo scommesso gran parte delle sue energie sui temi della cultura come strumento di riscatto umano e sociale. Credo che questo libro possa aggiungere un tassello all’immagine di Lucania che tra gli anni Sessanta e Settanta tenta la strada del cambiamento. L’aver dedicato ai miei genitori il libro è anche un segno attraverso cui io cerco di dichiarare che esiste una chiave di lettura concreta a chi afferma solo la civiltà contadina o a chi la nega”.

Come il protagonista di Breve storia del mio silenzio abbandona la sua terra d’origine per Milano in cui proseguire gli studi e inseguire l’impellente vocazione letteraria, mutuata inconsapevolmente dal padre, così anche il romanzo 

di Mario Fortunato, Sud, comincia con una fuga: 

 

la scelta di Valentino, seguendo l’insistito consiglio materno, di allontanarsi dal paese in cui è nato e di andare a vivere lontano di lì. Il romanzo è una saga familiare, o meglio bifamiliare perché la famiglia del Notaio si intreccia con quella del Farmacista, ma entrambe conservano le proprie specificità senza confondersi, attraversando tutto il Novecento scandito dalla Storia.

 

Il Notaio, suo figlio l’Avvocato, il Farmacista e le donne, forti e determinate, 

che li accompagnano raccontano un Sud che dal mio punto di vista di lettrice 

è ancora inedito e non del tutto esplorato. 

 

Non c’è nulla di preciso, locale o caratterizzante a specificare la natura geografica del Meridione in cui il Notaio, il Farmacista e la loro ampia discendenza vivono. Che sia la Calabria lo si evince da piccole notazioni sempre marginali e mai essenziali, come a voler sottolineare 

 

una più ampia e non regionalistica dimensione geografica: non la Calabria, 

ma il Sud, inteso come tutto ciò che si estende sotto Napoli.

 

Dal mio punto di vista di lettrice ogni narrazione che abbia il Sud nel proprio immaginario non può che avere un pizzico di realismo magico, ma quello che rende affascinanti i personaggi di Mario Fortunato è il loro vivere drammaticamente e spavaldamente nella Storia. La Storia tormentata del Novecento, che senza nessun accademismo lo scrittore ha saputo incistare nel destino dei personaggi in modo intimo e introspettivo. Personaggi che si percepiscono come familiari e indimenticabili non solo perché vivono nella Storia, ma perché vivono la Storia. Anche in questo 

 

una narrazione inedita del “Sud” che da sempre si è percepito, e dunque raccontato, come vittima della Storia, in particolare dall’Unità d’Italia, 

più che agente nella Storia del paese.

 

Sia Giuseppe Lupo che Mario Fortunato hanno lasciato il Sud in cui sono nati, e vi ritornano entrambi con una storia sul Sud che non ricalca stereotipi e cliché. La distanza probabilmente ha giocato un ruolo importante nella trasparente lucidità dello sguardo, o forse più che la distanza poté la nostalgia.  

 

“Credo sia stato il distacco” – mi risponde Mario Fortunato – “la chiave che mi ha consentito l’accesso al racconto. Erano più o meno trent’anni che sapevo che prima o poi avrei scritto questo libro. Certo, non esattamente in questa forma, e tuttavia sapevo che un giorno o l’altro avrei scritto di quel mondo mediterraneo, pieno di fascino, di mistero, di contraddizioni e di straordinaria bellezza, di cui io stesso ero stato parte. Perché non ho affrontato prima quel nodo? Non lo so di preciso,

 

I romanzi – alcuni romanzi perlomeno – hanno bisogno di tantissimo tempo 

per mettersi a fuoco.

 

In un certo senso sapevo, anche se in maniera inconsapevole, che avevo bisogno di ripulire il mio sguardo proprio da quei cliché e luoghi comuni sul Sud a cui tu ti riferisci. Per me la scommessa era di scrivere di qualcosa che mi appartiene profondamente con la felice ironia di chi si sente veramente libero, di chi insomma è un po’ straniero.”

 

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ho sempre pensato

se non dal punto di vista saggistico, critico e di storia della letteratura, certamente da quello narrativo e romanzesco. 

VILLA CUPOLA DI ANTONIONI E MONICA VITTI di Aurora Adorno – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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più ampia, molto più consueta, nient’affatto irregolare, ma che svanisce in lontananza.

 

Creste di colline come brughiera, irrilevanti, che si vanno perdendo, forse, verso un gruppetto di cime… Incantevole spazio intorno e distanza da viaggiare, nulla di finito, nulla di definitivo. È come la libertà stessa.” 

(David Herbert Lawrence) 

 

“Non sta mai fermo. Mai. Mai, mai. 

Io non riesco a guardare a lungo il mare. Sennò tutto quello che succede a terra non mi interessa più”, sussurrava una giovanissima Monica Vitti spiando il mare da una finestra in Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni, film con il quale entrambi vennero catapultati nella storia del cinema italiano.

Negli anni ‘60 l’attrice incontrava l’architetto Dante Bini durante una partita di tennis 

a Cortina e rimaneva ammaliata dai suoi racconti sulla Binishell, 

una struttura a guscio sottile in cemento armato dalla forma di una cupola modellata dalla pressione dell’aria; Monica ne parlò subito al suo compagno che, stregato dal sogno di un paradiso per due, fece costruire nella natura incontaminata della Gallura il tempio di un amore nato tra le piante di sughero e tra i lecci, al profumo dei mirti e dei ginepri.  

 

La passeggiata attraverso la macchia mediterranea conduce al centro di una piscina naturale, la parte anteriore della costruzione, che si estende a sessanta metri sopra la spiaggia, guarda sul mare fino addirittura alla Corsica. 

Il progetto di quella strana villa divenne una vera e propria opera d’arte

in cui la cupola pareva sorgere dalla terra mimetizzandosi con le sfumature rosse della costa, nel territorio di Trinità d’Agultu. 

 

L’ingegno dell’uomo e quello della natura si erano incontrati, entrambi testimoni di un sentimento promesso ma non mantenuto: in essa il loro amore non si specchierà mai rimanendo nell’aria come il ricordo di quell’estate del 1964. 

Un grande amore è come l’arte: può vivere in eterno, anche se finisce. Così ancora oggi

la cupola è rimasta immobile, ferma, intenta ad osservare il mare 

come nella scena del film, 

testimonianza del sodalizio artistico e sentimentale di una delle attrici più famose di tutti i tempi con quel pittore che seppe reinventare il cinema italiano.  

 

Michelangelo Antonioni poliedrico artista mutò tante volte quante sono state le facce della sua creatività: sceneggiatore, regista, pittore e poeta esordì nel 1950 con Cronaca di un amore, il film che vide la fine del neorealismo e consacrò una nuova stagione del cinema. Tantissimi i premi vinti dal grande regista che proprio con Il deserto rosso ottenne il Leone d’oro al miglior film. 

E poi lei, 

Monica Vitti, immensa quanto semplice, divina quanto imperfetta, incarnazione 

di un talento totale che imperversava sul set come l’ira di un ciclone, 

carica  di quella “comica disperazione”

 

che l’ha resa celebre; la grande stella che sempre brilla sovrana nel firmamento del cinema italiano: il naso aquilino che sempre rifiutò di modificare, quella voce rauca, profonda, di cui si vergognava ma della quale il pubblico non riesce ancora oggi a scordarsi, il coraggio di cimentarsi in un mondo che ai tempi non si addiceva ad una ragazza di buona famiglia; quegli occhi vivi, cristallini nei quali le emozioni si riflettono come un diamante precipitato in un fondale sabbioso. 

“Con il mare ho un rapporto travolgente, quando lo vedo muoversi, impazzire, calmarsi, cambiare colore, rotta. È il mio amante”, diceva la diva d’altri tempi, vera, trasparente, immortale.

Rem Koolhaas, curatore della 14° Biennale di Architettura di Venezia, ha definito 

la villa come “una delle architetture migliori degli ultimi cento anni”,

oltre a sottolineare il valore affettivo della cupola che stregata dai magici tramonti, si specchia nel mare turchese della Costa Paradiso, celebrando il sodalizio artistico e sentimentale di Monica e Michelangelo.  

 

Oggi la villa futuristica di proprietà privata si trova in stato di abbandono ed è oggetto di una petizione su Change.org promossa da De Rebus Sardois, il portale web che si occupa di cultura, design e architettura ed opera sul territorio sardo. 

Nel 2015 la Soprintendenza della provincia di Sassari e Nuoro ha dichiarato la Cupola luogo di interesse culturale e si è parlato di un possibile accordo tra privato e istituzioni per recuperare l’opera e valorizzarla.

Le idee sono molteplici: da quella di realizzare uno spazio espositivo 

al polo museale. 

 

Monica Scanu, presidente regionale del Fai, si è detta interessata a sensibilizzare il proprietario ad una collaborazione. La Binishell non è solo una gettata di cemento gonfiata dalla pressione dell’aria, ma una vera e propria creazione architettonica, un richiamo per professionisti, artisti internazionali e per gli amanti del cinema che davanti ad essa giungono a dare il proprio omaggio.  

 

Quando l’amore e l’arte si cristallizzano nell’aura di un’opera come questa, in cui l’ingegno umano finisce per intridersi inevitabilmente con la bellezza del paesaggio selvaggio, con le dune di sabbia e il verde delle campagne, non stiamo più parlando di un oggetto qualsiasi che con il deteriorarsi del tempo può essere abbattuto e sostituito;

la Cupola di Antonioni e della Vitti vive di vita propria, è testimone di un grande amore e di una parte della storia del cinema che ha reso celebre 

il nostro Paese in tutto il mondo.

 

Davanti alla villa con il cielo della bella Sardegna come sfondo e il mare negli occhi e nel cuore, una giovane Monica Vitti recita le frasi del suo copione, confidando il suo struggimento al vento che le scompiglia i capelli. “Il segreto della mia comicità? La ribellione di fronte all’angoscia, alla tristezza e alla malinconia della vita”, confessa l’attrice in una vecchia intervista; e ancora aggiunge:  

 

“Faccio l’attrice per non morire, e quando a quattordici anni e mezzo avevo quasi deciso di smettere di vivere, ho capito che potevo farcela a continuare solo fingendo di essere un’altra, facendo ridere il più possibile”. 

Alle sue spalle Michelangelo la osserva, curioso cerca di dirigere quel talento indomabile e ribelle, di cui inevitabilmente finisce per innamorarsi. 

“Cominciando a capire il mondo attraverso l’immagine, capivo l’immagine, la sua forza, il suo mistero”, dice a proposito del grande schermo. 

Discutono, con il sapore salmastro del mare che si impasta alle parole, mentre le idee si incontrano e si scontrano e tutto finisce con un bacio lungo, avvolgente, come quelli dei film che li vedono protagonisti; gli occhi della musa si imprimono in quelli del suo artista.  

 

Non possiamo calare il sipario sopra una scena così importante della nostra storia,

dovremmo invece dare valore a quegli angoli del nostro Paese in cui l’uomo 

trova nella natura conciliazione alla propria esistenza 

 

e una fonte di ispirazione attraverso la quale esprimere la propria creatività. 

L’arte trascende la vita, il tempo e anche la morte e ci ricorda che essa è eterna, proprio come l’amore. 

 

 

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VILLA CUPOLA DI ANTONIONI E MONICA VITTI

 

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 Stelle al Sud

Stelle al Sud

 

Con la serie “Stelle al Sud” Myrrha va alla ricerca di alcuni tra i tanti personaggi celebri la cui arte si è in qualche modo intrecciata con la natura incontaminata di un Sud selvaggio e incantatore, divenuto per essi fonte di ispirazione, talvolta dimora d’elezione.

 

 

LA MECCATRONICA PUGLIESE di Stefania Conti – Numero 18 – Settembre-Ottobre 2020

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LA MECCATRONICA PUGLIESE 

 

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nel firmamento dell’industria meridionale, una stella lucente che per anni è stata in testa a tutte le classifiche delle esportazioni, che ha resistito alla crisi e sta resistendo al Covid.   

 

 

È il settore della meccatronica pugliese. Quello della meccatronica è un comparto relativamente recente (a livello nazionale una trentina di anni) che unisce la meccanica all’elettronica e opera quasi esclusivamente per l’auto o comunque per i veicoli a motore. Automotive in inglese e per gli addetti ai lavori. Ovvero il ramo dell’industria manifatturiera che li progetta, li costruisce, fa marketing e li vende. Grossa parte è costituita dalla componentistica, cioè quell’insieme di attività, di lavorazioni e dispositivi elettronici che messi insieme (e venduti a terzi) servono per realizzare una apparecchiatura più complessa, in questo caso i veicoli. 

Ebbene la Puglia ha creato un insieme di aziende che non hanno bisogno 

di invidiare il triangolo industriale del Nord Italia quanto 

ad export, innovazione e occupazione.


Non lo diciamo noi, ma il report annuale di Intesa San Paolo, in cui vengono analizzati i dati sulle esportazioni dei distretti industriali italiani e che, nel 2019, ha riconosciuto alla meccatronica pugliese il maggior incremento di 
export in valore assoluto.  

 

Il segreto del successo sta tutto nella perfetta sinergia tra l’Università di Bari, una delle prime ad avere la facoltà di informatica che fornisce tecnici altamente specializzati (l’80% trova lavoro subito); il progetto Puglia Sviluppo – che utilizza i fondi europei destinati alle imprese – e la regione Puglia; il grande spazio e le grandi risorse destinate alla ricerca. E poi l’apporto delle grandi multinazionali dell’auto, da anni ormai presenti nella filiera sul territorio, filiera che ebbe il suo battesimo con le Partecipazioni Statali ed ha resistito molto bene alla loro fine.  

 

Esempi? A Valenzano (BA) e a Foggia c’è il centro ricerche FCA che studia i motori di prossima generazione. A Lecce, la Elasis lavora nel settore delle macchine per il movimento terra. A Modugno, la Bosch produce pompe ad alta pressione per i motori diesel e la GETRAG fabbrica trasmissioni manuali di auto. Sempre a Modugno, la Magneti Marelli Powertrain produce componenti elettronici per motori ibridi. A Monopoli, la MERMEC progetta e sviluppa veicoli ferroviari e sistemi avanzatissimi per il segnalamento ferroviario. Potremmo continuare, perché

 

uno studio dell’Unioncamere barese ci informa che nel 2019 

c’erano oltre 2.200 imprese con oltre 18 mila dipendenti.


Ma adesso c’è il Covid e l’economia italiana ha già subito una bella mazzata e trattiene il fiato per vedere cosa succederà ora con la seconda ondata. In Puglia però si sono rimboccati le maniche e le imprese hanno mostrato una notevole capacità di diversificazione e di flessibilità nella produzione. 20 aziende del distretto della meccatronica si sono alleate e si sono accordate con una impresa del Friuli Venezia Giulia per produrre mascherine chirurgiche e FFP2. L’azienda friulana – specializzata nell’elettrotermia – produce macchinari per sterilizzare a secco le mascherine (quindi senza agenti chimici) prima che vengano assemblate. I 20 pugliesi hanno fatto l’impianto vero e proprio, capace di produrne 144 mila al giorno. La MBL Solutions di Corato (BA) lo ha progettato in maniera del tutto robottizzata. Gli altri 19 produttori di macchine ed impianti automatizzati, di impianti elettrici, officine meccaniche di precisione, aziende di carpenteria meccanica, distributori e rivenditori di componentistica industriale di automazione, si sono subito attivati per reperire componenti nel minor tempo possibile e realizzare il macchinario chiamato “Cento.1”.  

 

Ancora, la Masmec di Bari – 30 anni di vita, 35 milioni di fatturato -, proprio a causa della pandemia, ha affiancato alla sua attività principale, cioè l’assemblaggio e il test di componenti per i veicoli a motore, quella del biomedicale, grazie alla piattaforma di liquid handling, cioè la manipolazione automatizzata dei liquidi. Si chiama sistema Omnia ed ha già 10 anni.

 

Con l’insorgere della pandemia, la Masmec si è subito messa in moto 

per l’assemblaggio delle mascherine, seguendo le indicazioni 

del Politecnico di Bari sulle caratteristiche 

che queste devono avere.


Non solo. Ha creato – attraverso la tecnologia Omnia e con l’ausilio di un nucleo di esperti – un sistema per realizzare una piattaforma che acceleri l’estrazione della molecola dai tamponi Covid, passando più rapidamente alla successiva fase di diagnosi di tale patologia. In questo modo, possono essere analizzati 24 tamponi impiegando lo stesso tempo in cui un operatore riuscirebbe ad analizzarne uno solo. Dando così una notevole mano ai laboratori diagnostici, oggi oberati fino al collo. Se la Masmec di Bari ha potuto fare tutto questo, è perché investe tra il 15 e il 20 per cento del suo fatturato nella ricerca.

E questa è un’altra caratteristica della meccatronica in Puglia. Dove la grande industria lavora insieme alle piccole e medie imprese del territorio 

e ha il suo punto di forza nella integrazione tra pubblico e privato 

per fare ricerca avanzata.


Nella programmazione 2007-2013 la Regione ha destinato 478,6 milioni di euro per ricerca e innovazione, ha chiuso 34 contratti di programma (la metà attivata con imprese multinazionali straniere) per progetti da realizzare sul territorio ed ha dato vita ad un sistema innovativo rientrante in quell’insieme di metodi e tecnologie – comunemente noto come 
Infomation Technology (IT) – che in ambito pubblico, privato o aziendale, consente di archiviare, elaborare e trasmettere dati e informazioni, utilizzando i più attuali sistemi informatici e di telecomunicazioni. Sempre la Regione Puglia ha avviato un programma di pre-appalti pubblici per mettere in atto una serie di attività di ricerca e sviluppo per prototipi di prodotti non ancora idonei all’utilizzo commerciale ma che potrebbero presto affacciarsi sul mercato una volta perfezionati e industrializzati.

 

Insomma, una vitalità e una duttilità, una voglia di fare e di riuscire che spesso 

nel racconto del Mezzogiorno non viene neanche citata.

 

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FIORELLO LA GUARDIA: INCORRUTTIBILE COME IL SOLE di Gaia Bay Rossi – Numero 18 – Settembre-Ottobre 2018

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fiorello LA.guardia: incorruttibile come il sole

 

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ci troviamo già in pieno fascismo e la Germania si sta avviando al regime nazista con l’ascesa di Hitler a Cancelliere tedesco.

 

 

Negli Stati Uniti, il Presidente Roosevelt inaugura la politica del New Deal per tentare di contrastare la Grande Depressione dovuta al crollo di Wall Street del 1929. Viene inaugurato l’Empire State Building che diventa il grattacielo più alto del mondo, viene prodotta la prima pellicola in Technicolor, appaiono sulle rispettive scene Frank Sinatra e “Via col vento”, divenendo dei cult, mentre Superman e Batman fanno il loro ingresso nel mondo dei fumetti.

 

Proprio in quegli anni un terzo supereroe appare sulla scena, 

è Fiorello La Guardia,

che nel 1933 diventa sindaco di New York e, in poco tempo, il più amato sindaco della storia degli Stati Uniti, una vera leggenda. Truman alla sua morte lo definirà “un uomo incorruttibile come il sole” e De Gasperi “il più grande italiano d’America, colui che ci ha salvato dalla fame nei giorni più drammatici della nostra storia”1.  

Figlio di Achille La Guardia, maestro di corno e compositore, proveniente 

da Cerignola (Foggia)2 e Irene Coen Luzzatto, discendente 

di una autorevole famiglia ebraica italiana di Trieste


(allora Impero austro-ungarico), è il secondo di tre figli. Fiorello ha un’infanzia e un’adolescenza vissute seguendo il lavoro del padre, direttore della banda dell’11th U.S. Infantry Regiment, tra North Dakota, Stato di New York e Arizona. Fin da giovane sente parlare di malcostume pubblico, scommesse e gangster, leggendo l’edizione domenicale del
“New York World”, che rivelava costantemente episodi di corruzione del sistema Tammany Hall (Tammany Hall era la macchina politica del Partito Democratico a New York, accusata anche di commistione con malavita e mafia)3.

 

Quella dei La Guardia è una famiglia povera ma colta che permette a Fiorello 

di imparare, grazie al padre, a suonare il banjo e il corno, mentre 

grazie alla cultura della madre apprende alcune lingue


(parlerà negli anni, oltre all’inglese e all’italiano, anche il tedesco, il francese, l’ebraico, il croato, l’ungherese e l’yiddish), ricevendo l’educazione poliglotta che caratterizzava la tradizione mitteleuropea
4. Nonostante ciò, Fiorello agli occhi della gente rimaneva sempre un italiano meridionale, figlio di immigrati, mezzo ebreo e americano, molto lontano dai WASP dell’upper class statunitense. Questo significava, per lui, essere deriso e bullizzato, ma soprattutto sentire la difficoltà di essere una parte debole. Non lo aiuta neanche il fisico, essendo basso e tarchiato (1 metro e 58 per 56 chili). Anche per questo motivo, così come per il suo nome, Fiorello, più avanti sarà soprannominato dagli americani “The Little Flower”. Ma è proprio dalle sofferenze di questi anni che nascono la sua forza e la determinazione di volersi occupare delle fasce più deboli della popolazione e la sua rabbia contro la corruzione e l’illegalità.   

 

La Guardia, dall’età di 16 anni, quando diventa reporter per il “St. Louis Post-Dispatch”, non smette più di lavorare e crescere umanamente e professionalmente: 

 

alla morte del padre, diventa addetto consolare a Belgrado e poi a Fiume. 

Tornato a NYC nel 1906, lavora come interprete nel centro accoglienza 

immigrazione di Ellis Island. Di notte studia legge ai corsi serali 

della New York University, dove si laurea nel 1910.

 

L’ultimo anno capisce come tutta la situazione degli immigrati sia in realtà un ennesimo giro d’affari per oliare determinati ingranaggi che girano intorno a polizia, avvocati e giudici, tutti al servizio dei politici corrotti della Tammany Hall5

 

Fiorello La Guardia è già deputato al Congresso per il Partito Repubblicano, quando gli Stati Uniti entrano nella Grande Guerra nel 1917. Lui, per limiti di altezza, decide di presentarsi volontario come aviatore. In brevissimo tempo diventa comandante dei piloti statunitensi a Foggia, terra paterna, dove si reca per l’addestramento dei suoi uomini sugli aerei Caproni.

 

Con Pietro Negrotto attraversa il cielo straniero, colpendo 

le linee nemiche austriache. Questa impresa finisce sulla stampa 

e il nostro diventa famoso in tutta Italia.

 

Il Re d’Italia lo invita a un ricevimento dove incontra anche Gabriele D’Annunzio6Vittorio Emanuele III si sente chiamare Manny (diminutivo di Emanuel) da Fiorello e ascolta anche affermare che “la monarchia aveva i giorni contati”7.    

 

Alla fine della guerra, rientra a New York e viene rieletto al Congresso per altri cinque mandati. Tra le altre cose, si oppone in maniera decisa al Volstead Act del 1919 con cui si era aperto il Proibizionismo. Si vietavano la fabbricazione, la vendita e l’importazione di prodotti alcolici, con il risultato di far prosperare e crescere i capi clan mafiosi che vivevano di contrabbando, come Al Capone e molti altri gangster. 

 

Nel 1926, per dimostrare l’inutilità della legge, Fiorello invita i giornalisti 

all’interno degli uffici della Camera perché fossero testimoni di come 

miscelava e poi beveva un drink illegale, combinando due liquidi legali 

e aggiungendo estratto di malto e birra analcolica.

 

Il risultato di questo intruglio aveva una gradazione alcolica illegale. Nessuno pensa di arrestarlo e lui dichiara che “la gente si sta avvelenando, i distillatori clandestini si arricchiscono e i funzionari del governo si fanno corrompere”.

 

Nel 1933 diventa sindaco di New York. In quel ruolo La Guardia 

rimarrà sino al 1945, divenendo una vera icona della città.

 

Si era presentato alle elezioni a capo di una lista di coalizione in aperta opposizione a Tammany Hall per “una limpida, onesta, efficiente amministrazione municipale”. Con la sua vittoria, finiscono la corruzione, i favoritismi, il clientelismo e finisce tutto ciò che lui aveva sempre combattuto: ai suoi sostenitori egli dice di non aspettarsi un lavoro, perché “avrebbe assunto soltanto il migliore in assoluto per ogni incarico, anche se quella persona non avesse votato per lui”8.

 

Fiorello La Guardia governa con estremo vigore, licenziando dirigenti e impiegati inutili e incapaci di ogni schieramento,

 

riuscendo inoltre a far arrestare Lucky Luciano che, in una autobiografia 

scrive: “Io semplicemente non riesco a capirlo. Gli abbiamo offerto 

di diventare ricco, ma non ha neanche voluto ascoltarci”. 

 

La Guardia mette poi al bando le slot machine, il principale business della malavita, ma da personaggio istrionico e colorito qual era, e avendo capito perfettamente l’importanza dell’uso dei media, si fa fotografare in piazza mentre prende a martellate decine di macchinette.   

 

Fiorello, in quegli anni di Grande Depressione, promuove la ripresa economica, collaborando con il Presidente Roosevelt. Nel frattempo si occupa di politica sociale e di servizi ai cittadini: crea strade, parchi, ponti, case popolari, trasformando New York in una metropoli moderna ed efficiente. 

 

Una volta eliminata la corruzione e la malavita, passa al sistema sanitario, 

alla pubblica istruzione e alla polizia, riorganizzando 

completamente le rispettive strutture.

 

Organizza una fiera mondiale, dedicata al futuro: “Building the World of Tomorrow”, che viene visitata da 44 milioni di persone in due anni9; crea un Centro per la musica, il balletto e il teatro che sia alla pari delle altre capitali europee, che sia accessibile anche alla working class10. Pensa a scuole speciali adatte ai ragazzi di talento e riesce con molti sforzi a far sì che New York abbia due aeroporti internazionali (il secondo di questi, pochi mesi prima della sua morte gli sarà intitolato, non solo per il suo eccellente ruolo di sindaco ma anche per il suo valore come aviatore).

 

Riesce infine anche a contenere i dissidi razziali ed etnici in tutta la città.

 

“The Little Flower” i suoi concittadini se lo ritrovano un po’ ovunque: mentre dirige un’orchestra al Metropolitan, mentre gioca a baseball o a bowling per beneficenza, mentre guida aerei, treni o metropolitane; lo sentono alla radio che legge Dick Tracy ai bambini durante lo sciopero dei giornali. Ama mangiare pizza o spaghetti in mezzo agli italiani, ma la sua passione più grande sono i Vigili del fuoco: fa installare sulla sua macchina la radio a onde corte sintonizzata sulla banda dei pompieri per poterli raggiungere quando avesse voluto. E spesso lo vuole, accorrendo per ogni tipo di emergenza, dagli incendi al crollo di edifici ai guasti degli impianti idrici. Sembra che, in quei frangenti, una battuta molto diffusa fosse: “Qualcuno vuole tirare il sindaco fuori da lì?” 

 

Questi sono gli anni che precedono e che attraversano la Seconda Guerra Mondiale. 

Il suo rapporto con il nazi-fascismo è molto critico, e quando i nazisti parlano 

di lui come “il sindaco ebreo di New York”, lui risponde candidamente: 

“Non avevo mai creduto di avere abbastanza sangue ebraico 

nelle vene da giustificare il fatto di potermene vantare”. 

 

La Guardia detesta i nazisti tedeschi ed è molto preoccupato per il proliferare dei simpatizzanti americani. Così non può non apprezzare la copertina di Captain America che da un pugno dritto in faccia a Hitler, pubblicato prima che gli Stati Uniti entrino nella Seconda Guerra Mondiale e ritenuto inaccettabile dai simpatizzanti nazisti americani11. Alcuni di questi sono molto arrabbiati con gli autori dell’immagine e inviano loro lettere minatorie. I due ricevono ben presto una telefonata del sindaco: “Voi ragazzi laggiù state facendo un buon lavoro,” dice la sua caratteristica voce. “La città di New York farà in modo che non vi venga fatto alcun male.”   

 

Durante la Seconda Guerra mondiale, a partire dal 18 gennaio 1942, mentre i newyorkesi possono sintonizzare la radio sulla WNYC e ascoltare “Talks to the people”, gli italiani, sulle onde corte, potevano ascoltare settimanalmente “Sindaco La Guardia chiama Roma”. Il programma inizia sempre con: “È il vostro amico La Guardia che vi parla”, e racconta loro la storia di Roma sin dall’Impero Romano, esortando gli ascoltatori ad opporsi a Hitler e a battersi per la loro dignità.   Alla fine della guerra l’Italia è allo stremo delle forze, mancano i viveri a partire dal pane.

 

Alcide De Gasperi si rivolge a Fiorello La Guardia, in quel momento 

direttore generale dell’UNRRA, per chiedere aiuti.


E questi arrivano velocemente perché, diceva Fiorello: “I popoli hanno fame, al diavolo i protocolli”
12: 60mila tonnellate di cereali e 450 milioni di dollari in altre derrate alimentari che sbarcheranno da quattro navi ogni mese fino al 194713.   

 

Fiorello La Guardia muore di tumore al pancreas alle 8.06 di sabato 20 settembre 1947. La campana del dipartimento antincendio di New York batte i tradizionali quattro rintocchi, cui straordinariamente seguono le sirene dei Vigili del fuoco e poi quelle delle ambulanze, dei taxi e di tantissime auto di New York, creando un concerto assordante e lamentoso:

 

gli abitanti della città intera partecipano in massa al saluto all’uomo che, 

come ha scritto la Yale University motivando la sua laurea honoris causa, 

“ha strappato la democrazia ai politici e l’ha ridata al popolo”14.

 

 

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[1] Cfr. Luca Martera, Si può essere italiani, politici e onesti? Sì, se il tuo nome è Fiorello La Guardia, lucamarterablogspot.com, 31 gennaio 2013 

[2] Alcuni sostengono che fosse proprio di Foggia, cfr. Maurizio De Tullio, Il padre di Fiorello La Guardia era foggiano. Ed ecco perché, letteremeridiane.org, 1 novembre 2015. 

[3] Cfr. Ronald H. Bayor, Fiorello La Guardia Ethnicity, Reform, and Urban Developement, John Wiley & Son, 2017, p.6 

[4] Ronald H. Bayor, cit., p.

[5] Cfr. H. Paul Jeffers, Fiorello La Guardia. Un imperatore a New York, cit. pp.36 e ss. 

[6] Cfr. Cfr. Gigi Speroni, Fiorello La Guardia, Il più grande italiano d’America, Rusconi 1993, p.103; cfr. anche Piotr Podemski, Un D’Annunzio italoamericano in guerra. Mito bellico e success story nell’autobiografia di Fiorello La Guardia, in “In guerra con le parole. Il primo conflitto mondiale dalle testimonianze scritte alla memoria multimediale”, Fondazione Museo Storico del Trentino, 2018, p.581 

[7] Cfr. H. Paul Jeffers, Fiorello La Guardia. Un imperatore a New York, cit. p.97; cfr. anche Gigi Speroni, Fiorello La Guardia, cit. p. 104

[8] H. Paul Jeffers, Fiorello La Guardia. Un imperatore a New York, cit. p.174 

[9] AA.VV., Viaggi fantasmagorici: l’odeporica delle esposizioni universali (1851-1940), Franco Angeli 2019, p. 140 

[10] Jennifer Homans, Apollo’s Angels: A History of Ballet, Random House Publishing, 2010, cap.11

[11] New York City Mayor Fiorello La Guardia Loved Comics So Much, in gizmodo.com 

[12] Cfr. Servizio TG1 Impariamo l’italiano youtu.be/YWUUhNmXUxrU 

[13] Cfr. Giuseppe Audisio, Alberto Chiara, I fondatori dell’Europa unita secondo il progetto di Jean Monnet: Robert Schuman, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Effatà Editrice 1999, p.71 

[14] Cfr. Gigi Speroni, Fiorello La Guardia, cit., Rusconi 1993 p.236-237

 

 

1656. LA PESTE CHE «DESOLÒ» NAPOLI di Tommaso Russo – Numero 18 – Settembre-Ottobre 2020

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1656. LA PESTE che «DESOLÒ» NAPOLI

 

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Breve nota introduttiva   

 

Il libro di Salvatore De Renzi – “Napoli nell’anno 1656” – è un importante crocevia in cui confluiscono vicende legate a un momento particolare della storia del Mezzogiorno vicereale: la peste del 1656. Il volume contiene le risposte della comunità napoletana aggredita da una destrutturante pandemia nei suoi legami più profondi e nelle dinamiche demografiche.   

 

Nel ricostruirne l’andamento e nel documentare le decisioni prese dalle autorità politiche e religiose, l’autore sembra invitare i lettori di tutti i tempi a tentare un confronto. Per quanto possa sembrare assurdo e inverosimile questo suggerimento del grande patologo napoletano, esso ha dalla sua il fascino della lunga durata con l’obbligo della cautela e della prudenza per non creare un artificioso clima di similitudini, di differenze e tener conto delle novità.

 

Napoli e il Mezzogiorno vicereale

 

La pace di Cateau-Cambresis (1559) tra Francia e Spagna consacrò il dominio di questa in Italia. Los Rejnos: ducato di Milano, Genova, Sicilia, Sardegna, Stato dei Presìdi (Talamone, Orbetello…) e il Mezzogiorno entrarono a far parte del multietnico e sovranazionale impero spagnolo come sentinelle nel Mediterraneo.

 

Al Sud venne affidato anche il compito di fare da polmone finanziario 

nei conflitti in cui era impegnata la Spagna.

 

Ne è prova la decisione, presa nell’ultimo decennio della guerra dei Trent’anni, di raccogliere 8.075.965 ducati per “la difesa et conservatione dell’Istato di Milano”.   

 

In politica interna vennero aggrumandosi nodi ancora oggi oggetto di querelles storiografiche. Si tratta del significato da attribuire alla nascita della Nazione e dello Stato napoletani, al rapporto tra questo e il baronaggio e tra entrambi con la montante borghesia, al peso di Napoli rispetto alle province, al ruolo degli intellettuali, del ceto dei togati, dei forensi e delle gerarchie ecclesiastiche. A tal proposito 

nessuno studioso crede che i decreti applicativi del Concilio di Trento trovassero 

nel Mezzogiorno l’identica accettazione avuta nel Centro-Nord.


Altre cose accaddero. Si pensi solo alle chiese ricettizie. Certo ci furono le folle fanatizzate dal clero contro gli eretici ma si ebbero anche significative manifestazioni di segno diverso. E’ il caso di ricordare il lascito visionario, presso i ceti subalterni, della predicazione di Gioacchino da Fiore o la campanelliana «Città del Sole», cioè “il sogno di una società ordinata su basi comunistico-ascetiche sotto la guida tecnica, religiosa e politica di un sacerdozio iniziatico di sapienti”, come ebbe a scrivere Giorgio Spini.   

 

Profeti solitari, imbonitori, ciurmatori, picari, girarono le contrade meridionali che, in molti casi, si aprirono alla predicazione di movimenti ereticali organizzati come l’Eresia dei Fraticelli che a partire dal XIV sec. si diffuse in Abruzzo, Basilicata e Puglia.   

 

È il caso di ricordare l’insediamento dei calabro-valdesi in Val di Crati e l’esito terribile a cui andarono incontro. Nel 1561 per ordine del Viceré e dell’Arcivescovo di Napoli furono massacrati, squartati, impalati dai soldati del principe Spinelli.   

 

Sorte diversa toccò invece al cenacolo di Juan de Valdés giunto a Napoli nel 1534 e ivi morto nel 1541.Riunì intorno a sé la parte più colta e sensibile della nobiltà napoletana: Galeazzo Caracciolo, emigrato poi nella calvinista Ginevra, Marco Antonio Flaminio, le principesse Isabella Bertagna, Caterina Cybo, Giulia Gonzaga, vera animatrice del salotto, solo per fare dei nomi.

 

Nobiltà, borghesia, plebe urbana insieme respinsero per ben due volte il tentativo 

di introdurre in Napoli la pericolosa Inquisizione sul modello spagnolo.

 

Per le questioni religiose era sufficiente il Tribunale diocesano al cui interno i Domenicani si mostrarono i più spietati, come avvenne per due episodi. Nel 1577 posero fine agli scandali del Monastero di Sant’Arcangelo a Bajano, “abolito per le immoralità che vi si commettevano”. Ai primi del ‘600 soppressero la Congregazione “della carità carnale”, un misto di sensualismo e misticismo, fondata da suor Giulia De Marco e da padre Aniello Arciero.   

 

Tra l’Accademia degli Oziosi e quella di Medinaceli furono gli Investiganti, con Tommaso Cornelio, a battersi per ridimensionare il peso della Scolastica, per sviluppare l’eredità del naturalismo rinascimentale, per difendere la libertas philosophandi.

 

Accanto a questa modernità meridionale occorre aggiungere che il ‘600 europeo 

e italiano fu il secolo delle crisi e delle paure che si manifestarono su piani intrecciati.

Basti ricordare il seguito di violenze di ogni specie che accompagnò il passaggio degli eserciti mercenari impegnati nella guerra dei Trent’anni. Il costo di quell’ennesimo conflitto innescò una profonda crisi sociale, finanziaria, demografica, che si manifestò anche con sollevazioni e rivolte. Se ne ricordano alcune: quella dei contadini e dei mietitori della Catalogna (1640); Masaniello (1647); quella del cosacco Sten’ka Razin contro i boiardi russi (1670).   

 

Diversi furono i piani di proiezione delle paure e differenti le cause. Le guerre viaggiavano allora con le carestie, le pandemie, i saccheggi. La paura in questi casi afferrava i singoli, i villaggi, i paesi, le province in un crescendo di panico collettivo che destabilizzava le comunità colpite. La peste del 1656 fu un evento destrutturante al pari dei “tremuoti” che scuotevano le province meridionali.

   

«Napole scontraffatta dapò la peste»

 

Il libro di De Renzi (1800-1872), costruito con documenti d’epoca, è diviso in tre parti: eziologia del morbo; raccolta delle ordinanze emanate dal Regio Consiglio Collaterale (l’organo politico che governava il Viceregno); quadri di cronache locali. Numerosi sono i temi affrontati: la paura come sentimento diffuso nelle società di antico regime; l’immaginario collettivo, l’ignoranza scientifica sui mezzi per intervenire. De Renzi osserva tutto ciò con l’occhio dello storico della medicina, del patologo laico e deista, dell’indagatore attento al costume sociale e al peso che in esso avevano religione, magia, credenze popolari, superstizione, bisogni elementari di sopravvivenza.

 

«La peste barocca» giunse a Napoli dalla Sardegna nei primi mesi del 1656.


Nell’isola, importante anello di congiunzione militare e commerciale tra Spagna e Napoli, era arrivata con navi provenienti da Valenza dove era giunta da Algeri fin dal 1647 per diffondersi in altre regioni iberiche. Soldati e merci sbarcati a Napoli tra dicembre ’55 e gennaio ’56 furono il veicolo di contagio.

 

Nonostante i sintomi tipici della peste bubbonica, le autorità politiche 

e religiose decisero di non creare allarmismi.

 

Ben presto però si ebbe “gran numero di morte subitanee” nei quartieri popolari e ad alta densità abitativa. Due medici compresero la natura del morbo.  

 

Gerolamo Gatta intuì che si trattava di peste bubbonica,

 

come pure che alle autorità non interessava molto conoscere la verità per non turbare le attività economiche e l’ordine pubblico. Così tacque e se ne tornò al suo paese.

 

Giuseppe Bozzuto “un buon medico di quelli del popolo del Mercato”, 

a chi gli chiedeva della diffusione del morbo ricostruiva la catena del contagio:

“…si muore improvvisamente ma dopo la morte nell’Ospedale dell’Annunziata di una persona venuta di Sardegna” e via esemplificando. A quanti sostenevano la tesi dell’ira di Dio, Bozzuto rispondeva con calma: “…vi vedete la successione, la vicinanza, il contatto?” Il suo comportamento non piacque per cui fu tradotto nelle carceri della Vicaria. A fronte dell’evidenza, però, venne liberato dopo qualche mese. Riprese il suo apostolato tra le plebi urbane e morì di peste. Oltre 40 furono i medici che persero la vita.   

L’invito a ragionare non ebbe proseliti. 

 

La tacita intesa tra Viceré e Chiesa fece del castigo divino 

un potente atto di accusa politica al popolo.

 

La colpa divenne “aver osato commettere l’imperdonabile delitto di rivoltarsi contro il Re cattolico”, nel luglio del 1647, quando Masaniello guidò l’assalto al gabbiotto delle tasse al grido di “leva la gabella”, diffondendo la rivolta nel Mezzogiorno. Dunque, pur a distanza di anni, Dio non aveva dimenticato e la sua punizione arrivò inesorabile. Era questo il messaggio che doveva depositarsi nell’immaginario dei ceti subalterni: alle rivolte sociali non poteva far seguito che una pena divina.

 

L’insistenza sul divino comportò l’intensificarsi di penitenze, messe, processioni 

che “allargano vieppiù il contagio sull’affollata moltitudine”.

 

Si scatenò, altresì, fra i vari ordini religiosi (per es. Teatini contro Gesuiti) una competizione su chi avesse maggior potere di intercessione presso Dio per placare la sua ira, far scomparire il morbo, per presentarsi agli occhi dei fedeli come interlocutore forte e affidabile.

 

Al divino si affiancò la tesi complottista:

 

“Nel qual tempo insorse una voce che alcune persone andavano seminando e spargendo polveri velenose”. In piazza Mercato una vecchia che cercava l’elemosina divenne il capro espiatorio di “dette polvere” e venne uccisa “in detto loco”.   

 

Saracche e baccalà individuate come veicolo di trasmissione furono gettate in mare. Cani e gatti vennero sterminati. Spostati in conventi fuori Napoli si salvarono solo i porcellini di Sant’Antonio.

 

Tra maggio e agosto la peste toccò vette altissime. Solo allora 

il Collaterale ordinò drastiche misure di isolamento:


i contagiati nei quartieri popolari venivano chiusi in casa se non si riusciva a portarli in ospedale. Trasportati su sedie o su carri i cadaveri, raccolti dalle strade, mischiati con gli agonizzanti venivano gettati in fosse comuni e ricoperti di calce viva. Fu Micco Spadaro, più di altri pittori coevi, a restituire quelle scene di orrore urbano nel famoso dipinto: “Piazza Mercatello a Napoli durante la peste del 1656”.   

 

Furono vietati gli spostamenti da Napoli verso tutte le province e gli altri Stati e viceversa. 

 

Potevano circolare solo i pochi forniti di “bolletta della salute”.

 

Il ritardo nel predisporre misure di contenimento è da ascriversi alla paura, al panico in cui caddero le autorità di fronte alla virulenza del morbo. Ci sono anche altre ragioni che spiegano il loro indugio: la necessità di non turbare i traffici per mare e per terra tra Napoli le sue province e gli altri porti del Mediterraneo; la subalternità culturale all’Arcidiocesi che subito si impossessò politicamente della pandemia per farne un cavallo di battaglia del suo piano di disciplinamento sociale e religioso.

 

È il caso di ricordare alcune ordinanze che danno il termometro di quei mesi. 

Il Collaterale ordinò l’impiego di molti rimedi

 

di cui se ne offre un campionario parziale: profumare le case “con fumo di rosmarino, bacche di lauro, di ginepro, incenso e simili”, usare “acqua teriacale”, e “pillole di Rufo contro la peste”; preparare una “mistura di fichi secchi, ruta, noce e sale”, e un intruglio di “aceto (…) con solfo, ruta aglio garofali zafferano e noci, l’uso del quale è bagnarci una fetta di pane”. A tutto ciò venne affidato un compito curativo e preventivo che però dimostra solo quanto fosse lungo il passaggio dall’alchimia alla chimica, dalla magia alla medicina.

 

Si decise della quarantena con ordinanza del 12 giugno 1656, mentre 

la libera circolazione fu autorizzata il 25 febbraio 1657.

L’11 ottobre 1657 venne ordinato “concedersi alle dette Università [così allora si chiamavano i Comuni], che hanno patito il contagio sospensione, per insino ad altro ordine, di quanto per esse si dee così alla Regia Corte, come a’ Consegnatarii”. In altri termini veniva 

 

sospesa la fiscalità

 

dalle province alla capitale.   

 

L’anno successivo il 19 giugno, per il forte aumento dei prezzi, 

 

si vietò la vendita di “dette mentovate robbe a maggior prezzo di quello 

che si vendevano prima del passato contagio”

 

con multe fino a 1000 ducati “et altre pene corporali”. A settembre vennero

 

bloccati i salari

 

di “Potatori, Vendemmiatori Zappatori” a prima del contagio. Pena: tre anni di carcere agli uomini e “frusta alle femine”. Sono, come si vede, provvedimenti antinflazione.   

 

La peste andò scemando a Napoli verso dicembre, focolai restavano in Abruzzo Citra, Basilicata, Capitanata, Calabria Ultra, Terra di Lavoro. Alla paura si sommarono incertezze sociali ed economiche. Nelle province si ebbe una recrudescenza del banditismo sociale e dei rapimenti a scopo di riscatto.

 

La riapertura totale dei traffici e commerci avrebbe dovuto rimettere 

in piedi il precedente circuito. Non fu così.

 

Lo  documenta  De  Renzi  che  fra  i  tanti  indicatori  scelti  per  calcolare  il  numero  dei morti a Napoli utilizza quello delle scorte alimentari:  grano,  vino,  olio,  farina, pane, carne salata e fresca. Il consumo urbano  egli dice  “si ridusse  a  proporzioni  infinitesime di quel che era avanti la peste”.  Vale a dire una caduta dei consumi quasi verticale a causa del tracollo demografico. 

 

A Napoli morirono tra 200 e 250mila persone.

 

Considerando un’arcata temporale tra il 1648 e il 1669 la popolazione delle province passò da circa 2.501.015 a 1.973.605 abitanti circa.   Si può infine dire che l’impatto del “pestifero morbo” nella stratigrafia della memoria collettiva fu duraturo e profondo.

 

 

 

 

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GENNARO SERRA DI CASSANO MARTIRE E PATRIOTA di Fernando Popoli – Numero 18 – Settembre-Ottobre 2020

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GENNARO SERRA DI CASSANO MARTIRE E PATRIOTA

 

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figlio del duca Luigi e di Giulia Carafa di Roccella, di nobilissima origine, che ai privilegi, ai lussi ed alla vita comoda della nobiltà preferì la lotta per l’affermazione dei principi democratici e dell’eguaglianza dei popoli, pagando con il sangue la sua scelta.

 

Studiò insieme al fratello Giuseppe in Francia, nel collegio di Sorèze, 

durante gli avvenimenti rivoluzionari e ne acquisì lo spirito repubblicano 

condividendo il motto “Liberté, Égalité, Fraternité”, che influenzò 

tutta la sua breve vita sino alla morte.

 

Aderì sul nascere alla “Società Patriottica” insieme ai primi giacobini napoletani, alcuni di origine massonica: Eleonora Fonseca Pimentel, insigne letterata e giornalista, la nobile Luisa Sanfelice, il duca Ettore Carafa, l’avvocato Nicola Fasulo, l’imprenditore della seta Domenico Piatti, l’ufficiale di Marina Giambattista de Simone, il dottor Pasquale Baffi e Filippo de Marini, marchese di Genzano. All’inizio la loro attività libertaria fu quasi tollerata dalla regina Maria Carolina, moglie del re Borbone Ferdinando IV, che vedeva nel loro agire la meta di una monarchia costituzionale, ma poi, in seguito agli avvenimenti di Francia, la sovrana mutò radicalmente il suo atteggiamento, scatenando una feroce e viscerale repressione.

 

A Parigi regnava il terrore e iniziò a lavorare alacremente la ghigliottina. 

Il 21 gennaio fu mozzata la testa del re Luigi XVI 

 

davanti ad una folla festante. Il boia Charles Henry Sanson vendette poi all’asta il suo copricapo, ciocche di capelli e frammenti del cappotto. La folla ne godette. Il 16 ottobre toccò a Maria Antonietta, sorella di Maria Carolina, prematuramente invecchiata dalla paura, con il viso pieno di rughe e i capelli imbiancati. Il suo carnefice, Henry Sanson junior, mostrò la testa mozzata in segno di trionfo, col sangue che gocciolava sul tavolato della forca. La folla fu entusiasta.

La morte violenta della sorella terrorizzò Maria Carolina che vedeva nemici dappertutto, non dormiva più nello stesso letto 

e faceva assaggiare il cibo ai servitori.

 

Scrisse su una stampa dell’esecuzione pervenuta da Parigi: “Perseguirò la mia vendetta sino alla morte”. Perquisizioni, pedinamenti, retate. I servizi segreti lavoravano quotidianamente e riferivano ai sovrani di cene patriottiche, di cospirazioni misteriose, di piani eversivi tra i cosiddetti “idealisti”, che si battevano in nome della “filosofia” e della “virtù”. La reazione dei Borboni diventò atroce, selvaggia, spietata. Il 18 ottobre del 1794, a mo’ di esempio, salirono sul patibolo al Largo Castello tre ragazzi meridionali: Emmanuele de Deo, Vincenzo Galiani e Vincenzo Vitaliani, primi martiri innocenti della libertà.

 

La frattura tra il re, la regina e i libertari napoletani si allargò a dismisura 

e i giacobini Francesco e Gennaro Serra di Cassano, sentitisi in pericolo, 

agivano in segreto, preparando l’arrivo dei francesi.

 

I genitori, il duca Luigi e sua moglie Giulia Carafa di Roccella, condividevano le loro scelte, ma temevano per la sorte dei figli. Giuseppe Serra di Cassano venne arrestato e condotto in carcere, con lui anche Eleonora Fonseca Pimentel. Gennaro si salvò miracolosamente. 

 

Intanto i fatti precipitarono, Il generale francese Jean Étienne Championnet avanzava con le sue truppe verso la capitale, al suo seguito molti giacobini, Ettore Carafa, Carlo Lauberg, Vincenzo Russo e altri che erano esuli. L’ammiraglio Orazio Nelson era alla rada con la sua flotta. L’esercito borbonico marciò verso Roma. All’inizio sembrò una guerra facile, poi scattò la controffensiva dei francesi e Championnet li travolse sbaragliandoli. Il re, attraverso percorsi segreti, lasciò la Reggia, s’imbarcò sulla nave ammiraglia di Nelson e puntò su Palermo.   

 

Nel Regno, due delegati cercarono di controllare la piazza inutilmente. Da un lato i Lazzari che erano filo monarchici, dall’altro i giacobini che lavoravano per favorire la vittoria dei francesi. L’anarchia era al massimo, 

 

i Lazzari presero il sopravvento, ma si sentirono traditi dalla fuga del Re. 

Bruciarono le forche fatte issare dal Borbone e liberarono i prigionieri. 

Giuseppe Serra di Cassano ed Eleonora Pimentel tornarono liberi.

I Lazzari non parteggiavano per i francesi che si preparavano a combattere, ma non obbedivano ai delegati del re. Gennaro lavorava assiduamente con tutti gli altri giacobini per la battaglia decisiva, l’armata di Championnet era vicina. Si impadronirono di Forte Sant’Elmo; un gruppo di donne vestite da uomo, capeggiate da donna Eleonora Pimentel, si unirono a loro e nel cortile del Forte fu piantato l’Albero della Libertà e proclamata la Repubblica Napoletana.   

 

Championnet invase Napoli, sbaragliando i Lazzari che finirono per unirsi a lui. Fu insediato il primo governo provvisorio e Giuseppe Serra di Cassano fu tra i rappresentanti comunali, al posto del padre. Furono nominati vari ministri tra i giacobini, ma l’ultima parola spettava ai francesi.

 

Gennaro Serra di Cassano ebbe il grado di comandante in seconda 

della Guardia nazionale, con il compito di organizzare la cavalleria.

 

Per ordine del Direttorio di Parigi iniziarono le riscossioni dei tributi, le confische, nuove e vecchie gabelle, il passaggio alla Francia di tutti i beni della Corona, le banche, la Zecca, i possedimenti nelle provincie. Il popolo era scontento, i Lazzari ripresero l’offensiva lanciando pietre e vasi dai balconi, Championnet fu sostituito e al suo posto arrivò il cinico generale McDonald che mise in vendita anche gli arredi reali.

 

Intanto, con la benedizione del Papa, il cardinale Ruffo avanzava

per riconquistare il Regno con l’esercito della Santa Sede,

uccidendo, saccheggiando, stuprando, violentando, lasciando dietro di sé una scia di terrore, di sangue, di morte, di cadaveri. Un’incredibile ecatombe. Nel Regno, i governanti rivoluzionari vararono leggi giuste. Abolirono la gabella sulla farina, avviarono la stesura di una nuova Costituzione, si organizzarono per resistere all’avanzata del cardinale Ruffo. La Pimentel pubblicava il Monitore dando informazioni democratiche ai cittadini.

 

Giulia Carafa di Roccella, la madre di Gennaro, e sua sorella Maria Antonia, 

duchessa di Popoli, considerate le donne più belle di Napoli, delicate e colte, trasportavano intrepide sul molo pietre e calce per rafforzarne la difesa 

e proteggere la fragile conquista democratica, 

fianco a fianco con il popolo,

 

gomito a gomito con gli uomini, instancabili, indomite, combattive. Bussarono alle case dei ricchi per chiedere offerte per la difesa, vestiti e viveri per i più bisognosi, solidarietà per i poveri. Aiuti, donazioni, sostegni. Tutto serviva per la causa. Furono chiamate “madri della Patria” per la loro azione nobile, generosa, altruista, solidale, spinta da un ideale repubblicano che permeava il loro animo femminile. 

La regina Maria Carolina manifestò il suo sdegno per le due nobildonne che tra l’altro, scandaloso per lei, non portavano più il busto e la parrucca, ma sostenevano la rivolta.   

 

McDonald, incapace di fronteggiare Ruffo, si trasferì presso Caserta e da lì a poco si avviò verso il nord, lasciando campo libero. Il re Ferdinando ordinò a Ruffo di fare molti casicavalli, di impiccare molti nemici come i caciocavalli che vengono appesi col cappio sino alla maturazione. Il forte di Vigliena fu uno degli ultimi baluardi contro i sanfedisti. Erano duecento, comandati da Antonio Toscano, contro i mille nemici. Alzarono una bandiera con su la scritta “Vincere, vendicare, morire” e, di lì a poco, chiusi nel magazzino delle munizioni, saltarono in aria disintegrati in un botto infernale insieme a molti dei loro nemici. 

A Napoli, Gennaro Serra di Cassano difendeva con la sua colonna Capodimonte, il capitano Campana, Ponticelli. Il generale francese Basset, Foria. Furono ben presto travolti e si rifugiarono nel Maschio Angioino e in Castel dell’Ovo, in un ultimo tentativo di sottrarsi alla furia devastatrice sanfedista.

 

Nelle strade si susseguirono scene di ferocia, di violenza, di terrore. Massacri, saccheggi, incendi, stupri, scene di follia inusitata. La gente fuggiva 

inorridita, terrorizzata, sgomenta. Si era creato l’inferno.

Si scatenò una caccia all’uomo, al democratico, all’oppositore. Giulia e Maria Antonia Carafa di Roccella furono spogliate, denudate, si dice violentate. Coperte da un lenzuolo, con le carni nude, sottoposte al pubblico ludibrio, offese, vilipese, derise. Trattate come bestie, sputate in faccia. Gli Alberi della Libertà furono abbattuti e trasformati in latrine puzzolenti. I giacobini venivano trucidati sommariamente, senza alcun processo, senza possibilità di difesa. I sanfedisti si sedevano sui loro cadaveri sbudellati, sui loro corpi martoriati, con le viscere di fuori, per mangiare, bere, gozzovigliare. Alcuni abbrustolirono le loro carni e le trangugiarono avidi in un macabro banchetto. 

Altri prigionieri furono portati al Ponte della Maddalena e donne monarchiche imbestialite sputavano loro addosso, lanciavano scorze di cibo, li deridevano. In breve, anche le ultime sacche di resistenti furono spezzate via e il cardinale Ruffo prese pieno possesso di Napoli e di tutto il Regno. La Repubblica Napoletana era sconfitta. 

Memore di essere uomo di chiesa, il cardinale trattò con i capi repubblicani superstiti asserragliati nel castello e raggiunse con loro il “patto di capitolazione”. 

 

I giacobini ebbero l’onore delle armi e la possibilità di andare in esilio. 

Al suono cadenzato dei tamburi dei soldati vincitori, vinti ma a testa alta, 

lasciarono il Forte per prendere posto sulle navi in partenza per Tolone.

 

Il 24 giugno del 1799 arrivò a comando della sua poderosa flotta l’ammiraglio Orazio Nelson e affermò che il “patto” era carta straccia; il re delle Due Sicilie, il Borbone, non avrebbe mai trattato con i ribelli che non meritavano indulgenza, e così fu. 

Vecchie navi da trasporto funsero da prigione. I prigionieri furono legati ai ferri, esposti al sole, con poca acqua e con poco cibo disgustoso, dormivano su un giaciglio di sabbia ed evacuavano a turno su pochi buglioli schifosi e maleodoranti. La loro vita si era trasformata in un inferno. 

Le ultime sacche di resistenza furono travolte. Un pescivendolo, si dice, tagliò, come se fossero pesci da pulire, molte teste di giacobini superstiti e i sanfedisti le fecero rotolare lungo la strada, giocandoci come se fossero palloni.

 

Gennaro Serra di Cassano si rifiutò di chiedere clemenza al cardinale Ruffo, 

per orgoglio e per diffidenza. Secondo la leggenda, travestito da marinaio, 

tentò di riparare nel suo palazzo al Monte di Dio, 

ma fu visto da un libraio che lo tradì.

Condotto nelle carceri comuni, da dove forse non si era mai mosso, aspettò con dignità che si compisse il suo destino di uomo libero. La Giunta di Stato, implacabile, emise la sentenza di condanna alla ghigliottina. Sarebbe stato giustiziato insieme ad altri sette cospiratori.   

 

Il 20 agosto del 1799, la Piazza Mercato, palcoscenico storico delle esecuzioni, fu invasa da una folla di tutti i ceti sociali, assettata di sangue e di violenza. Sadicamente eccitata per lo spettacolo che si stava per rappresentare, si agitava come un branco di lupi famelici, vogliosa di scene raccapriccianti, di morte, di terrore. Intorno, imponenti misure di sicurezza, soldati armati, cannoni puntati, armigeri pronti. Gennaro aprì la macabra danza della morte. Aveva chiesto di avere l’oppio per placare l’angoscia dell’attesa, ma gli fu negato. Per il suo titolo doveva essere accompagnato da servitori, ma gli fu proibito. Doveva avere un palco addobbato di drappi neri, ma non gli fu concesso.

 

Salito sul patibolo, guardò davanti a sé quel mare di facce in attesa, 

quella moltitudine di uomini e donne compiacenti, quegli sguardi sadici, 

e disse al frate che gli era accanto: “Ho sempre lottato per il loro bene 

e ora li vedo festeggiare per la mia morte”.

 

Offrì la sua testa al boia e la lama gliela recise di netto, un colpo solo e rotolò in terra. Aveva ventisei anni, era giovane, ricco, nobile di animo e di censo. Morì per perseguire i suoi ideali sotto gli occhi festanti del suo popolo, ingrato e inconsapevole.   

 

Seguirono le altre esecuzioni: Domenico Piatti, Vincenzo Lupo, Nicola Pacifico, Michele Natale, Antonio Piatti e, ultima, la passionaria della rivoluzione, Eleonora Fonseca Pimentel. A lei le guardie strapparono le mutande in segno di disprezzo. Lei disse in latino: “Un giorno sarà utile ricordare tutto questo”. 

Il suo corpo penzoloni, con il cappio al collo, oscillò sul patibolo spinto dal vento. La folla soddisfatta se ne compiacque: la signora aveva smesso di fare l’eroina.

 

Il duca Luigi Serra di Cassano, addolorato, chiuse il portone del suo palazzo 

di fronte alla Reggia e per due secoli questo ingresso 

è rimasto sbarrato in segno di lutto e di protesta.

 

Maria Antonia Carafa si suicidò dopo qualche anno gettandosi in un pozzo. Giulia Carafa visse a lungo tormentandosi nei ricordi e finì per impazzire. La morte di Gennaro Serra di Cassano non fu inutile, il suo sacrificio resterà per sempre a testimonianza di una vita “illuminata”.

 

 

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PER SCOPELLITI GRANDE MAGISTRATO DEL SUD di Francesco Antonio Genovese – Numero 18 – Settembre-Ottobre 2020

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per scopelliti grande magistrato del sud

 

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In fondo, il libro di Clara Mazzanti [Venga con noi. Dagli attentati del ’69 a Piazza Fontana, con prefazione di Paolo Morando (pp. 9-11), Ed. Colibrì, Milano, 2019, pp. 317, con il pregio di possedere – oltre ad un interessante corredo fotografico – anche un indice analitico, alle pp. 311-313], partito con un durissimo (ma non del tutto ingiustificato) attacco agli apparati investigativi milanesi [assai severa la stroncatura anche di Luigi Calabresi, alle pp. 28-30, 219-220 e passim; del tutto irrecuperabile il giudizio su Antonio Amati (1912), il giudice istruttore del processo agli anarchici nel quale rimase coinvolta, come imputata dei reati di concorso in alcuni attentati con uso di esplosivi, registrati nella prima parte del 1969, anche la Mazzanti: si vedano, in particolare, le pp. 149-151, ma anche passim],

 

costruisce un vero e proprio monumento celebrativo di un altro 

magistrato, addirittura (incredibile auditu) di un pubblico ministero: 

AntoninoScopelliti (19351991), destinato a entrare nel Pantheon

della Magistratura italiana per il suo tragico omicidio ad opera 

delle mafie più potenti di questo Paese.


Il PM di quel processo, nella fase istruttoria, era stato invero Roberto Petrosino (1924), il quale aveva chiesto il rinvio a giudizio di tutti gli imputati, ma non per questo è su di lui che s’appuntano gli strali dell’A. (quasi come se l’A. desse per scontato che il PM inquirente possa avanzare ogni sorta di richiesta), quanto sul Giudice della fase istruttoria (che, invece, avrebbe avuto l’obbligo di approfondire e di verificare ogni sorta di elemento senza procedere  oltre, sic et simpliciter, sulla base di idee già confezionate, in massima parte dagli investigatori), dopo un’analisi attenta anche degli atti processuali (ben 12 faldoni ora consultabili liberamente: v. p. 284), rivisitati e consultati dalla vittima di quelle indagini in sede archivistica, con il rovello e il dolore di chi ha trascorso circa un anno e mezzo in detenzione preventiva, durissima, nel carcere di San Vittore (sulle cui sofferenze, espedienti di vita e umanità il libro costituisce un resoconto non comune e che varrebbe la pena di leggere anche se solo per questa ragione). 

 

Ma è il PM della fase dibattimentale che emerge imponente, non certo per una sorta di trombonesca apparizione, di fronte alla Corte d’assise di Milano, presieduta da Paolo Curatolo (1914) e composta dal giudice a latere, Roberto Danzi (1929) oltre che dai giudici popolari; e si tratta di Antonino Scopelliti,

 

«Me lo ero immaginato di aspetto truce. Pronto a darci guerra, a distruggerci, 

a coprirci di fango. Invece, quando alzò gli occhi dalle sue carte e guardò dritto 

verso di me, vidi un volto dall’espressione straordinariamente umana e mite, 

che fece con la testa un impercettibile movimento, quasi un saluto» (p. 180).

 

Scopelliti ha di fronte un gruppo di avvocati di grande levatura, alcuni dei quali – se già non lo sono – diventeranno presto assai celebri: Giuliano Spazzali (per Pulsinelli), Sandro Canestrini e Vittorio D’Aiello (per Giangiacomo Feltrinelli e Sibilla Melega), Francesco Piscopo, Luca Boneschi e Alberto Malagugini (per Braschi): l’ultimo di lì a poco eletto giudice costituzionale, nel 1977. Ma Egli, il nostro PM, è del tutto a suo agio di fronte a quelle eccellenze forensi e, finanche, non pregiudizialmente contrario alle richieste che quelli avanzeranno, ma anzi appare disposto all’esame ragionato di quelle istanze. 

 

All’imputata, il PM di udienza appare avvinto da «una irriducibile ed evidente volontà di ricercare il vero» (p. 197), perciò non ostile alla verificazione dibattimentale dell’ipotesi accusatoria, alla cui formulazione – come si è detto – Egli, in verità, non aveva neppure partecipato (essendo di altri l’ipotesi di accusa formulata contro quegli arrestati).

 

Di più. In Lui emergeva una caratteristica davvero insolita: «non urlava. Mai. 

Calmo e gentile, dava l’impressione di essere alla ricerca dei fatti che potessero 

non accusare, ma scagionare l’imputato, come e più di un difensore» (p. 197).

Non usava artifici o stereotipi, come le compagne di detenzione avevano detto all’A. a proposito dei PM incontrati sul loro cammino sventurato; magistrati che avevano usato anche «cattiveria… ferocia… sarcasmo … in presenza di figli e genitori, di parenti e conoscenti. A Scopelliti non piaceva giocare con il fango. Era di un rango moralmente superiore, lui» (p. 197). 

 

Si tratta di parole importanti, meditate, uscite come un distillato da tutto il (sicuramente doloroso) riesame (scavato nei ricordi, certo; ma anche nelle carte processuali) di quel processo che Altri (Paolo Morando, Prima di Piazza Fontana. La prova generale, Laterza, Bari-Roma, 2019, pp. 368: un vero e proprio tomo scritto sulle carte, puntuale e implacabile nel racconto), con metodo storico, ha ricostruito (e smontato nella sua impostazione panaccusatoria) con risultati apprezzati dalla critica storiografica.

 

Il processo, in estrema sintesi, ruoterà attorno alla credibilità di una testimone chiave, colei che era stata ospitata per un bel periodo di tempo dalla narrante

 

(allora giovanissima: era nata nel 1947) e dal suo convivente, ma che poi si era rivelata come l’accusatrice, la vera “carta vincente” della pubblica accusa (aveva asserito di aver visto la Mazzanti e il suo compagno di vita, ossia coloro che l’avevano generosamente ospitata, preparare in casa un ordigno servendosi di un tubo metallico; ma l’istruttoria dibattimentale accerterà che in nessuno degli attentati posti sotto il focus dell’investigazione c’erano stati frammenti di metallo).

 

Peccato, che nel corso del dibattimento, dopo un primo round in cui l’accusatrice (un’insegnante, innamorata – senza essere corrisposta – di uno degli accusati, dotata di una apprezzabile parlantina e capace anche di una certa favorevole impressione sul pubblico degli ascoltatori) era sembrata un solido pilastro della pubblica accusa (cfr. p. 207; lo scriverà allora anche il cronista giudiziario de La Nazione di Firenze, quello più apprezzato dalla stessa A.: nientemeno che Enzo Tortora, prima del successo televisivo e della tragedia che di lì a qualche anno l’avrebbe travolto) 

  

ma ben presto si rivelerà una testimone del tutto screditata. La difesa degli imputati, infatti raccoglierà le prove della sua non nuova e né inedita capacità di condurre 

una campagna denigratoria, portata avanti in diversi momenti della sua vita,

 

nel corso della quale aveva diffuso anonimi calunniosi contro una pluralità di destinatari (un prete, i ragazzi di un oratorio, un collega insegnante) e sempre con la fissa dei rapporti sessuali anomali (si era nel 1969!). La teste aveva ricevuto, proprio per questo, alcune denunce per calunnia da parte dei carabinieri, ma nessuno degli inquirenti aveva considerato questo fatto né vi aveva fatto cenno nel corso delle indagini ai (ignari, è da credere) PPMM. Così il processo non tardò molto a registrare alcuni round negativi per la teste, come osservò il sempre attentissimo cronista giudiziario Tortora che, al momento della scarcerazione della Mazzanti, vorrà persino festeggiarla in pizzeria (e così resocontare i suoi lettori di tutto l’accaduto: nel processo e fuori, alla sua conclusione), avendo maturato l’identica conclusione della Corte giudicante.

 

L’imputata (su conforme richiesta del PM) venne, infatti, assolta nel maggio 1971; 

ma solo con la formula dubitativa e, per Lei, fu necessario l’appello per ottenere, 

dopo ancora qualche patimento, la formula piena assolutoria. Ma ciò nonostante, 

la stima per quel PM di udienza non s’incrinò. Anzi.

 

Lo seguirà in TV, qualche anno dopo, nel 1978, in una puntata della fortunata trasmissione di Maurizio Costanzo Bontà Loro (peraltro ancora reperibile on-line con una ricerca mirata), nel corso della quale ascolterà il suo PM in una memorabile lezione sulla figura del magistrato e sulle sue qualità, tratteggiate come in un decalogo che meriterebbe di avere un’illustrazione separata (qui basti solo richiamare, per punti, ciò che l’A. ha riportato delle dichiarazioni dell’illustre magistrato: l’essere disposto ad accettare, nel suo lavoro, anche l’impopolarità; la centralità del compimento del proprio dovere; l’aver coscienza di tale dovere come traguardo massimo della professione; la capacità di cambiare la strada percorsa, ove ci si avveda che essa non è affatto quella giusta; 

 

l’avere umiltà, come dote fondamentale nella professione; l’avere – e non rifiutare – 

un rapporto umano con l’imputato; il vivere senza cercare altre soddisfazioni;

 

la “politicità” del proprio mestiere intesa come consapevolezza del suo esercizio nel tempo proprio; la centralità del dibattimento nel processo, proprio come era accaduto nel processo agli anarchici milanesi: cfr. le pp. 163-4). E Scopelliti risponderà proprio ad una domanda di Costanzo, a proposito del processo agli anarchici, spiegando che il dibattimento aveva fatto emergere fatti che non erano stati raccolti in fase istruttoria (o non potevano esserlo: ma questa era una difesa d’ufficio dei suoi colleghi che forse non lo meritavano) e che gli episodi erano diversi tra loro (e questo era vero, come è stato dimostrato dal lavoro di Paolo Morando, che ho citato sopra). 

 

In verità, l’approdo alle conclusioni assolutorie (ma non verso tutti, perché taluni degli imputati – e cioè tre di loro – vennero condannati in primo grado come responsabili di alcuni degli episodi, tra i tanti loro ascritti: p. 250) trovò, con il tempo, un’ampia conferma. Ad esempio, già agli atti dell’istruttoria di Treviso, condotta da Giancarlo Stiz fin dal gennaio 1971 (cfr. Gianni Barbacetto, Piazza Fontana. Il primo atto dell’ultima guerra italiana, Garzanti, Milano 2019, p. 28 e ss.), era emersa, nell’agosto 1971 – dall’interrogatorio di Ruggero Pan, studente padovano vicino al gruppo di Franco Giorgio Freda –, la responsabilità di quest’ultimo, personalmente, nell’organizzazione e nell’esecuzione dell’attentato alla Fiera di Milano, il 25 aprile 1969, per il quale erano stati condannati invece i tre anarchici anzidetti (Barbacetto, cit., p. 28), dalla Corte d’assise.

 

L’A. rimarrà, perciò, profondamente scossa e commossa il 9 agosto 1991, 

come lo siamo stati tutti noi, e come lo è stata l’Italia intera, alla notizia 

del vile agguato che venne teso al Grande Magistrato su quella strada

 

percorsa chissà quante volte, la provinciale tra Villa San Giovanni e Campo Calabro, il paese del profondo Sud dove Egli era nato. 

 

Un’anarchica, insomma, si era riconciliata con lo Stato, grazie a Lui e ne darà ampio e motivato attestato, anche a tutti noi, che non dovremo dimenticarlo mai, per il sacrificio di sangue a cui è andato incontro per difendere la sua purezza d’investigatore e di parte imparziale (come pochi) del processo penale italiano contemporaneo.

 

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