LA CHIESA DELL’IMMACOLATA A NOVOLI Gemme del sud – Numero 22 – Settembre ottobre 2021 Ed. Maurizio Conte

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LA CHIESA DELL’IMMACOLATA A NOVOLI

 

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 Gemme del Sud

             Novoli

A Novoli, in provincia di Lecce, la chiesa dell’Immacolata (precedentemente detta della Mater Dei), dalla semplice facciata,

custodisce al suo interno un’importante testimonianza 

dell’arte bizantina nel nostro Meridione.


L’interno è ad un’unica navata con volta a crociera, nella cui abside semicircolare con due nicchie ospitanti statue si trova un notevole affresco bizantineggiante, rinvenuto nel 1865 e risalente ai primi decenni del XIV secolo, che raffigura una rarissima immagine della Madonna Odigitria. Il culto di tale Vergine in Puglia ha origini antiche ed è praticato nel Salento e nella Valle d’Itria (nome, quest’ultimo, probabilmente derivante proprio dal termine “odigitria”).

La Madonna Odigitria è un tipo di iconografia cristiana – proveniente dall’omonima icona venerata a Costantinopoli dal V secolo fino alla caduta della città ad opera 

degli Ottomani nel 1453, quando l’icona andò persa – diffusa specialmente 

nell’arte bizantina e russa del Medioevo.


Tale iconografia presenta l’immagine della Vergine che tiene in braccio il Bambino Gesù (seduto nell’atto di benedire e con una pergamena in mano) e lo indica con la mano destra, gesto da cui deriva l’appellativo “odigitria”, dal greco bizantino “colei che conduce, indicando la direzione”. 

 

Nell’affresco della chiesa dell’Immacolata, ai lati del volto della Madonna e a destra del Bambino sono presenti monogrammi in greco. 

 

Nel medesimo edificio vi sono anche i resti di un altro affresco bizantino nei quali sono visibili la Vergine ed un angelo, che farebbero pensare alla rappresentazione di un’Annunciazione o, seguendo invece altri studi più recenti, della “Madonna del Risorto” (in dialetto locale “della Cutùra”, cioè “del Pane”), poiché tale Madonna è venerata in altri luoghi del Salento dove era professato il culto greco-bizantino. Per il particolare tipo di iconografia, questo affresco è unico nella sua specie nella storia dell’arte bizantina dell’Italia meridionale.

 

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GENNARO RIGHELLI DIEDE VOCE AGLI ATTORI di Fernando Popoli – Numero 20 – Marzo-aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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GENNARO RIGHELLI DIEDE VOCE AGLI ATTORI

 

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nato a Salerno nel 1886 e figlio di un napoletano. Il padre era un attore dialettale e da lui fu influenzato per la sua scelta di vita, così, a sedici anni, cominciò a recitare nella sua compagnia facendosi le ossa sul palcoscenico. 

Affascinato dalla nuova arte, il cinema, si trasferì a Roma ed iniziò a lavorare per la Cines, per la quale riuscì ad ottenere l’incarico di regista del film La fidanzata di Messina, che ebbe un buon riscontro al botteghino ed inaugurò la sua carriera cinematografica. A questo film seguirono Giovanna la pallida e Povera Dora!. Passò poi alla Vesuvio Films, per la quale diresse altre pellicole, lavorando anche come attore.

 

Agli inizi degli anni Venti, a seguito della crisi del cinema in Italia, 

Righelli si trasferì in Germania insieme all’attrice Maria Jacobini, 

molto affermata in quegli anni, che diventò poi sua moglie.

 

Righelli, bell’uomo, elegante, era sensibile al fascino femminile e piaceva alle donne. In Germania fondò la casa cinematografica Maria Jacobini-Film GmbH e diresse alcuni dei suoi migliori film. Tra questi, ricordiamo Le rouge et le noir ed Il presidente di Costa Nueva, che ebbero un gran successo in tutta Europa, interpretati dal grande attore russo naturalizzato francese Ivan Mozžuchin.   

 

Tornato in Italia, riprese a lavorare nel periodo fascista, ma non fu mai influenzato dall’ideologia corrente, conservando completa autonomia di pensiero.

Poi la Cines di Stefano Pittaluga lo chiamò e gli dette l’incarico di girare 

il primo film sonoro della storia del cinema italiano,

 

in grave crisi da quando gli americani avevano cominciato a produrre film parlati dopo il grande successo de Il cantante di jazz di Alan Crosland. Il film fu La canzone dell’amore, tratto da un’opera di Luigi Pirandello, In silenzio, con Dria Paola, Isa Pola ed Elio Steiner, attori molto popolari, conosciuti ed apprezzati dal pubblico.   

 

Era il 1930, si apriva la strada del cinema sonoro in Italia e Righelli fu il primo ad affrontare questa meravigliosa avventura cinematografica. In concomitanza con la commissione di tale film, la Cines ne aveva affidato uno anche ad Alessandro Blasetti, le cui riprese furono terminate contemporaneamente, ma quello di Righelli fu fatto uscire prima nelle sale per la maggiore stima che si aveva in lui. 

La canzone dell’amore, com’era prevedibile, incantò il pubblico, la storia abbastanza melodrammatica commosse e meravigliò per l’innovazione tecnica. Il brano musicale Solo per te Lucia, di Cesare Andrea Bixio, era il leitmotiv del film che fu cantato da tutti.

Negli anni successivi si consolidò il successo di Righelli, 

che diresse il grande attore siciliano Angelo Musco


in
Pensaci Giacomino!, Lo smemorato e Gatta ci cova. Nell’immediato dopoguerra continuò il suo lavoro altamente professionale e girò Abbasso la miseria!, con la grande Anna Magnani, Abbasso la ricchezza!, ancora con Anna Magnani e Vittorio De Sica, e Quei due, con Eduardo e Peppino De Filippo.

 

La sua fama di professionista scrupoloso, narratore attento ai modelli sociali 

della piccola e media borghesia, era ormai consolidata

 

e ci ha lasciato a conferma del suo talento una filmografia interessante, specchio di un’epoca e testimonianza del cinema italiano. 

I suoi nipoti Luciano e Sergio Martino, figli di Lea Righelli, l’uno produttore e regista, l’altro regista, hanno continuato la tradizione di famiglia con grande professionalità. Luciano, scomparso da otto anni, ha prodotto oltre cento film ed è stato il pigmalione dell’attrice Edwige Fenech. Sergio ha diretto circa settanta film, passando con maestria dalla commedia al giallo, dal comico al drammatico, dimostrando indiscutibili capacità narrative.

 

La città di Roma ha omaggiato la figura di questo regista dedicandogli una strada, 

Via Gennaro Righelli, ubicata nel III Municipio. A fianco a lui, in buona compagnia, 

si trovano Via Roberto Rossellini, Via Luigi Pirandello, Via Ave Ninchi, 

Via Giovanni Verga ed altri illustri rappresentanti 

della cultura e del cinema italiano.

 

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UN ESPERIMENTO REPUBBLICANO NEL MEZZOGIORNO: IL 1799 di Tommaso Russo – N.20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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UN ESPERIMENTO REPUBBLICANO NEL MEZZOGIORNO: IL 1799

 

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ricostruirne le tappe, onorare i protagonisti caduti tragicamente. Vincenzo Cuoco ricordò che Eleonora de Fonseca Pimentel prima di salire sul patibolo bevve un caffè e poi pronunciò un verso virgiliano divenuto famoso: Forsan et haec olim meminisse iuvabit (Forse un giorno converrà ricordare tutto ciò).

 

Quel desiderio è giunto fino a noi (Gerardo Marotta diceva di portare ancora il lutto 

per quella tragedia), ha dato vita ad una messe di iniziative editoriali, convegni 

e pubblicazioni ed è entrato nell’odonomastica comunale 

(molti paesi hanno una loro via o piazza 10 Maggio).

 

tutto ciò è potuto accadere per due ragioni: perché la memoria culturale e l’immaginario collettivo hanno adottato quella data come un evento spartiacque, come un’identità profonda della cultura e della civiltà meridionali; perché la sua eredità riguarda l’elaborazione di un pensiero alto (la separazione tra Stato e Chiesa, assente per esempio nell’Illuminismo lombardo, la riflessione giuridica, la nascita della politica) divenuto patrimonio europeo ed italiano che fa ancora discutere.   

 

Geografie e Protagonisti

Benedetto Croce, nella sua Storia del Regno di Napoli, così descrive quel tornante cronologico: “In questo corso non pigro ma placido di discussioni, 

di proposte, di parziali riforme […] irruppe l’impetuosa corrente 

della Rivoluzione francese”. 


Nonostante la sua cautela, quegli eventi ebbero il carattere di una vera e propria diaclasi. In verità l’Illuminismo, uno dei capisaldi del 1789, era già presente nel
milieu culturale meridionale, dove si era manifestato con originalità sotto il profilo politico, filosofico, giuridico e scientifico. A Napoli da tempo erano stati sloggiati l’aristotelismo e la filosofia di “Renato Delle Carte”. In fase calante pure il platonismo di Paolo Mattia Doria, mentre Niccolò Fraggianni e Celestino Galiani presidiavano il regalismo di Pietro Giannone.

 

Chimica e medicina furono due importanti settori disciplinari 

e della seconda Domenico Cirillo era un faro.

 

La prima cattedra di economia politica in Italia fu istituita a Napoli ed affidata ad Antonio Genovesi. Fra i suoi allievi conviene ricordare quel Ferdinando Galiani che nel 1751 pubblicò il trattato Della Moneta in cui sostenne il concetto della moneta-merce (Karl Marx lo svilupperà nella formula D-M-D ossia Denaro-Merce-Denaro). 

Molti ecclesiastici fecondarono il clima culturale del secondo Settecento, un nome per tutti: Andrea Serrao, gran figura di vescovo regalista.

Dell’ala più vivace della nobiltà vanno tenuti a mente, fra gli altri, Giovanni Carafa duca di Noja e Raimondo di Sangro principe di Sansevero (sua la Cappella-Museo col Cristo velato), organizzatore delle Logge napoletane all’obbedienza della National Grand Lodge.
 

Sempre sul terreno latomistico va ricordato pure il calabrese Antonio Jerocades, 

“abate bizzarro e gran disseminatore di logge”. Nella seconda metà del 1785 

giunse a Napoli il pensoso teologo protestante Friederich Münter.

 

Apparteneva all’ordine massonico degli Illuminati di Baviera e raccolse intorno a sé tanti bei nomi, fra cui Filangieri e Pagano. Troppo egualitaria e razionalista era la sua Loggia della Philantropia, che ebbe infatti vita breve. Le Logge, oltre ad essere luogo della sociabilità cetuale e primo embrione di partito, furono altresì sede dove la politica venne tenuta a battesimo. Ne è prova il biennio delle congiure:1794-96.   

 

Nella primavera del 1800 Jacques-Louis David completa il quadro di Napoleone che valica le Alpi. Questa immagine imperiale racchiude l’intero cammino dell’età napoleonica (1796-1815), con dentro il triennio giacobino (1796-99), di cui la Repubblica napoletana fu magna pars.

Quando, il 23 gennaio 1799, le truppe francesi del generale Championnet entrarono 

in Napoli, vincendo una dura resistenza del proletariato urbano, la notizia della proclamazione della Repubblica si diffuse in tutte le province.

 

Così, da Crotone ad Altamura, da Rosarno ad Avigliano, dagli Abruzzi al Molise, a Tito e Picerno, alle province pugliesi vi fu una generale adesione al nuovo ordine delle cose. I comportamenti erano simili. Aveva luogo la piantagione dell’albero della libertà di solito vicino ad altri simboli di potere (ad Altamura venne piantato vicino alla Cattedrale federiciana, a Cosenza vicino alla sede della Regia Udienza). Intorno ad esso si liberò la fantasia popolare.

Le donne dettero vita a balli, canti, giochi e carri di carnevale, 

a scenografie con cui sovvertire le gerarchie sociali:


le popolane diventavano regine, gli uomini principi consorti. Le altre due scelte erano la costituzione della Municipalità e la formazione della Guardia Civica: tutte di grande valore simbolico. In quel torno di mesi si assistette alla nascita della Repubblica nel villaggio: tante repubbliche per quanti erano i paesi che vi aderirono (per parafrasare Maurice Agulhon).   

 

Gli entusiasmi, però, furono di breve durata. Ben presto si mosse dalla Calabria il Cardinale Fabrizio Ruffo. Finanziatori della sua Armata Cristiana e Reale (l’esercito della Santa Fede) agli inizi furono i vescovi di Melito, Policastro e Capaccio, i monaci della Certosa di Santo Stefano del Bosco e i domenicani del Convento di Soriano. Oltre ai fondi borbonici, via via si aggiunsero i finanziamenti di quelle fazioni di borghesie locali contrarie alla Repubblica ed al suo programma, in primis la redistribuzione dei demani. I più noti capibanda al servizio di Ruffo furono Nicolò Tomasi, che agì nella zona di Sant’Angelo a Fasanella, Rocco Stoduti a Policastro, Antonio Guariglia nel Cilento, Gerardo Curcio, detto “Sciarpa”, tra il Vallo del Diano e il Marmo Platano (in provincia di Salerno e Potenza).

 

Avevano dato ed avuto ordini precisi di saccheggiare e fare terra bruciata. 

La ferocia con cui l’esercito della Santa Fede si accanì 

contro i Comuni “democratizzati” è inimmaginabile.

 

Ciò rese più eroica la resistenza delle Municipalità ed il protagonismo femminile. Le donne dei nuclei subalterni ebbero un ruolo importante nell’organizzare la difesa dei propri paesi, nel parteciparvi armate, nel fare da staffetta da un quartiere all’altro e pagarono un prezzo altissimo, torturate, stuprate ed uccise. Nel massacro di Picerno operato da Sciarpa, 19 furono le donne uccise contemporaneamente a 59 uomini. Sempre Sciarpa, a Tito, fece torturare in modo inenarrabile le “cameriere” di casa Cafarelli per indurle a confessare dove si fossero rifugiati il loro padrone Scipione e sua moglie Francesca de Carolis, entrambi leader di quella Municipalità. Non tradirono.   

 

Francesco Lomonaco, nel suo pamphlet Rapporto al cittadino Carnot (1800) è il primo cronista di quella tragedia e nelle pagine sfilano i nomi degli afforcati a Piazza Mercato. Forse la figura più toccante è quella del “Notar Libero Serafini sindaco di Agnone nel Molise” che Giustino Fortunato tratteggia in maniera struggente nel suo I giustiziati di Napoli. Quest’uomo “d’avanzata età”, prigioniero di un “picchetto di Calabresi”, alla domanda sulla sua identità con fierezza rispose: “Io sono il Presidente della Municipalità d’Agnone […] Viva la Repubblica Francese e Napoletana”.   

 

Epilogo   

 

In quei mesi fece la sua comparsa la funzione sociale del mito e dei simboli come strumento di lotta politica: l’albero della libertà, le coccarde, le bandiere, i canti, il senso di appartenenza. 

La formazione di un gruppo di uomini nuovi che volle proporsi quale classe dirigente troverà nel Decennio francese una sua occasione per sperimentarsi. L’esigenza di una più equa distribuzione dei demani, croce e delizia per i repubblicani, venne affrontata in ritardo, ossia ad aprile. Il 10 Maggio cadevano le ultime roccaforti giacobine.

 

Il semestre repubblicano rappresenta per il Mezzogiorno il passaggio politicamente 

più ardito da una società di antico regime alla modernità.

 

 Prologo

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LA SIBILLA CUMANA di Fabio De Paolis – N. 20 – Marzo-Aprile – 2021 – Ed. Maurizio Conte

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LA SIBILLA CUMANA

 

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“La Sibilla con bocca invasata pronunzia cose tristi, senza ornamento né profumi (indice di pessimismo) e attraversa con la sua voce migliaia d’anni (indice di decrepitezza) per opera del nume”. 

 

Non se ne conosce l’etimologia, ma il probabile significato di Sibilla è “Vergine Oscura” proprio perché viveva in luoghi oscuri, luoghi misteriosi e inaccessibili. In ogni caso era una profetessa di sciagure, una misteriosa veggente femminile che svolgeva attività mantica in stato di trance, una figura che incuteva timore e rispetto in tutti.

 

Fu Marco Terenzio Varrone, nel I secolo a.C., ad elencare dieci diverse Sibille 

collocate in regioni geografiche differenti: la Sibilla Persiana, quella Libica, 

la Delfica, la Cimmeria, l’Eritrea, quella Samia, la Sibilla Cumana, 

quella Ellespontica, la Frigia e la Sibilla Tiburtina.

 

Erano donne considerate esseri leggendari, mediatrici tra dio e l’uomo, spesso concepite come figlie di divinità e di ninfe, a volte divinità esse stesse. Non immortali, ma miracolosamente longeve, si diceva potessero profetizzare e vivere anche per un millennio. Una antica leggenda ci racconta che dalla città greca di Eritre in Lidia, la Sibilla Deifobe giunse a Cuma, in Campania. Deifobe era dotata di una bellezza straordinaria, a tal punto che Apollo se ne innamorò follemente. Nonostante la Sibilla fosse la “sposa” del Dio, mai si accoppiava fisicamente con lui: la Sacerdotessa, infatti, conservava intatta la sua verginità, poiché

“l’amore” di Apollo nei suoi confronti era solamente un “soffio” trasfuso in lei, conservandola nello stato di verginità.

 

Ciò nonostante il Dio Febo tentò invano con Deifobe ogni sorta di seduzione, e alla fine pur di averla le promise che, se gli si fosse concessa, le avrebbe esaudito ogni suo desiderio. Deifobe acconsentì, si chinò a raccogliere un pugno di terra, e chiese a Febo di vivere per tanti anni pari ai granelli contenuti nella polvere, che risultarono essere 1.000. Ma si scordò di domandare anche la perpetua giovinezza. Così, con il trascorrere del tempo (complice la promessa non mantenuta di giacere con il dio) divenne sempre più vecchia, raggrinzita, e piccola quanto una cicala, fino a quando di lei ne rimase solo la voce. A chi le chiedeva quale fosse il suo desiderio, da lontano e senza esser vista, rispondeva sconsolata: “La morte!”.

Tra le tante Sibille esistenti, quella Cumana è una delle figure 

più inquietanti della mitologia greco-romana.

 

Il culto di Apollo era allo stesso tempo negromantico e ctonio, aveva a che fare sia coi morti che con il mondo sotterraneo. La Sibilla Cumana fondeva in sé l’elemento iniziatico e negromantico con quello oracolare e furente. La Sacerdotessa (dotata di poteri divinatori concessi da Febo) pronunciava infallibili responsi, e vaticinava in esametri greci scritti su foglie di palma, i quali, mischiati dai venti provenienti dalle 100 aperture del suo Antro, erano resi “Sibillini”. 

 

Il poeta Virgilio ci racconta l’incontro tra Enea e la Sibilla Cumana:

 

“Un tempo Enea con i suoi marinai giunse sulle coste dell’Italia e al sacro tempio di Cuma dove Sibilla col custode e il sacerdote soggiornava. Lì c’è una porta ianua e orrenda. Enea strappò un ramo d’oro dal bosco e sacrificò pecore nere alla dea dei morti; allora Sibilla procedette per le ombre e per i vuoti regni dell’Orco. Innanzi il vestibolo giaceva lutto e preoccupazione della vigilia; in quel luogo tra i mondi dei vivi e dei morti anche bianche malattie, e la morte con altri mali dei vivi, e pensieri di vita e tormenti, guerra e discordia. Nel vestibolo l’olmo ombroso apre vecchi rami; sotto le foglie si fermano le ombre vane dell’olmo che sono considerate illusioni beate e incubi oscuri che spesso fanno visita agli uomini. Inoltre Enea vedeva molti mostri, vari tipi di belve, tra gli altri i Centauri, Scilla, Chimera e Arpia. L’inquieto Enea sguainò la spada contro i mostri poiché li credeva veri mostri. Ma Sibilla ammonì l’uomo con queste parole” deponi la spada Enea, perché i tuoi occhi fissano ombre, non forme vive”.

La Sibilla per vaticinare traeva ispirazione masticando foglie di lauro 

(la pianta sacra ad Apollo) e con libagioni di acqua di Fonte Sacra, 

ma soprattutto attraverso il respiro dei vapori effluvii che uscivano 

da fenditure del terreno nei pressi dell’Antro in cui viveva, a Cuma, 

località posta nella zona vulcanica dei Campi Flegrei.

 

Quando entrava in trance il dio Febo la possedeva completamente, prendendo il sopravvento sulle sue facoltà superiori dello spirito, sulla ragione, sull’intelligenza e sull’animo, sede della passione e dei sentimenti. Il cambiamento del colore del volto, il petto ansante e il cuore selvaggio che si gonfiava di furore, mostravano una ribellione della Sibilla al dio stesso, che cessava solo quando cessava il furore della possessione, e solo allora la rabbiosa bocca rimaneva quieta perché Apollo l’aveva abbandonata.  

 

Nel 1932 a Cuma, durante una campagna di scavo condotta dall’archeologo Amedeo Maiuri, venne scoperta una grotta che lo stesso identificò come il famoso “Antro della Sibilla“.

 

Dopo la sua scoperta il Maiuri affermò: “Il lungo corridoio trapezoidale 

alto e solenne come la navata di un tempio, e la grotta a volta 

e a nicchioni, formano un unico insieme. 

Era la grotta della Sibilla, 

 

l’antro del vaticinio quale ci apparve dalla poetica visione di Virgilio e della prosaica e non meno commossa descrizione dell’Anonimo scrittore cristiano del IV secolo”.  

All’antro si accede tramite una lunga galleria con 12 brevi passaggi laterali che si aprono sul fianco del colle, da cui filtra la luce. La galleria principale termina in un vestibolo contenente un paio di sedili scavati nella roccia e al di là di essi una camera a volta. Facilmente possiamo immaginare come, nell’imminenza della profezia (il responso di Apollo) i postulanti fossero fortemente emozionati. Erano seduti su gelidi sedili di roccia immersi nei vapori sulfurei. Giacevano nella penombra ascoltando la profetessa rabbiosa che vaticinava nascosta dalla porta che separava il vestibolo dal tempio interno. Erano in uno stato di esaltata aspettativa mistica mista a puro terrore.

 

Oltre alle folli grida di una vecchia di cui non se ne conosceva l’aspetto, 

anche l’effetto ottico e la suggestione all’interno della grotta erano tremendi:

 

durante il giorno, l’alternarsi di fasci di luce e oscurità originati dai pozzi lungo la galleria, faceva sì che chiunque provenisse dall’interno per condurre i nuovi arrivati al tempio apparisse e scomparisse. Ancora oggi, senza le suggestioni mistiche di un tempo, l’impatto è fantastico, perché si entra in una lunga galleria rettilinea a sezione trapezoidale dove non si riesce a cogliere la fine del percorso. Ed è per questo motivo che si avverte una sorta di sacralità di fronte a questa struttura misteriosa.   

 

La grotta identificata come l’antro della Sibilla ha subito interventi romani e bizantini, ma per il caratteristico taglio trapezoidale della parete, è databile in età molto arcaica, probabilmente risalente alla seconda metà del IV secolo a.C..

 

Chi oggi visita l’antro percorre un lungo corridoio di 131 mt con nove bracci, 

nella parte occidentale di questi, sei comunicanti con l’esterno e tre chiusi.

Verso la metà del corridoio, sulla sinistra vi è un braccio articolato in tre ambienti rettangolari disposti a croce, usati in età romana come cisterne. Sul fondo delle cisterne alcune fosse in muratura e fosse sepolcrali indicano che questa parte della galleria svolse in età cristiana funzione di catacomba. Poco più avanti lungo il corridoio c’è una sala rettangolare. Da qui un vestibolo a sinistra, anticamente chiuso da un cancello, introduce in un piccolo ambiente che si suddivide in tre celle minori disposte a croce. Questa stanza venne interpretata dal Maiuri come l’Oikos Endotatos, in cui la Sibilla, assisa su un trono avrebbe pronunciato i suoi vaticinii.  

 

Recentemente si è ritenuto che l’antro rinvenuto fosse una struttura difensiva. A sostegno di quest’ultima ipotesi vi sono la posizione della galleria posta sotto la sella che unisce l’acropoli di Cuma con la collina meridionale e l’analogia con altre strutture difensive.

 

Quindi la ricerca dell’antro della Sibilla non è ancora conclusa, ora lo si cerca 

nei pressi del peribolo del tempio di Apollo, dove è situato un ambiente 

quasi completamente sotterraneo, “la cisterna greca”.

 

Ma sono tutte ipotesi astratte, in concreto ci assiste sempre il poeta Virgilio che nel VI libro dell’Eneide così descrive l’Antro della Sibilla: “L’immenso fianco della rupe euboica s’apre in un antro: vi conducono cento passaggi, cento porte; di lì erompono altrettante voci, i responsi della Sibilla”.  

 

 

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L’ARBËRESHË IN CALABRIA UN PATRIMONIO DA TUTELARE di Michele Minisci – N.20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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L’ARBËRESHË IN CALABRIA UN PATRIMONIO DA TUTELARE

 

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ma la più folta è sicuramente l’Arbëreshë, gli albanesi d’Italia, con le prime pattuglie arrivate attorno al XV secolo per sfuggire all’avanzata turco-ottomana in tutti i Balcani, insediandosi specialmente nel nostro Sud ed in maniera più massiccia in Calabria, dove tutt’ora abitano circa 100.000 persone

Ma gli anziani se ne vanno e si portano via i proverbi, le canzoni, i pezzi di un mondo e così tutte le comunità minoritarie d’Italia, anche se in modi ed a livelli diversi, stanno affrontando la sfida del declino. A meno che non ci sia qualcuno che, realizzato il valore di ciò che si sta perdendo, incoraggi la collettività alla riscoperta delle proprie radici.  

 

E’ quello che sta facendo il Comune di Vaccarizzo Albanese – piccolo centro collinare di poco più di mille abitanti ai piedi della Sila Greca, di fronte alla pianura di Sibari, ricca di secolari uliveti e dorati aranceti, ed al mare Jonio – con il suo Museo del Costume Arbëreshë, cui è collegata una suggestiva Sagra annuale del costume, con delegazioni da moltissimi paesi. 

Il Museo, situato nel Palazzo Cumano (uno dei più antichi del paese), istituito dall’Amministrazione Comunale e da Papàs Giuseppe Faraco nel 1984, e faticosamente ma appassionatamente diretto da Silvia Tocci, custodisce vestiti originali – alcuni con più di 100 anni di vita – provenienti da molti paesi albanesi della Calabria.

Oggi, nell’Arberia – quel nucleo formato da un pugno di questi paesini 

che si affacciano sulla costa jonica così chiamato in omaggio 

alla madre patria – ci saranno appena 2-3 donne 

che portano ancora il costume tradizionale,


benché. stia prendendo piede, per volontà delle giovani ragazze, di sposarsi col costume di gala Arbëreshë.   

Ma vediamo più da vicino queste meraviglie, aiutati dalle precise e dettagliate note che si trovano nel sito del Comune

 

Il nostro costume, gelosamente custodito di generazione in generazione, 

rappresenta ancora oggi un forte simbolo d’identità 

e di appartenenza etnica


Esso è legato allo sviluppo dei tempi, nel senso che non si può non tenere conto dei rapporti intercorsi tra la nostra cultura e quella ufficiale, ma ciò nonostante, pur differenziandosi per fogge e colori, ha mantenuto intatta la nomenclatura originaria delle aree di provenienza albanese e la composizione di alcuni elementi: il diadema nuziale, il velo, la camicia con merletto, la lunga gonna a fitte pieghe, la cintura.

 

Il costume, indossato oggi solo da qualche anziana donna, in passato 

faceva parte della dote di ogni ragazza, che lo avrebbe portato 

nelle più importanti circostanze della sua vita.

 

Il vestito di gala si indossava infatti il giorno delle nozze, con una vestizione che era un vero e proprio rito, e poi in occasione di ricorrenze liete legate all’ambito familiare e sociale, o in quelle più importanti del ciclo dell’anno. La consuetudine di indossare il costume tradizionale si ritrovava poi in occasione di un lutto e, fino a non molto tempo fa, era anche uso vestire la salma con il proprio vestito nuziale. La sposa, in aggiunta alla dote normale, riceveva dei costumi da indossare oltre che nei giorni festivi, anche nei giorni feriali. Il costume Arbëreshë presenta, pertanto, diverse tipologie: il costume di gala, il costume di mezza festa ed ancora il costume giornaliero e quello di lutto.

 

Il materiale utilizzato per realizzare questi costumi era la lana per i contadini, 

mentre per il ceto più elevato il cotone, il lino e la seta, stoffe spesso prodotte 

nella chiusa economia domestica, così come i costumi 

che con esse venivano confezionati. 


Dal Settecento in poi, le diverse condizioni economiche e sociali permisero agli Arbëreshë d’Italia di affidare la cucitura delle varie fogge a maestri artigiani locali che iniziarono ad arricchire i costumi secondo il grado di ricchezza di chi lo richiedeva, variando la qualità, la fattura e la quantità degli ornamenti. Tutto ciò determinò l’adozione di tessuti più preziosi (laminati in oro, velluto, ecc.) che giungevano soprattutto da Napoli, centro di irradiazione culturale per le comunità Arbëreshë e, come per tutto il Mezzogiorno.

 

Il giorno delle nozze la sposa indossava lo splendido costume di gala.


La lunga camicia di lino o cotone bianco, con collo ornato da preziosi merletti lavorati all’uncinetto o in tulle, aveva una profonda scollatura chiusa da un piccolo copripetto di cotone bianco e ricami a vista. Sulla camicia vi era un corpetto corto, aperto sul davanti, in tessuto laminato in oro, color amaranto come la sopragonna. Il corpetto aveva, inoltre, polsi, lembi e la parte delle spalle ornati da preziosi galloni in oro. Particolarmente belle ed elaborate erano la gonna e la sopragonna a fitte pieghe ottenute con la tecnica del vapore, la prima in raso di seta laminato in oro nelle tonalità del rosso e ampio gallone in oro, la seconda sovrapposta a questa, in seta pura laminata in oro e con gallone in oro di colore solitamente rosa. La sopragonna veniva sollevata sul davanti e fissata dietro, in modo da consentire alla sposa di mostrare anche la gonna. Attorno alla vita la sposa indossava una sottile cintura in fili d’oro o argento con chiusura a rettangolo posta all’altezza del ventre e ricamata con gli stessi motivi ornamentali del diadema nuziale. Questi due elementi erano il simbolo distintivo della donna coniugata. 

I capelli venivano raccolti sulla nuca in trecce e annodati con fettucce bianche a cui si univano due piccole trecce laterali tramite un nastro nero, in modo da formare un unico chignon sul quale era posto il diadema nuziale. 

Il costume era completato da una stola di raso color amaranto bordata da gallone in oro e portata sulle spalle, da un velo in fili d’oro, o in tulle rosso con ricami in oro che ricopriva il volto ed il capo della sposa, da calze di cotone bianco lavorate ai ferri e scarpe rivestite dello stesso tessuto della sopragonna. 

Il vestito di gala era, infine, reso più prezioso dagli ornamenti in oro indossati: la collana d’oro rosso e doppio pendente a fiocco, con ciondolo decorato da smalti colorati, all’anulare della mano destra l’anello della fede, sul merletto una spilla, alle orecchie splendidi orecchini con frangia che riprendevano i motivi ornamentali della collana e della spilla. 

 

Il costume di mezza festa,

 

indossato dalla sposa per recarsi in chiesa le domeniche dopo le nozze, per visite di cortesia o in occasione di feste, comprendeva la lunga camicia di lino o cotone bianco con collo ornato da merletto, la gonna a fitte pieghe in raso color amaranto ornata sull’orlo da ampio gallone in oro, oppure, se si trattava di occasioni meno importanti, la gonna pieghettata in seta grezza e cotone o in lana pettinata, ornata lungo il bordo inferiore da una striscia di tessuto in raso verde. Il corpetto, confezionato con panno nero o velluto, era ornato alle spalle ed ai polsi da larghe fasce di galloni in oro; le maniche erano rifinite da preziosi ricami, sempre in oro, a motivi floreali. Il vestito di mezza festa era, inoltre, completato da un grembiule di seta color azzurro ricamato con fili d’oro, da un fazzoletto da testa di seta giallo o arancione ed infine da uno scialle verde o marrone di lana pregiata, ornato da frange.      

 

Sono pochissime oggi le donne anziane che indossano

 

il costume giornaliero, semplice all’apparenza sia nella foggia che nei tessuti, 

ma, in realtà, non facile né da indossare, né da portare.


La lunga camicia di lino o cotone bianco è indossata sotto una sorta di gilet in cotone resistente di vari colori, con la funzione di sorreggere il seno. La profonda scollatura della camicia è chiusa da un piccolo copripetto, in modo da coprire meglio il seno e consentire, un tempo, alcuni movimenti compiuti durante il lavoro nei campi. Il corpetto è in raso, lana o velluto nero, ricamato con filo di seta nero. La gonna è in cotone rosso, con il fondo ornato da una balza arricciata. Il capo è coperto da un fazzoletto di cotone o lana legato dietro la nuca, il grembo da un grembiule di cotone.

 

La sagra del Costume Arbëreshë che si tiene ogni anno: 

è un’occasione di promozione, oltre che di valorizzazione 

del nostro patrimonio culturale.


Nei tre giorni di festa si può assistere a convegni, mostre e sfilate dei tradizionali costumi provenienti da numerose comunità Arbëreshëe e, in serata, all’esecuzione di balli e canti tradizionali da parte dei gruppi presenti, il tutto accompagnato dalla degustazione di piatti e dolci tipici.   

 

Ecco, questo è tutto quello che rimane – e meno male – nella nostra memoria di Arbëreshë, ovvero degli albanesi d’Italia, sbarcati attorno alla metà del XV secolo. Ma la cosa ancora più grave – mi sottolinea infine con rammarico Silvia Tocci – è che si sta perdendo anche la lingua. Certo, per molti anni sono stati in vigore finanziamenti statali e regionali a difesa delle minoranze linguistiche con corsi di lingua albanese in alcune classi delle elementari e medie, ma da oltre dieci anni non esistono più (sic!). 

 

 

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IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE di Agostino Picicco – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2020

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IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE

 

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Al di là dei favoleggiati tesori nascosti dai briganti in antiche torri, le cui storie avventurose e romantiche si raccontano ancora oggi, magari con meno fascino di un tempo,

il fenomeno del brigantaggio meridionale postunitario è progressivamente 

disvelato nei suoi aspetti più prosaici.


Contribuisce a quest’opera di verità la recente pubblicazione dello studioso Valentino Romano, autore di vari volumi sul tema, con particolare attenzione alle radici sociali del fenomeno. Nel volume “Un popolo alla sbarra” (Secop Edizioni), Romano porta alla luce

gli atti processuali relativi alla lotta al brigantaggio attuata 

dal Generale marchese Emilio Pallavicini, 


inviato a debellare definitivamente il fenomeno, con poteri speciali rispetto alla giustizia e ai compiti di polizia ordinari.  

Il Generale è già noto alla storia perché il 29 agosto 1862 aveva guidato la colonna che all’Aspromonte aveva fermato la spedizione che Garibaldi conduceva dalla Sicilia per la conquista di Roma e aveva ordinato l’attacco durante il quale lo stesso Garibaldi fu ferito. Superata la resistenza opposta dai volontari garibaldini,

Pallavicini ottenne la resa di Garibaldi.


Tra il 1863 ed il 1864, riuscì a sgominare le bande dei briganti, facendo pagare un grande prezzo in vite umane. Pallavicini e la sua “Colonna Mobile”, comprendente vari reparti dell’Esercito,

fu infatti inviato dallo Stato a sedare le rivolte,


settore in cui era militarmente esperto, e lo fece in modo spregiudicato pur di raggiungere gli obiettivi che si era posto, senza tenere conto del valore della vita umana e delle istanze sociali del popolo. E così riuscì a sconfiggere e distruggere nella zona murgiana della Puglia le bande di Ninco Nanco, Carmine Crocco, Ciucciariello (Riccardo Colasuonno). Ecco allora che –

esaminando le carte dell’epoca – emergono i tanti casi di briganti fucilati 

durante i trasferimenti, mentre tentano la fuga 

(così dicono i rapporti della scorta), 

e non si tratta di casi isolati.


É fondato il sospetto che si tratti di un modo per liberarsi di loro evitando pastoie burocratiche e procedure garantiste.  

Il libro di Romano rivela, grazie all’esame dei documenti processuali e di polizia, tutta una casistica, anche umana, con storie di paese, drammatiche e talvolta ironiche, di un mondo di povertà in cui si incontrano soldati, grassatori, manutengoli, pubblici amministratori che facevano a “scaricabarile” delle loro incombenze. 

Il brigantaggio, che è sempre tema attuale di studio, diventa la feritoia per esaminare la storia post unitaria, al di là degli stereotipi e delle posizioni ideologiche.  

L’esame approfondito delle sentenze, proposto dall’autore, denuncia il pressapochismo spesso doloso della giustizia militare, in qualche caso rimediato dalla magistratura ordinaria.

Essere parenti di un brigante era in sé una colpa, lo stesso incrociare per caso

i briganti per strada, portare una pagnotta in più in tasca (fosse anche per i figli) 

voleva dire voler rifornire di viveri i briganti.


Tante ingiustizie furono evitate, a prezzo di discredito e di numerosi mesi in carcere, che non prevedevano risarcimenti di alcun genere. 

Il contesto è quello di una società poverissima, dove non lavorare un giorno voleva dire la fame per la famiglia, e dove il furto in fattoria, da parte dei briganti, di un mulo o di un maiale, il primo come strumento di lavoro e il secondo come mezzo di sostentamento, era un danno gravissimo. Quanto descritto nel libro di Romano ci restituisce

una realtà complessa ancora da studiare e interpretare bene, 


perché non si è ancora trovata la verità. E il contributo dell’autore va proprio in questa direzione

 

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NOBILI INTELLETTI PER GLI INTERESSI DEL SUD di Tommaso Russo – Numero 19 – Dicembre 2020 – Gennaio 2021

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NOBILI INTELLETTI PER GLI INTERESSI DEL SUD

  L’ASSOCIAZIONE NAZIONALE PER gLI INTERESSI DEL MEZZOGIORNO D’ITALIA: ANIMI  

 

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Le origini 

 

 

Nel dicembre 1908 un violento terremoto distrusse Messina e Reggio. Si costituirono subito Comitati di solidarietà in molte città d’Italia per far fronte ai danni. Il vicentino Giovanni Malvezzi (1887-1972), componente del board del Credito italiano, vicedirettore dell’IRI, arrestato per partecipazione alla Resistenza, fu uno dei primi manager-filantropi a concretizzare il suo impegno per il Mezzogiorno. All’indomani del sisma, con Umberto Zanotti Bianco (1889-1963) prese a girare l’Aspromonte occidentale per un’inchiesta sui Comuni disastrati. Al termine del lavoro, mentre facevano rientro a casa, nella stazione di Pizzo i due si imbatterono in Padre Giovanni Semeria. Accusato di modernismo e perciò costretto da Pio X ad andare all’estero, il “prestigioso barnabita” li ascoltò attentamente: “Non esaurite la vostra azione con qualche bel racconto;” – disse – “bisogna agire, seriamente agire se volete ottenere qualcosa in questa disgraziata terra”. 

 

Quell’invito, innestandosi sull’entusiasmo di entrambi, avrebbe dato vita, di lì a poco, all’ “unica forza finora organizzata in Italia per il risveglio delle provincie meridionali”, come disse Giustino Fortunato. 

 

Avevano pensato a lui, o a Leopoldo Franchetti, o a Sidney Sonnino come a padri nobili per il loro progetto di “risveglio”. Dopo una prima riunione a Oria di Valsolda, nella villa di Antonio Fogazzaro, e dopo un secondo incontro a Oreno, nella villa del conte Fulco Tommaso Gallarati Scotti, Malvezzi, Zanotti Bianco, il nobile lombardo e altri partecipanti individuarono in Franchetti la persona adatta per quello scopo. Andarono a trovarlo a Firenze, a Villa Wolkonsky. Dopo un’appassionata discussione, accettò di essere il primo presidente effettivo dell’Associazione.

 

Il 9 marzo 1910, in Senato, presidente onorario Pasquale Villari, Franchetti 

e vice Luigi Bodio (il padre della statistica italiana), si costituiva l’ANIMI. 

 

Nel quinquennio 1910-1915 tra i primi finanziatori si ricordano alcuni ministeri (Interno, Pubblica Istruzione, Grazia e Giustizia, Tesoro) e tre istituti bancari (Bankitalia, Banco di Napoli, Cassa di Risparmio di Torino). Dal 1918 Bonaldo Stringher con l’industriale milanese Ettore Rusconi formerà la coppia di vicepresidenti.   

 

Dopo il 1918 si amplia il fronte dei finanziatori. Accanto a Banca Commerciale 

e Banco Italiano di Sconto si collocano numerose industrie, 

 

fra cui Ansaldo, Breda, Ilva, Ferriere Piemontesi, Pirelli. Nel secondo dopoguerra la platea si allarga ancor più: Banco di Santo Spirito, MPS, Credit e poi tante imprese, fra cui: Chatillon, IBM, Istituto Romano di Beni Stabili, Montecatini.  Il governatore Donato Menichella era il vice di Ivanoe Bonomi. 

 

La costruzione della fitta rete di finanziamenti, di rapporti sociali e istituzionali va attribuita senz’altro a Zanotti Bianco, che la tenne in vita anche in momenti difficili.  

 

In giro con l’ANIMI per il Mezzogiorno 

 

A favorire la realizzazione dei progetti ANIMI, di cui qui se ne offre una sintesi, fu l’idea che solo la divulgazione dei saperi e delle conoscenze applicate alla vita e al lavoro quotidiani potesse sollevare le sorti del Sud.     

 

In mezzo secolo (1910-1960) furono creati asili infantili, scuole diurne, serali 

e festive, biblioteche, ricreatori, cicli di conferenze dalla storia del Risorgimento 

alla necessità dell’igiene individuale e collettiva negli asili e nelle scuole. 

Vennero organizzati a Gerace e a Taranto corsi di formazione per maestri sui temi dell’igiene scolastica e domestica, su tracoma, malaria, Tbc, alcolismo. Nel 1912-1913 a Taranto venne aperta una scuola di disegno per gli operai dell’Arsenale. Visto il successo, se ne aprì a Reggio una di arte applicata all’industria. 

 

Nell’asilo infantile di Melicuccà furono selezionate “le prime maestre laiche con patente per scuole materne” e conoscenza del metodo Montessori. Altri asili, nel 1920, vennero aperti in Calabria, Campania e Puglia. Nel primo anno di vita si aprirono biblioteche a Bernalda, Castrovillari, Lauria, Metaponto, Palmi, Reggio, Roccella, Taranto e Villa San Giovanni.    

 

Furono costituite cooperative di pescatori, istituite “cattedre ambulanti 

per la previdenza e la mutualità”, istituti diagnostici “per le malattie 

del sangue, del petto, dello stomaco, nervose”. 

 

Il terremoto del 1914 nella Sicilia occidentale e quello del 1915 nella Marsica videro l’ANIMI impegnata con tutti i suoi mezzi e risorse.Alla fine del conflitto si costruirono in Calabria laboratori di tessitura e scuole di taglio e cucito per ragazze. 

 

Durante il fascismo la realizzazione dei progetti si fece complicata a causa dell’autonomia che l’ANIMI volle sempre conservare. Tuttavia continuò, per esempio, l’apertura di biblioteche dell’Associazione che via via si fusero con le popolari, dando vita “a biblioteche di cultura con comuni sale di studio”.  

 

Con la Collezione di studi meridionali passata da Vallecchi a Lacaita, con la pubblicazione annuale dell’Archivio storico per la Calabria e Lucania, con la Società Magna Grecia e col suo periodico Atti e Memorie della Magna Grecia, con la Biblioteca Giustino Fortunato, la più specializzata sui temi del meridionalismo con i suoi quarantamila volumi,

 

l’ANIMI oggi può essere considerata un prestigioso centro 

di ricerche e studi sul Mezzogiorno. 

Nota finale 

 

Mette conto sottolineare che l’ANIMI nasce negli anni centrali dell’età liberale, del riformismo giolittiano e si avvale del clima di entusiasmo e ottimismo che pervadeva quel decennio.  

  

Chi furono i protagonisti di quell’avventura e quali 

le ragioni che la resero importante?

 

Agli incontri nelle ville parteciparono esponenti di quel cattolicesimo tormentato ma aperto al nuovo (Fogazzaro), desideroso di misurarsi dal di dentro con l’eresia del Novecento: il modernismo. Infatti Antonio Aiace Alfieri (primo direttore in Calabria seguito da Alessandro Marcucci), Alessandro Casati e Gallarati-Scotti nel 1907 fondarono la rivista Rinnovamento che di quella corrente cattolica per breve tempo fu autorevole espressione. 

 

Quel milieu culturale inoltre era segnato dalla presenza, in parte, di un capitalismo finanziario moderno e razionale; dal costume filantropico di settori della borghesia e della nobiltà lombarde attente nel suscitare e guidare processi di cambiamento; dalle coordinate teoriche del miglior liberalismo del primo Novecento.

 

Infine, la ragione principale per i risultati ottenuti in un ambiente difficile 

è da ricercarsi nella forte carica di eticità presente nell’azione 

di ogni singolo componente di quel gruppo. 

Senza enfasi, si può affermare che quel manipolo di uomini dette vita ad una stagione del meridionalismo mai più veduta in Italia.  

 

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Piccola bibliografia 

 

Alatri Giovanna, Una vita per educare tra arte e socialità: Alessandro Marcucci (1876-1968), Milano, Unicopli, 2006. 

 

L’ANIMI nei suoi primi cinquant’anni di vita, Collezione di studi meridionali, Roma, 1960. 

 

Calbi Mimmo, Un violento companatico. Umberto Zanotti Bianco e la Basilicata, Bari, Palomar, 1992. 

 

La divina droga. Chinino e lotta alla malaria in Italia all’alba del Novecento, Milano, La Vita Felice, 2015. 

 

Galante Garrone Alessandro, Zanotti-Bianco e Salvemini. Carteggio, Napoli, Guida, 1983. 

 

Per una storia dell’ANIMI (1910-2000). I Presidenti, Manduria, Pietro Lacaita, 2000. 

 

Russo Tommaso, Istruzione e sociabilità in Basilicata 1900-1921, Milano, Franco Angeli, 2004. 

 

Semeria Giovanni, Lettere pellegrine, Venosa, Osanna,1991. 

 

Zanotti-Bianco Umberto, La Basilicata. Storia di una regione del Mezzogiorno dal 1861 ai primi decenni del 1900, Venosa, Osanna,1989. 

 

UNA INEDITA NARRAZIONE A SUD di Giuditta Casale – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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una inedita narrazione a sud

 

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La voce della classe intellettuale che l’ha segnato e disegnato è stata quasi dimenticata e sommersa dalla dicotomia tra aristocratici e cafoni, o cancellata dal ritratto di un Sud ricco di tradizioni ancestrali e lontano dalla modernità.  

 

Ed ecco che mi imbatto felicemente in 

 

due romanzi che colmano quel vuoto narrativo: Breve storia del mio silenzio (Marsilio) di Giuseppe Lupo e Sud (Bompiani) di Mario Fortunato, due scrittori indiscutibili 

e autorevoli della narrativa contemporanea italiana.


Lo sguardo intimo e privato, anche se dispiegato con un diverso respiro e ritmo narrativo, più affine al 
mémoire per Giuseppe Lupo e più legato al romanzo storico per Mario Fortunato, è l’elemento che nel libro della mia memoria ha intrecciato e intessuto tra loro i recenti romanzi di entrambi. 

Breve storia del mio silenzio è un’autobiografia intellettuale che passa attraverso l’omaggio ai genitori dello scrittore, come evidenzia la dedica: “ai miei genitori, i primi maestri, e a tutti gli altri che lo sono stati”. È il racconto della propria formazione infantile e giovanile, mediata dal padre e dalla madre, entrambi maestri elementari, aperti alla modernità che si manifesta attraverso la cultura, i libri, i giornali, le case editrici, la scuola, in un piccolo paese della Basilicata.

   

Giuseppe Lupo attraverso la figura dei genitori rappresenta una Lucania colta, 

aperta, interessata e curiosa tra gli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso,

 

che finora non ha trovato uno spazio letterario e una narrazione romanzesca per quanto riguarda la Lucania nello specifico dello scrittore, e la narrazione del Meridione a sud di Napoli nella dimensione più generale della letteratura italiana. Breve storia del mio silenzio riempie così un vuoto nella narrazione di sé che gli scrittori lucani hanno proposto della loro terra.  

 

“La Lucania” – afferma Giuseppe Lupo – “è stata raccontata spesso attraverso alcuni stereotipi, primi fra tutti la civiltà contadina e il suo contrario. Io non ho vissuto la Lucania dei contadini. La Lucania che io ho vissuto fino a 18 anni, cioè fino a quando non sono partito per Milano, è una terra ancora premoderna, ma che ha tutto il desiderio di varcare la soglia della modernità. In più aggiungo che la Lucania vissuta e filtrata attraverso la mia famiglia ha molto a che vedere con il movimento di uomini, di libri e di idee che negli anni Sessanta e Settanta è stato particolarmente attivo. Da qui discende questo mio romanzo.

 

È sbagliato pensare che in Lucania non sia esistito un dibattito intellettuale parallelo 

al tentativo di varcare la soglia del moderno compiuto dai nostri emigranti.

 

All’interno di questo panorama si colloca la storia della mia famiglia, in particolar modo di mio padre, che è stata una presenza lucida nel dibattito e forse anche originale, avendo scommesso gran parte delle sue energie sui temi della cultura come strumento di riscatto umano e sociale. Credo che questo libro possa aggiungere un tassello all’immagine di Lucania che tra gli anni Sessanta e Settanta tenta la strada del cambiamento. L’aver dedicato ai miei genitori il libro è anche un segno attraverso cui io cerco di dichiarare che esiste una chiave di lettura concreta a chi afferma solo la civiltà contadina o a chi la nega”.

Come il protagonista di Breve storia del mio silenzio abbandona la sua terra d’origine per Milano in cui proseguire gli studi e inseguire l’impellente vocazione letteraria, mutuata inconsapevolmente dal padre, così anche il romanzo 

di Mario Fortunato, Sud, comincia con una fuga: 

 

la scelta di Valentino, seguendo l’insistito consiglio materno, di allontanarsi dal paese in cui è nato e di andare a vivere lontano di lì. Il romanzo è una saga familiare, o meglio bifamiliare perché la famiglia del Notaio si intreccia con quella del Farmacista, ma entrambe conservano le proprie specificità senza confondersi, attraversando tutto il Novecento scandito dalla Storia.

 

Il Notaio, suo figlio l’Avvocato, il Farmacista e le donne, forti e determinate, 

che li accompagnano raccontano un Sud che dal mio punto di vista di lettrice 

è ancora inedito e non del tutto esplorato. 

 

Non c’è nulla di preciso, locale o caratterizzante a specificare la natura geografica del Meridione in cui il Notaio, il Farmacista e la loro ampia discendenza vivono. Che sia la Calabria lo si evince da piccole notazioni sempre marginali e mai essenziali, come a voler sottolineare 

 

una più ampia e non regionalistica dimensione geografica: non la Calabria, 

ma il Sud, inteso come tutto ciò che si estende sotto Napoli.

 

Dal mio punto di vista di lettrice ogni narrazione che abbia il Sud nel proprio immaginario non può che avere un pizzico di realismo magico, ma quello che rende affascinanti i personaggi di Mario Fortunato è il loro vivere drammaticamente e spavaldamente nella Storia. La Storia tormentata del Novecento, che senza nessun accademismo lo scrittore ha saputo incistare nel destino dei personaggi in modo intimo e introspettivo. Personaggi che si percepiscono come familiari e indimenticabili non solo perché vivono nella Storia, ma perché vivono la Storia. Anche in questo 

 

una narrazione inedita del “Sud” che da sempre si è percepito, e dunque raccontato, come vittima della Storia, in particolare dall’Unità d’Italia, 

più che agente nella Storia del paese.

 

Sia Giuseppe Lupo che Mario Fortunato hanno lasciato il Sud in cui sono nati, e vi ritornano entrambi con una storia sul Sud che non ricalca stereotipi e cliché. La distanza probabilmente ha giocato un ruolo importante nella trasparente lucidità dello sguardo, o forse più che la distanza poté la nostalgia.  

 

“Credo sia stato il distacco” – mi risponde Mario Fortunato – “la chiave che mi ha consentito l’accesso al racconto. Erano più o meno trent’anni che sapevo che prima o poi avrei scritto questo libro. Certo, non esattamente in questa forma, e tuttavia sapevo che un giorno o l’altro avrei scritto di quel mondo mediterraneo, pieno di fascino, di mistero, di contraddizioni e di straordinaria bellezza, di cui io stesso ero stato parte. Perché non ho affrontato prima quel nodo? Non lo so di preciso,

 

I romanzi – alcuni romanzi perlomeno – hanno bisogno di tantissimo tempo 

per mettersi a fuoco.

 

In un certo senso sapevo, anche se in maniera inconsapevole, che avevo bisogno di ripulire il mio sguardo proprio da quei cliché e luoghi comuni sul Sud a cui tu ti riferisci. Per me la scommessa era di scrivere di qualcosa che mi appartiene profondamente con la felice ironia di chi si sente veramente libero, di chi insomma è un po’ straniero.”

 

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ho sempre pensato

se non dal punto di vista saggistico, critico e di storia della letteratura, certamente da quello narrativo e romanzesco. 

VILLA CUPOLA DI ANTONIONI E MONICA VITTI di Aurora Adorno – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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più ampia, molto più consueta, nient’affatto irregolare, ma che svanisce in lontananza.

 

Creste di colline come brughiera, irrilevanti, che si vanno perdendo, forse, verso un gruppetto di cime… Incantevole spazio intorno e distanza da viaggiare, nulla di finito, nulla di definitivo. È come la libertà stessa.” 

(David Herbert Lawrence) 

 

“Non sta mai fermo. Mai. Mai, mai. 

Io non riesco a guardare a lungo il mare. Sennò tutto quello che succede a terra non mi interessa più”, sussurrava una giovanissima Monica Vitti spiando il mare da una finestra in Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni, film con il quale entrambi vennero catapultati nella storia del cinema italiano.

Negli anni ‘60 l’attrice incontrava l’architetto Dante Bini durante una partita di tennis 

a Cortina e rimaneva ammaliata dai suoi racconti sulla Binishell, 

una struttura a guscio sottile in cemento armato dalla forma di una cupola modellata dalla pressione dell’aria; Monica ne parlò subito al suo compagno che, stregato dal sogno di un paradiso per due, fece costruire nella natura incontaminata della Gallura il tempio di un amore nato tra le piante di sughero e tra i lecci, al profumo dei mirti e dei ginepri.  

 

La passeggiata attraverso la macchia mediterranea conduce al centro di una piscina naturale, la parte anteriore della costruzione, che si estende a sessanta metri sopra la spiaggia, guarda sul mare fino addirittura alla Corsica. 

Il progetto di quella strana villa divenne una vera e propria opera d’arte

in cui la cupola pareva sorgere dalla terra mimetizzandosi con le sfumature rosse della costa, nel territorio di Trinità d’Agultu. 

 

L’ingegno dell’uomo e quello della natura si erano incontrati, entrambi testimoni di un sentimento promesso ma non mantenuto: in essa il loro amore non si specchierà mai rimanendo nell’aria come il ricordo di quell’estate del 1964. 

Un grande amore è come l’arte: può vivere in eterno, anche se finisce. Così ancora oggi

la cupola è rimasta immobile, ferma, intenta ad osservare il mare 

come nella scena del film, 

testimonianza del sodalizio artistico e sentimentale di una delle attrici più famose di tutti i tempi con quel pittore che seppe reinventare il cinema italiano.  

 

Michelangelo Antonioni poliedrico artista mutò tante volte quante sono state le facce della sua creatività: sceneggiatore, regista, pittore e poeta esordì nel 1950 con Cronaca di un amore, il film che vide la fine del neorealismo e consacrò una nuova stagione del cinema. Tantissimi i premi vinti dal grande regista che proprio con Il deserto rosso ottenne il Leone d’oro al miglior film. 

E poi lei, 

Monica Vitti, immensa quanto semplice, divina quanto imperfetta, incarnazione 

di un talento totale che imperversava sul set come l’ira di un ciclone, 

carica  di quella “comica disperazione”

 

che l’ha resa celebre; la grande stella che sempre brilla sovrana nel firmamento del cinema italiano: il naso aquilino che sempre rifiutò di modificare, quella voce rauca, profonda, di cui si vergognava ma della quale il pubblico non riesce ancora oggi a scordarsi, il coraggio di cimentarsi in un mondo che ai tempi non si addiceva ad una ragazza di buona famiglia; quegli occhi vivi, cristallini nei quali le emozioni si riflettono come un diamante precipitato in un fondale sabbioso. 

“Con il mare ho un rapporto travolgente, quando lo vedo muoversi, impazzire, calmarsi, cambiare colore, rotta. È il mio amante”, diceva la diva d’altri tempi, vera, trasparente, immortale.

Rem Koolhaas, curatore della 14° Biennale di Architettura di Venezia, ha definito 

la villa come “una delle architetture migliori degli ultimi cento anni”,

oltre a sottolineare il valore affettivo della cupola che stregata dai magici tramonti, si specchia nel mare turchese della Costa Paradiso, celebrando il sodalizio artistico e sentimentale di Monica e Michelangelo.  

 

Oggi la villa futuristica di proprietà privata si trova in stato di abbandono ed è oggetto di una petizione su Change.org promossa da De Rebus Sardois, il portale web che si occupa di cultura, design e architettura ed opera sul territorio sardo. 

Nel 2015 la Soprintendenza della provincia di Sassari e Nuoro ha dichiarato la Cupola luogo di interesse culturale e si è parlato di un possibile accordo tra privato e istituzioni per recuperare l’opera e valorizzarla.

Le idee sono molteplici: da quella di realizzare uno spazio espositivo 

al polo museale. 

 

Monica Scanu, presidente regionale del Fai, si è detta interessata a sensibilizzare il proprietario ad una collaborazione. La Binishell non è solo una gettata di cemento gonfiata dalla pressione dell’aria, ma una vera e propria creazione architettonica, un richiamo per professionisti, artisti internazionali e per gli amanti del cinema che davanti ad essa giungono a dare il proprio omaggio.  

 

Quando l’amore e l’arte si cristallizzano nell’aura di un’opera come questa, in cui l’ingegno umano finisce per intridersi inevitabilmente con la bellezza del paesaggio selvaggio, con le dune di sabbia e il verde delle campagne, non stiamo più parlando di un oggetto qualsiasi che con il deteriorarsi del tempo può essere abbattuto e sostituito;

la Cupola di Antonioni e della Vitti vive di vita propria, è testimone di un grande amore e di una parte della storia del cinema che ha reso celebre 

il nostro Paese in tutto il mondo.

 

Davanti alla villa con il cielo della bella Sardegna come sfondo e il mare negli occhi e nel cuore, una giovane Monica Vitti recita le frasi del suo copione, confidando il suo struggimento al vento che le scompiglia i capelli. “Il segreto della mia comicità? La ribellione di fronte all’angoscia, alla tristezza e alla malinconia della vita”, confessa l’attrice in una vecchia intervista; e ancora aggiunge:  

 

“Faccio l’attrice per non morire, e quando a quattordici anni e mezzo avevo quasi deciso di smettere di vivere, ho capito che potevo farcela a continuare solo fingendo di essere un’altra, facendo ridere il più possibile”. 

Alle sue spalle Michelangelo la osserva, curioso cerca di dirigere quel talento indomabile e ribelle, di cui inevitabilmente finisce per innamorarsi. 

“Cominciando a capire il mondo attraverso l’immagine, capivo l’immagine, la sua forza, il suo mistero”, dice a proposito del grande schermo. 

Discutono, con il sapore salmastro del mare che si impasta alle parole, mentre le idee si incontrano e si scontrano e tutto finisce con un bacio lungo, avvolgente, come quelli dei film che li vedono protagonisti; gli occhi della musa si imprimono in quelli del suo artista.  

 

Non possiamo calare il sipario sopra una scena così importante della nostra storia,

dovremmo invece dare valore a quegli angoli del nostro Paese in cui l’uomo 

trova nella natura conciliazione alla propria esistenza 

 

e una fonte di ispirazione attraverso la quale esprimere la propria creatività. 

L’arte trascende la vita, il tempo e anche la morte e ci ricorda che essa è eterna, proprio come l’amore. 

 

 

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VILLA CUPOLA DI ANTONIONI E MONICA VITTI

 

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 Stelle al Sud

Stelle al Sud

 

Con la serie “Stelle al Sud” Myrrha va alla ricerca di alcuni tra i tanti personaggi celebri la cui arte si è in qualche modo intrecciata con la natura incontaminata di un Sud selvaggio e incantatore, divenuto per essi fonte di ispirazione, talvolta dimora d’elezione.

 

 

LA MECCATRONICA PUGLIESE di Stefania Conti – Numero 18 – Settembre-Ottobre 2020

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LA MECCATRONICA PUGLIESE 

 

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nel firmamento dell’industria meridionale, una stella lucente che per anni è stata in testa a tutte le classifiche delle esportazioni, che ha resistito alla crisi e sta resistendo al Covid.   

 

 

È il settore della meccatronica pugliese. Quello della meccatronica è un comparto relativamente recente (a livello nazionale una trentina di anni) che unisce la meccanica all’elettronica e opera quasi esclusivamente per l’auto o comunque per i veicoli a motore. Automotive in inglese e per gli addetti ai lavori. Ovvero il ramo dell’industria manifatturiera che li progetta, li costruisce, fa marketing e li vende. Grossa parte è costituita dalla componentistica, cioè quell’insieme di attività, di lavorazioni e dispositivi elettronici che messi insieme (e venduti a terzi) servono per realizzare una apparecchiatura più complessa, in questo caso i veicoli. 

Ebbene la Puglia ha creato un insieme di aziende che non hanno bisogno 

di invidiare il triangolo industriale del Nord Italia quanto 

ad export, innovazione e occupazione.


Non lo diciamo noi, ma il report annuale di Intesa San Paolo, in cui vengono analizzati i dati sulle esportazioni dei distretti industriali italiani e che, nel 2019, ha riconosciuto alla meccatronica pugliese il maggior incremento di 
export in valore assoluto.  

 

Il segreto del successo sta tutto nella perfetta sinergia tra l’Università di Bari, una delle prime ad avere la facoltà di informatica che fornisce tecnici altamente specializzati (l’80% trova lavoro subito); il progetto Puglia Sviluppo – che utilizza i fondi europei destinati alle imprese – e la regione Puglia; il grande spazio e le grandi risorse destinate alla ricerca. E poi l’apporto delle grandi multinazionali dell’auto, da anni ormai presenti nella filiera sul territorio, filiera che ebbe il suo battesimo con le Partecipazioni Statali ed ha resistito molto bene alla loro fine.  

 

Esempi? A Valenzano (BA) e a Foggia c’è il centro ricerche FCA che studia i motori di prossima generazione. A Lecce, la Elasis lavora nel settore delle macchine per il movimento terra. A Modugno, la Bosch produce pompe ad alta pressione per i motori diesel e la GETRAG fabbrica trasmissioni manuali di auto. Sempre a Modugno, la Magneti Marelli Powertrain produce componenti elettronici per motori ibridi. A Monopoli, la MERMEC progetta e sviluppa veicoli ferroviari e sistemi avanzatissimi per il segnalamento ferroviario. Potremmo continuare, perché

 

uno studio dell’Unioncamere barese ci informa che nel 2019 

c’erano oltre 2.200 imprese con oltre 18 mila dipendenti.


Ma adesso c’è il Covid e l’economia italiana ha già subito una bella mazzata e trattiene il fiato per vedere cosa succederà ora con la seconda ondata. In Puglia però si sono rimboccati le maniche e le imprese hanno mostrato una notevole capacità di diversificazione e di flessibilità nella produzione. 20 aziende del distretto della meccatronica si sono alleate e si sono accordate con una impresa del Friuli Venezia Giulia per produrre mascherine chirurgiche e FFP2. L’azienda friulana – specializzata nell’elettrotermia – produce macchinari per sterilizzare a secco le mascherine (quindi senza agenti chimici) prima che vengano assemblate. I 20 pugliesi hanno fatto l’impianto vero e proprio, capace di produrne 144 mila al giorno. La MBL Solutions di Corato (BA) lo ha progettato in maniera del tutto robottizzata. Gli altri 19 produttori di macchine ed impianti automatizzati, di impianti elettrici, officine meccaniche di precisione, aziende di carpenteria meccanica, distributori e rivenditori di componentistica industriale di automazione, si sono subito attivati per reperire componenti nel minor tempo possibile e realizzare il macchinario chiamato “Cento.1”.  

 

Ancora, la Masmec di Bari – 30 anni di vita, 35 milioni di fatturato -, proprio a causa della pandemia, ha affiancato alla sua attività principale, cioè l’assemblaggio e il test di componenti per i veicoli a motore, quella del biomedicale, grazie alla piattaforma di liquid handling, cioè la manipolazione automatizzata dei liquidi. Si chiama sistema Omnia ed ha già 10 anni.

 

Con l’insorgere della pandemia, la Masmec si è subito messa in moto 

per l’assemblaggio delle mascherine, seguendo le indicazioni 

del Politecnico di Bari sulle caratteristiche 

che queste devono avere.


Non solo. Ha creato – attraverso la tecnologia Omnia e con l’ausilio di un nucleo di esperti – un sistema per realizzare una piattaforma che acceleri l’estrazione della molecola dai tamponi Covid, passando più rapidamente alla successiva fase di diagnosi di tale patologia. In questo modo, possono essere analizzati 24 tamponi impiegando lo stesso tempo in cui un operatore riuscirebbe ad analizzarne uno solo. Dando così una notevole mano ai laboratori diagnostici, oggi oberati fino al collo. Se la Masmec di Bari ha potuto fare tutto questo, è perché investe tra il 15 e il 20 per cento del suo fatturato nella ricerca.

E questa è un’altra caratteristica della meccatronica in Puglia. Dove la grande industria lavora insieme alle piccole e medie imprese del territorio 

e ha il suo punto di forza nella integrazione tra pubblico e privato 

per fare ricerca avanzata.


Nella programmazione 2007-2013 la Regione ha destinato 478,6 milioni di euro per ricerca e innovazione, ha chiuso 34 contratti di programma (la metà attivata con imprese multinazionali straniere) per progetti da realizzare sul territorio ed ha dato vita ad un sistema innovativo rientrante in quell’insieme di metodi e tecnologie – comunemente noto come 
Infomation Technology (IT) – che in ambito pubblico, privato o aziendale, consente di archiviare, elaborare e trasmettere dati e informazioni, utilizzando i più attuali sistemi informatici e di telecomunicazioni. Sempre la Regione Puglia ha avviato un programma di pre-appalti pubblici per mettere in atto una serie di attività di ricerca e sviluppo per prototipi di prodotti non ancora idonei all’utilizzo commerciale ma che potrebbero presto affacciarsi sul mercato una volta perfezionati e industrializzati.

 

Insomma, una vitalità e una duttilità, una voglia di fare e di riuscire che spesso 

nel racconto del Mezzogiorno non viene neanche citata.

 

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