TRICARICO UNA STORIA MILLENARIA di Pietro Dell’Aquila – Numero 25 – luglio agosto 2022 Ed. Maurizio Conte

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TRICARICO UNA STORIA MILLENARIA

 

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C’è un paese che conosce “baldorie di venti”, come dice un poeta, un borgo che somiglia ad un treno con la sua Torre Normanna per ciminiera. È una cittadina arroccata sulle colline dell’alto materano. Non si sa bene quando abbia avuto origine. Qualcuno l’ha chiamata Torregreca, qualcun altro Torregrupata. Tricarico, il suo nome vero, e non si sa da che cosa derivi. Ipotesi fantasiose la vogliono fondata addirittura dagli Ausoni dopo il diluvio universale da un nipote di Noè; altre leggende ne attribuiscono l’origine ai popoli di Trica ed Argo – dai quali la sua denominazione – scampati all’eccidio di Troia e guidati da Diomede. Nel suo antico stemma un bue su tre colli; allora è possibile, piuttosto, che sia la città dei tre monti. 

 

A poca distanza dall’attuale sito, da una parte sotto il monte della Serra, i resti di un villaggio indigeno con resti di fornaci, scoperto durante i lavori di adduzione del gas, e dall’altra ad una decina di chilometri in località Fonti, su di un’ampia radura, la Civita, rovine di un castro romano fortificato del IV secolo avanti Cristo a difesa di masserie sparse sul territorio che rifornivano di derrate agricole l’Urbe.

Il primo documento che certifica l’esistenza della cittadina 

è una Convenzione dell’anno 849 tra Schinolfo, principe di Salerno, 

e Redalgiso duca di Benevento.


Il paese è incluso nel gastaldato di Salerno che gravitava nell’orbita longobarda. Di seguito Liutprando da Cremona ci dice della decisione del patriarca Poliedro di Costantinopoli nel 968 di autorizzare l’arcivescovo di Otranto a consacrare i vescovi suffraganei tra i quali quello di Tricarico. Il vescovo Santonio (Visita pastorale del 1585) riferisce che Arnoldo Godano, vescovo di Acerenza, nel 1060, in una sua controversa “Bulla” indirizzata al suo omologo tricaricese Arnaldo, descrive la diocesi di Tricarico, ne indica i confini, i privilegi e ne certifica il passaggio dal rito greco a quello latino. 

 

Insomma,

una millenaria storia di vescovi e di clero che hanno segnato le vicende 

della cittadina attorno alla curia, alla cattedrale, al seminario fondato 

ai primordi del Seicento ed alla miriade di chiese 

e conventi tuttora esistenti.


Accanto ad essi, e lungo le vie “processionali”, una serie di palazzi nobiliari di ricchi agrari e facoltosi borghesi (notai, giudici e avvocati), circondati dagli stambugi dei “cafoni” (braccianti e contadini poveri più o meno addetti al servizio dei potenti) che si addensavano anche nei rioni sottostanti della Rabata e della Saracena, come risulta da una bella stampa del Cinquecento edita ad Amsterdam da Johannes Blaeu. In quel periodo Tarquinio Ronchi, professore di Diritto Canonico, fondò il Monte Frumentario con cui si prestava il grano per la semina ai contadini bisognosi e i terreni di proprietà del Capitolo venivano loro concessi in enfiteusi a prezzi particolarmente modici. Ughelli, nella sua Storia Sacra, annota che al quinto Concilio Lateranense promosso da Giulio II nel 1512 “Qualcuno era pure noto per le capacità culturali, tale fu il veronese Lodovico Canossa, erudito presule di Tricarico”. Ma, in seguito, non mancarono voci dissonanti che si collocavano nell’ambito della riforma protestante come quella del “minore osservante Angelo Castellana da Tricarico, accusato di adesione al luteranesimo e lungamente detenuto, persistendo nei suoi errori, fu poi degradato il 15 agosto 1584 e rilasciato al braccio secolare”.

Per dire dell’importanza e della vivacità culturale della cittadina, 

lo storico napoletano Camillo Ranieri Riccio riporta che nel 1613 

venne stampato a Tricarico il primo libro edito in Basilicata ad opera 

di Giovan Giacomo Carlino su commissione di Monsignor Roberti.


L’opera era stata scritta dallo stesso vescovo per celebrare le virtù di Suor Francesca Vacchini della quale era il confessore. Nel corso del Seicento i pittori Pietro Antonio Ferro e Cesare Sciarra produssero i loro affreschi nella cappella del Crocifisso del convento di Santa Chiara, nella chiesa del Carmine e nel chiostro del convento di Sant’Antonio.

La lunga fase di cristianizzazione e la connessa ininterrotta presenza clericale, 

a parere di illustri antropologi che hanno studiato persistenze 

e cesure degli elementi pagani nei costumi 

e nelle espressioni locali,


hanno evidenziato una maggiore attenuazione degli elementi orgiastici originali nelle tradizioni popolari dei centri curiali rispetto ai luoghi più distanti e periferici. Tali manifestazioni si rivelano con maggiore evidenza nelle festività carnevalesche, più morigerate o dissimulate nei paesi con sedi vescovili dove, pur conservando la matrice primigenia, si sono contaminate ed impregnate di contenuti religiosi depurandosi dalle antiche volgarità fescennine. Ad esempio le maschere di Tricarico che, imitando la transumanza di vacche e tori con annesse simulazioni di monta al suono assordante dei loro campanacci, avviano il loro percorso per le vie dell’abitato dopo aver reso omaggio a Sant’Antuono Abate, patrono dei suini, realizzando tre giri intorno alla sua chiesetta posta ai margini del borgo. 

 

Nella lunga sequela dei vescovi che hanno guidato il gregge pastorale tricaricese emergono, oltre ai già citati, i Carafa, Zavarrone, De Plato, Pinto, Spilotros, Onorati, Pecci e Fiorentini.

Agli inizi del Novecento, ad opera del Reverendo Giovanni Daraio, 

si costituiva l’Opera Pia “Confraternita di Sant’Antonio di Padova” 

che si prefiggeva l’obiettivo di aiutare e sostenere 

i meno fortunati ed i poveri della comunità.


Si devono a questo sacerdote diverse pubblicazioni sulla storia del paese e della diocesi pubblicate nel New Jersey, dove si era recato per assistere i nostri emigranti. Ne continuò l’azione pastorale Don Pancrazio Toscano che, sempre accanto alla chiesa di Sant’Antonio, fondò l’ospizio per l’assistenza ai poveri, ai vecchi e ai derelitti. 

In tempi a noi più vicini, hanno operato il vescovo Raffaello Delle Nocche (1922-1960) – di cui ci ha lasciato una bella biografia Monsignor Pancrazio Perrone – che, pur nell’aspro confronto ideologico del periodo postbellico, seppe trovare il modo di collaborare col sindaco socialista Rocco Scotellaro per l’istituzione dell’ospedale civile realizzato col concorso morale e materiale della popolazione. Inoltre fondò l’ordine delle “Discepole di Gesù Eucaristico”. Queste suore hanno dato il loro apporto per l’assistenza degli anziani nell’ospizio di Sant’Antonio, agli ammalati presso l’ospedale civile e soprattutto, mediante la gestione dell’Istituto Magistrale, hanno contribuito all’istruzione e l’elevazione culturale delle fanciulle loro affidate. Alla sua morte fu sostituito da Bruno Pelaia, insigne studioso dei testi biblici, ma rigido assertore della prassi dottrinale tanto che nella sua prima lettera pastorale affermava che “Una raffica violenta di materialismo ateo si appresta, con malcelata baldanza, ad avvelenare le nostre popolazioni semplici e laboriose con orpelli di progresso, di scienza e di benessere”. Non meraviglia, quindi, che con tali impostazioni ideologiche non riuscisse a recepire i nuovi orientamenti che stavano maturando all’interno del dibattito suscitato dal Concilio Vaticano II. Probabilmente era rimasto legato al clima di tensione che aveva visto la contrapposizione del 18 aprile 1948 tra i partiti della sinistra e la vincente Democrazia Cristiana. In quella vicenda si distinse Monsignor Angelo Mazzarone che intratteneva da tempo un forte legame con Padre Agostino Gemelli e faceva parte della redazione del giornale L’Ordine.  

 

Ormai, però, la situazione era mutata con l’avvio della collaborazione tra cattolici e socialisti nei governi di centro-sinistra e la crescente sensibilità religiosa che si manifestava tanto nel clero, quanto tra i laici. Le chiusure dottrinali produssero, sul piano locale, la perdita di due sacerdoti che avvertivano con maggiore responsabilità ed impegno i segni dei tempi nuovi. Il reverendo Nicola Calbi, che si era laureato brillantemente presso la Pontificia Università Lateranense con una tesi sulla Diocesi di Tricarico dalle origini al 1500 e che insegnava presso il locale Liceo Scientifico, dava alle stampe nel 1968 un libro dal titolo significativo: La scoperta del Vangelo e il nuovo socialismo. Nel volume si prendeva atto che il periodo della contiguità della Chiesa con la Democrazia Cristiana era agli sgoccioli e che il cristianesimo non poteva continuare ad essere rinchiuso entro lo spazio angusto di una delimitazione politica ormai datata e che bisognava dunque ricercare altri spazi ed altri orizzonti pastorali. La pubblicazione fece scalpore ed il suo autore si auto confinò a Roma per sfuggire alla malevolenza paesana. 

 

Identica sorte toccò a Nunzio Campagna, parroco della borgata agricola di Calle, reo di aver autorizzato i suoi contadini a stoccare il grano, la cui produzione per quell’anno era stata più abbondante, nei locali della nuova chiesa peraltro non ancora consacrata. L’iniziativa non piacque al vescovo Pelaia che ancor meno bene sopportò il ritardo con cui i piccoli cresimandi della zona ed i loro familiari, dopo aver accudito gli animali, si presentarono alla funzione religiosa da lui fissata. Non dissimulò il suo disappunto, con un prolungato atteggiamento d’incomprensione, nei confronti del sacerdote Campagna che con spirito evangelico si prodigava per l’elevazione culturale dei giovani ed il miglioramento delle condizioni di vita dei suoi parrocchiani. Anche lui si allontanò dal paese per andare ad insegnare Filosofia presso una scuola romana. Qui si dedicò allo studio ed all’approfondimento degli autori e dei testi del pensiero speculativo pubblicando volumi di grande pregio: per Marzorati Un ideologo Italiano, Francesco Lomonaco, successivamente per Aracne Metamorfosi dell’etica da Cartesio ai nostri giorni e per le edizioni dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Le parole dei filosofi. Ha, inoltre, pubblicato quattro romanzi di rilevante interesse: Socialmente pericoloso e di pubblico scandalo, Il violino di San Pietroburgo, Do Minore e Torregrupata, che ne testimoniano la straordinaria sensibilità.

 

Ma ormai altri tempi avanzano e il paese, in caduta demografica come tanti altri del Sud, continua la sua storia “sotto il cielo stellato a foglia a foglia”.

 

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“Storta va deritta vene”… La Fortuna di Valeria Parrella di Giuditta Casale – Numero 25 Luglio Agosto 2022 Ed. Maurizio Conte

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“Storta va deritta vene”… La Fortuna di Valeria Parrella

 

intervista a valeria parrella

 

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Non credo si debbano leggere i classici. Ognuno deve leggersi ciò che vuole. Però se hai la fortuna di trovarti davanti i classici, quelli poi entrano, permeano tutto e dopo interpreti la realtà alla luce loro. 

 

Si è conclusa così la chiacchierata con Valeria Parrella sul nuovo libro La Fortuna, pubblicato da Feltrinelli.


La storia del giovane Lucio, rampollo di una nota ed agiata famiglia campana, destinato ad una luminosa carriera senatoriale, in contrasto con i desideri più profondi del suo sé: andare per mare, prendendo il largo. Lucio nasce durante una scossa di terremoto, la più forte mai sentita delle tante che non facevano più paura tanto erano considerate normali. Il giorno che rischiò di annegare, scoprendo finalmente di essere cieco da un occhio, fu quello in cui capì che l’unica Parca con cui voleva avere a che fare delle tre che tessono la nascita, la vita e la morte di ciascuno, è quella di mezzo:   

 

Ma a me interessava avere a che fare con la Parca di mezzo, quella che tesseva per mio conto il filo. E c’è stato un momento in cui io ho capito che non la si poteva lasciar fare e che bisognava adoperarsi.   

 

Per questo atteggiamento attivo e propositivo, Lucio realizzerà il suo desiderio di navigare, e si troverà sulla nave dell’ammiraglio Plinio il Vecchio, durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. da dove guarderà la sua città Pompei e i dintorni annichilirsi sotto un fenomeno che appare inspiegabile. 

Il titolo La Fortuna introduce il legame vibrante e perspicace che Valeria Parrella sa creare tra il mondo classico, di cui Lucio il protagonista del nuovo romanzo è un rappresentante, e noi posteri che abbiamo ridotto il termine fortuna ad un significato più scarno e meno essenziale

 

Cos’è la Fortuna per Lucio, e cos’è per Valeria Parrella? – ho chiesto alla scrittrice.


Per me è quello che è per Lucio. Gli ho regalato la voglia di essere elastici nei confronti del destino, di vedere come va, assumendo sull’occorrenza fortuna la traduzione napoletana del modo di dire “Storta va deritta vene”, va in un modo e torna in un altro.


Per Lucio la Fortuna è una dea, che gli regalerà un bacio se tutto va bene. E lui più che le imprese, vuole il bacio, perché è un ragazzino. 

 

A me, però, più che la questione delle imprese, che certo doveva avere una sua importanza nella vita degli adulti, mi interessava quel bacio. Quel bacio effimero, dato a mille e mille ancora, quel bacio adultero, senza possibilità per me, piccolo uomo, di resistere ad una dea che di notte entrava dalla finestra, proprio quella che Ascla si curava di chiudere bene d’inverno e di velare appena d’estate. Mi chiedevo: “Saprò riconoscerla quando verrà? Saprò tenerla con me? Saprò farla felice?”. 

 

Erano domande stupide perché la Fortuna è felice di suo e non ha certo bisogno del contributo di un uomo per goderne, piuttosto noi uomini siamo un mezzo affinché lei possa manifestarsi. Facciamo o non facciamo, siamo o non siamo: è lei che sceglie, entra dalla finestrella che la nutrice o lo schiavo o la moglie o il prefetto del comparto presso cui rendi servizio si sono premurati di sprangare, e ti fa ridere. 

 

Una risata dentro cui esplodono tutte le promesse.

 

Comunque io la Fortuna la aspettavo e, se non mi addormentavo prima, me ne uscivo veloce dal letto e le andavo ad allentare, quelle imposte.

 

Ognuno di noi dentro di sé sa cosa vuole, sempre, anche quando si professa disorientato. Ma quando si è molto giovani le possibilità della vita si partono da noi come raggi da una stella: sono tutti ugualmente splendenti, e per me quel bacio significava che uno di quei raggi sarebbe stato mio.

 

E infatti La Fortuna è anche un romanzo sul desiderio di essere sé stessi, di afferrare quel raggio che dalle stelle raggiunge ciascuno per essere fatto proprio. De sidera, dalle stelle appunto.

 

Sorprende solo fino ad un certo punto la capacità di Valeria Parrella di raccontare l’adolescenza e le mutevoli forme con cui si rapprende nell’animo umano per far sbocciare la persona che saremo. L’aveva già fatto con Almarina, il romanzo pubblicato con Einaudi nel 2019, finalista nella Cinquina del Premio Strega e che per me è il libro vincitore dell’edizione, anche senza affidare alla giovane Almarina la prima persona come a Lucio. Di Lucio seguiamo la parabola che lo porta definitivamente a crescere, davanti allo spettacolo orrido di una Natura che ruggisce la sua potenza, attraverso un prodigio mai visto e che cambierà il mondo quale Lucio lo ha fino a quel momento conosciuto, dentro e fuori di sé. L’eruzione del vulcano, vista da un punto strategico qual è il mare, richiederà a Lucio di non farsi annichilire dalla paura, ma di attraversarla, come un rito di passaggio dalla giovinezza alla vita adulta.

 

C’era la statua d’oro di Iside a cui mi ero votato. Perduto quello: tutto sarebbe stato perduto. Così mi sono poggiato all’albero con quel gesto per cui i marinai mi chiamano matto: che appoggio l’orecchio ai nodi del legno e chiudo gli occhi. La nave, come sempre, mi ha parlato, e io ho riferito al nocchiere: 

 

“Seguiamo la corrente”. 

 

Poi ho avvisato l’ammiraglia, l’ho fatto di persona perché temo che la paura degli altri mi inganni come Nerone temeva il cibo e il vino.

 

“Del resto la Fortuna aiuta chi le si affida,” mi ha risposto Plinio, e siamo andati, la corrente ci portava verso Stabia.

 

… e poi Plinio scende dalla nave, e con l’autorità e la preveggenza dei Maestri intima a Lucio di rimanere a bordo, come se il rimanere fosse l’eredità ed il lascito del maestro.

Chi è Plinio per Lucio? E chi omaggia Valeria Parrella dietro la figura dell’intellettuale latino?


Omaggio i miei maestri: Ermanno Rea, che è stato il mio maestro politico e dello sguardo su Napoli, ma anche i maestri viventi. Per riportare un aneddoto che ho già raccontato, a un certo punto ero incerta se fosse per me un azzardo un romanzo come La Fortuna, e ho chiesto aiuto a Domenico Starnone, che mi legge. Il suo responso fu: meglio rischiare, che ripetersi. Starnone è stato la prima persona che ha letto il romanzo e per me è un riferimento. Ma soprattutto io penso che i ragazzi hanno sempre bisogno di riferimenti. Penso che sia un nostro dovere: se possiamo, prenderci cura dei ragazzi. Nel romanzo non ho inserito solo Plinio, ma anche Marziale. Sono figure che riconoscono in Lucio qualcosa. Se non altro una volontà. Plinio, poi, per Lucio è una possibilità buffa. A Napoli è facile studiare Plinio, come ho fatto per disegnarlo nel romanzo: trovi la piccola biblioteca universitaria che fa la mini-mostra su Plinio, vai lì e la bibliotecaria sa tutto, e si è letta tutte le quattrocentine. Da lei scopri che Plinio nella sua epoca come scienziato non era molto considerato. Naturalis historia è un’opera curiosa perché Plinio inserisce storie di ogni tipo. È un’opera molto polposa, ma poco attendibile scientificamente. Plinio, ad esempio, credeva ai draghi. Quindi era considerato un fanfarone. Anche come navarca non era credibile, perché lui per mare non stava mai. È una figura buffa. Ma Lucio vedendo che Plinio grazie agli studi costanti che lo caratterizzano è riuscito a fare quello che lui stesso vorrebbe, arguisce che vale la pena studiare, perché lo studio da qualche parte lo porterà.  
 

 

Lo aveva già fatto con Tempo di imparare: innestare il mondo classico nell’introspezione e nelle reazioni emotive della protagonista. In La Fortuna Valeria Parrella capovolge le carte: è l’introspezione dei personaggi che si innesta nel mondo classico, in un momento catastrofico di quella stessa civiltà che miracolosamente ha lasciato un’impronta indelebile.

 

Perché sei voluta tornare – parlo di ritorno vista la tua formazione classica – a quel funesto 79 d.C?

 

È vero, ho invertito le carte. Secondo me è una questione linguistica, in base alla quale cambia la situazione. Poi, però, alla fine il punto è sempre lo stesso: i classici sono dappertutto e bisogna solo scovarli. Non solo, i classici sono sempre con noi. Pompei è un esempio di questo essere sempre con noi. Ci sono tornata dopo la pandemia e mi è sembrato chiaro. Era vuota, e quando sono entrata, l’ufficio stampa ha affermato: “Non vedo l’ora di rivederla vivere”. Questa frase mi è sembrata incredibile per una città in cui erano morti tutti. La cosa più bella che mi ha detto un lettore – un lettore campano – è stata che dopo aver letto questo libro, per la prima volta ha pensato di portare un fiore quando tornerà a Ercolano e Pompei, perché non ci aveva mai pensato che lì erano morte delle persone. Perché dico che è il commento più bello? Perché vuol dire che li ho fatti vivere.   

 

I classici sono dappertutto, e la gratitudine per Valeria Parrella che lo mostra in ogni romanzo, ma in La Fortuna un po’ di più, è immensa.

 

Se in pieno isolamento con Quel tipo di donna (Harper Collins Italia) ci aveva permesso di viaggiare quando non si poteva. Con La Fortuna, davanti all’eruzione del Vesuvio, all’incredulità che prende Lucio dinnanzi da uno spettacolo di inaudita ed inedita potenza, Valeria Parrella scandaglia l’attualità con una forza che solo la Letteratura possiede

 

C’è anche la pandemia in La Fortuna? Facendo ri-vivere la città di Pompei, ricordandoci i suoi morti e la sua distruzione, è il modo di Valeria Parrella di raccontare “a parole sue” ciò che ha sommerso il mondo nel XXI secolo?

 

La pandemia, certo, ma non soltanto quella. Ci sta la guerra, una ciclicità di cataclismi naturali, 40 gradi a maggio. Ci sono tante cose che c’entrano con l’inspiegabile o con lo spiegabile, che quando ci arrivi però sei in ritardo. Quando Lucio si trova a metà dell’eruzione, dal mare, si accorge che a terra sta succedendo qualcosa. Vede che la nube fa ricadere detriti dietro di loro, verso Napoli. Loro stanno in mezzo a due fronti e non capiscono che cosa succede. Allora Plinio scende a terra e loro pensano che sia finita. Ma si sbagliavano, perché dopo arriverà la lava, arriverà il maremoto, arriverà tutto.   

 

Era facile identificare Valeria Parrella con le protagoniste dei romanzi precedenti, pur sapendo che non bisogna mai confondere autrice e voce narrante, ed ancora di meno autrice e protagonista del romanzo.

 

Essere donna nei suoi romanzi ha sempre giocato un ruolo importante e ha dato spessore alla sua voce. Non perché esista una letteratura di genere, maschile o femminile, lungi da me pensarlo e ancor meno affermarlo, ma perché ha dato voce alle donne, finalmente, con profonda autenticità. Lucio è un protagonista più sfuggente rispetto alle precedenti. Sarà per l’età scivolosa della giovinezza in cui l’incontriamo; sarà per quel suo limite visivo che nel romanzo è trasformato in un talento; sarà per la sua relazione incostante con Aulo; sarà per il suo desiderio di prendere il largo, mentre le protagoniste dei precedenti romanzi sono radicate nelle situazioni e nei momenti.

Eppure in un video per la casa editrice Feltrinelli Valeria Parrella afferma che non c’è libro più autobiografico di La Fortuna.

 

In cosa Lucio ti appartiene o il senso autobiografico a cui fai riferimento va cercato altrove?

 

Io in questo libro sono tutti. Sono Lucio. Sono Aulo, in certe relazioni che ha con Lucio. Tranne Plinio il Vecchio, direi che sono tutti personaggi. Mi piacerebbe essere Marziale… Ecco non sono l’imperatore e non sono Plinio. Ma tutti gli altri li posso ben capire. Sono una parte di tutto. Questo è bello, di quando si scrive un romanzo come La Fortuna. Il prossimo lo scrivo direttamente in terza persona. Mi sto staccando. E questo è vitale per me. Io sentivo che se non cambiavo, artisticamente morivo e quindi ho cambiato.

 

 

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A SERRA SAN BRUNO TRA SPIRITUALITA’ E BELLEZZA di Claudia Papasodaro – Numero 25 luglio agosto 2022 Ed. Maurizio Conte

A SERRA  SAN BRUNO TRA SPIRITUALITA’ E BELLEZZA

 

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«In territorio di Calabria, […] io abito in un eremo abbastanza lontano, da tutti i lati, dalle abitazioni degli uomini. Della sua amenità, del suo clima mite e sano, della pianura vasta e piacevole che si estende per lungo tratto tra i monti, con le sue verdeggianti praterie e i suoi floridi pascoli, che cosa potrei dirti in maniera adeguata? Chi descriverà in modo consono l’aspetto delle colline che dolcemente si vanno innalzando da tutte le parti, il recesso delle ombrose valli, con la piacevole ricchezza di fiumi, di ruscelli e di sorgenti?». Così Brunone da Colonia, fondatore dell’ordine dei Certosini, in una lettera scritta nel 1097 ad un amico monaco, descrive il territorio ricevuto in dono dal conte Ruggero il Normanno per la fondazione del suo eremo, 

la Certosa di Santo Stefano del Bosco, primo monastero d’Italia 

e secondo in Europa dopo quello di Grenoble, in Francia.


La Certosa di Serra San Bruno, con le sue possenti mura, le sue torri ed i suoi baluardi, sembra quasi una città fortificata. Un luogo avvolto nel silenzio e carico di mistero perché impenetrabile, come vuole la regola certosina. Così impenetrabile e misterioso da aver dato origine nel tempo a numerose leggende: per anni si sono rincorse voci che al suo interno si fosse rifugiato il famoso fisico Ettore Majorana, scomparso nel 1938, per espiare il suo senso di colpa derivante dall’aver intuito gli effetti devastanti che avrebbero avuto le sue ricerche sull’atomo. Effetti terrificanti che un altro uomo, il 6 agosto 1945, vedrà con i suoi occhi: il pilota che sganciò la bomba su Hiroshima, che inorridito da tanta devastazione, congedatosi dall’esercito, si sarebbe ritirato nella Certosa di Serra San Bruno, dove sarebbe diventato monaco ed avrebbe fatto voto di clausura. Bisogna ammetterlo: il fatto che uno degli scopritori delle proprietà del neutrone lento, fondamentale per la fissione atomica, ed il responsabile materiale dello sgancio della prima bomba atomica si siano rifugiati nello stesso luogo è un’ipotesi davvero affascinante, sembra quasi la trama di un romanzo. In realtà, un soldato nella certosa c’è stato veramente. Ma non quello dell’Enola Gay. Si tratta di Lennan Leeroy, reduce americano della Guerra di Corea. Per quanto riguarda Ettore Majorana il mistero rimane. A sostenere la tesi della presenza del fisico nella cittadella certosina fu un personaggio illustre: lo scrittore Leonardo Sciascia che, forse non tutti sanno, scrisse un libro proprio sulla scomparsa di Majorana e nel 1975 si recò personalmente a Serra San Bruno per indagare su questo giallo, rimasto irrisolto. 

Leggende a parte, di certo c’è che la Certosa è un luogo straordinario e questo lo si percepisce anche al solo ammirarla da fuori.

Un luogo dove il tempo sembra essersi fermato a mille anni fa e dove i monaci continuano a vivere nel raccoglimento e nella preghiera,


lontani dal mondo corrotto, come vuole l’insegnamento del loro fondatore, che così scriveva a proposito della vita nella Certosa: “Qui si pratica un ozio laborioso e si riposa in un’azione quieta. Qui, per la fatica del combattimento, Dio dona ai suoi atleti la ricompensa desiderata, cioè la pace che il mondo ignora”.   Ed è proprio questa sensazione di pace a sorprendere quando ci si trova qui. Una sensazione quasi inaspettata, così insolita soprattutto per coloro che hanno l’anima in affanno a causa della frenesia di un mondo che corre troppo. 

A poca distanza dalla Certosa, raggiungibile attraverso sentieri che profumano di erbe aromatiche ed officinali, il Complesso del Santuario di Santa Maria del Bosco, immerso in un incantevole bosco di maestosi abeti bianchi, trasporta chi lo visita in una dimensione di contemplazione, regalandogli un momento sospeso nel tempo.  

Qui una vena sorgiva forma

un laghetto, definito dall’antropologo Ernesto De Martino 

«il piccolo Gange della Calabria». Le sue acque, infatti, 

sono ritenute miracolose:


San Bruno, come raffigurato nella suggestiva statua, raccolto in preghiera, vi rimaneva immerso per ore fino alla cintola, per vincere la sua quotidiana lotta contro il demonio. E per questo è conosciuto anche come “Laghetto delle Penitenze”. Ogni anno, nel lunedì dopo la Pentecoste, giorno della solenne festa del Santo, arriva gente da ogni dove per bagnarsi nelle sue acque gelide che si crede guariscano i malanni del corpo e quelli dell’anima. A trarre beneficio da questo bagno purificatore sarebbero soprattutto gli “spirdati”, ovvero i posseduti dal demonio, o dallo spirito di uno morto ammazzato o deceduto in circostanze misteriose. Suggestione o no, 

a Serra la credenza popolare nei poteri taumaturgici di San Bruno 

è fortemente radicata ed ancora oggi la devozione dei serresi 

nei confronti del loro protettore è profonda ed incondizionata.


Questo contribuisce a quell’aura di spiritualità e misticismo che, unito alle bellezze naturali ed artistiche, alle tradizioni ed alla buona cucina, fanno di Serra San Bruno una meta da visitare almeno una volta nella vita.

nell’omonima Serra in provincia di Vibo Valentia, vuol dire immergersi ancora oggi in una dimensione fatta di natura, bellezza e quiete, la stessa che tanto aveva colpito il monaco certosino, che qui deciderà di trascorrere gli ultimi anni della sua vita.

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IL PRESEPE VIVENTE DI PANETTIERI – Gemme del Sud – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 Ed. Maurizio Conte

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IL PRESEPE VIVENTE DI PANETTIERI

 

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Panettieri (CS)

 

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Panettieri, in provincia di Cosenza, è un piccolo borgo di circa 300 abitanti, incastonato nel magnifico scenario della Sila. Nel 2000 un gruppo di giovani amministratori comunali, mossi dal desiderio di un rinnovamento del paese e dall’orgoglio per le proprie radici, decide di trascinare tutti i concittadini in un progetto con cui recuperare, conservare e tramandare le tradizioni del luogo e rivitalizzarne le prospettive di sviluppo. Nasce così il Presepe vivente di Panettieri che, 

grazie al forte senso di comunità ed all’appassionata partecipazione dei suoi abitanti, col trascorrere degli anni è diventato un evento di rilevanza regionale, 

che ormai richiama migliaia di visitatori.


A partire dai primi di novembre fino al 24 dicembre, nel paese di Panettieri fervono i preparativi per questa manifestazione davvero speciale, per la quale, dalla Vigilia all’Epifania, tutto il paese si trasforma in un teatro ed i suoi abitanti diventano teatranti. 

In una scenografia incantata che rievoca la Betlemme della nascita di Gesù, accompagnati dallo scintillio delle fiaccole e dal suono delle zampogne, i visitatori percorrono le stradine del paese in cui sono allineate le varie postazioni che riproducono i luoghi e gli avvenimenti della Natività, dalla casa di Erode, alla Locanda, alla Grotta. 

E poi ci sono gli artigiani all’opera: il panettiere, il lattaio, il fabbro, il cestaio, le filatrici, la saponaia, le ricamatrici, le tessitrici, il liutaio, il maniscalco, i pastori, il calzolaio, i taglialegna, il falegname… insomma, un vero e proprio museo temporaneo degli antichi mestieri del Borgo!   

Con il suo presepe vivente, i suoi profumi, i sapori, le sue tradizioni, Panettieri offre un suggestivo tuffo nel passato, un’esperienza davvero unica per vivere la magica atmosfera del Natale e riscoprirne i suoi valori più veri ed autentici.

 

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LA CHIESA DI SAN NICOLA DI MYRA di Paola Ceretta – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 Ed. Maurizio Conte

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LA CHIESA DI SAN NICOLA DI MYRA

 

 

Quella dedicata a San Nicola di Myra è una piccola chiesa rupestre che si trova nella provincia di Mottola, in territorio tarantino, dove per secoli i devoti hanno pregato davanti alle immagini sacre che custodisce e al santo di origini orientali che ha ispirato la figura di Babbo Natale tanto diffusa nella civiltà occidentale. I miracoli operati in favore dei bambini e l’amore per essi sono alla base della tradizione pugliese di San Nicola che ogni anno torna sulla Terra per lasciare un dono ai bambini. 

 

Posta lungo l’antico cammino dei pellegrini che nel Medioevo si recavano nel Sud Italia percorrendo la via Appia per imbarcarsi nei porti di Taranto e Brindisi e raggiungere la Terra Santa e per gli abitanti del circondario, 

la chiesa di San Nicola, seppure segnata dal trascorrere del tempo, 

è ancora oggi piena di fascino e significati.


Le pitture che conserva – dipinte in un arco di tempo che va dalla fine del X alla prima metà del XIV secolo – rappresentano in territorio pugliese un’arte sacra popolare nata da una commistione di influssi teologici ed artistici dell’Oriente e dell’Occidente cristiano. 

 

Arrivati sul ciglio della gravina di Casalrotto e attraverso una scala tagliata nella pietra – cui la Sovrintendenza ha adattato una struttura in ferro – si giunge all’entrata dell’edificio, ricavata sul lato ovest, dove sono presenti resti di tombe medievali e due nicchie con tracce sbiadite di antichi affreschi.

Varcata la soglia, si entra nella roccia, in una pianta a croce greca inscritta, 

in un mondo lontano e simbolico


e si viene accolti da raffigurazioni come la “Deesis” o la “Vergine con Anapeson” e dalle figure di santi che ci guardano e ci raccontano la loro storia, fatta di scelte di fede, di eventi miracolosi, di martìri, di sangue innocente versato, di corpi frammentati e di reliquie. 

 

La zona di Mottola ricca di gravine – spaccature del terreno di origine carsica – ospita altre chiese rupestri che insieme a quella dedicata al santo di Myra sono conosciute  come “Le mirabili grotte di Dio”, ma questa di San Nicola spicca fra tutte per la bellezza e lo stato di conservazione dei suoi affreschi, sopravvissuti al trascorrere del tempo e agli atti vandalici ed offre al visitatore contemporaneo emozioni e suggestioni uniche, create anche dalla luce che penetra all’interno dell’edificio.

E’ l’unica, infatti, nella quale in alcuni giorni dell’anno si manifestano ierofanie 

sulle immagini di tre santi, è quella dove l’invisibile diviene visibile 

e nella quale antichi e sconosciuti architetti hanno voluto dare 

manifestazione al sacro: hiéros “sacro”, phanein “manifestare”.


Attraverso un foro gnomonico ricavato nella nicchia a destra dell’entrata, accanto a croci dipinte, al tramonto i raggi solari penetrano all’interno degli ambienti sacri e proiettano una piccola ellisse luminosa che appare sui corpi di tre santi che divengono “presenti” e sembrano voler trasmette la loro benedizione ai fedeli: sul cuore e la mano destra benedicente di San Nicola, il 14 marzo e il 30 settembre, date legate alla nascita del santo e alla collocazione delle sue spoglie nella basilica di Bari; sul petto di San Leonardo da Limoges il 6 novembre e sul corpo di San Giovanni Crisostomo il 14 settembre, giorni legati alla loro morte e ricorrenza fissata dal Calendario Romano dei Santi. 

 

La devozione a San Nicola di Myra in Italia ha origini antiche e, seppure la veridicità di alcuni episodi legati alla sua storia sia controversa, il racconto della sua vita è costellato da azioni caritatevoli e memorabili verso poveri e bisognosi e da numerosi miracoli. 

 

Vissuto tra il III e il IV secolo, è un santo legato all’acqua, al mare, protettore di naviganti, mercanti, viaggiatori, ma lo è anche dei bambini e delle fanciulle. E’ un santo miroblita, taumaturgo. Il suo corpo opera miracoli, guarisce. Fonti antiche raccontano che dalle sue spoglie emanava una fragranza e scaturiva un liquido chiamato oleum, unguentum, myro considerato salutare e prodigiosa medicina, quella “manna” che ancora oggi viene raccolta dalla sua sepoltura di Bari e distribuita ai fedeli.

 

Avvicinarsi al culto di San Nicola, così profondamente radicato in territorio pugliese, può diventare oggi l’occasione per riscoprire radici, riti e tradizioni popolari di cui è custode e ricco il Meridione ed addentrarsi in un territorio unico come quello delle Murge tarantine può farci conoscere antichi percorsi, mostrare inaspettati paesaggi e condurci a scoperte sorprendenti come le chiese rupestri di Mottola.

 

 

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UN’ACCADEMIA NEL NOME DI FILANGIERI di Amedeo Arena – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 – Ed. Maurizio Conte

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UN’ACCADEMIA NEL NOME DI FILANGIERI

 

quando delineò il dovere del Filosofo nel secondo libro de La Scienza della Legislazione, che “Se i lumi che egli sparge non sono utili pel suo secolo e per la sua patria, lo saranno sicuramente per un altro secolo e per un altro paese. Cittadino di tutti i luoghi, contemporaneo di tutte l’età, l’universo è la sua patria, la terra è la sua scuola, i suoi contemporanei e i suoi posteri sono i suoi discepoli”.

Non stupisce, pertanto, che nella Napoli del XXI secolo sia sorta 

un’Accademia dedicata al grande Illuminista, 


le cui idee erano avanzatissime per i suoi tempi e risultano, ancora oggi, di stringente attualità. 
La Scienza della Legislazione diviene quindi lo spunto per discutere di temi quali il diritto alla felicità, l’integrazione europea, le relazioni atlantiche, il cosmopolitismo, nonché – tema caro a Myrrha – la valorizzazione della bellezza di Napoli e del Mezzogiorno.

 

“La modernità del pensiero di Filangieri” è stato il tema dell’incontro inaugurale dell’Accademia, ospitato nella splendida cornice del Museo Civico Filangieri.


In tale occasione, si è discusso del progresso civile promosso dall’illuminismo italiano, del fascino dei luoghi frequentati da Filangieri e dei punti di contatto tra il suo pensiero e quello dei padri fondatori del processo d’integrazione europea.   

 

Al primo piano di tale Museo sono conservate alcune delle lettere scambiate, alla fine del ‘700, tra Gaetano Filangieri e lo statista americano Benjamin Franklin. Il secondo incontro promosso dall’Accademia presso 

il Museo Filangieri si è perciò concentrato sul diritto alla felicità, un tema centrale 

tanto nella Dichiarazione di indipendenza americana, 

quanto ne La Scienza della Legislazione. 


Tale opera fu molto apprezzata da Franklin, che con la sua ultima lettera a Filangieri inviò al filosofo campano una copia della Costituzione degli Stati Uniti d’America, approvata pochi giorni prima dalla Convenzione di Filadelfia (v. G. Sinisi, Da Filangieri alla Costituzione americana, in Myrrha n. 4/2016).

 

“Gaetano Filangieri e l’integrazione europea” è stato il titolo dell’incontro organizzato dall’Accademia, in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e la sezione partenopea della Gioventù federalista europea, presso Palazzo Serra di Cassano. In tale occasione,

 

sono stati posti in evidenza i paralleli tra il secondo libro de La scienza della legislazione, in cui si auspica la liberalizzazione degli scambi commerciali 

per prevenire i conflitti tra le nazioni,


e la dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, in cui si afferma la necessità di una solidarietà economico-produttiva come presupposto di un processo d’integrazione che ha trovato espressione nelle tre Comunità europee e, da ultimo, nell’Unione Europea.   

 

“Filangieri e la Bellezza” è stato, poi, il titolo dell’incontro promosso dall’Accademia presso il Castello Giusso di Vico Equense, ultima dimora di Filangieri. “Il senso interno del bello è nell’uomo”, si legge nel quarto libro de La Scienza della Legislazione

Facciamo che l’orecchio dello scultore, dell’architetto e del pittore si eserciti 

a vedere le più belle produzioni della natura e dell’arte.

“Facciamo che colui che alla musica si destina impieghi [le sue orecchie] nel sentire quelle semplici ma sublimi cantilene, le bellezze delle quali tutti possono sentire e gustare.” In linea con tali insegnamenti, sono stati eseguiti diversi brani di musica napoletana del Settecento e dell’Ottocento e si è parlato della valenza “etica” della bellezza per Teresa Filangieri Fieschi Ravaschieri, nipote del filosofo, filantropa e fondatrice di un ospedale per malattie infantili.

La musica è stata protagonista anche dell’incontro organizzato dall’Accademia 

presso il Museo Principe Diego Aragona Pignatelli Cortés:


“Da Gaetano Filangieri a John Lennon: il sogno cosmopolita nel 50° anniversario di Imagine”. In tale occasione, è stata ricordata l’inaugurazione del mosaico “Imagine”, dedicato al sogno cosmopolita di John Lennon, nell’ambito dello Strawberry Fields Memorial a Central Park. Tale mosaico, che riproduce un esemplare pompeiano custodito presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, fu donato alla città di New York dal Comune di Napoli per volontà della Giunta Valenzi, su iniziativa dell’allora Presidente dell’Azienda autonoma soggiorno e turismo Giuseppe Castaldo.

 

Occorre, infine, ricordare il Premio per giovani giuristi “Gaetano Filangieri”, istituito dall’Accademia a favore dei laureati in giurisprudenza, di età inferiore a 30 anni, che con le loro tesi abbiano saputo “trasporre nella contemporaneità il pensiero cosmopolita di Filangieri”. L’auspicio è che tale Premio esso possa indurre i laureandi ad avvicinarsi all’opera di Filangieri, affinché i suoi ideali possano continuare a vivere nelle menti e nei cuori dei giuristi di domani.      

 

 

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MUSICA STRUMENTALE DI VERDI A NAPOLI di Antonio Lopes – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 – Ed. Maurizio Conte

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MUSICA STRUMENTALE DI VERDI A NAPOLI

 

Verdi compositore di musica strumentale a Napoli. 

 

Si può certamente affermare senza ombra di dubbio che i tre maggiori operisti italiani che hanno operato nella prima metà dell’800, Rossini, Bellini e Donizetti, hanno avuto con la città di Napoli e con il San Carlo un rapporto speciale in forza del quale hanno raggiunto grandi successi internazionali e confermato ancora in pieno secolo XIX il ruolo di Napoli come capitale europea della Musica e del Melodramma.Diverso è il caso di Giuseppe Verdi.

 

Si annoverano solo due opere del catalogo verdiano che furono tenute a battesimo 

al San Carlo di Napoli: Alzira (1845) e Luisa Miller (1849),

 

va poi ricordato che Un Ballo in Maschera, commissionato dal San Carlo nel 1856 non poté essere rappresentato a causa delle richieste della direzione del Teatro, la quale, temendo i rigori della censura borbonica, impose al compositore tali e tante modifiche al libretto da indurlo a ritirarsi. Il desiderio di mettere in scena la sua opera spinse comunque il Maestro a prendere contatto con l’impresario del teatro Apollo di Roma, Vincenzo Jacovacci, il quale fu ben lieto della notizia, ma preannunciò che l’opera avrebbe dovuto subire qualche cambiamento per la censura pontificia. Il librettista Antonio Somma esortò Verdi a lasciar perdere e a dare il libretto a Milano dove sarebbe passato indenne in teatro, ma per il Maestro bisognava dare uno «schiaffo» al teatro napoletano, mettendo in scena l’opera «quasi sulle porte di Napoli e far vedere che anche la censura di Roma ha permesso questo libretto». 

 

Occorre ricordare che successivamente i rapporti tra il San Carlo e Verdi migliorarono: infatti il Maestro vi mise in scena la ripresa del Simon Boccanegra nel 1858 e vi rappresentò la prima italiana del Don Carlo nel 1872 andato in scena per la prima volta a Parigi nel 1867. In ogni caso a Napoli furono riproposte subito dopo le prime rappresentazioni, quasi tutte le opere del compositore di Busseto e sempre con grande successo, al punto che tuttora questo repertorio è probabilmente quello più amato e apprezzato dal pubblico napoletano. 

 

Fatta questa premessa, può essere interessante rievocare un altro episodio, non molto noto, della biografia del grande musicista che vede coinvolta Napoli e il suo teatro.

Nel 1873 Verdi è di nuovo a Napoli per la messa in scena dell’Aida andata in scena 

al Teatro dell’Opera del Cairo, il 24 dicembre 1871 e poi a Milano 

al Teatro alla Scala l’8 febbraio del 1872.


È l’opera che più ha amareggiato Verdi nel corso della sua intera carriera: «Mi ha procurato noje infinite e disillusioni artistiche grandissime». In effetti, il pubblico non aveva apprezzato granché, pur nel rispetto per quello che già allora era già considerato un “Padre della Patria”, ma soprattutto la critica aveva sollevato obiezioni di “imitazione wagneriana”. Per Verdi questo era troppo: «Finire imitatore alla mia età, dopo 35 anni di carriera!». 

 

Durante le prove dell’opera al San Carlo, il soprano Teresa Stolz (già moglie del direttore d’orchestra Angelo Mariani e poi legata da “affettuosa amicizia” con il compositore), ingaggiata per la parte principale, si era ammalata. La prima era stata posticipata, e così 

Verdi «nei momenti di ozio all’albergo Crocella» aveva scritto il suo unico 

Quartetto per archi, in mi minore, eseguito privatamente in albergo, 

presenti non più di sette-otto ascoltatori.


Fra i presenti c’era il corrispondente della Gazzetta Musicale di Milano, sulla quale, pochi giorni dopo, era uscito un grande articolo intitolato 

“Un quartetto di Verdi!”.


L’esordio fu affidato ad un ensemble formato dalle prime parti dell’Orchestra del San Carlo: dai fratelli Finto ai violini, Salvadore alla viola e Giarritiello al violoncello. 

 

L’atteggiamento di Verdi nei confronti di questa composizione strumentale fu molto ambivalente: da un lato il Maestro tendeva a disconoscere valore alla sua composizione, negando che essa fosse degna di essere conosciuta dal grande pubblico, dall’altro poteva comunque essere la dimostrazione che il grande operista era in grado di dare dei contributi originali anche nell’ambito della musica strumentale che proprio in quegli anni iniziava a diffondersi in Italia, intaccando il monopolio del Melodramma nei gusti del pubblico.

Basti pensare che nel 1878 gli era arrivata una richiesta da Parma, 

in fondo la sua “patria” in cui si chiedeva il permesso di concedere 

il Quartetto per l’esecuzione, alla quale egli risponde in modo piccato:


«Sono veramente dolente di non poter aderire a quanto ella domanda. Io non mi sono più curato del Quartetto che scrissi per semplice passatempo alcuni anni or sono a Napoli e che fu eseguito in casa mia alla presenza di poche persone che erano solite venire da me tutte le sere. Questo per dirle che non ho voluto dare nissuna importanza a quel pezzo e che non desidero almeno per il momento renderlo noto in nissuna maniera». Eppure era già stato eseguito a Vienna e a Parigi con successo enorme; stava per essere suonato a Londra, addirittura in una versione adattata per un’orchestra di 80 archi. E l’autore, al quale era stato chiesto l’assenso, lo aveva dato osservando che alcuni temi del primo e del secondo violino sarebbero risultati meglio in versione orchestrale.

Questo atteggiamento così contraddittorio nei confronti dell’unica composizione 

da camera del grande operista si inserisce nel dibattito sulla musica strumentale tedesca, molto vivace in Italia fra gli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo.


Nel 1873, mentre componeva il suo unico Quartetto per archi, Verdi si sentiva coinvolto in una sorta di “conflitto musicale” che aveva un fronte interno e uno esterno. Quest’ultimo riguardava ovviamente quanto accadeva fuori dell’Italia nel mondo dell’opera, sotto le insegne del dramma musicale di Wagner e più in generale della cosiddetta “opera d’arte dell’avvenire”, che iniziava a fare breccia anche in Italia. Più singolare, nella prospettiva attuale, il fronte interno. Infatti, dopo il controverso debutto scaligero di Aida, il musicista mostrava spesso di sentirsi “nel mirino”. Non solo e non tanto nell’ambito operistico, nel quale in fondo continuava a non avere rivali, ma in quello della discussione sulla musica strumentale, che stava fiorendo vivacemente in Italia. Carattere forte e ruvido, imperioso e stizzoso, spesso impaziente, Verdi al giro dei suoi 60 anni si sentiva coinvolto al punto da voler condurre una “guerra” in un ambito che non era quello teatrale. E per questo – con intento a suo modo provocatorio e sicuramente polemico – aveva deciso di scrivere un Quartetto.

All’editore Ricordi aveva scritto: «È convenuto che noi italiani non dobbiamo ammirare questo genere di composizione se non porta un nome tedesco. 

Siamo sempre gli istessi, noi italiani».


E aveva aggiunto un’annotazione particolare della quale in realtà non era convinto fino in fondo, visto che attenua in maniera senz’altro insolita il suo parere: «Credevo allora e credo ancora, forse a torto, che il Quartetto in Italia sia pianta fuori di clima». Nella stessa lettera spuntava la polemica “ideologica”: «Io vorrei che le nostre società, licei e conservatori, unitamente ai quartetti a corde, istruissero quartetti a voce per eseguire Palestrina, i suoi contemporanei e Marcello». E così anche la famosa frase verdiana, “Torniamo al passato e sarà un progresso”, riletta sotto questa luce assume una particolare evidenza. Il vero punto di riferimento di Verdi per replicare ai “modernisti” era la grande tradizione polifonica italiana del Cinquecento e i suoi sviluppi nella musica del Settecento. 

 

Subito dopo la prima di Aida a Napoli, Verdi aveva scritto alla fedele amica la contessa Maffei, alla quale aveva raccontato che Aida aveva avuto un grande successo, probabilmente più che altrove in Italia, perché «Qui a Napoli non vi sono i critici che la fanno da “apostoli”». Ovvero, apostoli di una nuova religione musicale, della quale il compositore non aveva certo una grande considerazione. E aveva rincarato la dose: «Non c’è la turba dei maestri che sanno di musica soltanto quello che studiano sulla falsariga di Mendelssohn, Schumann, Vagner (sic!). Non il dilettantismo aristocratico che per moda si trasporta a quello che non capisce».

Molto lucidamente il Quartetto esprime chiaramente l’intenzione verdiana di definire una diversa pratica musicale, che sintetizzi nella forma classica un gusto 

e uno stile tipicamente italiani, alieni da qualsiasi pedissequa “falsariga” 

e imitazione di stilemi ad essi estranei.


Particolarmente significativa, da questo punto di vista, la scelta di concludere la composizione con una Fuga. Che non a caso era la parte cui il compositore teneva di più. 

 

Nel Quartetto, la scrittura della Fuga è stringente, profonda eppure singolarmente lieve. In un primo momento, Verdi aveva pensato di farla precedere da una sorta di recitativo introduttivo. Poi, forse pensando che il tutto sarebbe suonato “sulla falsariga” di Beethoven, vi aveva rinunciato. E l’ultimo movimento era diventato, semplicemente, uno Scherzo-Fuga in tempo “Allegro assai mosso”, con il soggetto affidato al secondo violino chiamato a suonare pianissimo, staccato e leggero. Sorge a questo punto invitabile il paragone con il grandioso Fugato che conclude la sua ultima opera Falstaff (rappresentato nel 1893), quello in cui si dice che “Tutto nel mondo è burla”, lungo un contrappunto di voci e strumenti in 14 parti. 

In modo sorprendente e modernissimo la polifonia si fonde con il gesto ironico dell’estrema maturità verdiana in una sintesi che ancora oggi, 

a distanza di oltre un secolo, ancora ci sorprende.

 

 

UN EPISODIO POCO NOTO DELLA VITA DEL GRANDE MUSICISTA

 

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VILLA LYSIS, LA REGGIA DEGLI ECCESSI NEL CUORE DI CAPRI di Aurora Adorno – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 – Ed. Maurizio Conte

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Villa Lysis, la reggia degli eccessi nel cuore di Capri

 

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quando l’ardente sole ti asciuga sulla spiaggia, ah, lasciami sognare, e fare un bel viaggio… il tuo corpo è uno scrigno misterioso e chiaro…» 

Jacques Fersen

Un triangolo amoroso quello tra il barone-poeta francese Fersen, le tentazioni e la natura incontaminata dell’isola di Capri. 

Proprio come il suo contemporaneo Oscar Wilde, Jacques Fersen credeva che l’unico modo per liberarsi dalle tentazioni fosse cedervi, e così fece per tutta la sua vita fin quando, nel 1903, subì un lungo processo che portò alla luce feste compromettenti, lettere d’amore indirizzate ad un giovane ed altri scandali.

 

Il dandy decadentista e scrittore trovò allora rifugio tra le bellezze dell’isola 

che aveva visitato già a diciassette anni e dalla cui bellezza 

era stato come folgorato,

 

colpito nella sua sensibilità estetica, ammaliato dalla potenza del vento che cantava sugli scogli e dalle onde di acqua cristallina che si increspavano lente verso l’orizzonte. 

Per porre le fondamenta della sua villa scelse un luogo selvaggio, scolpito dal tempo, posto davanti ad un panorama mozzafiato: la rupe di Tiberio.

In dodicimila metri quadri di terra l’architetto e scenografo Chimot 

progettò una villa in stile Luigi XVI,

 

in cui l’eleganza e l’esagerazione trasudavano da ogni poro come in un teatro dell’epoca. All’interno, stucchi, colonne, legni e materiali pregiati impreziosivano le stanze bagnate dalla luce del sole di Capri, riflessa nei mosaici dei vetri colorati. 

La palazzina era contornata da terrazze a strapiombo sul mare, da grandi finestre da cui penetravano i profumi e le fragranze del giardino esotico composto da orchidee, azalee, rose e camelie; copie di statue romane animavano la natura del boschetto d’alloro e del mirto dedicato al mito della bella Venere, mentre la villa era dedicata a Liside, discepolo ed amico di Socrate. Ma le bellezze della natura ed il sole del Mezzogiorno non dettero pace al giovane Fersen, neanche quando, ispirato dai suoi versi, si specchiava nel mare cristallino cercando la propria anima sul fondale in mezzo ai pesci ed alla flora marina;

 

egli, mosso dal suo spirito inquieto, animò la villa di feste e di balli, di scandali 

e di eccessi. Villa Lysis divenne così il ritrovo per artisti e letterati dell’epoca. 


Nell’atrio vi era un’immacolata scalinata di marmo dalla balaustra in ferro battuto, di fronte alla quale faceva capolino la grande biblioteca; al centro, una copia del David di Varrocchio sorrideva, forse schermendo i suoi ospiti. Oltre il salone, una veranda composta da piastrelle azzurre si mostrava al Golfo di Napoli attraverso le finestre, occhi affacciati sul Vesuvio che faceva da sfondo, incerto se eruttare il fuoco della terra, mentre il soffitto a cupola era contornato da colonne corinzie intarsiate d’oro. 

Al piano superiore si trovava la camera di Fersen, esagerata, sfarzosa, imprudentemente affacciata sul mare e sul Monte Tiberio, accanto quella di Nino, suo compagno ed amico, oltre ad una camera per gli ospiti ed una grande sala da pranzo. 

Superati gli archi della veranda si scendeva in basso e, attraversati gli inferi dell’animo umano, si trovava la fumeria d’oppio chiamata “La camera cinese”.

“Amori et dolori sacrum”, ovvero “luogo sacro all’amore ed al dolore” 

era la frase tratta da un’opera di Maurice Barrès, l’iscrizione latina 

che il barone volle apporre all’entrata della piccola sala da fumo.

 

Nell’alcova pietre dure, vassoi d’argento e pipe intarsiate comprate durante un viaggio ad Hong Kong adornavano la stanza in cui si rifugiava per sprofondare nei sogni ovattati dall’oppio, per cercare pace e riparo dalla sua stessa vita ed in cui morirà suicida, chiudendo il cerchio di un’anima inquieta divisa tra gli eccessi ed un’ideale di purezza che lo spinse sempre a narrare il bello. 

Una morte vissuta come ultimo atto sul grande palcoscenico della vita, la fine cercata durante un temporale, illuminata soltanto dalla luce di una manciata di candele rosa e che ci lascia perplessi a contemplare i suoi versi: 

«Stasera canto l’oppio, l’oppio illimitato, il sommo oppio. Danza il suo fumo nel cervello e l’uomo me lo involve nell’oblio. Guardo il fantasma inebriato; divento i suoi veli imponderabili, ascolto la sua voce che promette estasi ed entro in pagode profumate di gelsomini ove ardono resine per gli avi».

 

Dei suoi romanzi e poesie è reperibile in italiano la traduzione dell’autobiografia 

E il fuoco si spense sul mare, edito nel 2005, e Amori et dolori sacrum. 

Capri, un’infinita varietà:1905-1923: l’isola di Jacques Fersen, del 2009.

Villa Lysis ha ospitato tanti personaggi: Hans Paule, Gilbert Clevel, Otto Sohon-Rethel, la marchesa Luisa Casati e la famosa poetessa Ada Negri, che in un articolo sull’Ambrosiano del 1923 scrisse: 

«(…) tutto era troppo bello, compreso Nino, il segretario dal profilo di medaglia, con lo sguardo di chi ha occhi troppo lunghi, troppo neri e sormontati da sopracciglia troppo basse; ed il suo padrone, gentiluomo di gran razza, cortese, dall’altera eleganza, che parlava il più perfetto francese e leggeva versi come nessun’altro» riferendosi a Nino Cesarini, amante ed amico del Fersen che da lui eredita la proprietà.

La villa passò poi alla nipote di Fersen, ma nel 1985 il Ministero per i Beni Culturali 

e Ambientali vincolò la proprietà, che venne restaurata negli anni ’90 con i fondi dell’Associazione Lysis e del Comune di Capri per essere riaperta al pubblico.

 

Per chi oggi visita l’isola vale la pena salire sul promontorio settentrionale da via Sopramonte continuando per via Tiberio, per giungere infine tra le quattro colonne ioniche della villa tra i fantasmi del Fersen, dei suoi amanti e dei letterati dell’epoca, per poi riprendere fiato nel bel giardino, davanti ad un panorama mozzafiato. 

Che non si cada però nella tentazione di giudicare la vita di Jacques Fersen, nipote di un facoltoso industriale, discendente diretto del conte Fersen, maresciallo di Svezia ed amante della regina Maria Antonietta, quel giovane poeta che di quella sua vita aveva fatto lo specchio di eccessi e di misteri, perché, come sosteneva Wilde, è meglio essere protagonisti della propria tragedia che spettatori della propria vita.

 

 

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MEDITERRANEO CULLA DELLA SCIENZA di Giorgia Ippoliti – Numero 22 – Settembre ottobre 2021 – Ed. Maurizio Conte

 

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MEDITERRANEO CULLA DELLA SCIENZA 

 

«Superare le proprie limitazioni e divenire signori dell’universo».

Così Archimede di Siracusa sintetizzò quello che, sin dalla notte dei tempi, ha spinto l’Uomo a superare le barriere del reale per scoprire l’ignoto. Superando i confini del noto sapere, mettendo in discussione le proprie certezze, l’Uomo ha sempre cercato di travalicare i limiti spazio temporali per riuscire a colmare quella connaturata sete di conoscenza.

 

Ed è proprio ad Archimede, e alla città di Siracusa, che alcuni studiosi 

attribuiscono quella che può essere definita come una delle più grandi 

opere ingegneristiche mai conosciute.

 

La più bella e nobile tra le città greche – per far proprie le parole di Tito Livio – è stata foriera di un tesoro nascosto. 

Cicerone, nel De Natura Deorum, afferma «Secondo loro sarebbe stato molto più abile Archimede nel riprodurre i moti celesti con la sua sfera di quanto non lo sia stata la natura nel crearli, nonostante la maggiore perfezione di questi ultimi in più̀ di un particolare rispetto alla loro imitazione».   

 

Ma a cosa si riferiva l’illustre Oratore? 

Con molta probabilità, alla macchina di Anticitera, il più antico calcolatore meccanico conosciuto, databile intorno al 150-100 a.C.

 

Il meccanismo si racconta sia stato ritrovato intorno al 1900 grazie alla segnalazione di un gruppo di pescatori di spugne che, persa la rotta a causa di una tempesta, furono costretti a rifugiarsi sull’isoletta rocciosa di Cerigotto.

 

Al largo dell’isola, alla profondità di circa 43 metri, fu scoperto il relitto di una nave, naufragata agli inizi del I sec. a.C. e adibita al trasporto di oggetti di prestigio, tra cui statue in bronzo e marmo. 

Tra gli oggetti rinvenuti, ve ne era uno, piccolo, dal colore verdastro, dello spessore di un libro, che destò stupore e curiosità: vi erano delle incisioni, in parte abrase e corrose, in un primo momento indecifrabili.

 

Cos’era quello strano oggetto? Perché si trovava a bordo di un relitto?

 

È bastato contemplare il panorama in una notte di luna piena, per far sì che il brivido del passato riecheggiasse in una delle più antiche colonie elleniche per mostrare l’essenza di quella che può esser definita non solo culla della civiltà, ma anche della scienza.   

 

Gli archeologi e gli studiosi non potevano credere ai loro occhi: si trovavano di fronte a una macchina del cosmo.

 

Quell’eccentrico congegno, quello strabiliante coacervo di dati e incisioni, 

di meccanismi e ingranaggi, era la chiave di volta per capire l’astronomia 

e la tecnologia dell’antica Grecia e il loro ruolo 

nel contesto socioculturale grecoromano.


Era stata concepita in tarda età ellenistica sulla base di raffinate, consolidate e diffuse conoscenze meccaniche e astronomiche. Solo nel 1951 i dubbi sul misterioso meccanismo cominciarono ad essere svelati. 

Fu proprio in quell’anno che il professor Derek de Solla Price[1], come un moderno Indiana Jones alla ricerca del tesoro nascosto, cominciò a studiare il congegno, esaminando minuziosamente ogni ruota ed ogni pezzo, e riuscendo, dopo circa vent’anni di ricerca, a scoprirne il funzionamento originario.

Anni di studi, dubbi ancora in parte irrisolti e avvolti in un’alea di mistero – basti pensare che il testo delle iscrizioni decifrate non risulta essere stato ancora comunicato – consentirono di scoprire la funzionalità e il meccanismo della macchina di Anticitera.

 

 

Quella macchina del cosmo, tra le più avveniristiche nel genere delle macchine strabilianti, era stata creata per imitare la natura senza rivelare 

il proprio funzionamento.

Il meccanismo, sconosciuto ai più, diveniva fruibile ai soli soggetti più curiosi, trasformandosi in una sorta di manuale animato di divulgazione scientifica. La macchina di Anticitera risultò essere un antichissimo calcolatore per il calendario solare e lunare, le cui ruote dentate potevano riprodurre il rapporto di 254:19 necessario a ricostruire il moto della Luna in rapporto al Sole (la Luna compie 254 rivoluzioni siderali ogni 19 anni solari). 

Era, infatti, un sofisticato planetario, mosso da ruote dentate, che serviva per calcolare il sorgere del sole, le fasi lunari, i movimenti dei cinque pianeti allora conosciuti, gli equinozi, i mesi, i giorni della settimana e le date dei giochi olimpici, oltre che le lunazioni, ottenute dalla sottrazione del moto solare al moto lunare siderale.   

 

La macchina era delle dimensioni di circa 30 cm per 15 cm, dello spessore di un libro, costruita in rame e originariamente montata in una cornice in legno. Era ricoperta da oltre 2.000 caratteri di scrittura, dei quali circa il 95% è stato decifrato.

 

Il meccanismo riproduceva di fatto l’universo così come lo concepivano i Greci.


La scoperta riuscì a far emergere come nella Grecia del II secolo a.C., e nelle sue colonie, esistesse effettivamente una tradizione di altissima tecnologia. Ma come mai si riconduce la sua creazione ad Archimede, e in particolare alla città di Siracusa? 

Quel manufatto fuori dal tempo, uscito dal limbo delle semplici curiosità, riesce a render tangibile il pensiero del grande scienziato, secondo cui «coloro che pretendono di scoprire tutto ma non producono prove dello stesso possono essere confutati come se avessero effettivamente preteso di scoprire l’impossibile».   

 

È grazie ad Alexander Jones[2] che sono emersi degli ulteriori elementi che consentono di ricondurre, con sempre più probabile certezza, la costruzione della macchina a Siracusa.

 

I nomi incisi sullo strumento, in particolare dei mesi, ottenuti grazie all’opera 

di decifrazione compiuta, sono proprio quelli utilizzati nelle colonie corinzie 

e in particolare a Siracusa, in Sicilia.

 

Questa ipotesi, particolarmente affascinante, troverebbe conferma in alcuni scritti di Cicerone. L’autore latino descrive infatti alcuni strumenti realizzati dal matematico Archimede, siracusano, nel III secolo a.C, cioè due secoli prima rispetto alla costruzione del Meccanismo di Antikythera. 

Egli infatti riferisce, nel De Re Publica e nelle Tusculanae Disputationes, di planetari in bronzo costruiti da Archimede che mostravano la Terra, la Luna, il Sole, il mese lunare e le eclissi di Sole e di Luna.

 

L’antico calcolatore – oggi conservato presso il Museo Archeologico di Atene – sarebbe quindi frutto di una tradizione costruttiva legata direttamente 

agli studi del celebre matematico.

 

Ma perché è stato ritrovato sul relitto di una nave romana proveniente dal medio oriente e affondata attorno al 70 a.C.? 

Anche questo apre un nuovo filone di mistero, che rende ancora più affascinante e avvolgente la storia del meccanismo di Antikythera. 

C’è chi sostiene sia stato mandato in dono in Oriente da qualche ricco siracusano e da qui entrato a far parte di un bottino diretto a Roma; chi sostiene faccia parte dei meccanismi di Archimede portati a Roma, dopo il saccheggio di Siracusa e la morte dello stesso nel 212 a.C., dal generale romano Marco Claudio Marcello.   

 

Una cosa è certa. Passato e presente continuano ad essere facce di una stessa realtà. Gli antichi greci si avvicinarono così tanto alla nostra epoca, nel pensiero nella tecnologia scientifica, così dimostrando il fatto che «l’Uomo sia il più straordinario dei computer» (John Fitzgerald Kennedy).

 

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[1] Fisico e storico della scienza della Yale University, in uno studio pubblicato nel 1959 nella rivista Scientific American.

 

 [2] Alexander Jones, La macchina del Cosmo, Hoepli, 2019. 

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IL SANTUARIO DI CASTELPETROSO Gemme del Sud Numero 22 Settembre ottobre 2021 ed. Maurizio Conte

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IL SANTUARIO di CASTELPETROSO

 

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 Gemme del Sud
         Castelpetroso (IS)

 

Nel piccolo comune molisano di Castelpetroso, in provincia di Isernia, a pochi metri da un antico tratturo un tempo percorso dai pastori, incastonato tra il verde dei boschi, sorge il maestoso Santuario di Maria SS. Addolorata.

 

La storia di questo santuario ha inizio il 22 marzo 1888, 

giorno in cui la Vergine apparve per la prima volta:  

 

due contadine del luogo erano alla ricerca di una pecorella smarrita, quando una delle due si trovò di fronte ad un bagliore di luce nel quale vide l’immagine della Madonna genuflessa, con ai piedi il Cristo morto, lo sguardo rivolto verso il cielo e le braccia allargate in atto di offerta. Il 1° aprile 1888, giorno di Pasqua, la Vergine apparve anche all’altra contadina. Le voci sulle apparizioni si diffusero velocemente ed in tanti si recarono in pellegrinaggio in quel luogo. Anche Monsignor Francesco Macarone Palmieri, vescovo di Bojano, volle recarsi sul posto per indagare sulle presunte apparizioni ed anch’egli ebbe la grazia di vedere la Madonna Addolorata. Nel luogo delle apparizioni sgorgò una sorgente, la cui acqua miracolosa guarì un ragazzo affetto da tubercolosi. Così, il 28 settembre 1890, venne posta la prima pietra del Santuario di Maria SS. Addolorata di Castelpetroso e lo stesso Monsignor Palmieri diede ufficialmente il via ai lavori. 

Il Santuario di Castelpetroso,

 

definito da alcuni la “Piccola Lourdes italiana”, non è soltanto un importante luogo 

di pellegrinaggio per i fedeli, ma una vera e propria meraviglia 

per gli occhi di chiunque abbia la fortuna di visitarlo, 

 

specialmente per chi vi si reca d’inverno, quando, coperto dalla coltre nevosa, assume un aspetto quasi fiabesco.  Progettato in stile neogotico da Francesco Gualandi di Bologna, è stato interamente costruito in pietra locale, scolpita da artisti molisani, che nei loro intarsi sui rosoni della facciata principale sembrano rendere omaggio all’antica arte della tessitura del tombolo. Straordinaria anche la pianta: di tipo radiale, essa presenta sette bracci a simboleggiare il cuore di Maria trafitto da sette spade, i Sette Dolori, a ciascuno dei quali è dedicata una delle sette cappelle laterali.

 

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