SANTA MARIA DI PULSANO – DOVE IL MONACHESIMO VIVE 1 di Roberta Lucchini – Numero 6 – Ottobre 2016

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SANTA MARIA di pulsano. dove il monachesimo VIVE 1

 

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Caligine. Oggi il mare celestino sembra evaporare gradualmente in un cielo lattiginoso e denso, che impedisce allo sguardo di spingersi oltre, di superare il dolce golfo di Manfredonia, sul quale si adagia, rugoso e antico pachiderma dormiente, l’aspro massiccio del Gargano. 

«Nei giorni limpidi, riusciamo a distinguere nitidamente il faro di Molfetta». Lieve moto di orgoglio trapela dalle parole di padre Pietro, priore dell’Abbazia di Santa Maria di Pulsano, mentre descrive questo luogo, che da quindici secoli accoglie uomini di fede e di preghiera, monaci eremiti che hanno cercato, e trovato, fra questi anfratti calcarei, dove la vegetazione bassa e sparuta lotta contro la forza dei venti, un rifugio dalle malversazioni della vita terrena, per tornare in comunione con Dio e con la natura. Passato e presente qui convivono. Quasi in una figurata trasposizione architettonica della centralità del mistero eucaristico, sull’antico nucleo rappresentato dalla chiesa si sono aggiunti, sovrapponendosi, gli edifici abbaziali, alcuni dei quali molto recenti e dotati di tutti i comfort: non te lo aspetteresti, arrivando, nonostante tu abbia già incamerato una discreta quantità di informazioni dal sito Internet dell’Abbazia, aggiornatissimo e completo. Come dice Francesco, le nuove tecnologie devono essere orientate a favorire l’incontro.

Bisogna dare ai monaci degli abiti adatti alle condizioni e al clima della località in cui abitano. (Regola, Cap. LV)

Se non fosse per gli abiti – t-shirt, pantaloni blu e scarponi da lavoro -, che lo classificano come uomo dei nostri giorni, il priore rimanda, nell’aspetto, ad altre epoche: la barba bianca lunghissima, i capelli altrettanto canuti e fluenti, di corporatura robusta e imponente, Pietro interrompe il suo quotidiano daffare e, sedendo nel refettorio, racconta, pacato e bendisposto, la propria storia personale, dagli studi e conseguente laurea in Geologia, alla scelta di una vita diversa, «fuori dal mondo, ma con il mondo». Da Pozzuoli, dove svolgeva vita monastica, è arrivato qui nel 1997, insieme a padre Fedele, suo confratello, «per avviare la rinascita di una piccola comunità di monaci che tornasse ad arricchire la vita di fede del territorio, risvegliando l’originaria vocazione del luogo». 
Perché “risvegliare”? Cosa aveva sopito il fluido scorrere della storia, in questa oasi di pace mimetizzata fra le rocce abbondanti, in un angolo poco accessibile della Puglia variegata? Il cuore dell’uomo, indurito come la fredda pietra, aveva lasciato che la protervia dei rovi fagocitasse poco a poco mura, architravi, fregi, capitelli, trabeazioni; che la cupidigia mai satolla facesse trafugare beni di immenso valore artistico e religioso, tra cui la preziosissima icona della Madre di Dio Odigìtria di Pulsano, risalente ai secoli XI-XII, rubata nel 1966 e mai ritrovata; che la veemenza degli animali, lasciati pascolare senza regole, trasformasse spechi e altari di un insediamento sacro più che millenario, in ricoveri e stalle di fortuna; che il territorio stesso, sul quale insiste l’intero complesso, divenisse teatro di faide fra malavitosi. Ricorda padre Pietro che solo la devozione della comunità locale per la Vergine di Pulsano, particolarmente fervida in occasione delle festività dell’8 settembre – Festa della Madonna delle Grazie – e del mese mariano, allorquando processioni di fedeli si inerpicavano fra gli angusti e difficili passaggi del sentiero che da Manfredonia fortunosamente raggiunge l’abbazia, manteneva acceso il ricordo di un passato ricco di vicende e di santità che avevano permeato di sé i secoli, ma rischiavano di finire inesorabilmente nell’oblìo. 
Di quanto andare indietro nel tempo per recuperare le origini? Sebbene già in epoca precristiana esistessero nella zona insediamenti e luoghi di culto, la fondazione di un monastero in cui eremiti oranti potessero trovare albergo risale al VI secolo, per volontà di San Gregorio Magno Papa: egli, sostenitore dei monaci e grande ammiratore di San Benedetto da Norcia, ordinò qui l’edificazione di un’abbazia dedicata, al tempo, a Santa Maria in Monte Gargano, contemporaneamente ad un’altra in terra di Bari (Abbazia di Barsento, presso Noci). Al Papa – Santo è intitolato l’eremo più prossimo all’Abbazia, uno dei 24 disseminati lungo le pendici del promontorio e afferenti alla stessa, in parte risistemati e visitabili, seppur con atto di coraggio, essendo ubicati in posizioni per lo più impervie. In realtà, sembra storicamente accertata la presenza a Pulsano, già in epoche precedenti, di eremiti che si ispiravano al monachesimo nato in Oriente, in particolare alle esperienze di Sant’Antonio Abate e di San Pacomio, nonché alle successive Regole di San Basilio, pregando anche in lingua greca. Il monastero, dopo l’affidamento ai monaci di Sant’Equizio prima e ai Cluniacensi poi, subì un periodo di decadenza a seguito delle ripetute incursioni saracene, finché il cenobiarca San Giovanni da Matera non lo ricostruì e fondò la Congregazione dei Monaci pulsanesi, detti gli Scalzi. Ed ecco la data di riferimento: il 30 gennaio 1177, papa Alessandro III consacrò il nuovo Altare dell’Abbazia dedicata alla Sempre Vergine Maria, Regina del Cenobio pulsanese, sotto il quale vennero custodite le spoglie di San Giovanni abate, morto nel 1139. 
Ottocento anni dopo, il 20 dicembre 1997, l’Arcivescovo di Manfredonia, Mons. Vincenzo D’Addario, riaprì al culto pubblico l’Abbazia, decretando altresì la rinascita della comunità monastica di Pulsano (smembrata come conseguenza del decreto del 13 febbraio 1807, con cui Giuseppe Bonaparte ordinò lo scioglimento di alcuni ordini monastici, per incamerarne i beni di pertinenza), approvandone la Regola e ponendola sotto la giurisdizione della diocesi di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo. Padre Pietro è uno dei tre monaci, insieme al ricordato padre Fedele, ed a padre Massimo, siriano melchita, che fece parte della ricostituita comunità. 
Tre monaci. Chi li ha spinti ad arrivare qui? Come avranno potuto affrontare questa esperienza, come potuto superare le immancabili difficoltà? Pietro riferisce di essere stato contattato su indicazione di Tommaso Federici, professore ordinario presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma, il quale, frequentando spesso Monte Sant’Angelo per ragioni di studio, era a sua volta stato avvicinato da alcuni fautori del “Movimento pro-Pulsano”: nato agli inizi degli anni Novanta su impulso, fra gli altri, di Alberto Cavallini – profondo conoscitore della storia locale e, tuttora, molto attivo nel monastero, di cui è economo – il movimento si proponeva di favorire la rinascita cristiana del complesso abbaziale. Grazie, quindi, all’interessamento ed all’entusiasmo del Professor Federici, si era potuta concretizzare quella che sembrava, alla popolazione, una utopia: padre Pietro non nasconde che proprio l’affetto, il sostegno e la fattiva partecipazione della gente del luogo, insieme alla salvifica preghiera, quotidiano nutrimento dell’anima, permisero di superare l’insuperabile, la ripartenza, e, per lui in particolare, pugliese della provincia di Lecce, di concretizzare il desiderato ritorno al servizio del proprio territorio. 
Certo, i numeri impressionano: una comunità di soli tre monaci…. Sorride, Pietro: «La vocazione monastica è in recessione: oggi siamo in due! Nei periodi di massima presenza, ci siamo trovati con quattro monaci, un professo semplice e due novizi.» Del nucleo iniziale, è l’unico “superstite”, essendo stati, gli altri due, chiamati a nuovi uffici. Oggi è affiancato da padre Efrem, laureato in Giurisprudenza all’Università di Roma “La Sapienza”, un passato da dipendente del Ministero per le Politiche Agricole, cui segue un’esperienza molto toccante in Siria, fino all’approdo sul Gargano. Quindi è ancora possibile, oggi, votarsi al monachesimo! Inutile negarlo: richiede coraggio. Si è ancora disposti a correre il rischio di fare una scelta azzardata, anacronistica per certi versi? «Il tempo è galantuomo…» dice Pietro, sorridendo «Proprio per ovviare al problema, la formazione del monaco richiede molti anni.»

Quando si presenta un aspirante alla vita monastica, non bisogna accettarlo con troppa facilità. (Regola, Cap. LVIII)

Fra postulantato, noviziato, studentato e successiva licenza o dottorato, trascorrono dieci anni circa. «La lunga durata, tuttavia, non spaventa, si rivela anzi una garanzia tanto per chi chiede di entrare nella comunità quanto per la comunità stessa, poiché certe scelte vanno ben ponderate. In genere, alla fine dei primi tre anni la decisione, in un verso o nell’altro, risulta definitiva.» 
Il discorso è generale, ma qui, a Pulsano, quali sono le specificità? «L’idea di fondo è quella di recuperare il messaggio originario del monachesimo, quando i monaci rimettevano i propri voti nelle mani del Vescovo ed erano al servizio della Diocesi, senza necessità di una presenza presbiteriale, che si manifesta invece nelle comunità numerose: anche S. Pacomio radunava i suoi monaci e li accompagnava in parrocchia….! Proprio in virtù di questo ritorno alle origini, viene praticata la biritualità, ossia le celebrazioni e le preghiere si svolgono sia secondo il rito latino che secondo quello bizantino, entrambi espressione dell’unicità della Chiesa cattolica.» Spiega padre Pietro che, in realtà, questa impostazione non è il risultato di una scelta preordinata alla rinascita del monastero, ma quasi frutto della casualità, visto che uno dei monaci fondatori, padre Massimo, attualmente parroco nelle isole Tremiti, seguiva il rito bizantino. 
Come è stato possibile conciliare le due esperienze? «Per mantenere la compattezza dell’Anno Liturgico, visto che non sempre vi è coincidenza fra le ricorrenze nei due calendari – giuliano e gregoriano -, si è deciso, salomonicamente, di alternarli secondo i giorni della settimana: il martedì, il giovedì e il sabato si prega secondo il rito latino, il mercoledì, il venerdì e la domenica pomeriggio secondo il typikòn del rito bizantino; e quest’ultimo è adottato anche per la Divina Liturgia (la Santa Messa), qualora in Abbazia si trovi ospite o venga invitato un presbitero che officia seguendo lo Ieratikòn. Spesso, ne arrivano da Piana degli Albanesi (PA) e da Lungro (CS), le uniche due Eparchie presenti in Italia.» E’ naturale, a questo punto, voler conoscere differenze e affinità fra le due celebrazioni…

E le Conferenze, le Istituzioni e le Vite dei Padri, come anche la Regola del nostro santo padre Basilio, che altro sono per i monaci fervorosi e obbedienti se non mezzi per praticare la virtù? (Regola, Cap. LXX)

«Le radici sono comuni. Il fine è il medesimo. Nel rito latino i fedeli partecipano alle funzioni spesso inconsapevolmente, mentre nel rito greco-bizantino la simbologia è ancora molto sentita; inoltre, nella Divina Liturgia è rilevante e immancabile la figura del diacono, il quale ha invece un ruolo marginale nella Santa Messa.» 
Quando il priore fa strada a visitare la Chiesa abbaziale, ricavata in una grotta naturale, e ancor più assistendo alla preghiera secondo il rito bizantino, altre differenze risultano evidenti. Innanzitutto, l’assenza di statue di santi, sostituite da raffinatissime icone (Pulsano è sede di una Scuola di Formazione Permanente di Iconografia, articolata per livelli di difficoltà); poi l’iconostasi, cioè una sorta di divisorio ornato da tre icone, che protegge dalla navata la parte più intima e sacra, quella dove si rinnova il sacrificio eucaristico, cioè l’altare. Poi i modi della preghiera, durante i quali ricorrono i profondi inchini accompagnati dal segno di Croce (metànie) ad ogni menzione delle persone della S.S. Trinità, le invocazioni ripetute, le melodie intonate e cantate senza ausilio di strumenti musicali, l’utilizzo abbondante dell’incenso, che simboleggia la preghiera che sale verso Dio. Vien da chiedersi se i fedeli siano in grado di seguire questi ritmi, queste preghiere, che spesso utilizzano la lingua greca. Ebbene sì: con grande spirito di apertura e disponibilità, la popolazione locale ha abbracciato di buon grado l’osservanza della biritualità, partecipando attivamente a tutte le iniziative e tendendo, in questo modo, una mano a quanti, soprattutto stranieri, e rumeni in particolare, hanno potuto ritrovare qui le forme della religione praticata in Patria. Anche questo è ecumenismo. La preghiera unisce, è comunione.

“Sette volte al giorno ti ho lodato” dice il profeta. (Regola, 
Cap. XVI)

La giornata è scandita dal rintocco della campana, posta nel cortile alto dell’Abbazia, che chiama a raccolta. Il Mattutino, alle 5.30; le Lodi, alle 7:30; la Terza, alle 8:30; la Sesta, alle 12:30; la Nona, alle 15:30; il Vespro, alle 18:30; la Compieta, alle 21. Negli intervalli, la lectio personalis, la meditazione, il silenzio, lo studio, il lavoro. «Vivere di sola preghiera è come volare con una sola ala», dice Pietro. Ora, lege et labora. In effetti, il priore, insieme a padre Efrem, che fra l’altro gestisce la biblioteca, in gran parte costituita dal patrimonio librario del Professor Federici, cui è intitolata, si occupa di studiare le Sacre Scritture, di organizzare corsi di formazione per sacerdoti, ritiri spirituali, conferenze e tutte la attività di approfondimento puntualmente riportate sul sito Internet; ma, al contempo, si premura di seguire la piccola fattoria di conigli, galline, piccioni, un maiale, una mucca (da poco ricevuta in dono – ne erano state rubate ben due!), che, insieme ai prodotti dell’orto ed alla generosità dei benefattori, assicurano il sostentamento quotidiano per sé, ma soprattutto per i bisognosi; si dedica a coordinare il lavoro dei tanti volontari che, ogni giorno, convergono qui, e non solo dai paesi limitrofi, per prestare collaborazione in tutte le attività necessarie alla conservazione e miglioramento del complesso, dallo svolgere manutenzioni piccole e grandi agli edifici, al dissodare il terreno, all’impiantare colture, al preparare i pasti… come adesso, quando, durante questa chiacchierata, sono intenti ad approntare, nell’ampia, attrezzatissima e moderna cucina, un pranzo per non meno di venti persone. Sì, perché molto del servizio reso da questa comunità, della sua missione, è dedicato all’accoglienza, che non si limita alla semplice offerta di ristoro con acqua e caffè, ma importa la divisione della mensa, degli spazi comuni (rigorosamente senza televisione), di una stanza in cui trattenersi per periodi brevi o più lunghi; il tutto in spirito di assoluta gratuità.

Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: “Sono stato ospite e mi avete accolto”. (Regola, Cap LIII)

La tortuosa “via di Pulsano”, “strada senza uscita” (come indica il segnale stradale posto al suo inizio) che, in otto chilometri, congiunge il monastero al centro abitato di Monte Sant’Angelo, conduce qui viaggiatori da tutta Italia e dal mondo; sono i ben accetti, soprattutto se non è la mera curiosità a condurli qui, se non li spinge quell’indefinito bisogno di massificante turismo irrispettoso delle peculiarità locali, che, nel caso di specie, sono temperanza e silenzio. Meglio giungere con spirito di pellegrini e venire alla ricerca di solitudine, di raccoglimento, a ritrovare se stessi e Dio, a chiedere ascolto; oppure condivisione, del silenzio, della preghiera e, perché no, del lavoro. «Talvolta basta poco per sostenere chi invoca aiuto: ognuno di noi custodisce dentro di sé le risposte alle proprie domande, ai propri dubbi; deve trovare solo il coraggio per tirarle fuori, per renderle coscienti; e il riferirle ad un altro rafforza, come quando si ripeteva la lezione al compagno prima dell’interrogazione …» E’ un uomo concreto, pragmatico, non deve essere un caso che si chiami Pietro…. Ma non ha mai avuto paure, tentennamenti, indugi, ripensamenti? «Le difficoltà ci sono, e molte ce ne sono state. La benevolenza di Dio, tuttavia, si manifesta continuamente attraverso i mille volti e gli altrettanti destini che ogni giorno incrociano la nostra via. Anche nei momenti di grande sconforto, non è mai mancato il segnale, la presenza tangibile della Provvidenza, attraverso una donazione, un aiuto insperato, una testimonianza: la costante preghiera al Signore è di non lasciare l’uomo troppo a lungo nella prova, affinché non perda la speranza, né troppo poco, perché non monti in superbia! Ognuno di noi deve operare su se stesso, sulla propria conversione, cercando di essere autentico.»

Non saremo esauditi per le nostre parole, ma per la purezza del cuore. (Regola, Cap XX)

Certo, fa riflettere… Secoli di storia che continuano a “pulsare”. Una vita inconcepibile, per chi è abituato alla frenesia dei ritmi cittadini, al continuo affannarsi nel rincorrere orologi tiranni fra le esalazioni del traffico urbano, alla costante verifica del telefono cellulare, qui incredibilmente senza campo; dove non c’è il tempo per sostare e riflettere, dove il solo obiettivo consentito è il “performare” e non l’“essere”, il “donare”, l’“accogliere”, l’“ascoltare”, concetti dimenticati nella nostra società. Eppure realtà come questa esistono, esistono vite “comuni” spese non per la propria gloria personale e che, per questo, diventano “straordinarie”. Non è necessario essere credenti e praticanti per ricevere qui un messaggio, un invito a rivedere le priorità, a soppesare i propri valori, a riscoprire la contemplazione, a voler offrire…. Per qualcuno dura un attimo, per altri, forse, di più.

“Vieni e vedi”. (Giovanni, 1, 43-51)

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1 Si ringraziano padre Pietro Distante, padre Efrem Massimo Valentini, Alberto Cavallini e i volontari della Comunità che, con la loro testimonianza, hanno permesso di redigere questo scritto.

 

LA TRADIZIONE DEL PRESEPE A NAPOLI di Sergio Attanasio – Numero 6 – Ottobre 2016

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LA TRADIZIONE DEL PRESEPE A NAPOLI

 

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basti pensare che nella commedia “Natale in Casa Cupiello”, opera del drammaturgo Eduardo un vero tormentone è legato alla frase Te piace ‘o presepe?

Le origini del presepe a Napoli risalgono al Quattrocento e si diffondono per tutto il XVI secolo.

Ne esistono testimonianze nelle chiese della città. Narra il Napoli-Signorelli che “Antonio Baboccio, nel XV secolo, nel sepolcro di marmo bianco che fece nella cappella de’ Minutoli del Duomo di Napoli, per l’arcivescovo di questa famiglia, pose un bassorilievo eccellente che nel bel mezzo rappresenta un presepe”.E ancora: “Nella chiesa di Monteoliveto, come si vede ancor oggi, vi è nella cappelladei duchi Piccolomini d’Amalfi una tavola di marmo colla nascita del Signore che stimasi opera del riputato scoltore Donatello … Un antico presepe pur si vede nella cappella antica de’ Carafa di Ruvo in S. Domenico Maggiore e parimenti una rappresentazione del tugurio ove nacque Gesù con figure di legno che voglionsi scolpite da Giovanni Merliano, si trova nella icona del maggiore altare della chiesa di S. Giuseppe dei falegnami edificata nel XVI secolo; infine che Pietro la Plata eccellente scoltore spagnuolo fece un bassorilievo colla Vergine Madre che sostiene nelle braccia il Bambino e con i tre re magi che l’adorano nella chiesa di S. Giovanni a Carbonara nella cappella de’ marchesi di Vico”.

Nel secolo XVII furono noti presepisti i Perrone:

Michele, nato nel 1633 scultore in legno menzionato anche dal de Dominici, “… fece bensì buoni pastori da presepio, alli quali era da un particolare genio inclinato”; Aniello, “scultore anche migliore” e Donato, di cui le fonti non parlano ma che fu, con Michele, l’autore del presepe del Viceré conte di Castrillo, il quale commissionò ai due fratelli il suo presepe nel 1658, il più ricco finora tramandatoci, di 112 elementi, inviato in Spagna.

Nel secolo successivo il presepe si diffuse nella dimore dei nobili napoletani e a preparare le scenografie furono impegnati noti architetti

“si sono segnalati in costruir presepi curiosi ottimamente architettati gl’ingegneri Muzio Nauclerio e Niccola Canale Tagliacozzi Emuli, i quali hanno regolati co’ loro disegni varii edificii in Napoli e la stessa regina di Napoli e poi delle Spagne visitò una o due volte il presepe del Nauclerio … Famosi erano i presepi dei Pignatelli, nel loro palazzo a Calata Trinità Maggiore, e ogni anno il duca di Diano, il duca di Monteleone, il principe di Ischitella, aprivano al popolo le porte dei loro palazzi dal centro storico a Chiaja perché ne ammirasse i presepi”.

Alla realizzazione dei pastori erano impegnati i maggiori scultori dell’epoca: “Domenico Antonio Vaccaro, i fratelli Matteo e Felice Bottiglieri, il Celebrano, il Sammartino autore della statua del famoso Cristo velato della Cappella Sansevero, ed i suoi allievi Giuseppe Gori ed il Viva”.

La loro abilità di modellatori si estrinsecava nella creazione dei vari personaggi del presepe: “spiegarono la loro espertezza nel formar vaghe teste di pastori di carattere e di età differenti, angeli bellissimi, figure divotissime di Maria e di San Giuseppe”. Così come altri scultori non meno noti: “scolpirono egregiamente gli animali, che accrescono la verità dell’imitazione campestre di valli di colline e di tugurii, Francesco di Nardo coi suoi discepoli, Nicola Vassallo che formava eccellentemente buoi, capre, pecore, e cavalli in piccolo, e Saverio Vassallo suo fratello che si distinse in formar cammelli, polli, cani, augelletti”.

 

Il periodo d’oro del presepe a Napoli, dunque, è il Settecento, durante il regno di Carlo III, il sovrano che volle la costruzione della reggia di Caserta,

del quale quest’anno si celebrano i trecento anni dalla nascita. Egli era tanto amato dai napoletani ed era un gran cultore dell’arte di costruire il Presepe, così come si trova nelle cronache dell’epoca: “Era cosa mirabile, e di edificazione grandissima, il vederlo a certe ore sfaccendate del giorno con le regie sue mani impastar de’ mattoncini, e cuocerli, disporre i soveri, formar la capanna, architettar le lontananze, situarvi i Pastori, etc., e tener tutto pronto per la sacratissima notte del Santo Natale, che sempre veniva Egli a celebrare in Napoli, quantunque si ritrovasse fuori, siccome accadde in un anno, che ritrovavasi alla caccia in Persano, donde volle di carriera venire in Napoli, per celebrare la notte della Natività del Signore”.

La stessa regina Maria Amalia aiutava il consorte in questo diletto: “Occupavasi ancora nel fare gli abiti, da vestirne i Pastori, che servir dovevano pel Presepe del Re suo Consorte, il quale n’era divotissimo; nel colorire altresì i marmi bianchi con quella mistura indelebile, che fu inventata dal fu Principe di S. Severo, Don Raimondo di Sangro; e nel formar quei vaghi arazzi di diversi colori, fatti di lane spolverizzate; per le quali occupazioni la Regina rendevasi l’esempio di tutti, e la consolazione dei Re, suo amato Consorte”.

La stessa passione fu trasmessa al suo erede e figlio: “Ferdinando IV, ben sappiamo, quanto sempre o nella Chiesa di Belvedere, o in quella di Caserta, con egual pompa, e divozione, ha celebrato, e celebra un sì divoto, e tenero mistero di nostra redenzione”.

 

 

Il presepe ammirato dai tanti viaggiatori del Grand Tour, è così descritto da J.W.Goethe, nel suo Viaggio in Italia del 1787

“Ecco il momento di accennare ad un altro svago che è caratteristico dei napoletani, il Presepe. Si costruisce un leggero palchetto a forma di capanna, tutto adorno di alberi e di alberelli sempre verdi; e lì ci si mette la Madonna, il Bambino Gesù e tutti i personaggi, compresi quelli che si librano in aria, sontuosamente vestiti per la festa. Ma ciò che conferisce a tutto lo spettacolo una nota di grazia incomparabile è lo sfondo, in cui s’incornicia il Vesuvio coi suoi dintorni”.

A testimoniare la qualità dei pastori settecenteschi i presepi che derivano dalle donazioni delle maggiori collezioni napoletane, esposti nei musei della città da San Martino a Capodimonte, dal palazzo Reale di Napoli a quello di Caserta. E per vedere quanto sia ancora viva nella città la memoria e la tradizione del presepe

 

 

 

non resta, per coloro che vogliono visitare Napoli, che recarsi nella via S. Gregorio Armeno

una miriade di artigiani, rifacendosi ai pastori settecenteschi, ripropongono tutti i personaggi del presepe. In questa strada unica al mondo, può oggi capitare di vedere, accanto ai pastori della tradizione, anche Papa Francesco, Obama o la Merkel, abilmente riprodotti. Una sorta di aggiornamento costante che dimostra che il presepe è ancora vivo ed attuale.

 

 

 

 

LA PUGLIA ALL’ASSEMBLEA COSTITUENTE di Giannicola sinisi – Numero 6 – Ottobre 2016

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LA PUGLIA ALL’ASSEMBLEA COSTITUENTE

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1. In un’epoca in cui il massimo degli approfondimenti concepibile è un quarto d’ora di navigazione su Google e le modifiche alla Carta fondamentale che sancisce il sacro Patto di unità della Nazione si misurano con la capacità di far cadere o meno il Governo, è utile ricordare che non è sempre stato così.

C’è stata una stagione di grandi personalità, che sviluppavano il loro talento e le loro conoscenze nella società per metterle poi al servizio dell’intera comunità, coltivando ambizioni collettive il cui unico denominatore comune era il miglioramento delle condizioni di vita di tutti ed il rafforzamento delle istituzioni democratiche.

La Puglia è stata una terra generosissima nel fornire un contributo fondamentale allo Stato italiano sin dalla nascita della Repubblica.
Il 2 giugno 1946, per la prima volta a suffragio universale, non solo venne distribuita una scheda elettorale nel referendum per la forma dello Stato, ma anche, dopo 22 anni, una scheda per l’elezione del nuovo Parlamento, l’Assemblea Costituente.
Vennero eletti 556 deputati, con l’incarico di approvare la nuova Costituzione, di dare la fiducia al Governo, di ratificare i Trattati internazionali.
Solo 75 di questi Parlamentari entrarono a far parte della Commissione per la Costituzione, ovvero quella che aveva lo scopo di redigere il Progetto generale della prima Costituzione Repubblicana.

Fra questi autentici Padri costituenti, vi furono alcuni pugliesi che hanno illustrato la Nazione come veri Maestri di politica, di etica e di diritto, per formazione culturale, spinta ideale e visione generale.

Giuseppe Di Vittorio e Aldo Moro, ad esempio, hanno legato la loro stessa esistenza alle sorti del progresso civile e sociale dell’Italia, accompagnandola anche nei momenti più drammatici; ma

la raffinatezza intellettuale e l’altissimo contributo scientifico di Giuseppe Codacci Pisanelli alla Costituente rimangono ineguagliabili.

2. Giuseppe Codacci Pisanelli nacque a Roma il 28 marzo 1913, in una famiglia di illustri giuristi.
Lo era il padre, Alfredo Codacci Pisanelli, che fu avviato agli studi giuridici dal patrigno Giuseppe Pisanelli, che, non potendolo adottare poichè alla sua morte era ancora minorenne, volle che prendesse anche il suo cognome.
A quest’ultimo si deve il legame con Tricase, dove era nato e dove portò la famiglia Codacci, dopo il matrimonio con Bianca Naldini, vedova di Luigi Codacci, e madre di Alfredo.
Giuseppe Pisanelli (Tricase, Lecce, 1812 – Napoli 1879), avvocato ed accademico di chiara fama a Napoli, deputato nel Parlamento napoletano nel 1848, liberale e antiborbonico, fu costretto alla fuga, perseguito da una condanna a morte in contumacia. Nel 1860, tornato in patria, fu anche per 22 giorni ministro della Giustizia con Garibaldi e, dopo ancora, nei Governi Farini e Minghetti, oltre ad essere eletto deputato nel primo Parlamento dell’Italia unita dal 1860 al 1867. A lui si deve il codice civile e di procedura civile durante il suo incarico di Governo, oltre ad essere stato autore di numerose pubblicazioni.

Alfredo Codacci Pisanelli (Firenze 1861 – Roma 1929), dopo la laurea in giurisprudenza a Napoli, decise di completare la sua formazione a Berlino. Rientrato in Italia a soli 24 anni iniziò la sua carriera accademica nell’Università di Camerino, proseguendola a Pavia, Pisa e Roma nella cattedra di diritto amministrativo.

Iniziò la sua carriera politica nel 1897, quando fu eletto deputato nel collegio di Tricase, dove fu rieletto più volte. Alla discussione politica preferiva la cura del progresso materiale del Salento, occupandosi del progetto per l’acquedotto pugliese, della necessità di una prosecuzione della ferrovia nella zona del Capo di Leuca, dei lavori per il porto di Castro, dei progetti di bonifica in Terra d’Otranto, del servizio postale da Lecce a Otranto e a Gallipoli.
Fu sottosegretario al Tesoro ed all’Agricoltura nei Governi Giolitti e Sonnino, rimanendo liberale e conservatore anche dopo l’ascesa al potere di Mussolini, aderendo al Fascio parlamentare e poi nazionale, senza, però, mai perdere la sua originaria impostazione ideologica.
Pur non partecipando alla scelta Aventiniana dopo l’omicidio Matteotti, e rimanendo in Parlamento con le forze liberali, votò “con una piccola minoranza contro la proposta di legge di Farinacci per la riforma elettorale (16 gennaio 1925), contro la legge che limitava la libertà delle associazioni (19 maggio 1925), e contro la dispensa dal servizio dei funzionari dello Stato “sospetti” di antifascismo (19 giugno 1925)” consumando il suo strappo dalle posizioni mussoliniane.1

I cenni biografici dei suoi predecessori aviti segnano in qualche misura il destino intellettuale e politico di Giuseppe Codacci Pisanelli (Roma 1913- 1998), ed il suo legame con la Puglia ed il Salento:

Professore ordinario di Diritto Amministrativo; Rettore dell’Università degli Studi di Lecce; Rettore del Consorzio Universitario Salentino; Pretore di Tricase; Sindaco di Tricase dal 1962 al 1968; componente dell’Assemblea Costituente; più volte Deputato; Ministro della Difesa nell’ottavo gabinetto De Gasperi; Presidente dell’Unione Interparlamentare; Ministro per i rapporti con il Parlamento nei governi Fanfani e Leone. 
Se ne riconoscono i tratti dell’indipendenza, dell’autorevolezza, della sagace visione politica, del legame profondo con il territorio di appartenenza e di elezione, dello spessore culturale, della proiezione internazionale.

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Ma e’ dalla lettura dei suoi interventi all’Assemblea Costituente che se ne ricava con maggiore efficacia il senso di come le conoscenze giuridiche e la sensibilita’ politica abbiano offerto al nostro Paese una prospettiva di grande rilievo democratico e di perfezione tecnica che ancor oggi merita di essere non solo ricordata, ma soprattutto ristudiata.

Così come la sua serietà politica ed accademica emerge già dall’approccio a questo suo delicatissimo incarico: in preparazione alla sua elezione all’assemblea Costituente ed alla sua nomina nella Commissione per la Costituzione, la Commissione dei 75, si premurò di pubblicare il volume “Analisi delle funzioni sovrane” edito a Milano dalla Giuffrè, nel 1946.

3. Gli interventi di Giuseppe Codacci Pisanelli all’Asseblea Costituente sono numerosi e toccano molti aspetti della nostra Carta Costituzionale.
Di essi, alcuni hanno maggiore rilevanza per la loro completezza, ma soprattutto perche’ il suo pensiero giuridico e politico, di scuola anglosassone, determinò la posizione dell’intera Democrazia Cristiana, il partito per il quale era stato candidato ed eletto.
Egli, infatti,

l’anno dopo la laurea in giurisprudenza, nel 1934, aveva trascorso sei mesi di studio ad Oxford, partecipando alla vita assembleare della Oxford Union Society.
Si tratta di due temi, in particolare, la cui centralità e rilevanza nel definire l’architettura di una democrazia parlamentare sono di vitale importanza: il bicameralismo ed il sistema dei decreti legge.

Il primo risultò minoritario al voto dell’assemblea e non venne approvato, e pur tuttavia introduce argomenti di formidabile attualità.
Il secondo e’ una guida contro gli abusi del sistema che, ancora oggi, molti politici e studiosi, farebbero bene a rileggere.
Giuseppe Codacci Pisanelli era fermamente convinto della bontà del sistema bicamerale, anzi della sua necessità, ma raccomandava una seconda Assemblea legislativa basata su un principio di rappresentanza di categorie sociali ed interessi, essendo convinto della multipolarità di una società complessa (Seduta plenaria dell’Assemblea Costituente del 10 settembre 1947).
A sostegno della tesi di Codacci Pisanelli intervennero, per la Democrazia Cristiana, anche Aldo Moro e Attilio Piccioni. Lo stesso Costantino Mortati aderì a tale impostazione di una seconda Camera delle categorie sociali e delle autonomie locali, nei lavori della Costituente, modificando il suo orientamento a favore dell’attuale bicameralismo perfetto solo nel 1962, nella pubblicazione del suo notissimo manuale “Istituzioni di diritto pubblico”. 2
Quanto al decreto legge, Giuseppe Codacci Pisanelli può esserne considerato a buon diritto il Padre costituente. 
La materia era stata avversata nella seconda sottocommissione di cui faceva parte, sino ad escluderne del tutto la possibilità di emanazione da parte del Governo.

La preoccupazione degli abusi del passato era una ferita che bruciava ancora sulla pelle di quanti si accingevano a strutturare le fondamenta della democrazia repubblicana.
Pur tuttavia, Codacci Pisanelli sin dal primo momento, con una lezione di realismo e con una formidabile capacità di leggere le dinamiche dello Stato, ben oltre le barriere ideologiche ed i rancori del passato, sostenne, con le ragioni della logica, l’esigenza di dotare il Governo della potestà legislativa ordinaria in casi di necessità ed urgenza, precisandone i limiti.

Il testo che noi conosciamo nell’art. 77 della Costituzione venne approvato dall’Assemblea Costituente dopo un suo mirabile intervento del 19 settembre 1947 che suscitò una notte di ripensamenti della Commissione, determinandone l’approvazione.
La serena e lungimirante visione politica e giuridica, all’indomani delle distruzioni della guerra, in una società ancora dilaniata da divisioni e conflitti interni, è un insegnamento più grande della stessa perfezione tecnica degli emendamenti che propose.
La sua non fu una graziosa concessione di poteri di ordinanza al Governo, ma un atto di fiducia nella funzione di controllo politico del Parlamento e nella funzione di controllo giurisdizionale della Corte Costituzionale, secondo lo schema per il quale è proprio il sistema dei controlli che qualifica il grado di efficienza ed il valore di una democrazia.

Si dice che conoscere la storia aiuta ed evitare gli errori del passato. Ma quando la storia non ha commesso errori, c’è solo da augurarsi che possa ripetersi.

1 Dizionario biografico Treccani.
2 Codacci Pisanelli e la Costituente, di A. W. Pankiewicz, Napoli, ESI, 1995

 

LAURO, MUSICA NEL PAESE DIPINTO di Gaia Bay Rossi – Numero 6 – Ottobre 2016

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LAURO, MUSICA NEL PAESE DIPINTO

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che pochi conoscono e molti dovrebbero visitare, si distingue ancora una volta per una eccellenza: la Musica. Un liceo sostenuto entusiasticamente dai coniugi Anna e Leonardo Visconti di Modrone e nato per iniziativa di un sindaco lungimirante, Antonio Bossone, che credono, in controtendenza, che proprio la musica, dopo la pittura, possa educare ed appassionare le nuove generazioni e prepararli culturalmente al loro futuro.

E se Lauro nel mito ha stregato il dio delle Arti, sono proprio due di quelle arti, la pittura e la musica, a caratterizzare oggi questo paese, Lauro.

 Lauro, laurus, l’alloro, i cui boschi circondavano la cittadina in epoca romana, ma anche Laurus come Daphne (Alloro, infatti, nella lingua greca è Δάφνη), la mitica ninfa che fece perdutamente innamorare Apollo – dio del Sole, di tutte le Arti, della Musica e della Poesia. Perseguitata dal dio innamorato, la ninfa disperata chiese di essere salvata e venne trasformata in una pianta di alloro. Per questo il lauro divenne la pianta prediletta di Apollo, con cui faceva ornare sia i suoi templi sia i suoi capelli.

 Abbiamo detto Lauro, come paese di pittura e musica. 
Pittura, perché Lauro è un “Paese dipinto”: dal 1976 artisti e pittori di passaggio hanno romanticamente “vestito” molte delle strade del paese con deliziosi murales naïf, i cui temi riportano alla storia e alle attività della cittadina, facendo di essa quasi un museo all’aperto.

 Lauro – incredibilmente fuori dalle rotte turistiche e che andrebbe valorizzato e svelato a chi decide di avventurarsi nel proprio personale “viaggio in Italia” – ha una posizione geografica che non gli rende giustizia e non facilita il passaggio di ospiti stranieri: è situato, infatti, nella bassa Irpinia, in provincia di Avellino, in fondo ad una valle circondata da una catena di monti, con una sola apertura ad ovest verso Nola – anche nota per essere stata il paese in cui morì Augusto, primo imperatore romano. 
Lauro, quindi, non è in una strada di passaggio, né in una zona facilmente raggiungibile; chi passa di qui non lo fa per sbaglio o di passaggio: lo deve volere. Ed è vero che non molti turisti diretti a visitare le bellezze e le particolari suggestioni della Campania decidono di fermarsi a Lauro. Sbagliano, inconsapevolmente o richiamati altrove da nomi noti, come Napoli o le più vicine Pompei ed Ercolano, perché non sanno che, anche in questa piccola cittadina, vi sono opere, monumenti ed attrazioni che reclamano la più viva attenzione.

E così è, se pensiamo che sono proprio alcune famiglie che hanno avuto a Lauro la loro origine, ad occuparsi di mantenere viva questa cittadina, pensando a come migliorarla continuamente e preservarla, e a come espandere la sua notorietà ben al di là delle semplici località vicine.

Tutto è nato da una mostra naïf organizzata nel 1975 al castello Lancellotti, il cui successo ha stimolato pittori italiani e stranieri a venire a Lauro per contribuire alla decorazione del paese. Nel 1994 Lauro si è iscritta all’ASSIPAD, l’Associazione Italiana dei Paesi Dipinti e oggi è uno dei paesi con il più alto numero di dipinti.
Il tempo e gli agenti atmosferici rischiano di rovinare decenni di opere, nonostante siano state messe delle tettoiette a protezione, ma la cittadina risulta ancora ricca di queste importanti suggestioni di artisti, ammiratori e viaggiatori di talento. Un pittore, Marco Berlanda, ha chiamato un suo murales del 1995, situato in Via Principe Lancellotti, “Lauro, capitale del naïf“: si vede una chiesa, un palazzo, un albero, degli uomini e le torri del Castello Lancellotti, il tutto inserito in un cerchio che, a sua volta, è sistemato all’interno di altri quattro cerchi dove si vedono qua e là delle persone. Come dire: il destino di Lauro è in mano alla gente, ai suoi cittadini, alle persone che circondano e vivono quel paese.

Incontriamo donna Anna Sanfelice Visconti che, tra un trasferimento e l’altro al seguito del marito – l’Ambasciatore Leonardo Visconti di Modrone – non ha mai perso di vista le sorti di Lauro. Oggi i coniugi, ormai stabili a Roma, hanno deciso di occuparsi più attivamente della cittadina e delle sorti dei giovani lauretani. Come la trisnonna Emilia Higgins, che è sempre stata coinvolta nelle sorti di Lauro (avendo sposato Gaetano Pandola, dell’omonima famiglia eminente di Lauro), e come la zia Teresa Sanfelice, che ha addirittura fondato e finanziato una vera squadra di calcio per dare ai giovani la possibilità di avere una disciplina sportiva che formasse il carattere e insegnasse le regole, e che, nello stesso tempo, li tenesse impegnati con una forte passione che li distogliesse soprattutto dal perdersi in cattive abitudini e possibili compagnie malavitose, i coniugi Visconti, entrambi appassionati di musica, hanno pensato che forse proprio quest’arte sarebbe potuta essere la chiave di volta con cui riuscire a dare ai giovani lauretani regole, cultura e passione. Ed ecco quindi la seconda arte ad entrare prepotentemente a Lauro: la musica.
Grazie ad un incontro fortunato con il sindaco, Antonio Bossone, medico prestato alla politica, nonché uomo dalle mille iniziative e grandi aspettative, che ha sposato subito l’idea di un liceo musicale interessando Provincia, Regione e Ministero dell’Istruzione, si è dato vita alla prima classe di questa scuola, tutti convinti immediatamente della portata positiva e formativa per una gioventù che normalmente avrebbe poche opportunità.

In un Paese come l’Italia, dove si chiudono le orchestre e i teatri, Lauro va in controtendenza, riportando civiltà, cultura e spessore alle nuove generazioni. Perché fare musica e studiare musica è una ricerca continua di idee, di stimoli, di creatività, di nuovi orizzonti.

La musica è, come il francese o il latino, una “lingua straniera” che contribuisce a sviluppare un alto grado di apprendimento; forma e articola il pensiero; impone regole e disciplina, perché senza disciplina è impossibile fare musica. Ma è ancora di più: quello della musica è un linguaggio spirituale che parla all’anima dell’uomo; è un linguaggio che non ha bisogno di traduzione in qualsiasi parte del mondo, perché è un’arte che va direttamente al cuore dell’ascoltatore ed è compresa con la stessa intensità in Paesi di lingue, usi e costumi diversissimi. 
In un’epoca, dove le differenze di civiltà portano alle tragedie che quotidianamente leggiamo sui giornali, imparare un linguaggio universale che unisce e non divide è una vera speranza per il futuro. Oltretutto, la musica è passione; è trasporto alla conoscenza dell’arte e del bello; è formazione perché è sviluppo intellettuale. Chi sa fare musica, poi, avrà gli strumenti per poter fare tutto il resto con un cervello diverso, più formato, disciplinato e strutturato.

Un liceo musicale dà ai giovani gli strumenti per poi muoversi in maniera autonoma non solo nel mondo dei suoni, ma in quello sociale delle persone e del lavoro, in quel mondo che si troveranno davanti una volta terminato il liceo.

Non a caso Platone scrisse: “La musica comprende l’insieme delle arti alle quali presiedono le Muse. Essa racchiude tutto quello che è necessario all’educazione dello spirito”.
Il liceo musicale è situato, da due anni, all’interno del Palazzo Pignatelli, già sede del Museo Umberto Nobile, il celebre esploratore ed ingegnere, noto soprattutto per le due trasvolate del Polo Nord per le quali costruì i famosi dirigibili “Norge” e “Italia”, che nacque proprio a Lauro. Il Palazzo Pignatelli è uno dei luoghi più indicati dove potersi dedicare alla musica, se non altro per la bellezza e la particolarità delle decorazioni a grottesche, rinvenute casualmente nel 1980 e riportate alla luce con un importante lavoro di restauro. Questo tipo di decorazioni, che vedono volti mostruosi, fauni e arieti, motivi floreali, animali antropomorfi e figure allegoriche, erano già note nella Roma imperiale, ma vennero sviluppate nel Rinascimento da illustri pittori come Giorgio Vasari.
I programmi musicali per il prossimo futuro vedono l’organizzazione di una master class di due giorni, tenuta dalla violinista Susanna Pisana, allieva del celebre Norberto Brainin (tra l’altro fondatore del celebre quartetto Amadeus) alla scuola di musica di Fiesole, e specializzata all’Accademia Chigiana. Si chiuderà con un piccolo concerto tenuto dagli allievi, che avranno così l’opportunità di potersi esibire in pubblico. Nella stessa data verrà organizzato un open day per presentare il liceo e far conoscere nel dettaglio il programma della scuola.

Ma Lauro non è solo questo: è anche storia, architettura e monumenti, con le sue chiese, i suoi palazzi, la villa romana del I sec. d. C. con il suo bellissimo ninfeo e il castello Lancellotti che domina il paese. Per questo Lauro andrebbe valorizzato e preservato, facendo in modo di attirare i turisti ad ammirare le sue bellezze.

Per fare questo, è necessario riportarlo allo splendore, curando i murales, riaprendo i musei, ricominciando ad organizzare eventi ed iniziative, innalzando il suo spessore culturale. Bisogna fare in modo che i tanti che non conoscono Lauro desiderino scoprirla avendo, così come accaduto a noi, una inaspettata sorpresa.

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L’OPERA DI KEZIAT di Alessandro Gaudio – Numero 6 – Ottobre 2016

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L’opera di Keziat − pseudonimo di Kezia Terracciano, artista nata a San Severo, vicino Foggia, nel 1973 −1allestisce uno spazio multidimensionale suscettibile di infinite misurazioni, ma all’interno del quale possono vigere, mi sembra, le regole del pensiero simmetrico.2

L’OPERA DI KEZIAT

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 Qui, l’aspetto originario e quello spostato (di cui soventemente ha parlato chi si è occupato della produzione di Keziat) sono trattati come identici

(se x è parte di y allora, simmetricamente, y è parte di x). Il riferimento primo è alla logica del tardocapitalismo (rappresentata nelle teste a forma di monitor o di scatola, nelle strade che attraversano alberi e palazzi, negli oggetti e negli edifici antropomorfi, nei grattacieli deformati, nei giardini attraversati da strani pesci volanti e da figure femminili scomponibili), cui fa da cornice una logica seconda, inconscia, che quasi immediatamente si sostituisce alla realtà esterna.

Questo secondo spazio è pieno di cose vissute dall’uomo (pensieri, emozioni, azioni mentali) ed è soggetto a regole bi-logiche.

Quelle aristoteliche, infatti, rappresentano soltanto una parte della verità della mente dell’uomo; nello spazio secondo approntato da Keziat trova posto anche ciò che è rimosso: quel qualcosa, cioè, che è tenuto fuori dalla coscienza o dal ricordo.

L’accesso nella coscienza di un contenuto del sistema inconscio è intrinsecamente impossibile: eppure, Keziat, con la sua penna, gioca su questa incapacità,

perorando artisticamente la strenua necessità di uno sforzo vano e di uno spazio asimmetrico, vale a dire cosciente, che in sé non può contenere ciò che cosciente non è. Tavole come I sogni fanno volare e fanno rumore (opera composta da venti tele del 2014; fig. 1) o Nuotando nella memoria (dell’anno successivo e appartenente, come la precedente, alla serie denominata Hybrids e al corrispondente nuovo progetto espositivo, partito proprio quest’anno; fig. 2), ma già Attraverso il monitor (del 2012; fig. 3) e molte altre realizzate precedentemente, sono il risultato della relazione che Keziat è riuscita a stabilire tra quell’immensa base simmetrica, che poi è la vera realtà psichica, e la nostra capacità di conoscenza, espressione del modo di essere asimmetrico.

Per ciascuno di noi è impossibile incontrare tanto l’essere simmetrico quanto quello asimmetrico; incontriamo, però, il pensiero simmetrico e il pensiero asimmetrico, manifestazioni indirette di quello spazio dell’essere che possiamo soltanto dedurre o inferire.

È come se Keziat, nei suoi disegni su carta e tela (pieni di apparecchi televisivi, connessioni, stringhe, antenne e cablaggi), immaginasse ciò che immaginare non si può, ricoprendo le manifestazioni simmetriche inconsce di un rivestimento in grado di particolarizzare e, dunque, di limitare la smisurata realtà dei fenomeni umani.

Così, attraverso le sue composizioni, l’artista pugliese traduce l’inconscio di un capitalismo ormai all’ultimo stadio, rende consci i meccanismi inconsci e ineffabili del nostro essere, dando vita a un composto contraddittorio,3 permanente mescolanza di relazioni simmetriche e asimmetriche,

in grado di mettere in crisi il modello di un mondo interamente dischiuso dalla razionalità e regolamentato sin nei minimi dettagli. Lo mette in crisi servendosi di uno stile popolare, contaminato dai diversi linguaggi di cui si serve, adattissimo per descrivere quella condizione agghiacciante, stralunata e post-umana che tanto somiglia alle nostre esistenze alienate.

1 Dal 1998, anno in cui consegue la laurea all’Accademia di Belle Arti di Foggia, Keziat ha presentato i suoi lavori, i suoi fumetti, le illustrazioni, le installazioni e le sue performance dal vivo in tutto il mondo: indico in ordine sparso le mostre e le presentazioni tenute a Venezia, Roma, Parigi, New York, Hong Kong, Amsterdam, Porto, San Francisco, Chicago, Los Angeles, Washington, Firenze, Milano, Toronto, Lubiana, Lussemburgo, Singapore e Kuala Lumpur. Molte altre informazioni sull’eclettica artista pugliese e sulla risonanza internazionale della sua opera sono reperibili al seguente URL: www.keziat.net.
2 Sull’argomento si veda almeno I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica [1975], trad. di P. Bria, Torino, Einaudi, 1981.
3 Contraddizione che è percepibile perfino nei titoli di alcune opere, come Connessi e disconnessiUpside downIrrealtà quotidianaLa casa che cammina sulle altra caseIl pensiero solidoIl pensiero liquido e tanti altri.

 

LA CASA DEL SOLE di Giusto Puri Purini – Numero 6 – Ottobre 2016

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Il filosofo e pensatore tibetano Chogyam Trungpa, che vive ed insegna negli Stati Uniti, sostiene, secondo la tradizione Buddhista, che il Sole rappresenta il principio femminile e la Luna quello maschile. L’uno risiede “fertile” nella mente, l’altro nel cuore.
Il Sole nella vostra mente sollecita l’intelligenza naturale necessaria, per organizzare il vostro mondo, e strutturarla su solide basi.

Inizierete a capire come la vostra intelligenza s’irraggia nello spazio, ed il motivo per cui la brillantezza dell’arte del guerriero si stia sviluppando in voi.
Applicate all’Architettura questi concetti spaziali e naturali e sarà la casa stessa, come un Tempio, a suggerirvi inserimenti e trasformazioni, legate anche ai principi dell’odierno vivere.

Questa interazione tra esseri e spazio, fatto da soffitti, porte, finestre…che si animano, rappresenta l’essenza dell’esistenza naturale, che noi chiamiamo “principio del Mandala”.
“L’onestà e l’integrità dello Spazio che ci circonda si manifesta direttamente. Se alcuni, verso di voi diffidenti, arrivano in uno spazio da voi creato e vedranno attualizzata la vostra visione, potranno distendersi ed accettarvi.

Quando il Sole della saggezza è trapiantato nella vostra mente si crea automaticamente il risveglio, l’autenticità, insieme ad un sentimento naturale dell’esistenza, il tutto avviene nello stesso tempo.
Apparirà, quindi, un mondo molto gioioso e straordinariamente gradevole.”
(Tratto dal capitolo 4 “Le Soleil dans la tête” del libro di Chogyam Trungpa “Le sourir du courage”).

Nella bella premessa del filosofo si colloca la nostra ricerca di una masseria contadina da ristrutturare nel Salento, con calma e pazienza, finchè essa è arrivata a noi, e, prima che leggessimo di questo bellissimo intervento, l’abbiamo chiamata la “La Casa del Sole”.
La ristrutturazione della masseria è frutto, quindi, di un intervento a due mani, uno conoscitore dei luoghi e delle antiche culture del costruire, l’arch.Luigi Nicolardi, e l’altro, il committente, io, che confluisce lì, alla ricerca di una sostenibilità del futuro non solo “parlata”.
L’arch. Nicolardi la descrive così:
“…La casa sorge all’interno di un lotto dalla forma di un poligono irregolare, ai piedi dell’ultima propaggine delle Serre Salentine che delimitano l’orizzonte a Ovest, al di sopra di un ampio banco roccioso di origine tufacea. La casa rappresenta, in maniera egregia, un interessante esempio “di architettura sostenibile a Km 0”.

Tutti i materiali di costruzione sono ricavati in loco, dai conci di tufo cavati a mano all’interno del lotto, all’argilla rossa (bolo) usata per impastare la calce per la malta, alla pavimentazione in battuto di coccio pesto ottenuto impastando il tufo locale, con l’argilla rossa, la calce e la tegola macinata.

Tutt’attorno sono visibili i segni dello scavo di sbancamento effettuato per ricavare i tufi necessari alla sua costruzione. Enormi blocchi di pietra, come dei possenti guerrieri messapi, sono posti in piedi, uno accanto all’altro, a delimitare il confine. Mura ciclopiche delimitano gli ambienti della casa, tutta raccolta attorno al grande forno in pietra – vero e proprio elemento generatore dello spazio.

In questo progetto non siamo stati noi a definire gli elementi della ristrutturazione, ma è stato lo spazio della casa a dettare le regole da seguire nella sua rifunzionalizzazione.

LA CASA DEL SOLE

 

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ANTONELLO DA MESSINA VERSUS HIERONYMUS BOSCH di Enrico Malizia – Numero 6 – Ottobre 2016

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ANTONELLo da messina versus hieronymus bosch 

 

soprannome di Antonio di Giovanni de Antonio, nato a Messina nel 1430 e ivi morto nel 1479, è il più grande pittore del Mezzogiorno d’Italia non solo del 1400 ma, secondo me, di tutti i tempi.

La sua arte riesce a fondere ed equilibrare la luce, l’atmosfera e la meticolosità dei dettagli, propri della pittura fiamminga, alla costruzione prospettica degli spazi, desunta essenzialmente da Piero della Francesca e Guido d’Arezzo, nonché alla maestosità delle figure e dello scenario, assimilato da Giovanni Bellini.
La sua profonda conoscenza dell’arte fiamminga risale al 1450, quando lavorava da apprendista a Napoli nella bottega del pittore Colantonio, ove ebbe modo di conoscere molti maestri fiamminghi (oltre agli spagnoli e ai provenzali), che lavoravano in quella metropoli, specie nella corte angioina prima e aragonese poi; inoltre, nei palazzi reali e della nobiltà ha potuto ammirare capolavori di quelle scuole. Dallo studio attento di quei Maestri, particolarmente di Petrus Christus, Hans Memling, Jan van Eyck e Jean Fouquet, apprese a dipingere su tavola, ad usare (uno dei primi in Italia) la tecnica a olio e la loro costruzione della ritrattistica.
La tecnica a olio, consentendo di stendere trasparenze di colore in successione, ottiene effetti di luce, luminosità, morbidezza e precisione che non si possono realizzare con la pittura a tempera.
La scuola fiamminga non orienta i ritratti di profilo (come la nostra pittura), ma di tre quarti, il che consente di effettuare una profonda analisi fisica e psicologica dell’effigiato. Rispetto ai Maestri fiamminghi che lo avevano preceduto e di quelli a lui contemporanei,

 

 

Professore, il suo è un nome internazionalmente noto nel campo della medicina, come mai ha scritto un poderoso libro su un pittore, per di più fiammingo?

Fin dai primi anni di scuola ho avuto una grande passione per le discipline umanistiche, che ho coltivato leggendo, viaggiando molto e trascrivendo le osservazioni, le meditazioni e i pensieri su carta, con il risultato che ho pubblicato trentaquattro volumi oltre a un gran numero di articoli. 
Bosch, come spiego dettagliatamente nell’introduzione, mi ha abbagliato dal 1966. Ho visto tutti i suoi dipinti e molti disegni, e ho ricercato sul posto tutti i documenti reperibili, approfittando di essere stato consulente della Comunità Europea per circa due anni e di essere stato insignito della laurea honoris causa per i risultati delle ricerche scientifiche mediche.

Professore si sente totalmente italiano o parzialmente contaminato da altre nazionalità?

Mi sento profondamente italiano, lucano da parte di padre e romano di madre. Non posso però dimenticare di essere cittadino europeo e di tutto il mondo. La bellezza, la cultura e la verità sono universali. Il Presidente Ciampi mi ha insignito della medaglia d’oro cui tengo di più tra le tre ricevute: “Benemerito della Scienza, della Cultura e dell’Educazione”. La mia nascita mi colloca prevalentemente nel meridione della Penisola, al quale ho sempre riconosciuto grandi qualità che un regno sempre arretrato rispetto al resto dell’Italia non ha consentito di far sbocciare come merita e come dimostrano le eccellenze fiorite nel Sud, come Antonello da Messina, oggetto del mio ultimo saggio. Dopo l’Unità di Italia, specie con l’istaurazione della Repubblica, si sono fatti grandi passi avanti rispetto alla storia precedente. Sono certo che in futuro si riusciranno a integrare le due parti dello Stivale, anche se il processo sarà lungo e complesso, soprattutto perché non favorito dalla legislazione delle regioni e delle province.

 

Professore, ci parli adesso del suo volume e perché ha scelto Antonello da Messina come eccellenza da confrontare con Bosch.

Si tratta di un volume alla II edizione dopo 7 mesi dalla prima, di 532 pagine, di cui 138 illustrazioni a tutta pagina, 99 di esse a colori: un’introduzione, ventidue capitoli, un commento descrittivo, note al testo e catalogo delle opere. Bibliografia, una nuova prefazione del Prof. Strinati e una nuova presentazione del Prof. Massari. Ho esposto tutte le notizie storicamente documentate e le ho fuse con quelle da me intuite sulla base dei dipinti, della storiografia della sua città natale Hertogenbosch delle Fiandre e di tutta Europa dal 1450 al 1516. Ho scritto in prima persona, come se fossi il pittore, e al presente storico. Ho espresso tutta la narrazione sotto forma di vivaci dialoghi che rispecchiano il pensiero dei suoi tempi di transizione tra Medioevo e Rinascimento, affidandomi a vari personaggi, in primis a Erasmo da Rotterdam, che aveva studiato nella sua stessa scuola e di cui, come desunto dalle rispettive opere, condivideva molti argomenti, quali la follia, il libero arbitrio, la critica alla decadenza morale, specie del clero, e il rigetto del riformismo delle sette. Ho acquisito notizie complete sull’albero genealogico che mi hanno consentito di farlo dialogare con tutti i suoi familiari. Ho ritenuto che nella genesi delle incredibili visioni giocasse oltre a una fantasia eccezionale l’uso delle droghe vegetali dette delle streghe, di cui ho riportato ricette e meccanismo di azione. Infine ho descritto nel capitolo X un compendio di alchimia, nel capitolo XII di magia e stregoneria, desunto dai resoconti di processi inquisitori per queste pratiche; di simbolismo poi ho parlato in tutto il volume, come dei proverbi fiamminghi.
Per quanto riguarda la scelta di Antonello da Messina per un confronto con Bosch, questa non è stata motivata dai contenuti visionari che nelle opere del pittore siciliano non compaiono, ma dall’aria di mistero e dalla costruzione delle figure e dallo stile, che in Antonello non si limita all’arte fiamminga, ma la fonde con rara abilità alla prospettica spaziale della scuola italiana, come del resto ho spiegato nel saggio.

 

Grazie professore

 

Antonello dedica minore attenzione al dettaglio, privilegiando la caratterizzazione psicologica e umana, come avverrà nelle opere di Bosch, esprimendo all’esterno – specie nel volto – quello che avviene nell’intimo.

Lo schema compositivo fiammingo del ritratto, in cui Antonello rifulge, è caratterizzato come segue. L’effige è immersa sempre in uno sfondo scuro per farla risaltare maggiormente. II busto viene tagliato sotto le spalle, la testa girata verso destra, gli occhi guardano direttamente lo spettatore, cercando di ottenere un contatto psichico con lui, la luce illumina il lato destro del volto, lasciando il sinistro in un’ombra misterica, proprio come quella che avvolge le figure boschiane. Di Antonello si ammirano svariati splendidi ritratti, eseguiti con quest’archetipo; da notare che dopo “L’uomo di Cefalù” (1460) il Maestro aggiunge, come i fiamminghi, una balaustra in basso, su cui appoggia un cartiglio che riporta firma e data, tipico elemento fiammingo.

Nel 1460 Antonello da Messina dipinge la Crocefissione detta di Sebiu (si trova nel Museo d’Arte di Bucarest), molto interessante sia perché consente di confrontare la tecnica italica con quella fiamminga, non ancora fuse tra loro, sia per comparazione con opere analoghe di Bosch.

Il dipinto, come individua il Longhi, va diviso in due parti: l’inferiore, di netta concezione fiamminga, è priva di profondità spaziale, ma splende di colore, di espressività delle figure e di meticolosità nei dettagli (v. Crocefissioni e immagini del Golgota in H. Bosch di E. Malizia (1) tav. 4A, 5B, 19, 40, 61). La parte superiore, di chiara concezione italica, mostra una perfetta costruzione dello spazio e dei volumi, ponendo le croci alle quali sono infissi i due ladroni, in posizione ortogonale rispetto a quella del Cristo. La discrepanza stilistica tra le due parti fa ritenere, come pensa il Longhi, che la parte superiore sia stata aggiunta alla inferiore successivamente, mediante un accostamento ligneo delle due tavole, senza una riequilibrazione architettonica e concettuale. Una diversità di stili che non si osserva sia nelle successive Crocefissioni di Anversa e di Londra sia nella coeva, la cosiddetta Madonna Salting, in cui l’iconografia e lo stile fiammingo sono equilibrati da una perfetta costruzione prospettica e volumetrica.
Tra il 1465 e il 1470 circa realizza il Ritratto d’uomo di Cefalù.

 

Negli anni successivi Antonello risale l’Italia, toccando Roma, la Toscana e le Marche, venendo sicuramente a contatto con le opere di Piero della Francesca, dalle quali mutuò la salda monumentalità e la capacità di organizzare lo spazio secondo le regole geometriche della prospettiva lineare.

A seguito di questo incontro, Antonello perfeziona e amplifica la spazialità prospettica, come si desume dall’Annunciazione del 1474 conservata nel Museo Bellomo di Siracusa. In questa tavola lo spazio è unificato dalla prospettiva (con la presenza del punto principale alla sinistra dell’angelo) e dalla costruzione modulare dell’inquadratura, basata sull’interasse delle colonne e sul sottile digradare della luce verso il fondo della prima stanza.
Sempre nel 1474, il Maestro si reca a Venezia, dove entra in contatto con la pittura di Giovanni Bellini. Nel Salvator mundi, la sua prima opera firmata, e datata 1475, l’iconografia è ripresa dai fiamminghi, ma la piega dello scollo bassa e la mano benedicente in avanti accrescono la spazialità della composizione, accorgimento usato anche da Bosch (v. in E. Malizia (1) tav.9A e 48, particolari Cristo Giudice).
Del 1475 va ricordato in primis il San Girolamo nello studio, ora alla National Gallery di Londra. La scena, inquadrata in un arco di trionfo, è architettata in modo da far coincidere

 

i raggi luminosi con quelli prospettici; il loro centro è rappresentato dal busto e dalle mani del santo al lavoro nel suo studio, ingombro di libri e di oggetti, meticolosamente rappresentati. Oltre ai libri e ai simboli (come il pavone in primo piano) va anche rilevata la costruzione dello spazio, illuminato da diverse fonti di luce secondo l’esempio fiammingo.

Nella penombra si scorge il leone che si avvicina al portico. Di particolare significato è il pavimento, che richiama quello della Madonna del cancelliere Nicolas Rolin di Jan van Eyck. Contrariamente non vi è alcuna affinità con il S. Girolamo di Bosch (v. (1) E. Malizia, parte centrale del Trittico Pala degli Eremiti, tav.54), che invece si avvicina alla tavoletta S. Girolamo penitente (1461), conservato nel Museo di Reggio Calabria.
Sempre del 1475 è l’Ecce Homo del Collegio Alberoni di Piacenza firmato e datato, un volto che ricorda, come profondità e dolcezza di espressione, quelli dipinti da Bosch (v. (1) E. Malizia, tav. 4B, 21, 34).
Dello stesso anno vanno annoverate: La Crocifissione e il Ritratto d’uomo della National Gallery di Londra, la Pietà del Museo Correr, il Ritratto d’uomo, detto il Condottiero del Louvre e il Ritratto d’uomo della Galleria Borghese.
Tra il 1475 e il 1476 esegue la Pala di San Cassiano (mutilata, ma per fortuna rimangono intatti conservati a Vienna la Vergine sul trono rialzato e quattro santi a mezzo busto), dipinto ispirato dalla Sacra Conversazione di Giovanni Bellini per la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo andata perduta. Nell’opera di Antonello risalta però non solo un impianto più distanziato e solenne, che dà maggior respiro e soprattutto crea dalla luce gli effetti atmosferici che illuminano il dipinto, rendendo più vive le figure. 
Del 1478, o del ’75-76, è il San Sebastiano di Dresda, parte centrale di un trittico smembrato: la figura monumentale del santo, accentuata dal punto di vista ribassato, ruotata leggermente a destra, costituisce l’asse del dipinto. L’influenza di Piero della Francesca è evidente nella disposizione vitruviana degli elementi e nel pavimento messo di scorcio in prospettiva che conduce lo sguardo verso il piazzale in fondo (v. il S. Cristoforo di Bosch, tav. 6 A e S. Giovanni a Patmos di Bosch, tav. 9 B su E. Malizia). 
Antonello da Messina dopo il suo ritorno in Sicilia nel 1476 realizza L’Annunciata di Palermo: Maria, distratta dalla lettura, è colta nell’attimo in cui interloquisce con l’Angelo che le sta dinnanzi. La sua mano destra sembra volerlo fermare; dalla sagoma geometrica del manto emerge il perfetto ovale del volto; la piega del manto sulla fronte giù fino all’angolo del leggio forma un asse – forse casuale – della composizione; il lieve girare della figura e il gesto della mano rendono naturale tutto lo scenario.

 

Per la sua bellezza senza tempo, il colore del manto e lo sguardo, questo dipinto può essere ritenuto un’opera misteriosa ed enigmatica, come quelle di Hieronymus Bosch, e di buon diritto rappresenta uno dei traguardi fondamentali della pittura rinascimentale italiana. La bellezza formale, lo sguardo magnetico e la mano sospesa in una dimensione astratta ne fanno un capolavoro assoluto.

Dello stesso anno è il ritratto d’uomo, detto Ritratto Trivulzio, del Museo Civico d’Arte Antica di Torino, in cui l’incarnato si accorda perfettamente al colore rosso della veste. Un dipinto che piacque talmente anche a Galeazzo Maria Sforza da indurlo ad invitare Antonello più volte a Milano senza risultato.
Tra il 1476 e il 1478 dipinge la Pietà del Museo del Prado; il paesaggio intorno è caratterizzato da teschi e tronchi secchi a significare la morte, mentre in secondo piano la città e il verde della natura simboleggiano la Resurrezione. Il corpo di Cristo morto, sorretto da un angelo, è ripreso da temi di origine nordica; è dipinto realisticamente, sia nel costato sanguinante che nel volto sofferente, probabilmente ripreso dalla tavoletta del Cristo alla colonna (1476 circa) del Louvre, in contrasto con la bellezza idealizzata di quello angelico.

 

Nel 1479 muore a Messina, ove viene sepolto nella Chiesa di Santa Maria Superiore. Le sue opere, sparse tra i più importanti Musei e collezioni di tutto il mondo, lo faranno rivivere in eterno.

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LUCE DA LEVANTE di Francesco Festuccia – Numero 6 – Ottobre 2016

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LUCE DA LEVANTE

 

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Spesso non si riesce a far andar via dalla testa quella “cartolina” in bianco e nero che scorreva inesorabile sui nostri schermi della Tv.

 I trulli, che, per me bambino, avevano quell’aspetto fiabesco e irreale, con il sottofondo della litania dell’”intervallo”, arcaico metodo per far quadrare i buchi di palinsesto di una televisione alle prime armi.

Eppure, i trulli di Alberobello (ora vero tesoro dell’umanità) da soli, per tanti anni, hanno dato al resto dell’Italia l’immagine della Puglia, quasi non ci fosse il mare, le spiagge infinite, le città vissute. Immagine distorta che sorprendeva quando a scuola sui libri di geografia scoprivamo il resto. E poi, dopo tanti anni, uno schiaffo all’immagine: la nave carica di immigrati albanesi vista e rivista in Tv e narrata meravigliosamente da Gianni Amelio nel 1994 in Lamerica. Ed ecco che l’immagine della Regione cambia radicalmente, ma sempre in maniera disassata rispetto alla verità, così come ci aveva fatto pensare, in una specie di Gomorra ante litteramLaCapaGira, geniale film del 1999 di Alessandro Piva sulla piccola vita della piccola criminalità. E subito dopo il più complesso Sangue Vivo, di un pugliese dal sangue inglese, Edoardo Winspeare.

Così, per anni, la “visione” della Puglia è andata per conto suo, tirata da una parte all’altra. Poi, i registi di cinema e tv hanno scoperto la “vera” Puglia con le sua straordinarie bellezze, la sua lingua, i suoi pregiudizi, i suoi slanci e i suoi sapori.

Sì, perché, grazie al grande e al piccolo schermo, quello che ci arriva dall’immagine-Puglia è cambiato. Tanti i film e fiction che hanno come sfondo gli scorci pugliesi. Ne abbiamo contati a centinaia negli ultimi anni, tanto da far diventare questa terra l’emblema del Sud, titolo che prima apparteneva forse solo alla Sicilia e alla Campania. E c’è di tutto in questo sterminato elenco. Si può correre sul filo del film d’autore con Ferzan Özpetek, che ha portato i suoi set in Puglia: da Allacciate le cinture a Mine Vaganti, che ci mostra un Riccardo Scamarcio nelle limpide acque del Salento (e, questa sì, è una delle immagini che restano più impresse). O far saltare i botteghini con il più popolare autore pugliese, quel Checco Zalone che ha messo a confronto la “pugliesità” più divertente con il Nord dai riti spesso “incomprensibili” (a proposito, è sempre curioso ricordare che il nome d’arte di Luca Medici non è altro che la storpiatura dell’epiteto pugliese “che cozzalone!”, sinonimo di “che tamarro!”). O ancora, tornare al mitico Lino Banfi, che poca Puglia forse ci ha fatto vedere nei suoi film, ma ne ha fatto diventare decisamente universale l’immagine attraverso il dialetto. Un mito del cinema, così mitico che persino Quentin Tarantino davanti a noi, in un festival di Venezia, si mise in ginocchio chiamandolo maestro. Tanto che, assieme al foggiano Renzo Arbore e a Michele Placido (nato in un paesino tra Puglia e Basilicata), è il simbolo della “puglitudine” in Focaccia Blues, film del 2009 di Nino Cirasola, in cui si racconta la storia vera della più nota catena di fast food costretta a chiudere uno dei suoi punti ad Altamura per la concorrenza dell’imbattibile focaccia locale.Scorriamo ancora questo sterminato elenco per trovare tanti filoni, anche sorprendenti. Se pensiamo alla storia e al fantasy non si può non parlare del maestro Pupi Avati, che con I Cavalieri che fecero l’impresa del 2001 trasforma i paesaggi e i monumenti della Puglia, da Barletta a Otranto, dal Gargano a Brindisi, in una sognata Europa medievale. O di Matteo Garrone e del suo Racconto dei Racconti del 2015, che apre una pagina su tutto il Sud ma anche sulla Puglia, come nell’episodio della pulce a Castel del Monte. Oppure Il Viaggio della Sposa, del 1997, di Sergio Rubini, che usa la sua Puglia, emblema dell’Italia del Seicento, per raccontare una contrastata storia d’amore.Ma si può anche ridere. Oltre al citato e popolarissimo Zalone, lo stesso Rubini è protagonista, in Manuale d’Amore 2, film di Giovanni Veronesi del 2007, nell’episodio dell’esilarante (ma non caricaturale) coppia gay salentina assieme ad Antonio Albanese: i due sono costretti a sposarsi in Spagna, ma non rinunciano alla loro amata terra d’origine. Dalla Puglia sono passati anche Aldo, Giovanni e Giacomo nel loro debutto cinematografico del 1997, Tre Uomini e una gamba, in cui percorrono l’Italia per arrivare, tra mille comiche avventure (e qualche ripensamento), a Gallipoli. Un “prodotto” della terra pugliese, popolarissimo per le sue apparizioni nelle tv locali, Uccio De Santis, si è immerso in un viaggio on the road alla ricerca della felicità in Non me lo dire, film del 2012 del suo sodale Vito Cea – partnership rinnovata quest’anno nel più iconico dei simboli pugliesi in Mi rifaccio il trullo.

Film d’autore, comici, storici, fantasy: ora c’è tutto per renderci conto che l’immagine della Puglia è diventata totale, set perfetto con le sue tante angolazioni, di paesaggio, di suggestioni, di storia. Tanto che anche la Apulia Film Commission ha fatto e sta facendo un grande lavoro,

che prosegue con l’ultimo bando da poco presentato in cui sono stanziati tre milioni euro per attirare nuova cinematografia. Un fermento di cui sono esempio i film appena conclusi di Luca Miniero (Non c’è più religione, girato tra Foggia e il Gargano), Marco Ponti (Io che amo sempre solo te) e ancora Edoardo Winspeare con il suo La vita in comune. Poi documentari, fiction (come Questo è il mio paese, successo di Rai 1 con Violante e Michele Placido), cinema d’autore (con i nuovi lavori di Vito Palmieri, Pippo Mezzapesa e Pierluigi Ferrandini) e anche kolossal come Wonder Woman, il film della Warner Bros sull’eroina dei fumetti, in uscita nel 2017.

Sì, forse così ci dimenticheremo, anche se poi è un dolce e misterioso ricordo, di quei trulli in bianco e nero, unico simbolo, in quegli anni da poco trascorsi, di una regione dalle mille bellissime sfaccettature.

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ESULI NAPOLETANI A TORINO di Francesco Antonio Genovese – Numero 6 – Ottobre 2016

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ESULI NAPOLETANI A TORINO

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1.In tempi di Riforma Costituzionale viene spontaneo richiamare esempi luminosi e lungimiranti di azione politica. Mi riferisco al tempo in cui i costruttori del nuovo Stato (principalmente, Cavour e quel personale politico che, sinteticamente, si sarebbe oggi chiamato il «cerchio sabaudo») cominciarono a comprendere come la scienza giuridica poteva e doveva essere un’alleata, non un’antagonista!

E’ il caso di richiamare la vicenda di tre «fondatori» di quel connubio tra scienza giuridica e politica, tutti napoletani

il Pisanelli, si era stabilito a Napoli nel 1830, dove aveva acquisito una solida cultura giuridica e letteraria, dove si era laureato (nel 1832) in giurisprudenza, a soli venti anni, e dove si era inserito perfettamente nella società civile, frequentando i salotti della capitale borbonica, in particolare quello di Carlo Poerio,

Nonostante la capacità di cimentarsi nella materia civile, sarà un’altra opera di dottrina penalistica a segnalare il suo nome, poiché solo un anno dopo pubblicherà l’opera, adesiva della tesi abolizionista, Sulla pena di morte (Napoli 1848), in seguito più volte ristampata e divenuta un vero e proprio cult ante litteram.

Insomma, Giuseppe Pisanelli era passato, per merito delle sue sole capacità – e quando la scuola era ancora un ascensore sociale -, da piccolo provinciale salentino a fine e brillante giurista, a buon grado un intellettuale europeo, cresciuto culturalmente nella Napoli capitale preunitaria (allora, ancora la più grande città italiana), specie quando, in ragione di alcune note vicende politico-costituzionali di cui si dirà, «passerà il Rubicone» trasferendosi a Torino: la città del grande Cavour.

3. In quella stessa Napoli, con qualche anno di meno, aveva cominciato i suoi studi letterari un giovane irpino, Pasquale Stanislao Mancini, al liceo del Salvatore di Napoli – seguito, però, in tali studi da uno zio materno, l’avvocato Giambattista Riola, un personaggio non trascurabile.

Mancini, che mentre frequentava i corsi di giurisprudenza nell’ateneo napoletano si sbizzarriva anche in esercitazioni letterarie e poetiche, si laureerà in giurisprudenza nel 1835, a soli 18 anni, avviandosi subito alla professione forense e, qualche anno dopo (1840), al pari di Pisanelli, anche all’insegnamento privato del diritto

– oltre che alla cura, fin dal 1838, di un periodico di divulgazione, Le Ore solitarie, che, dal 1842, mutata la testata in Giornale di scienze morali, legislative ed economiche, ospitava prestigiosi interventi di altri intellettuali (in particolare P. Galluppi, A. Scialoja, M. De Augustinis, K. Mittermaier), su temi giuridici e amministrativi, ed informava sulla cultura napoletana, sulla filosofia, ecc. e che, successivamente, si era sviluppata ulteriormente in una Biblioteca di scienze morali, legislative ed economiche, con argomenti concernenti i più vari rami del sapere giuridico, in una prospettiva nazionale.
Mano a mano, Mancini era venuto ad occupare un ruolo di primo piano nel dibattito nazionale nelle scienze giuridiche e morali, come ci si avvide quando, nel 1841 pubblicò la sua corrispondenza con T. Mamiani Della Rovere, in un volume, Intorno alla filosofia del diritto e singolarmente intorno alle origini del diritto di punire: lettere di Terenzio Mamiani e Pasquale Stanislao Mancini (Napoli, 1841), che ebbe una notevole eco.

Di tutto questo, ovviamene, la monarchia borbonica mostrava di non comprendere né la grandezza né il possibile beneficio per se medesima – come ha scritto, di recente, sulle colonne di questa stessa rivista Cesare Imbriani,

a proposito dell’esperienza del 1821 (cfr. C.I., La costituzione mancata a Napoli, in Myrrha, n. 3) -, diversamente da qualcun altro (il Regno del Piemonte), dove per merito di Cavour e dei suoi cooperanti, si stava acquisendo una ben diversa capacità prospettica ed egemonica, capace di saper bene utilizzare quegli ingegni e di coinvolgerli nell’opera riformatrice.

4. Accadde, infatti, che con l’avvio, nel 1847-48, dei moti costituzionali, i nostri tre intellettuali si immersero completamente nella vicenda politica.
Pisanelli, ad esempio, che pure si riconosceva nella costituzione concessa da Ferdinando II il 3 febbraio 1848, eletto nel primo Parlamento napoletano (nel maggio 1848) non vi poté svolgere un ruolo significativo perché lo stesso Parlamento venne sciolto subito, il 15 maggio dello stesso anno. Rieletto in giugno, cercò di dare il suo apporto innovativo con la proposta di legge per l’abolizione della pena di morte, quella per la riforma della legge comunale e provinciale e con il celeberrimo progetto per l’istituzione di un giurì (per i reati di stampa e quelli politici). 
Ma, ancora una volta, Ferdinando II non capì e fu solo svelto a veder corto e sciogliere il Parlamento, nel marzo 1849, sopprimendo le libertà costituzionali.

– nel senso di intellettuali cresciuti e formatisi a Napoli, per quello che allora Napoli rappresentava per l’intero mezzogiorno continentale (Abruzzo incluso): Antonio Scialoja (1817), forse l’unico napoletano vero, essendo il discendente di una famiglia procidana, poi trasferitasi a S. Giovanni a Teduccio – oggi un popoloso quartiere di Napoli, ma allora un comune orientale confinante, da quel lato, con la città, assieme a Barra, Ponticelli ed altri piccoli casali che verranno inglobati definitivamente (e perderanno perciò la loro autonomia) solo con la riforma della città, con la creazione della Grande Napoli da parte del fascismo, nel 1925; Giuseppe Pisanelli (1812), un salentino – essendo nato a Tricase, ora in provincia di Lecce, ma allora nella provincia di Terra d’Otranto – e Pasquale Stanislao Mancini (1817), di origini irpine – essendo nato a Castel Baronia (Avellino) -, ma trasferitosi assai presto a Napoli, per gli studi.
Tutti avevano studiato a Napoli, nella medesima facoltà di giurisprudenza, traendone grande profitto e successo.

 

2. In particolare, il più grande dei tre,

 

esponente del liberalismo costituzionale appena tornato dall’esilio, legandosi in amicizia a molti futuri esuli risorgimentali, tutti ritrovati a Torino, come Giuseppe Massari, Pasquale Stanislao Mancini e Antonio Scialoja.
Pisanelli aveva maturato anche una non comune capacità professionale-forense tanto che, come di solito avveniva, dopo aver coltivato anche interessi letterari e filosofici (che gli saranno non poco utili negli anni a venire), nel 1837 aveva pubblicato numerose arringhe e allegazioni forensi – com’era proprio degli avvocati di una certa capacità ed eleganza – ed una monografia giuridica penalistica – Sul problema della punibilità del mandante nei reati di sangue -, che aveva avuto anche un certo successo. Egli aveva anche cominciato ad esercitare la professione forense, prevalentemente in materia civile e, con discreta fortuna anche l’attività di insegnante privato – che era propriamente quella maggiormente gettonata nella Napoli preunitaria -, al punto che, nel 1839, aveva fondato, insieme a un altro brillante giurista napoletano, Roberto Savarese, una scuola privata di diritto, rimasta attiva fino al 1847, ossia alla vigilia dell’esilio.

Molti parlamentari furono arrestati, ma Pisanelli riuscì fortunosamente a imbarcarsi da Napoli, da dove raggiunse prima Genova e poi Torino – subendo, nel 1853, la condanna in contumacia a venticinque anni di reclusione e alla confisca dei beni.


Qui animò, insieme ad altri fuoriusciti napoletani, alcuni circoli politico-culturali di orientamento liberale e patriottico e da qui, nel giugno 1850, partì per un viaggio a Londra e a Parigi (dove entrò in rapporto con un gruppo di intellettuali: Vincenzo Gioberti, Guglielmo Pepe, Ruggiero Bonghi), per sensibilizzare le opinioni pubbliche degli Stati nazionali più sensibili, quelle inglese e francese, sulla situazione del Regno delle Due Sicilie. Tornato a Torino ritrovò Mancini e Scialoja, che erano già entrati in rapporto con l’entourage cavouriana e gli proposero di collaborare al famoso Commentario al codice di procedura civile per gli Stati sardi, un’opera di ampio respiro – in molti volumi – che non solo avrebbe dovuto sostituire i manuali stranieri in uso nei diversi Stati italiani, ma avrebbe dovuto offrire i materiali per la prossima codificazione, quella che sarebbe stata la base del processo e dell’organizzazione dell’Italia unita, su cui è cresciuta la nostra cultura giuridico-istituzionale, anche contemporanea.
Nel 1857, sempre a Torino, insieme a Massari e Scialoja, pubblicò un giornale legale, L’archivio, un vero e proprio deposito di idee giuridico-istituzionali che ancora attende di essere studiato ed esaminato.

Non c’è allora da meravigliarsi se troviamo Pisanelli attivo collaboratore nel processo di riordinamento delle Università di Modena e Bologna, coordinato, nel 1859-60, da Luigi Carlo Farini, il governatore provvisorio delle province dell’Emilia e, dall’estate 1860, a seguito della spedizione dei Mille e del tracollo della dinastia borbonica, tra quegli esuli napoletani ai quali Cavour si rivolge per contrastare Garibaldi nella transizione verso l’unificazione nazionale.


Eccolo allora ritornare lì da dove era partito esule, ma stavolta come ministro della Giustizia (nel governo provvisorio insediato da Garibaldi all’inizio di settembre 1860), nella ricerca di far estendere al Mezzogiorno lo Statuto albertino e i codici del Regno di Sardegna e per divenire, di lì a poco, professore della prima cattedra di diritto costituzionale istituita all’Università di Napoli (29 ottobre 1860), poi nuovamente Guardasigilli nel governo del luogotenente Luigi Carlo Farini, autore di una interessante legge di ordinamento giudiziario, che non era affatto la replica – pura e semplice – di quello sardo del 1859.

5. A sua volta, Antonio Scialoja, che era stato nominato (già nel 1846) professore di Economia politica all’università di Torino e che nel 1848, quando Ferdinando II aveva concesso lo Statuto, aveva fatto ritorno a Napoli dove era diventato ministro dell’Agricoltura e del commercio, ma poi era stato arrestato, dopo la restaurazione dei Borbone (nel settembre del 1849), e condannato a nove anni di reclusione, commutati nell’esilio perpetuo dal Regno di Napoli – per intercessione di Napoleone III. Cosicché,

tornato a Torino, l’economista napoletano era stato subito officiato di diversi incarichi e – avendolo Cavour in grande stima – perciò impiegato nell’opera di rinnovamento del Piemonte e che aiutò non poco gli altri esuli nella considerazione del grande statista Piemontese.



Sicché, tornato anch’egli a Napoli durante la «dittatura» di Garibaldi, aveva ricoperto la carica di ministro delle Finanze, da dove aveva cominciato una rilevante carriera ministeriale – come segretario generale del ministero dell’Agricoltura, industria e commercio (1861), segretario generale del ministero delle Finanze (1861- 1862), ministro delle Finanze (1865-1866 e 1866-1867), ministro della Pubblica istruzione (1872- 1874).

6. Anche per Mancini, l’esilio torinese (dopo aver difeso alcuni colleghi deputati colpiti da varie accuse per i fatti del 15 maggio) si rese necessario per il suo coinvolgimento personale nel processo e poi la condanna a 25 anni di carcere in contumacia. E anche lui era fuggito (1849), con la nave francese “Ariel”, con l’intenzione di espatriare in Francia, lasciando a Napoli la moglie e cinque figli. Ma una volta a Genova decise di rimanere nel Regno di Sardegna e, soprattutto lo Sclopis (un importante giurista ed intellettuale torinese), lo aveva convinto a stabilirsi a Torino, dove gli giungerà la notizia della privazione della cattedra di diritto naturale – alla quale l’ateneo napoletano lo aveva chiamato due anni prima.

A Torino, dove trovò un gruppo di altri esuli (R. Conforti, G. Pisanelli, V. Lanza, tra gli altri), si rivelò provvidenziale la rete di conoscenze che aveva coltivato negli anni precedenti che gli resero più facile l’inserimento nell’ambiente subalpino (C. Balbo, M. d’Azeglio, ecc.) dove venne presto chiamato ad importanti incarichi

– ad es., dalla presidenza del Consiglio, per un Progetto per la creazione di una scuola diplomatica che si proponeva di fornire alla carriera degli Esteri una nuova classe dirigente, che non fosse solo di provenienza aristocratica. 
Mancini, infatti, era convinto che i Piemontesi avevano “una grande missione e una grande responsabilità insieme” e che da loro dipendeva il futuro dell’Italia e il mondo cavouriano gli riconobbe, dopo un lungo dibattito in entrambi i rami del Parlamento, con un regio decreto (14 nov. 1850), una cattedra di diritto pubblico esterno e internazionale nell’Università di Torino, dove cominciò le sue lezioni con una prolusione dal titolo Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti (Torino 1851), che ebbe un grande successo.

Ma, accanto all’insegnamento ed al lavoro intellettuale, Mancini portava avanti anche l’attività professionale, sia quella forense sia quella di studio:

era divenuto un avvocato di fama (un decreto del 2 giugno 1851, concedendogli la cittadinanza sarda, gli aveva fornito il prerequisito per esercitare la professione legale sia in tribunale sia in Cassazione ma era servito a integrarlo anche psicologicamente nel sistema piemontese).
Inoltre, gli arrivavano incarichi ufficiali: nel 1850, il suo inserimento in una commissione creata per rivedere le leggi civili e criminali (su impulso del guardasigilli G. Siccardi); e, poco dopo, l’elezione a membro della Commissione per la statistica giudiziaria. Senza dire della collaborazione con U. Rattazzi nella preparazione della legge sulla soppressione delle corporazioni ecclesiastiche, promulgata nel 1855 nel Regno sardo.
Si è poi già detto dell’incarico particolare di studio della legislazione ordinamentale e processuale, in collaborazione con G. Pisanelli e con A. Scialoja, e con l’ausilio di alcuni giuristi piemontesi: il Commentario del Codice di procedura civile per gli Stati sardi, con la comparazione degli altri codici italiani e delle principali legislazioni straniere, I-VIII, Torino 1855-57.
Anch’egli – considerato a Torino il giurista più esperto nelle questioni dell’organizzazione statale e nei problemi di diritto internazionale -, fu perciò inviato da Cavour a Bologna e a Firenze per studiare i problemi legislativi, esperienza culminata con quattro relazioni: la base della decisione del governo di estendere la legislazione sarda all’Emilia e alle Marche e di lasciare in vigore in Toscana i codici preesistenti in attesa di una nuova codificazione che armonizzasse le condizioni legislative di tutto il Regno.

7. L’apporto dei giuristi – ed economisti, come lo Scialoja – napoletani, esuli a Torino, costituisce ancora una pagina non completamente esplorata della storia nazionale, ma rappresenta – per quello che è stato accertato – sicuramente un momento alto della cultura istituzionale ed innovativa del Mezzogiorno (con tutti i suoi uomini del foro, dell’Università e dell’insegnamento privato, dei circoli e dei salotti) nella preparazione e nella edificazione del nuovo Stato unitario.

La vita dei suoi protagonisti proseguirà ancora per qualche tempo, ma è in quello snodo di un ventennio circa (dal 1847 al 1865) che i Nostri diedero un contributo rilevantissimo alla nuova codificazione ed alla predisposizione dei fermenti di un’Italia fattasi finalmente Nazione, una realtà istituzionale, culturale e spirituale non chiusa, bensì – anche per il loro grande merito – aperta al dibattito europeo, ossia ad un tema che è ancora decisivo anche per il nostro tempo storico.

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IL PROCLAMA DI TRANI di Umberto De Augustinis – Numero 6 – Ottobre 2016

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IL PROCLAMA DI TRANI

 

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 Le vicende storiche della città di Trani in relazione alle sue istituzioni ed iniziative giuridico-giudiziarie sono di tutto rispetto e di eccezionale rilevanza anche per lo spirito di innovazione e progresso che le caratterizza.

 Gli “Ordinamenta et Consuetudo maris edita per consules civitatis Trani” (ovvero gli “Statuti marittimi”) sono il codice della navigazione nel Mediterraneo, risalgono al 1063 ed all’iniziativa del conte normanno Pietro di Trani. Ma Trani vanta anche l’esistenza di un polo giudiziario (avvocati, magistrati e professori di diritto) che ha costituito per molti secoli un vero motore di impulso, di rinnovamento, di proposta, di novità, con caratteristiche assolutamente peculiari d’avanguardia.

Già tra la fine del XV e i primi del XVI secolo, a Trani operava nientemeno che la prima donna al mondo ammessa ad esercitare la professione di avvocato: di Giustina Rocca è lecito pensare che si parlasse in tutta Europa, tanto che William Shakespeare ne riproduce il ruolo nella Porzia del “Mercante di Venezia”,

dimostrandosi ben consapevole della rivoluzionarietà di una scelta del genere (denunciata, nel caso, dai paludamenti maschili indossati da Porzia nell’esercizio delle sue funzioni). 
La tradizione successiva si rafforzò con la sede della “Regia Udienza” della Provincia, dovuta alla fama di città “innovatrice” goduta da Trani, e con la conferma costante sia del presidio giudiziario di primo grado che della Corte criminale. Nel 1899, la Corte di Trani aveva quattro Sezioni penali ed era considerata la terza corte dell’Italia meridionale dopo quelle di Napoli e Palermo. Era, dunque, un polo giudiziario di rispetto e rilevanza. 
In questo contesto decisamente effervescente e stimolante, nel mese di aprile del 1904, mentre a Roma si svolgeva uno sciopero generale in favore dei tipografi per una maggiore libertà di stampa (che sarà seguito da molti scioperi in vari settori nello stesso anno),

116 magistrati del distretto della Corte di appello di Trani, prevalentemente “pretori”, cioè magistrati di rango “basso”, decisero di predisporre ed inviare al Capo del Governo, Giovanni Giolitti, ed al Ministro di grazia e giustizia, Scipione Ronchetti, un documento con il quale, con toni abbastanza rispettosi, ma molto fermi, si chiedeva una sollecita riforma dell’ordinamento giudiziario,

partendo dalla considerazione dei cosiddetti magistrati in sottordine (i pretori), ai quali si chiedeva di attribuire competenze maggiori nella decisione del contenzioso civile e penale. In quel momento i pretori costituivano una sorta di riserva di base della magistratura, per progredire nella quale era previsto un concorso molto serio. Le osservazioni contenute nel “proclama” erano, tuttavia, certamente condivise anche da buona parte dei magistrati di rango superiore, che intravedevano in esse la possibilità di limitare le ingerenze dall’esterno con incremento del loro potere (ai capi degli uffici era attribuito il potere di redigere “rapporti segreti” sui “magistrati sottoposti” nei quali si parlava anche dei loro orientamenti politici, con influenza sulla carriera).

Il documento tranese, quindi, centrava le sue principali valutazioni sulla necessità di tutelare e garantire l’indipendenza della magistratura con particolare riferimento all’esterno.

A tal fine, memori delle tre ondate di epurazione seguite all’unificazione italiana con pensionamenti e rimozioni variamente giustificati, si esprimevano critiche alla possibilità per il Ministro di trasferire i magistrati con atti, tutto sommato, di motivazione solo apparente, stabilita fin dal 1859 dal Ministro Rattazzi per il Piemonte (r.d. 13 novembre 1859, n. 3781) e poi estesa al Regno d’Italia con il r.d. 6 dicembre 1865, n. 2626. All’epoca, la motivazione del trasferimento era «l’utilità del servizio»; il consenso dell’interessato non era necessario e spesso il trasferimento era solo una punizione, debitamente annotata nel curriculum personale. Il Ministro Ronchetti, che pure era di idee aperte – è sua l’introduzione in Italia dell’istituto della sospensione condizionale della pena – non gradì affatto le espressioni del “proclama”, usando “bastone e carota” e, cioè, promuovendo, da un lato, un centinaio di procedimenti disciplinari, ma, anche, curando, come risposta di “buona volontà”, l’accelerazione dell’approvazione della legge n. 372/1904, che stabiliva ruoli e stipendi degli impiegati pubblici, e riconosceva piccoli miglioramenti economici ai magistrati. Il significato politico della vicenda non passò, quindi, inosservato ed ebbe contraccolpi. All’esterno, solo 5 anni dopo, anche a seguito della pubblicazione sul “Corriere giuridico” del proclama, a Milano, veniva fondata l’Associazione Generale fra i Magistrati d’Italia (AGMI);

il documento, noto come “Proclama di Trani”, si consacrò, così, come l’espressione della prima protesta in forma collettiva della Magistratura (e, certamente, la più forte dal punto di vista dei pubblici funzionari) e, soprattutto, la premessa dell’associazionismo giudiziario.

La effettiva rivoluzionarietà degli eventi innescati a Trani nel mondo giudiziario, a riprova del fermento colto dai magistrati tranesi nel “proclama”, si coglie molto distintamente nelle successive valutazioni di Vittorio Emanuele Orlando, Ministro di grazia e giustizia nel 1909, il quale ebbe a manifestare “dubbi gravissimi sulla possibilità che l’iniziativa produca frutti utili e degni”, perché “la magistratura italiana ha una costituzione rigorosamente gerarchica” e “la gerarchia ne costituisce l’essenza”. Le iniziative caldeggiate nel proclama e sostenute dall’associazionismo giudiziario avrebbero danneggiato “la dignità e l’autorità” dei magistrati di maggior rango, perché anche le associazioni apparentemente apolitiche, “poi nella loro effettiva attività difficilmente vi si mantengono fedeli”.

Orlando coglieva, dunque, il significato politico del processo riformatore avviatosi a Trani, al quale aveva dato risposta con importantissime leggi

(note come leggi Orlando n. 511 del 1907 e n. 438 del 1908, quest’ultima istitutiva di un Consiglio superiore della magistratura). Nelle sue parole si coglie la scelta di assicurare la funzionalità del sistema giudiziario all’azione di Governo attraverso la garanzia derivata dal rispetto della gerarchia giudiziaria (conformemente alle vedute dei gradi più alti della stessa magistratura dell’epoca). Si deve riconoscere, comunque, che, per le sue considerazioni ultime sopra riportate, alla fine, Vittorio Emanuele Orlando è stato, forse, il primo importante uomo politico ad avere intuito lucidamente la possibilità di un ruolo specifico ma anche il pericolo di una possibile degenerazione politica dell’associazionismo, oggetto tuttora di discussioni fin troppo a tutti note.

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