Cultura

PERCHÉ UN MUSEO? di Donatello Genovese – Numero 5 – Luglio 2016

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Ad Avigliano (comune della provincia di Potenza, sito nella parte nord-occidentale della Basilicata, a circa 800 m s.l.m.) ogni anno, nel periodo estivo, si tiene la caratteristica manifestazione dei “quadri plastici”, ossia la rappresentazione vivente d’immagini tratte da capolavori dell’arte figurativa.

La tradizione è molto antica, anche se le notizie certe disponibili, tramandate oralmente, consentono di datare le prime rappresentazioni negli anni ’20 del secolo scorso.

Gli attori, inseriti in contesti scenografici fedeli nei più minuti dettagli alle opere artistiche oggetto d’imitazione, restano immobili per qualche minuto, come statue viventi, riproducendo scene sacre, storiche, mitologiche o immaginarie, tratte dai celebri quadri pittorici.

Attualmente i quadri plastici vengono realizzati su palchi fissi, dotati di sipari, che vengono aperti più volte, per circa un minuto, al cospetto di un pubblico assai nutrito, capace di restare anche per ore in attesa del magico momento dell’esibizione.

La realizzazione delle scenografie, dei costumi, delle acconciature, degli sfondi, degli oggetti, delle luci e dei tanti dettagli esecutivi richiede un lungo ed accurato lavoro artistico preparatorio, finalizzato a rendere la scena finale perfettamente aderente al capolavoro artistico da cui è tratta.

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PERCHÉ UN MUSEO?

 

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In origine tali rappresentazioni venivano eseguite, in occasione delle festività religiose estive più importanti, su carri a traino animale, che sfilavano lungo il corso principale del paese nel corso delle processioni popolari. Su tali carri i figuranti, ad ogni sosta, assumevano le caratteristiche pose fisse delle immagini artistiche che intendevano rappresentare. Le scene, corporee e tridimensionali, davano luogo ai caratteristici quadri viventi, detti anche quadri plastici.

Per un lungo periodo la manifestazione si è svolta nel corso dei festeggiamenti della Madonna del Carmine, protettrice del paese, che si tengono ogni anno il 16 luglio. Da qualche anno, però, sotto la crescente partecipazione del pubblico, si è preferito rendere autonoma la kermesse, spostandola nel mese di agosto.
In genere, le rappresentazioni dei quadri plastici sono realizzate da due/tre gruppi di giovani artisti, prescelti dall’Associazione Pro Loco, appartenenti ad associazioni dei vari quartieri del paese, che fanno a gara nella più fedele riproduzione delle opere d’arte da essi prescelte.
Il palco, allestito nella piazza più capiente del paese, è diviso in vari box, ciascuno separato fisicamente dagli altri e dotato di un sipario, all’interno dei quali gli scenografi, i falegnami, i pittori, i truccatori, i parrucchieri, i sarti, i costumisti, i tecnici delle luci e della fotografia, ecc., nascosti alla vista del pubblico, sotto la guida di direttori artistici altamente qualificati, allestiscono le scene e preparano gli attori per l’esibizione.

La visione dei quadri plastici, resa possibile della contemporanea apertura dei sipari, più volte, per la durata di circa un minuto, avviene al buio e con suggestivi sottofondi musicali, in modo che le luci sceniche, sapientemente calibrate, restituiscano allo spettatore l’emozione di trovarsi al cospetto di meravigliosi ed imponenti quadri tridimensionali, carichi di pathos e di sublime bellezza.
Al termine della manifestazione, una giuria altamente qualificata ed imparziale proclama il gruppo vincitore, al quale viene assegnato un premio. La manifestazione ha assunto rilievo nazionale nell’aprile del 2016, quando, nel corso di un talent show mandato in onda da un importante network televisivo, un nutrito gruppo di giovani aviglianesi ha riprodotto le maestose opere del Caravaggio.

 

UNO ‘SPIRITO’ DEL SUD di Gaia Bay Rossi – Numero 5 – Luglio 2016

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UNO ‘SPIRITO’ DEL SUD

 

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La cosa più importante che esiste nella vita è la fortuna. Io ho avuto la fortuna di nascere a Napoli. Ora ti voglio dire come immagino la nascita. Io la immagino così: nell’alto dei cieli vedo un cestino con dentro miliardi di palline, poi vedo una mano che prende un milione di palline e le butta nel cielo. Queste cadono. Qualche pallina va su un pianeta, qualche altra pallina su un altro pianeta. Ebbene io, De Crescenzo, ho avuto la fortuna che la mia pallina è caduta proprio sulla terra; e non solo, ma anche sull’Europa; e non solo, anche su Napoli. La prima cosa che debbo aver visto nella vita sono state il mare e il Vesuvio e questa, come si chiama? Si chiama fortuna!
Ecco. Ma ho avuto altre fortune. Per esempio, quando ho conosciuto Francesca, quando Francesca mi ha lasciato, quando il Napoli vinse con l’Ambrosiana per 1 a 0 all’ultimo minuto. Ma chi era l’Ambrosiana? L’Ambrosiana era quella che oggi si chiama Inter. 
Mi ricordo di quando io presi la funicolare, perché abitavo al Vomero, per andare ad iscrivermi all’università. Entrai nella funicolare e vidi un posto libero accanto ad una bella ragazza. Allora, mi sedetti subito vicino a lei e le chiesi: “Come ti chiami?” Lei mi rispose: “Mi chiamo Francesca”; ed io: “Ciao Francesca dove vai?” E lei mi rispose: “Vado a iscrivermi all’università”. 
Io mi volevo iscrivere a filosofia perché la amavo molto come materia, ma, siccome lei mi disse che si andava ad iscrivere a matematica, le dissi: “Ah, pure io mi iscrivo a matematica”. Ed è stato così che sono diventato ingegnere. Se non avessi corso quella mattina per prendere la funicolare, io oggi non sarei ingegnere, ma professore di filosofia.

Nascere a Napoli è stata una fortuna?

 Una cosa é dire ti amo e una cosa e dire ti voglio bene. Che differenza passa tra il bene e l’amore? Che l’amore prima o poi può finire, mentre il bene invece non finisce, anzi aumenta. Quindi io consiglio a tutti quelli che mi leggono di voler bene. Nella mia vita ho voluto molto bene innanzitutto a mia figlia e poi a mia moglie. Poi, anche a un uomo che si chiamava Marotta, perché scrisse dei libri bellissimi. Mi ricordo anche di aver voluto bene al mio professore di matematica, perché grazie a lui sono diventato ingegnere.

Lei non è mai stato tentato dalla canzone napoletana?

Quando si nasce, ognuno di noi, può nascere con dei meriti e dei demeriti. Io purtroppo, pur essendo napoletano, non so cantare, però so scrivere. Come si fa a scrivere bene? Chi mi legge dovrebbe sapere quali sono i trucchi per scrivere bene. Innanzitutto, ogni pagina bisogna scriverla due volte e l’importante é che la seconda volta sia più corta della prima. Poi bisogna avere una fidanzata ignorante a cui far leggere la pagina: se la capisce lei, la capiscono tutti. Poi che dire…io ho fatto una cosa intelligente e una stupida: quella intelligente è stata quella di copiare il libro “Della filosofia greca”; quella più stupida è stata quella di cederla una tantum, perché poi ho saputo che è stata adottata nelle scuole e, quindi, avrei guadagnato miliardi se non avessi firmato.

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sul nostro Mezzogiorno d’Italia è chiaro e diffuso nell’etere e può essere sintetizzato nella celebre frase “si è sempre meridionali di qualcuno” (da Così parlò Bellavista). Noi di Myrrha non potevamo non incontrarlo.

Lei ha vissuto in tre città: Milano, Roma e Napoli, che differenze ci sono nelle città e nella gente?

Quando ero giovane, per andare da Milano a Napoli ci voleva quasi un giorno, perché il treno dell’epoca si fermava in ogni stazione prima di arrivare a Napoli. La più grande differenza tra i milanesi e i napoletani è che a Napoli si parla di più che non a Milano. Cioè, due persone che si incontrano e si siedono vicino, se sono napoletane parlano, se sono milanesi non parlano. 
Se sono romane? Come i napoletani, perché sono molto simili. Tutto questo perché a Milano c’è una cosa che si chiama riservatezza, a Napoli non esiste.
Una volta, a Napoli, nel mio palazzo, c’erano due persone che si odiavano. Queste due persone si chiamavano, una Bellavista e una Cazzaniga. I due presero insieme l’ascensore e, a causa di un black out, l’ascensore si bloccò. Loro rimasero per quasi mezz’ora, tutti e due, in ascensore tra il terzo e il quarto piano, e, a forza di stare insieme, parlarono e parlarono, e da che erano nemici, divennero amici. Questo fatto è realmente accaduto ed è quello che mi ha poi suggerito il libro “Così parlò Bellavista”.

Abbiamo visto la presentazione del suo nuovo libro, con un bel sottofondo di canzoni napoletane. Cosa è per lei la canzone napoletana?

Io credo che non esista nessuna città al mondo che abbia inventato più canzoni di quanto non sia stata capace Napoli. Comunque la mia preferita dovrebbe essere ‘O sole mio’. Dovrebbe…
Molti pensano che questa canzone sia stata scritta a Napoli: non è vero. ‘O sole mio fu scritta in Russia; anzi, per essere precisi, in Ucraina. D’altra parte lo si capisce anche dalle parole. Come dice la canzone: “Che bella cosa na jurnata e sole”. Questa meraviglia la si può capire solo da una persona che stava in Ucraina, perché se fosse stata a Napoli non l’avrebbe mai detta, visto che a Napoli ogni giorno c’è una giornata di sole. 
Quando ero ragazzino ho avuto la fortuna, e la sfortuna, di abitare in un cosiddetto piano ammezzato; cioè, dalle mie parti, il piano ammezzato è in un appartamento che sta a metà distanza tra la strada e il primo piano. Ma perché parlo di fortuna e di sfortuna: di sfortuna perché purtroppo sotto la mia camera da letto c’era un venditore di fiori che ogni mattina si metteva a cantare alle sei e mi svegliava. La fortuna è stata perché tutto questo é capitato a Napoli, dove sono nato.

 Il libro è intitolato Ti voglio bene. Perché questa decisione?

Le manca Pino Daniele?

Sì, io l’ho anche conosciuto ed era una brava persona. Purtroppo, per colpa sua io ho commesso uno dei sette peccati capitali, e cioè l’invidia!

Fino a che età è stato a Napoli?

Sono stato a Napoli fino a sedici anni. Poi, un giorno, Mussolini decise che anche i ragazzi di sedici anni dovessero andare in guerra. Io andai a Capodichino, mi misero la divisa, mi dettero il fucile ed io dissi al mio amico Alfonso: “Fofò, io non ammazzerò mai nessuno”; e lui: “E come fai, quelli ti hanno dato il fucile!”. E io: “Fofò, basta sparare un poco poco più in alto, per essere sicuri di non uccidere”. Proprio quel giorno, io arrivo a Capodichino e scoppia la pace. Questo sempre che si possa usare il verbo scoppiare quando si parla di pace.

Perché i giornali italiani parlano del sud sempre in maniera negativa?

Loro parlano così perché purtroppo invidiano il sud. Io ho abitato a Milano dove lavoravo alla IBM e mi ricordo ancora quando la IBM mi trasferì a Napoli, e io ringrazio… A Napoli non si dice mai “ringrazio Dio”, si dice “ringrazio la Madonna” e questo perché, secondo me, Dio non esiste, mentre esiste la Madonna. Io credo di essere religioso in maniera particolare, perché non sono credente, io sono sperante, che è qualcosa di più di essere credente. Spero che ci sia e, infatti, spero “dopo” di andare in paradiso, o meglio, forse troverei più bello il purgatorio, perché l’eternità se ha un difetto è quella di essere eterna. 
Una cosa è passare tutta l’eternità vicino a una santa, come Santa Teresa, che ti racconta tutti i giorni i suoi problemi, perché fu martire. Un’altra cosa è passare il tempo vicino a Totò. Totò non credo che sia andato subito in paradiso, perché – si dice – che lui approfittasse delle ballerine; quindi, per stare vicino a Totò, starò volentieri anche io un po’ di tempo in purgatorio.

 

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LUCANIA, OMBELICO DELLA POESIA, DELL’INFERNO, DELLA VITA di Alessandro Gaudio – Numero 5 – Luglio 2016

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da molti considerata la raccolta più importante dell’autore nato a Montemurro − in provincia di Potenza, in fondo alla Val d’Agri, tra Viggiano e Corleto Perticara, nei pressi dell’invaso del Pertusillo − nel 1908. Si tratta di versi ormai molto noti, e non soltanto tra i cultori di Sinisgalli, ma li ripropongo comunque per i lettori di «Myrrha».

Il più delle volte, si è preferito sottolineare il riferimento dei versi di Sinisgalli al tempo dell’infanzia e dell’adolescenza, a uno spazio povero, spoglio ed elementare, quasi folcloristico, tralasciando di notare che

La poesia, allora, è una reazione incontrollata, ma non indefinita, a quel cumulo di detriti, a quel mucchio di pietre, a quella strada senza uscita;5 essa non fa operazioni, né composizioni, ma reagisce ad esso, costruendo con niente un po’ di geometria

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1 Ne trascrivo il testo da una bella antologia, curata da Giuseppe Pontiggia: L. Sinisgalli, Lucania, in Id., L’ellisse. Poesie 1932-1972, Milano, Mondadori, 1974, pp. 55-56.
2 Cfr. G. Pontiggia, Le Muse di Sinisgalli, in L. Sinisgalli, L’ellisse cit., pp. 11-19.
3 L. Sinisgalli, Postilla, in Id., L’età della luna. 1956-1962, Milano, Mondadori, 1962, p. 137.
4 Dell’ENI, Sinisgalli, su invito di Enrico Mattei, assumerà nel 1959 la direzione dei servizi di pubblicità. Tra l’altro, il famoso cane a sei zampe, simbolo dell’Ente, fu ideato proprio dal poeta lucano. Sin dal 1937 anche altre notissime aziende del panorama nazionale si erano avvalse delle competenze di Sinisgalli: tra le altre, Olivetti e Pirelli. La foto che ritrae Sinisgalli a Milano Bicocca, tra i copertoni, è del 1951.
5 E senza uscita è la strada di una delle foto che Raffaele Luongo, in collaborazione con la Fondazione Leonardo Sinisgalli, ha dedicato alla Lucania di Sinisgalli, reinterpretando, in una mostra del 2015, la poesia qui discussa.
6 La strada interpoderale, dritta e semplice, che collega Tricarico alla piana delle Matine fu voluta già alla fine degli anni Quaranta da Scotellaro: la foto riproduce il suo aspetto odierno. In questa sezione si fa riferimento al dettato lessicale de La ricerca (ora in L. Sinisgalli, Infinitesimi, a cura di G. Tedeschi, prefazione di G. Pontiggia, Roma, Edizioni della cometa, 2001, p. 54).

 

LUCANIA, OMBELICO DELLA POESIA, DELL’INFERNO, DELLA VITA

è proprio sopra i cumuli di detriti, intatti per secoli ma sdrucciolevoli e malfermi, che nasce la poesia di Lucania. Nasce in questo spazio privo di fondamenta, con innocenza, senza che nessuna certezza le faccia da struttura.

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Al pellegrino che s’affaccia ai suoi valichi,
a chi scende per la stretta degli Alburni
o fa il cammino delle pecore lungo le coste della Serra,
al nibbio che rompe il filo dell’orizzonte
con un rettile negli artigli, all’emigrante, al soldato,
a chi torna dai santuari o dall’esilio, a chi dorme
negli ovili, al pastore, al mezzadro, al mercante,
la Lucania apre le sue lande,
le sue valli dove i fiumi scorrono lenti
come fiumi di polvere.

Lo spirito del silenzio sta nei luoghi
della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto,
sofistico e d’oro, problematico e sottile,
divora l’olio nelle chiese, mette il cappuccio
nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce
con l’erba alle soglie dei vecchi paesi franati.

Il sole sbieco sui lauri, il sole buono
con le grandi corna, l’odoroso palato,
il sole avido di bambini, eccolo per le piazze!
Ha il passo pigro del bue, e sull’erba,
sulle selci lascia le grandi chiazze
zeppe di larve.

Terra di mamme grasse, di padri scuri
e lustri come scheletri, piena di galli
e di cani, di boschi e di calcare, terra
magra dove il grano cresce a stento
(carosella, granoturco, granofino)
e il vino non è squillante (menta
dell’Agri, basilico del Basento!)
e l’uliva ha il gusto dell’oblio,
il sapore del pianto.

In un’aria vulcanica, fortemente accessibile,
gli alberi respirano con un palpito inconsueto;
le querce ingrossano i ceppi con la sostanza del cielo.
Cumuli di macerie restano intatti per secoli:
nessuno rivolta una pietra per non inorridire.
Sotto ogni pietra, dico, ha l’inferno il suo ombelico.
Solo un ragazzo può sporgersi agli orli
dell’abisso per cogliere il nettare
tra i cespi brulicanti di zanzare
e di tarantole.

Io tornerò vivo sotto le tue piogge rosse
tornerò senza colpe a battere il tamburo,
a legare il mulo alla porta,
a raccogliere lumache negli orti.
Vedrò fumare le stoppie, le sterpaie,
le fosse, udrò il merlo cantare
sotto i letti, udrò la gatta
cantare sui sepolcri?1

Quel cumulo di detriti, a ogni buon conto, è il punto verso cui tutta la poesia converge; è anzi, il polo, diceva Giuseppe Pontiggia, del medesimo esistere.2 Sinisgalli, dal canto suo, sosterrà che è situata lì la forma «introvabile»,3 il cuore della poesia (poesia che non è voluttà espressiva, perla nel pattume; è, piuttosto, quello stesso pattume): allineata, cresciuta su frammenti, ossa, escrementi, senza un disegno preventivo, un progetto: asimmetricamente, se si vuole, allo stesso modo di un paese, allo stesso modo di Montemurro.
In quel cumulo di non-poesia (oppure, ma non è poi così diverso, di antimonio) c’è lo spreco, la dissipazione, sulla quale la poesia − come lo stesso Sinisgalli ammetterà sempre nell’Età della luna − fulmineamente sorge e prospera; vita che muore cui la poesia attinge. Il poeta, dunque, non esce indenne da quell’ammasso di macerie: è lì, nella Lucania che sta per essere devastata dai vulcanici succhielli e dalle piogge rosse dell’ENI, che il poeta lascia le penne;4 è lì, all’interno dei suoi confini, che i versi di Sinisgalli ripiegano. Nelle sue viscere trova la strada difforme della poesia, abbandonando per sempre quella del formalismo (la forza, quindi, più che la sua forma), perdendo di vista, nello sforzo vano, nel pianto e nell’oblio, il soggetto, la coscienza.

(che poi non è, con ogni evidenza, che la semplice geometria della strada che Scotellaro, segnando a suo modo il percorso obbligato del progetto di cambiamento, aveva fatto costruire a Tricarico), una fedele chimica interiore.6 Il poeta di Montemurro, per non cadere, si siede su quel mucchio di detriti e tossisce e sputa e rifà i calcoli, all’infinito, nelle distanze incommensurabili di spazio e di memoria e nel tempo infinitesimale di un soffio. Non è forse, quel cumulo di scorie, il luogo stesso in cui ciascuno di noi resta sepolto? Non è forse esso il risultato dell’accumulo giornaliero di tutti i frammenti della nostra esistenza? E non è forse proprio quello che, giornalmente, continuiamo a ricercare? Risiede in questa ricerca, fatta della realtà che il poeta distrugge, di piccole aberrazioni millesimali, di nessi, congiunzioni, particole, spezzoni, tacche del linguaggio, nodi, l’esercizio, talvolta fastidioso, della poesia e, di conseguenza, della vita.

 

INDIETRO NEL FUTURO di Tamara Triffez – Numero 6 – Ottobre 2016

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Myrrha è impegnata, come rivista, nel racconto di un sud positivo, e spesso questo avviene tramite il lavoro di piccole realtà imprenditoriali, coraggiose e con Idee chiare. Certo il fronte dell’incompetenza non facilita queste micro – realtà.

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INDIETRO

NEL FUTURO

 

 Mi alzo a metà luglio nel tepore del primo sole, per raggiungere 

e seguire il lavoro della mietitura:

 

Salvatore Agostinello, allevatore e agricoltore, oltre che piccolo produttore di derivati del grano come pasta, frise, farine bio, oggi ha organizzato, nelle campagne di Specchia, bellissimo Borgo medioevale, che ospita ogni anno la rassegna ”Il cinema del reale”, la giornata della mietitura dei campi di grano “Senatore Cappelli”, una raccolta gioiosa e divulgativa, per difendere la produzione di un grano d’eccellenza, con i campi protetti da pesticidi e concime. Salvatore segue un’avventura non facile insieme al suo amico Enzo Scarcia, attuando una difesa dei principi di sostenibilità. Non solo perché hanno una certificazione, ma per la forza dell’impegno, per produrre, difendere e informare sui prodotti e sul rilancio delle antiche semenze.

 

 

 Per ispirare in ognuno di noi la voglia di Pasta e Pani esenti da pesticidi e da mutazioni genetiche, oggi attuate con i raggi gamma al cobalto, sorte che tocca a tutte le farine della grande distribuzione, così salvando, dalla scomparsa sul territorio Salentino, l’antico grano “Senatore Cappelli”.
 

Questo grano ha proprietà a basso tenore di glutine, e un’alta percentuale di proteine e amminoacidi, rispetto al grano moderno, oltre a contenere la parte nobile del chicco, che non c‘è nella pasta dei supermercati, perché più conveniente venderlo all’industria cosmetica. Fare questo, per Salvatore ed Enzo, vuol dire confrontarsi con i giochi al ribasso praticati dal mercato. Un quintale di “Grano Cappelli”, per iniziare un’attività di semina, è costoso: 150 euro al quintale, a fronte del normale prezzo di vendita stagionale della produzione, che è di 40 euro per quintale, cifra destinata ad abbassarsi ulteriormente, con l’arrivo a Bari di navi provenienti da paesi esteri, che a loro volta vendono a 20 euro. Battaglia impari, così hanno deciso di diventare produttori di paste e derivati delle farine. Salvatore e Enzo affittano i loro campi al Comune, che li aveva abbandonati, non sono proprietari, investono su macchinari e attrezzature costosissime: una trebbiatrice nuova costa 400 mila euro, la loro ha 40 anni e funziona bene. Enzo gestisce la macina, il Mulino, dove sta per realizzare il ripristino di un Mulino a pietra, in modo da migliorare ulteriormente i loro prodotti. Enzo pianta orzo con semenze originarie del Salento, rigorosamente bio; inoltre macina farro, grano, orzo decorticato e perlato, caffè per le aziende locali. Si occupa anche di ricercare, per produrle, farine a noi sconosciute: la pianta Moringa oleifera, originaria dell’India, potente antiossidante con 97 proprietà nutritive, vitamina C, potassio, regolatrice dei livelli ormonali. Se ne ottengono farina, tisane, olii essenziali, insalate a foglia. Salvatore produce 148 quintali di Farina di “Grano Cappelli” e 78 di farro.

 

Per evitare di dimenticare, l’unica via è la trasformazione legata all’informazione, in maniera tale da stimolare il desiderio di un ritorno alle cose buone e sane, riscoprendo quei piccoli gesti semplici ma genuini, come fare il pane in casa. Questi terreni, davvero bistrattati da secoli e spesso lasciati a se stessi da autorità e governi, sono purtroppo uno dei problemi del Sud.

 

Qui l’agricoltura tradizionale è stata imbrigliata e quasi cancellata, per favorire le monocolture su ampia scala, ulivi, viti, fino agli anni ’70, tabacco. Per fortuna il disprezzo per la terra, dura da lavorare e poco redditizia, è un’attitudine in via di cambiamento, grazie a tanta gioventù che ha voglia di dare il proprio contributo alla biodiversità. Non mancano, tuttavia, le difficoltà, come la grande fatica per consorziarsi, per creare cooperative, per lavorare in modo associativo, con lo scopo di difendere le eccellenze, sebbene al Sud questa cultura fatichi a radicare. Quella stessa cultura che ha reso l’Emilia Romagna potente, ricca e riconosciuta a livello internazionale. Per cercare di sfondare il muro di questa diffidenza verso l’idea di consorzio, Salvatore ha aperto un negoziato nel centro storico di Specchia, dando forma al progetto “Quattro Solchi”, bio a km zero, incentrato sulla salvaguardia della biodiversità: il progetto punta a favorire le aziende del territorio e si impegna per la riduzione dei livelli di inquinamento dei terreni. Ai “Quattro Solchi” si trovano, oltre ai prodotti derivati dello loro farine, legumi secchi, ceci, fave, fagioli, lenticchie, passate bio, marmellate varie, tra le quali quella di fico d’India, vini bio con l’involucro del tappo a cera, come un tempo, sottolio, miele, tonno, sapone, profumi, creme derivate dall’olio d’oliva, succhi di mele, belle ceste realizzate con rami di ulivo. Parlando con Salvatore mentre andiamo a trovare sua madre Sara, gli chiedo se le manifestazioni della Coldiretti, pensando alla manifestazione nazionale e regionale di quest’estate, potranno essere di aiuto: “Ma cosa vuoi che facciano contro le multinazionali!” mi dice.Vado a trovare Sara, signora giovanile, incontrata nel campo durante la mietitura: lavorava per offrire bellissime fascine di grano alla festosa giornata del raccolto. In quell’occasione mi raccontava dei tempi passati, prima della meccanizzazione,

 

quando il Salento era terra abbandonata, era terra di dolore, e non certo paradiso turistico come oggi, da dove si emigrava verso le miniere
ed i cantieri del nord Europa. Terra dura rossa argillosa e piena
di pietre, dove coltivare voleva dire piegare la schiena.
 

 

Nelle tante mitologie il grano era benedizione, eucarestia, e Sara mi racconta, facendo scorrere i mesi, cosa significava lavorare il grano e le varie fasi della sua produzione.Agosto: era il momento dei solchi spessi dell’aratro, dopo che il campo era stato bruciato per eliminare la paglia rimanente, dove poi si raccoglieva il frutto delle spighe disperse e si otteneva il grano arso, oggi pregiatissimo, allora parte del ciclo della sopravvivenza.Ottobre: si arava nuovamente, solchi leggeri, e si passava con il piccolo sacco di sementi, sminuzzandoli con cura, l’oro Giallo; poi si passava con la traia, livella di legno grosso, tirato da uomini e donne.Dopo la Candelora, perciò a Febbraio, le donne andavano a sarchiare, per eliminare le piante infestanti, raccogliendo in quel momento le foglie delle giovani piantine di papavero, con le quali si preparava la paparina, piatto ancora in voga, come i corsi per imparare a riconoscere le “misticanze selvatiche”, fatti dai ragazzi delle varie associazioni esistenti sul territorio.Aprile: era il momento della macinatura, quando si estirpava ancora l’erba cattiva, tra cui grosse margherite gialle e bianche, i soliti papaveri, stavolta alti alti, e la calendula, arancione; una volta raccolte, venivano date alle mucche, felici mucche di altri tempi. Ma Salvatore, da allevatore,mantiene anche queste tradizioni di buon cibo agli animali, carrubo ai cavalli, fieno di grano bio, margherite e papaveri. 

 

 

 Dopo la festa di Sant’Antonio, fine Giugno – inizio Luglio: si raccoglieva
il grano, falce e falcetti entravano nel campo e, con il raccolto,
si facevano mazzi di grano medio – piccoli, che venivano
messi insieme con un metodo particolare, per evitare
che si bagnassero le fascine con le piogge.

 

 

Essi venivano legati insieme con le spighe, se ne accatastavano 150, in retro-verso, una di qua – una di là, fino a formare una piccola piramide. Si chiamava il “manucchio”, e il lavoro veniva definito “manucchiare”. Quei giorni avevano anche un sapore di dolore, perché, nella raccolta, le spighe tagliavano e insanguinavano le gambe, ferendo le donne, che però non osavano portare pantaloni, pur di non essere additate come masculari, “e parevano tutte il povero Cristo”, dice Sara. Solo sua sorella Lucia usava il pantalone, lavorava come due uomini, era alta come te, mi dice Sara, ma più robusta.
Agosto: è passato un mese, il grano è asciutto, adesso è il turno dei carri tirati dai cavalli, caricavano le Manucchiare, si dirigevano verso l’aia, o aiera in dialetto; lì incontravano le mucche che tiravano la pizzara, una grande pietra possibilmente con fossili marini che risultavano più efficaci, e il grano veniva strusciato, così da separare la puglia dal chicco, insieme al forcone di legno. Questa paglia rimanente andava alle galline, non si buttava nulla, tutto era parte del vivere, degli uni, degli altri.
Tutto questo grande e lungo lavoro veniva salutato e festeggiato, a fine mattinata, dopo aver riempito due sacchi di grano a testa, con un grande piatto di coccio, con sagna al pomodoro. Le saghe sono un ricciolo di pasta di grano, ottenute dalla farina prodotta macinando in casa, e questa volta col maglio di legno, quei chicchi caduti a terra quando venivano raccolte le manucchie. Anche il momento di festa è frutto di una preparazione laboriosa.

 

Per avere pane buono c’è sempre stata la fatica degli uomini
e delle donne, sangue, sudore, schiene piegate.

  

Oggi e ieri non sono così distanti, le difficoltà non sono ovviamente le stesse, ma continuano ad esistere; oggi, per i Cavalieri della Sostenibilità che decidono di salvaguardare la purezza dell’oro giallo, si chiamano solitudine, affanno, ostacoli amministrativi… Fatica era, fatica rimane, ma le utopie hanno ancora le gambe, e questo è un bel pensare, un bel fare.

 

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LE RINASCITE DELLA FENICE di Gianluca Anglana – Numero 6 – Ottobre 2016

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«Non c’è nulla di più fragile dell’equilibrio dei bei luoghi».

Nelle Memorie di Adriano, Marguerite Yourcenar lancia un monito al mondo, perché abbia a cuore l’armonia che sovente s’intreccia tra il paesaggio e le opere dell’uomo, un rapporto talvolta indissolubile, come di radici che impugnano saldamente le zolle di terra.
Eppure, altrettanto spesso, l’essere umano dimentica, deturpa, offende la bellezza: l’insipienza è uno sfregio all’arte, la noncuranza sa stendere per secoli il suo velo di nebbia su veri e propri capolavori.
Oblio e violenza. Questa è stata, a lungo, la condanna inflitta ad uno tra i più significativi complessi architettonici di Puglia.
Nell’agro di Squinzano, a pochi chilometri dalla costa adriatica salentina, sorge Santa Maria di Cerrate. Si tratta di un’abbazia di notevole interesse storico-artistico, perfettamente coniugata al fascino delle campagne leccesi. Oggi, Cerrate è avvolta da un manto di vegetazione tipica mediterranea: querce, pini marittimi e cipressi, così come gli ulivi monumentali, sono una legione di guardiani silenziosi, un esercito di guerrieri incaricato di difendere un tesoro.

La leggenda narra che Tancredi d’Altavilla, durante una battuta di caccia, sia rimasto impietrito davanti all’immagine della Vergine, comparsa tra le corna di una cerva: nel luogo del miracolo, il nobile normanno avrebbe fatto elevare un tempio in onore di Maria. Le tradizioni esigono dunque che il nome di Cerrate derivi da Cervate e prima ancora, appunto, da cerva.

Fu allora che la fulgida traiettoria dell’esistenza dell’Abbazia parve avere una definitiva conclusione. 
E invece no. La fenice si ricompose tra le ceneri e i tizzoni in cui il fuoco delle razzie ne avevano disarticolato il corpo.
Nel 1531 tutte le proprietà e le ricchezze, che appartennero ai sacerdoti bizantini, passarono all’Ospedale degli Incurabili di Napoli.

Il buio della memoria cessò solo nella seconda metà del Novecento con l’intervento della Provincia di Lecce ed un primo ciclo di restauri. Oggi Santa Maria è ancora una volta risorta dalle ceneri del disdoro: dal 2012 è affidata alle cure del FAI.

Il modulo lessicale in cui si articola il monumento nel suo complesso potrebbe per certi versi rammentare gli enclos parroissiaux bretoni: attorno al nucleo centrale del luogo di culto vero e proprio si dipana una serie di edifici ancillari. A differenza però dei recinti parrocchiali di Bretagna, i manufatti “laici” di Cerrate (ovvero la Casa del Massaro, il pozzetto cinquecentesco, il frantoio ipogeo o gli alloggi per i mezzadri) non si qualificano come coevi alla Chiesa, ma le si sono sedimentati attorno lungo l’arco dei secoli.
L’Abbazia, romanica, è di eccezionale fattura: l’esterno, con facciata a capanna tripartito, è sobrio ed elegante. Il portale, ad arco, è impreziosito da un’edicola sorretta da colonne, a loro volta sormontate da suini. L’arcata narra il ciclo della Natività di Cristo e ospita vari personaggi (delizioso il gruppo dei tre Magi, vestiti alla maniera di pope ortodosso; così teneramente convincente Santa Elisabetta, nell’atto di poggiare il capo sulla spalla di Maria, in un gesto di sororale intimità).
Il portico offre al visitatore l’occasione di indugiare su elementi figurativi splendidamente eseguiti e commoventi. Tra i capitelli della loggia spuntano cespugli di pietra, racconti fantastici e bestiari dal sapore squisitamente medievale, si affollano sirene, arpie, grifi, draghi e centauri: particolarmente pregevole è la raffigurazione del monaco in lotta con dei ramarri, a loro volta sopraffatti da aquile.
L’interno dell’Abbazia, a tre navate, corre fino all’altare centrale sotto un ciborio duecentesco e contiene un prezioso ciclo di affreschi due e trecenteschi raffiguranti quegli stessi santi guerrieri (San Giorgio e San Demetrio), che guidarono le potenze crociate contro i Turchi e consentirono l’espugnazione di Antiochia: la propaganda normanna aveva forse preteso un dazio, piegando a sé il talento degli artisti di scuola bizantina.

Durante recenti lavori di restauro, sul fianco della navata destra e nella cornice di un altare barocco, è emerso un affresco, eseguito da maestranze resesi permeabili alla lezione giottesca. Si tratta della rappresentazione di uno spazio architettonico in prospettiva. Ciò che colpisce sono l’abiura del registro stilistico bizantino e il chiaro rimando a nuovi linguaggi figurativi. Lì accanto, sulla sinistra, un altro dipinto di matrice occidentale fissa il momento esatto in cui un santo, avvolto in un piviale scuro e assisi su un trono così maestoso da sembrare esso stesso una cappella, indica all’osservatore, nei testi sacri, l’unica via per la salvezza.
Cerrate è un vaso di Pandora al contrario, un gorgo delle ere, in cui sono stati tumultuosamente risucchiati miti, battaglie, leggende, racconti, potere, violenze, vite umane, Oriente, Occidente, il male, il bene.
Cerrate sembra dare voce al lento scorrere del tempo, sembra dare un senso alle stagioni, massimamente all’euforia dell’estate o alle incipienti vanità della primavera. Qui tutto è in equilibrio: il tempo e lo spazio, le opere dell’uomo e quelle della natura, la flora, la fauna. Qui si assapora la storia. Qui si degustano i frutti dell’arte, nel turchese cielo salentino e nel silenzio metafisico, rotto solo dal frinire delle cicale.

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1 Sulla vita di Boemondo cfr. UTET, 1967, p. 222. 2 Pietro Serio, Appunti per una storia di Campi Salentina, 1963, pp 53-54. 3 Gli storici evidenziano che quello di “basiliano” è un vocabolo solo convenzionale, non essendo di fatto mai esistito un ordine monacale con questo nome. 4 Lara Leovino, Bell’Italia n. 360, Ed. Aprile 2016. 5 Teodoro Pellegrino, Santa Maria a Cerrate, Capone Editore (2004), p. 21. 6 Teodoro Pellegrino, Santa Maria a Cerrate, Capone Editore (2004), p. 21. Notevole importanza per gli scambi commerciali della zona ebbe la fiera che, per cinque giorni (dal 20 al 25 Aprile di ogni anno), animava gli atrii dell’Abbazia. Preciso che l’istituzione ufficiale della fiera avvenne per volontà di Giovanni Antonio Del Balzo Orsini, con decreto del 20 Dicembre 1452. 7Teodoro Pellegrino, Santa Maria a Cerrate, Capone Editore (2004), p. 26-27: è appurato che lo scrittorio di Cerrate avesse rapporti con quello celeberrimo di Casole, nei pressi di Otranto.

LE RINASCITE DELLA FENICE

 

La storia obietta che la paternità del sito sia da ascrivere ad un altro membro della casata, ovvero a Boemondo d’Altavilla1, padrone di feudi tra Oria e Otranto2. L’edificazione del complesso abbaziale fu dunque decretata nel XII secolo con l’intento di ospitare una comunità di monaci basiliani3, provenienti dall’Oriente per sfuggire alle persecuzioni iconoclaste4. Questa seconda teoria, giudicata più attendibile anche se meno accattivante della prima, ipotizza che il nome di Cerrate discenda piuttosto dalla nutrita popolazione di cerri (alberi simili alle querce) presenti nella zona.
Boemondo fu figlio di Roberto il Guiscardo, duca di Puglia e di Calabria. Era quindi un normanno, entrato più volte, invero quasi mai pacificamente, in contatto con la superpotenza greca di Bisanzio. Di lui traccia un profilo Anna Comnena, figlia dell’imperatore bizantino,

nella sua Alessiade: «Ora [Boemondo] era uno, per dirla in breve, di cui non s’era visto prima uguale nella terra dei Romani, fosse barbaro o Greco (perché egli, agli occhi dello spettatore, era una meraviglia, e la sua reputazione era terrorizzante). (…) Era così fatto di intelligenza e corporeità che coraggio e passione innalzavano le loro creste nel suo intimo ed entrambi lo rendevano incline alla guerra. Il suo ingegno era multiforme, scaltro e capace di trovare una via di fuga in ogni emergenza».

Anna ci consegna un ritratto assai lusinghiero di Boemondo: uomo bellicoso, di bell’aspetto e dalla fervida intelligenza, egli era un condottiero valoroso e tenace, sapeva ben destreggiarsi nelle arti militari. Si distinse in particolare nell’assedio di Antiochia, che strappò ai Turchi Selgiuchidi nel 1098 e dove fondò un regno destinato a durare, di sovrano in sovrano, ben 190 anni. Egli stesso assunse il titolo di Principe della città siriana e diede vita al ramo antiocheno degli Altavilla. La gloria di questo leggendario clan normanno avvampò con inusitata rapidità, mentre il mito di quella battaglia assunse presto le sembianze della propaganda autocelebrativa. In tutta Europa, deflagrò la leggenda che gli eserciti cristiani, nella loro crociata contro gli infedeli, fossero stati affiancati e sostenuti persino da tre santi militari: San Giorgio, San Demetrio e San Maurizio.
La fama di Boemondo, come abile stratega e principe sagace, brillò, si allargò presto, da Oriente a Occidente, come incendio nella foresta.
Fu probabilmente il suo acume a indurlo a fiutare il prestigio e le potenzialità di arricchimento che sarebbero potute piovere sulle sue terre italiane dalla concessione di un rifugio sicuro ai transfughi.
Costoro abitarono stabilmente a Cerrate, in prossimità della Via Traiana Calabra che collegava Brindisi con Lecce ed Otranto, dalla metà del XII secolo, epoca in cui le fonti testimoniano della vivace attività di una biblioteca e di uno scriptorium. I loro alloggi erano disposti all’interno della casa monacale, che tuttora si erge nella sua massiccia austerità.
La convivenza dei Basiliani era disciplinata da una precisa gerarchia, in cima alla quale era l’Igumeno «che osservava e faceva osservare rigorosamente le regole della comunità e puniva con penitenze, a volte gravi e severe, le infrazioni ad esse»5. Il superiore era assistito nelle sue mansioni da altre figure sacerdotali, quali gli Ieromonaci o ancora l’Ebdomadario, colui cui era demandata, con turni a rotazione settimanale, la celebrazione della liturgia sacra.
Generazioni di calògeri diedero impulso e slancio all’economia6.
Oltre che alla contemplazione e alla preghiera, i monaci si dedicavano anche alla trascrizione di opere della letteratura cristiana, ma soprattutto allo studio dei classici greci7. Ai Basiliani quindi si deve la conservazione e la diffusione, in gran parte della penisola salentina, della più nobile cultura greca. Essi stessi divennero cultura greca, al punto che, quando decisero di darsi ad un nuovo esilio perché prostrati dalle continue scorrerie saracene, la loro Schola greca perse di linfa vitale, appassì e si estinse.

L’Abbazia parve riaccendersi di rinnovato splendore e prosperò lungamente, fino al 1711, quando cadde in declino a causa di una violentissima incursione da parte dei pirati turchi. Cerrate, con le campagne circostanti, venne, di nuovo, abbandonata.
In seguito essa divenne una masseria: i salentini ricordano tuttora che la chiesa fu degradata a pollaio e il suo sagrato ad aia. Alcuni capitelli furono strappati alle loro colonne, il pavimento sfondato, alcuni affreschi irreparabilmente danneggiati. I giorni dell’abbandono divennero mesi, anni, secoli.

Quegli stessi artisti cui dobbiamo un’altra meraviglia, oggi conservata nel piccolo museo attiguo alla chiesa: la Dormitio Virginis. Maria, agonizzante, è vegliata da una schiera di Angeli e di Santi, mentre Cristo si mostra all’interno di una mandorla ed attira a sé l’anima della genitrice in un turbinoso vortice di colori e creature celesti. La Madre ha generato il Figlio nella vita terrena, il Figlio accoglie a sé la Madre nella vita eterna.

Qui ci si lascia ammaliare dalle suggestioni di un Medioevo che ritorna come magma dolce dalle profondità dei secoli; ci si attarda su ogni dettaglio, su ogni singolo animale (reale o immaginario) sapientemente evocato sui capitelli di ciascuna delle colonnine del portico, sul fantasma di scomparse comunità di monaci, sul tramestio dei loro passi sul selciato o sul suono ormai perduto dei loro canti. Qui riecheggia ancora il nome della rosa, che, nel susseguirsi d’iscrizioni in greco, arabo e latino, tra le navate abbaziali, riemerge dal passato.

 

MUSICA DI GUARIGIONE di Ruggiero Inchingolo – Numero 6 – Ottobre 2016

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Nel 1984 frequentavo l’Università di Bologna (DAMS) ed ero allievo di Roberto Leydi (considerato, con Diego Carpitella, il fondatore dell’Etnomusicologia moderna in Italia).

Questi, accortosi della mia passione per il violino della tradizione popolare, in quanto già da tempo studiavo questo strumento, mi esorta a conoscere le musiche eseguite dal violinista Luigi Stifani (1914-2000) per scrivere una tesi di laurea su di lui. Perché Stifani? Perché è stato l’ultimo e più importante musicista terapeuta che più d’ogni altro ci ha permesso di capire i rituali legati al tarantismo salentino (uno dei fenomeni più rilevanti della demo-antropologia italiana).

Di professione barbiere, localmente conosciuto come Maestro Gigi, Stifani ha svolto un’intensa attività musicale non soltanto nell’ambito dei rituali di guarigione dei tarantati (coloro che, secondo la tradizione, si consideravano morsi dal ragno e si liberavano dal suo veleno attraverso il ballo),

Il violinista-barbiere permise all’etnologo di conoscere quel mondo difficilmente raggiungibile da un intellettuale estraneo, diventando il personaggio chiave dell’opera citata “La terra del rimorso”. Le teorie del maestro Stifani sul tarantismo danno un contributo indispensabile all’indagine di De Martino, svelando pertanto il volto di una cultura popolare millenaria. Finalmente, nel 1989, discuto con lo stesso Roberto Leydi, la mia tesi di laurea dal titolo Biografia di un suonatore popolare: Luigi Stifani di Nardò. In questo lavoro ho analizzato i suoi manoscritti e il modo in cui vengono suonati gli strumenti musicali. Inoltre, ho trascritto e analizzato le musiche eseguite durante i rituali terapeutici di tarantismo. In seguito, dalle trascrizioni, ho ricavato le strutture melodiche dei brani. Durante gli anni della ricerca e anche dopo la laurea, attraverso i successivi incontri con il maestro Stifani, ho imparato i moduli ritmico-melodici della pizzica cosiddetta tarantata, oltre al modo di suonarla. 
Dal ‘93 in poi, inizia la mia esperienza sul campo a stretto contatto con importanti esecutori depositari della tradizione. Apprendo le modalità esecutive del tamburello, dell’organetto e della chitarra, gli stessi strumenti che venivano usati per la terapia. Nel 1995 come violinista – guida del gruppo salentino Officina Zoè ho partecipato a prestigiosi Festival nazionali ed esteri: le pizziche di Stifani, dopo essere state da me trascritte, vengono rieseguite oltre i confini regionali e nazionali. Il ritmo iterato e i suoni più acuti del violino vanno dritto al cuore e riescono a sedurre, a trainare i tamburelli fino al parossismo. Nella melodia del mio violino si scorge lo stile esecutivo più rappresentativo di quest’ultimo periodo di riproposta della pizzica salentina, a cui tanti giovani violinisti si sono ispirati.

 

Il libro, dopo un decennio fortunato, è stato ristampato dalla stessa casa editrice, con un ampliamento dell’introduzione scritta da Eugenio Imbriani (docente di Antropologia culturale dell’Università di Lecce) e con una nuova postfazione curata dall’etnomusicologo e storico Salvatore Villani. Nel 2007 le registrazioni delle musiche suonate da Stifani e il suo gruppo vengono raccolte in un CD dal titolo: “Le pizziche tarantate di Luigi Stifani” (Il Giardino dei Suoni). Nel 2009 esce il film documentario “Latrodectus, che morde di nascosto” di J.Bassét e I.Gurrado (Les Films du Lierre). Il film si impernia sui ricordi di casi di tarantismo salentino raccontati da Giovanna, figlia del maestro Stifani e mostra interessanti interpretazioni rilasciate dagli esperti più qualificati di vari ambiti disciplinari che si sono interessati al fenomeno del tarantismo1. Sempre nel 2007, Sergio Torsello, direttore artistico del Festival “La notte della Taranta” mi invita come ospite al concertone finale del Festival (con il maestro concertatore Mauro Pagani) per rappresentare Luigi Stifani con una delle pizziche tarantate più rappresentative del suo repertorio, la pizzica indiavolata. Seguiranno, negli anni successivi, altri concerti realizzati nell’ambito del Festival itinerante della popolare kermesse. Dopo la morte di Luigi Stifani ho continuato a frequentare Giovanna, figlia del maestro e testimone del ricco patrimonio di conoscenze tramandate dal padre. Con lei e con l’aiuto volontario di altri collaboratori, organizziamo un grande evento in suo ricordo, ormai giunto alla XVI edizione, che si svolge in due giorni a S. Maria al Bagno (LE). Si tratta di un Memoriale seguito da un Festival Concorso dedicato al maestro Stifani.

 

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1 Lo storico della scienza Gino Dimitri; il decano dell’analisi istituzionale nonché psicosociologo George Lapassade dell’Università di Parigi VIII; lo scrivente etnomusicologo, autore delle musiche del film (che dal maestro Stifani ha ereditato il modo di suonare) in cui illustro, in breve, la funzione dei due strumenti fondamentali nella cura domiciliare del tarantismo, il violino e il tamburello; l’aracnologo Roberto Pepe.

 

MUSICA DI GUARIGIONE

 

ma anche come musicista per il ballo e l’intrattenimento. Oltre che violinista, è stato anche un abile suonatore di vari altri strumenti. Per il mio lavoro di ricerca, trattandosi di una tesi sperimentale, era indispensabile incontrarlo. Arrivai nella sua bottega a Nardò (Le) nel 1985 e, sin dai primi incontri, rimasi affascinato dai suoi ricordi che illustravano gli episodi più importanti di tarantismo da lui curati dal 1928 al 1972. 
La curiosità verso questo mondo ai confini tra la realtà e il mistero aumentava sempre di più al punto che non vedevo l’ora di fissare l’incontro successivo per conoscere nuovi intriganti racconti.

Uno dei dettagli che più mi colpì, riguardava il concetto del termine pizzico del violino che, citando le sue parole, «iccita la parte dell’ammalato. Sicché se non gli va il suono, l’ammalato dice ‘non mi piace’».

Col passar degli anni avrei fatto le mie valutazioni sull’espressione “pizzico” (cfr. Inchingolo Ruggiero, Il pizzico prodigioso del violino di Stifani, in Melissi, n. 10-11, Nardò, Besa, 2005) che, solo in misura minima, si riferirebbe all’effetto provocato dallo sfregamento dell’arco sulle corde. Il più delle volte, invece, il termine indicava il modo di suonare rapido e molto ritmato.
Il maestro Gigi con la sua orchestrina (tra cui ricordiamo l’abile suonatrice di tamburello, Salvatora Marzo), oltre a curare molte tarantate con il pizzico del suo violino, annotava sulla sua rubrica tutti i casi di tarantismo che gli si presentavano.

Infine, grazie alla sua abilità di terapeuta, riusciva a somministrare al paziente le tarantelle neretine, chiamate anche pizziche tarantate (se considerate dal punto di vista coreutico), o, a volte, anche altre musiche, più idonee al caso. Questo tipo di tarantelle suonate durante i rituali terapeutici si differenziavano da quelle suonate nella pizzica pizzica (ballo di coppia che fa parte della famiglia delle danze meridionali denominate tarantelle) proprio per gli strumenti musicali adoperati, tra cui emergevano il violino e il tamburello e per le diverse modalità esecutive dettate dal contesto terapeutico in atto. Il violino (per via del timbro più penetrante e incisivo) assumeva il ruolo di strumento melodico principale che, insieme al ritmo del tamburello, determinava il buon esito della terapia. Gli altri due strumenti usati nelle cure domiciliari di Stifani (e che completavano l’organico strumentale) erano l’organetto e la chitarra.

 

Il tamburello smuove il corpo e trascina al movimento, il violino comunica alla mente poiché, secondo la tradizione, è proprio nella melodia che la tarantata si identifica e si concilia con la taranta che la possiede.

 

 

Il suonatore a partire da un limitato numero di melodie “generatrici”, riesce a inventare (improvvisare) continue varianti. Questo procedimento è comune nelle musiche di tradizione orale dove l’improvvisazione diventa un tratto distintivo. La bravura di Stifani consisteva proprio nella capacità di variare le melodie di volta in volta, a seconda dei casi che gli si presentavano, proprio per non creare quella sensazione di noia, determinata invece, dalla pura e identica ripetizione di una melodia. E’ doveroso sottolineare che

 

 

Le stesse musiche associate ad altri contesti culturali perderebbero la loro efficacia regolatrice e di controllo. E’ ormai noto che la bottega di Luigi Stifani, alla fine degli anni ’50, è stata meta di tanti ricercatori di varie discipline, tra questi l’etnologo Ernesto De Martino che, nel 1959, durante la sua ricerca etnografica – condotta con una équipe multidisciplinare per studiare il tarantismo salentino -, si fece accompagnare dal maestro Stifani. Le sue ricerche confluiranno in seguito nel suo celebre saggio “La terra del rimorso”, in cui arrivò, in sintesi, a scontrarsi con l’interpretazione medica (casi di aracnidismo o disordini della sfera psichica) a favore, invece, di una interpretazione storico-culturale e religiosa del fenomeno.

 

 

Questo intenso sodalizio con il gruppo si concluderà nel 2000, con la partecipazione come attore e musicista al film Sangue vivo di Edoardo Winspeare. Nel 2003, il frutto di una esperienza di ricerca quasi ventennale, confluiranno nella mia prima pubblicazione dal titolo: “Luigi Stifani e la pizzica tarantata. Studio sugli strumenti musicali, sulla musica “numerica” e sulle musiche eseguite dal gruppo di Luigi Stifani durante le cure rituali del morso della mitica taranta” (Besa Editrice). Sergio Torsello (1965-2015), giornalista e ricercatore, autore di numerosi articoli, saggi e volumi sul tarantismo, così si espresse in una sua recensione sul quotidiano di Lecce, del 18 ottobre 2003:

 

 

 

Prima di dare inizio alla terapia,secondo Stifani, bisognava effettuare una diagnosi sul sofferente, per verificare che effettivamente si trattasse di tarantismo. Subito dopo, Stifani osservava il paziente e mediante una esplorazione musicale, cercava di aprire un canale di comunicazione, di provocare attivazioni senso-motorie, basandosi anche sull’atteggiamento e l’indole del paziente.

La musica eseguita dai quattro strumenti aveva la funzione di regolare e controllare il movimento del corpo e le emozioni degli individui all’interno del rito, oltre che di ordinare ritualmente le crisi dei tarantati in cicli coreutici regolari

I due strumenti producono l’iterazione ossessiva. Una è quella determinata dall’ostinato ritmico prodotto dai sonagli e scandito dalla botta sulla pelle del tamburello. L’altra ,invece, è quella che viene prodotta dal violino.

gli effetti terapeutici delle musiche eseguite durante le cure domiciliari sono comprensibili solo all’interno di questa formazione o credenza simbolico-religiosa, socialmente accettata e condivisa, che ha lo scopo di rendere più facile il processo di reintegrazione dell’individuo nella comunità.

Una forma di protezione sociale per uomini e donne che hanno avuto un problema esistenziale, individuale o collettivo, e che proprio attraverso un rituale caratterizzato dal simbolismo della taranta che morde e della musica, della danza, dei colori, si riesce a liberare da questo “morso avvelenato“.

La folla, trascinata e rapita da questi suoni, si esalta, applaude e allo stesso tempo balla, irretita dal magico ritmo ossessivo della pizzica tarantata.

<< …quello di Inchingolo è un saggio che scava nel duplice solco di una singolare vicenda biografica da un lato e dall’altro nella concreta prassi esecutiva e nel sistema di notazione musicale (la musica”numerica”) elaborati da maestro […]. Inchingolo evidenzia la presenza di rilevanti microvariazioni all’interno degli stessi brani […].Un libro importante per comprendere meglio la singolare personalità di Stifani.>>

 

SANTA MARIA DI PULSANO – DOVE IL MONACHESIMO VIVE 1 di Roberta Lucchini – Numero 6 – Ottobre 2016

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Caligine. Oggi il mare celestino sembra evaporare gradualmente in un cielo lattiginoso e denso, che impedisce allo sguardo di spingersi oltre, di superare il dolce golfo di Manfredonia, sul quale si adagia, rugoso e antico pachiderma dormiente, l’aspro massiccio del Gargano. 

«Nei giorni limpidi, riusciamo a distinguere nitidamente il faro di Molfetta». Lieve moto di orgoglio trapela dalle parole di padre Pietro, priore dell’Abbazia di Santa Maria di Pulsano, mentre descrive questo luogo, che da quindici secoli accoglie uomini di fede e di preghiera, monaci eremiti che hanno cercato, e trovato, fra questi anfratti calcarei, dove la vegetazione bassa e sparuta lotta contro la forza dei venti, un rifugio dalle malversazioni della vita terrena, per tornare in comunione con Dio e con la natura. Passato e presente qui convivono. Quasi in una figurata trasposizione architettonica della centralità del mistero eucaristico, sull’antico nucleo rappresentato dalla chiesa si sono aggiunti, sovrapponendosi, gli edifici abbaziali, alcuni dei quali molto recenti e dotati di tutti i comfort: non te lo aspetteresti, arrivando, nonostante tu abbia già incamerato una discreta quantità di informazioni dal sito Internet dell’Abbazia, aggiornatissimo e completo. Come dice Francesco, le nuove tecnologie devono essere orientate a favorire l’incontro.

Bisogna dare ai monaci degli abiti adatti alle condizioni e al clima della località in cui abitano. (Regola, Cap. LV)

Se non fosse per gli abiti – t-shirt, pantaloni blu e scarponi da lavoro -, che lo classificano come uomo dei nostri giorni, il priore rimanda, nell’aspetto, ad altre epoche: la barba bianca lunghissima, i capelli altrettanto canuti e fluenti, di corporatura robusta e imponente, Pietro interrompe il suo quotidiano daffare e, sedendo nel refettorio, racconta, pacato e bendisposto, la propria storia personale, dagli studi e conseguente laurea in Geologia, alla scelta di una vita diversa, «fuori dal mondo, ma con il mondo». Da Pozzuoli, dove svolgeva vita monastica, è arrivato qui nel 1997, insieme a padre Fedele, suo confratello, «per avviare la rinascita di una piccola comunità di monaci che tornasse ad arricchire la vita di fede del territorio, risvegliando l’originaria vocazione del luogo». 
Perché “risvegliare”? Cosa aveva sopito il fluido scorrere della storia, in questa oasi di pace mimetizzata fra le rocce abbondanti, in un angolo poco accessibile della Puglia variegata? Il cuore dell’uomo, indurito come la fredda pietra, aveva lasciato che la protervia dei rovi fagocitasse poco a poco mura, architravi, fregi, capitelli, trabeazioni; che la cupidigia mai satolla facesse trafugare beni di immenso valore artistico e religioso, tra cui la preziosissima icona della Madre di Dio Odigìtria di Pulsano, risalente ai secoli XI-XII, rubata nel 1966 e mai ritrovata; che la veemenza degli animali, lasciati pascolare senza regole, trasformasse spechi e altari di un insediamento sacro più che millenario, in ricoveri e stalle di fortuna; che il territorio stesso, sul quale insiste l’intero complesso, divenisse teatro di faide fra malavitosi. Ricorda padre Pietro che solo la devozione della comunità locale per la Vergine di Pulsano, particolarmente fervida in occasione delle festività dell’8 settembre – Festa della Madonna delle Grazie – e del mese mariano, allorquando processioni di fedeli si inerpicavano fra gli angusti e difficili passaggi del sentiero che da Manfredonia fortunosamente raggiunge l’abbazia, manteneva acceso il ricordo di un passato ricco di vicende e di santità che avevano permeato di sé i secoli, ma rischiavano di finire inesorabilmente nell’oblìo. 
Di quanto andare indietro nel tempo per recuperare le origini? Sebbene già in epoca precristiana esistessero nella zona insediamenti e luoghi di culto, la fondazione di un monastero in cui eremiti oranti potessero trovare albergo risale al VI secolo, per volontà di San Gregorio Magno Papa: egli, sostenitore dei monaci e grande ammiratore di San Benedetto da Norcia, ordinò qui l’edificazione di un’abbazia dedicata, al tempo, a Santa Maria in Monte Gargano, contemporaneamente ad un’altra in terra di Bari (Abbazia di Barsento, presso Noci). Al Papa – Santo è intitolato l’eremo più prossimo all’Abbazia, uno dei 24 disseminati lungo le pendici del promontorio e afferenti alla stessa, in parte risistemati e visitabili, seppur con atto di coraggio, essendo ubicati in posizioni per lo più impervie. In realtà, sembra storicamente accertata la presenza a Pulsano, già in epoche precedenti, di eremiti che si ispiravano al monachesimo nato in Oriente, in particolare alle esperienze di Sant’Antonio Abate e di San Pacomio, nonché alle successive Regole di San Basilio, pregando anche in lingua greca. Il monastero, dopo l’affidamento ai monaci di Sant’Equizio prima e ai Cluniacensi poi, subì un periodo di decadenza a seguito delle ripetute incursioni saracene, finché il cenobiarca San Giovanni da Matera non lo ricostruì e fondò la Congregazione dei Monaci pulsanesi, detti gli Scalzi. Ed ecco la data di riferimento: il 30 gennaio 1177, papa Alessandro III consacrò il nuovo Altare dell’Abbazia dedicata alla Sempre Vergine Maria, Regina del Cenobio pulsanese, sotto il quale vennero custodite le spoglie di San Giovanni abate, morto nel 1139. 
Ottocento anni dopo, il 20 dicembre 1997, l’Arcivescovo di Manfredonia, Mons. Vincenzo D’Addario, riaprì al culto pubblico l’Abbazia, decretando altresì la rinascita della comunità monastica di Pulsano (smembrata come conseguenza del decreto del 13 febbraio 1807, con cui Giuseppe Bonaparte ordinò lo scioglimento di alcuni ordini monastici, per incamerarne i beni di pertinenza), approvandone la Regola e ponendola sotto la giurisdizione della diocesi di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo. Padre Pietro è uno dei tre monaci, insieme al ricordato padre Fedele, ed a padre Massimo, siriano melchita, che fece parte della ricostituita comunità. 
Tre monaci. Chi li ha spinti ad arrivare qui? Come avranno potuto affrontare questa esperienza, come potuto superare le immancabili difficoltà? Pietro riferisce di essere stato contattato su indicazione di Tommaso Federici, professore ordinario presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma, il quale, frequentando spesso Monte Sant’Angelo per ragioni di studio, era a sua volta stato avvicinato da alcuni fautori del “Movimento pro-Pulsano”: nato agli inizi degli anni Novanta su impulso, fra gli altri, di Alberto Cavallini – profondo conoscitore della storia locale e, tuttora, molto attivo nel monastero, di cui è economo – il movimento si proponeva di favorire la rinascita cristiana del complesso abbaziale. Grazie, quindi, all’interessamento ed all’entusiasmo del Professor Federici, si era potuta concretizzare quella che sembrava, alla popolazione, una utopia: padre Pietro non nasconde che proprio l’affetto, il sostegno e la fattiva partecipazione della gente del luogo, insieme alla salvifica preghiera, quotidiano nutrimento dell’anima, permisero di superare l’insuperabile, la ripartenza, e, per lui in particolare, pugliese della provincia di Lecce, di concretizzare il desiderato ritorno al servizio del proprio territorio. 
Certo, i numeri impressionano: una comunità di soli tre monaci…. Sorride, Pietro: «La vocazione monastica è in recessione: oggi siamo in due! Nei periodi di massima presenza, ci siamo trovati con quattro monaci, un professo semplice e due novizi.» Del nucleo iniziale, è l’unico “superstite”, essendo stati, gli altri due, chiamati a nuovi uffici. Oggi è affiancato da padre Efrem, laureato in Giurisprudenza all’Università di Roma “La Sapienza”, un passato da dipendente del Ministero per le Politiche Agricole, cui segue un’esperienza molto toccante in Siria, fino all’approdo sul Gargano. Quindi è ancora possibile, oggi, votarsi al monachesimo! Inutile negarlo: richiede coraggio. Si è ancora disposti a correre il rischio di fare una scelta azzardata, anacronistica per certi versi? «Il tempo è galantuomo…» dice Pietro, sorridendo «Proprio per ovviare al problema, la formazione del monaco richiede molti anni.»

Quando si presenta un aspirante alla vita monastica, non bisogna accettarlo con troppa facilità. (Regola, Cap. LVIII)

Fra postulantato, noviziato, studentato e successiva licenza o dottorato, trascorrono dieci anni circa. «La lunga durata, tuttavia, non spaventa, si rivela anzi una garanzia tanto per chi chiede di entrare nella comunità quanto per la comunità stessa, poiché certe scelte vanno ben ponderate. In genere, alla fine dei primi tre anni la decisione, in un verso o nell’altro, risulta definitiva.» 
Il discorso è generale, ma qui, a Pulsano, quali sono le specificità? «L’idea di fondo è quella di recuperare il messaggio originario del monachesimo, quando i monaci rimettevano i propri voti nelle mani del Vescovo ed erano al servizio della Diocesi, senza necessità di una presenza presbiteriale, che si manifesta invece nelle comunità numerose: anche S. Pacomio radunava i suoi monaci e li accompagnava in parrocchia….! Proprio in virtù di questo ritorno alle origini, viene praticata la biritualità, ossia le celebrazioni e le preghiere si svolgono sia secondo il rito latino che secondo quello bizantino, entrambi espressione dell’unicità della Chiesa cattolica.» Spiega padre Pietro che, in realtà, questa impostazione non è il risultato di una scelta preordinata alla rinascita del monastero, ma quasi frutto della casualità, visto che uno dei monaci fondatori, padre Massimo, attualmente parroco nelle isole Tremiti, seguiva il rito bizantino. 
Come è stato possibile conciliare le due esperienze? «Per mantenere la compattezza dell’Anno Liturgico, visto che non sempre vi è coincidenza fra le ricorrenze nei due calendari – giuliano e gregoriano -, si è deciso, salomonicamente, di alternarli secondo i giorni della settimana: il martedì, il giovedì e il sabato si prega secondo il rito latino, il mercoledì, il venerdì e la domenica pomeriggio secondo il typikòn del rito bizantino; e quest’ultimo è adottato anche per la Divina Liturgia (la Santa Messa), qualora in Abbazia si trovi ospite o venga invitato un presbitero che officia seguendo lo Ieratikòn. Spesso, ne arrivano da Piana degli Albanesi (PA) e da Lungro (CS), le uniche due Eparchie presenti in Italia.» E’ naturale, a questo punto, voler conoscere differenze e affinità fra le due celebrazioni…

E le Conferenze, le Istituzioni e le Vite dei Padri, come anche la Regola del nostro santo padre Basilio, che altro sono per i monaci fervorosi e obbedienti se non mezzi per praticare la virtù? (Regola, Cap. LXX)

«Le radici sono comuni. Il fine è il medesimo. Nel rito latino i fedeli partecipano alle funzioni spesso inconsapevolmente, mentre nel rito greco-bizantino la simbologia è ancora molto sentita; inoltre, nella Divina Liturgia è rilevante e immancabile la figura del diacono, il quale ha invece un ruolo marginale nella Santa Messa.» 
Quando il priore fa strada a visitare la Chiesa abbaziale, ricavata in una grotta naturale, e ancor più assistendo alla preghiera secondo il rito bizantino, altre differenze risultano evidenti. Innanzitutto, l’assenza di statue di santi, sostituite da raffinatissime icone (Pulsano è sede di una Scuola di Formazione Permanente di Iconografia, articolata per livelli di difficoltà); poi l’iconostasi, cioè una sorta di divisorio ornato da tre icone, che protegge dalla navata la parte più intima e sacra, quella dove si rinnova il sacrificio eucaristico, cioè l’altare. Poi i modi della preghiera, durante i quali ricorrono i profondi inchini accompagnati dal segno di Croce (metànie) ad ogni menzione delle persone della S.S. Trinità, le invocazioni ripetute, le melodie intonate e cantate senza ausilio di strumenti musicali, l’utilizzo abbondante dell’incenso, che simboleggia la preghiera che sale verso Dio. Vien da chiedersi se i fedeli siano in grado di seguire questi ritmi, queste preghiere, che spesso utilizzano la lingua greca. Ebbene sì: con grande spirito di apertura e disponibilità, la popolazione locale ha abbracciato di buon grado l’osservanza della biritualità, partecipando attivamente a tutte le iniziative e tendendo, in questo modo, una mano a quanti, soprattutto stranieri, e rumeni in particolare, hanno potuto ritrovare qui le forme della religione praticata in Patria. Anche questo è ecumenismo. La preghiera unisce, è comunione.

“Sette volte al giorno ti ho lodato” dice il profeta. (Regola, 
Cap. XVI)

La giornata è scandita dal rintocco della campana, posta nel cortile alto dell’Abbazia, che chiama a raccolta. Il Mattutino, alle 5.30; le Lodi, alle 7:30; la Terza, alle 8:30; la Sesta, alle 12:30; la Nona, alle 15:30; il Vespro, alle 18:30; la Compieta, alle 21. Negli intervalli, la lectio personalis, la meditazione, il silenzio, lo studio, il lavoro. «Vivere di sola preghiera è come volare con una sola ala», dice Pietro. Ora, lege et labora. In effetti, il priore, insieme a padre Efrem, che fra l’altro gestisce la biblioteca, in gran parte costituita dal patrimonio librario del Professor Federici, cui è intitolata, si occupa di studiare le Sacre Scritture, di organizzare corsi di formazione per sacerdoti, ritiri spirituali, conferenze e tutte la attività di approfondimento puntualmente riportate sul sito Internet; ma, al contempo, si premura di seguire la piccola fattoria di conigli, galline, piccioni, un maiale, una mucca (da poco ricevuta in dono – ne erano state rubate ben due!), che, insieme ai prodotti dell’orto ed alla generosità dei benefattori, assicurano il sostentamento quotidiano per sé, ma soprattutto per i bisognosi; si dedica a coordinare il lavoro dei tanti volontari che, ogni giorno, convergono qui, e non solo dai paesi limitrofi, per prestare collaborazione in tutte le attività necessarie alla conservazione e miglioramento del complesso, dallo svolgere manutenzioni piccole e grandi agli edifici, al dissodare il terreno, all’impiantare colture, al preparare i pasti… come adesso, quando, durante questa chiacchierata, sono intenti ad approntare, nell’ampia, attrezzatissima e moderna cucina, un pranzo per non meno di venti persone. Sì, perché molto del servizio reso da questa comunità, della sua missione, è dedicato all’accoglienza, che non si limita alla semplice offerta di ristoro con acqua e caffè, ma importa la divisione della mensa, degli spazi comuni (rigorosamente senza televisione), di una stanza in cui trattenersi per periodi brevi o più lunghi; il tutto in spirito di assoluta gratuità.

Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: “Sono stato ospite e mi avete accolto”. (Regola, Cap LIII)

La tortuosa “via di Pulsano”, “strada senza uscita” (come indica il segnale stradale posto al suo inizio) che, in otto chilometri, congiunge il monastero al centro abitato di Monte Sant’Angelo, conduce qui viaggiatori da tutta Italia e dal mondo; sono i ben accetti, soprattutto se non è la mera curiosità a condurli qui, se non li spinge quell’indefinito bisogno di massificante turismo irrispettoso delle peculiarità locali, che, nel caso di specie, sono temperanza e silenzio. Meglio giungere con spirito di pellegrini e venire alla ricerca di solitudine, di raccoglimento, a ritrovare se stessi e Dio, a chiedere ascolto; oppure condivisione, del silenzio, della preghiera e, perché no, del lavoro. «Talvolta basta poco per sostenere chi invoca aiuto: ognuno di noi custodisce dentro di sé le risposte alle proprie domande, ai propri dubbi; deve trovare solo il coraggio per tirarle fuori, per renderle coscienti; e il riferirle ad un altro rafforza, come quando si ripeteva la lezione al compagno prima dell’interrogazione …» E’ un uomo concreto, pragmatico, non deve essere un caso che si chiami Pietro…. Ma non ha mai avuto paure, tentennamenti, indugi, ripensamenti? «Le difficoltà ci sono, e molte ce ne sono state. La benevolenza di Dio, tuttavia, si manifesta continuamente attraverso i mille volti e gli altrettanti destini che ogni giorno incrociano la nostra via. Anche nei momenti di grande sconforto, non è mai mancato il segnale, la presenza tangibile della Provvidenza, attraverso una donazione, un aiuto insperato, una testimonianza: la costante preghiera al Signore è di non lasciare l’uomo troppo a lungo nella prova, affinché non perda la speranza, né troppo poco, perché non monti in superbia! Ognuno di noi deve operare su se stesso, sulla propria conversione, cercando di essere autentico.»

Non saremo esauditi per le nostre parole, ma per la purezza del cuore. (Regola, Cap XX)

Certo, fa riflettere… Secoli di storia che continuano a “pulsare”. Una vita inconcepibile, per chi è abituato alla frenesia dei ritmi cittadini, al continuo affannarsi nel rincorrere orologi tiranni fra le esalazioni del traffico urbano, alla costante verifica del telefono cellulare, qui incredibilmente senza campo; dove non c’è il tempo per sostare e riflettere, dove il solo obiettivo consentito è il “performare” e non l’“essere”, il “donare”, l’“accogliere”, l’“ascoltare”, concetti dimenticati nella nostra società. Eppure realtà come questa esistono, esistono vite “comuni” spese non per la propria gloria personale e che, per questo, diventano “straordinarie”. Non è necessario essere credenti e praticanti per ricevere qui un messaggio, un invito a rivedere le priorità, a soppesare i propri valori, a riscoprire la contemplazione, a voler offrire…. Per qualcuno dura un attimo, per altri, forse, di più.

“Vieni e vedi”. (Giovanni, 1, 43-51)

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1 Si ringraziano padre Pietro Distante, padre Efrem Massimo Valentini, Alberto Cavallini e i volontari della Comunità che, con la loro testimonianza, hanno permesso di redigere questo scritto.

 

LA TRADIZIONE DEL PRESEPE A NAPOLI di Sergio Attanasio – Numero 6 – Ottobre 2016

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LA TRADIZIONE DEL PRESEPE A NAPOLI

 

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basti pensare che nella commedia “Natale in Casa Cupiello”, opera del drammaturgo Eduardo un vero tormentone è legato alla frase Te piace ‘o presepe?

Le origini del presepe a Napoli risalgono al Quattrocento e si diffondono per tutto il XVI secolo.

Ne esistono testimonianze nelle chiese della città. Narra il Napoli-Signorelli che “Antonio Baboccio, nel XV secolo, nel sepolcro di marmo bianco che fece nella cappella de’ Minutoli del Duomo di Napoli, per l’arcivescovo di questa famiglia, pose un bassorilievo eccellente che nel bel mezzo rappresenta un presepe”.E ancora: “Nella chiesa di Monteoliveto, come si vede ancor oggi, vi è nella cappelladei duchi Piccolomini d’Amalfi una tavola di marmo colla nascita del Signore che stimasi opera del riputato scoltore Donatello … Un antico presepe pur si vede nella cappella antica de’ Carafa di Ruvo in S. Domenico Maggiore e parimenti una rappresentazione del tugurio ove nacque Gesù con figure di legno che voglionsi scolpite da Giovanni Merliano, si trova nella icona del maggiore altare della chiesa di S. Giuseppe dei falegnami edificata nel XVI secolo; infine che Pietro la Plata eccellente scoltore spagnuolo fece un bassorilievo colla Vergine Madre che sostiene nelle braccia il Bambino e con i tre re magi che l’adorano nella chiesa di S. Giovanni a Carbonara nella cappella de’ marchesi di Vico”.

Nel secolo XVII furono noti presepisti i Perrone:

Michele, nato nel 1633 scultore in legno menzionato anche dal de Dominici, “… fece bensì buoni pastori da presepio, alli quali era da un particolare genio inclinato”; Aniello, “scultore anche migliore” e Donato, di cui le fonti non parlano ma che fu, con Michele, l’autore del presepe del Viceré conte di Castrillo, il quale commissionò ai due fratelli il suo presepe nel 1658, il più ricco finora tramandatoci, di 112 elementi, inviato in Spagna.

Nel secolo successivo il presepe si diffuse nella dimore dei nobili napoletani e a preparare le scenografie furono impegnati noti architetti

“si sono segnalati in costruir presepi curiosi ottimamente architettati gl’ingegneri Muzio Nauclerio e Niccola Canale Tagliacozzi Emuli, i quali hanno regolati co’ loro disegni varii edificii in Napoli e la stessa regina di Napoli e poi delle Spagne visitò una o due volte il presepe del Nauclerio … Famosi erano i presepi dei Pignatelli, nel loro palazzo a Calata Trinità Maggiore, e ogni anno il duca di Diano, il duca di Monteleone, il principe di Ischitella, aprivano al popolo le porte dei loro palazzi dal centro storico a Chiaja perché ne ammirasse i presepi”.

Alla realizzazione dei pastori erano impegnati i maggiori scultori dell’epoca: “Domenico Antonio Vaccaro, i fratelli Matteo e Felice Bottiglieri, il Celebrano, il Sammartino autore della statua del famoso Cristo velato della Cappella Sansevero, ed i suoi allievi Giuseppe Gori ed il Viva”.

La loro abilità di modellatori si estrinsecava nella creazione dei vari personaggi del presepe: “spiegarono la loro espertezza nel formar vaghe teste di pastori di carattere e di età differenti, angeli bellissimi, figure divotissime di Maria e di San Giuseppe”. Così come altri scultori non meno noti: “scolpirono egregiamente gli animali, che accrescono la verità dell’imitazione campestre di valli di colline e di tugurii, Francesco di Nardo coi suoi discepoli, Nicola Vassallo che formava eccellentemente buoi, capre, pecore, e cavalli in piccolo, e Saverio Vassallo suo fratello che si distinse in formar cammelli, polli, cani, augelletti”.

 

Il periodo d’oro del presepe a Napoli, dunque, è il Settecento, durante il regno di Carlo III, il sovrano che volle la costruzione della reggia di Caserta,

del quale quest’anno si celebrano i trecento anni dalla nascita. Egli era tanto amato dai napoletani ed era un gran cultore dell’arte di costruire il Presepe, così come si trova nelle cronache dell’epoca: “Era cosa mirabile, e di edificazione grandissima, il vederlo a certe ore sfaccendate del giorno con le regie sue mani impastar de’ mattoncini, e cuocerli, disporre i soveri, formar la capanna, architettar le lontananze, situarvi i Pastori, etc., e tener tutto pronto per la sacratissima notte del Santo Natale, che sempre veniva Egli a celebrare in Napoli, quantunque si ritrovasse fuori, siccome accadde in un anno, che ritrovavasi alla caccia in Persano, donde volle di carriera venire in Napoli, per celebrare la notte della Natività del Signore”.

La stessa regina Maria Amalia aiutava il consorte in questo diletto: “Occupavasi ancora nel fare gli abiti, da vestirne i Pastori, che servir dovevano pel Presepe del Re suo Consorte, il quale n’era divotissimo; nel colorire altresì i marmi bianchi con quella mistura indelebile, che fu inventata dal fu Principe di S. Severo, Don Raimondo di Sangro; e nel formar quei vaghi arazzi di diversi colori, fatti di lane spolverizzate; per le quali occupazioni la Regina rendevasi l’esempio di tutti, e la consolazione dei Re, suo amato Consorte”.

La stessa passione fu trasmessa al suo erede e figlio: “Ferdinando IV, ben sappiamo, quanto sempre o nella Chiesa di Belvedere, o in quella di Caserta, con egual pompa, e divozione, ha celebrato, e celebra un sì divoto, e tenero mistero di nostra redenzione”.

 

 

Il presepe ammirato dai tanti viaggiatori del Grand Tour, è così descritto da J.W.Goethe, nel suo Viaggio in Italia del 1787

“Ecco il momento di accennare ad un altro svago che è caratteristico dei napoletani, il Presepe. Si costruisce un leggero palchetto a forma di capanna, tutto adorno di alberi e di alberelli sempre verdi; e lì ci si mette la Madonna, il Bambino Gesù e tutti i personaggi, compresi quelli che si librano in aria, sontuosamente vestiti per la festa. Ma ciò che conferisce a tutto lo spettacolo una nota di grazia incomparabile è lo sfondo, in cui s’incornicia il Vesuvio coi suoi dintorni”.

A testimoniare la qualità dei pastori settecenteschi i presepi che derivano dalle donazioni delle maggiori collezioni napoletane, esposti nei musei della città da San Martino a Capodimonte, dal palazzo Reale di Napoli a quello di Caserta. E per vedere quanto sia ancora viva nella città la memoria e la tradizione del presepe

 

 

 

non resta, per coloro che vogliono visitare Napoli, che recarsi nella via S. Gregorio Armeno

una miriade di artigiani, rifacendosi ai pastori settecenteschi, ripropongono tutti i personaggi del presepe. In questa strada unica al mondo, può oggi capitare di vedere, accanto ai pastori della tradizione, anche Papa Francesco, Obama o la Merkel, abilmente riprodotti. Una sorta di aggiornamento costante che dimostra che il presepe è ancora vivo ed attuale.

 

 

 

 

LA PUGLIA ALL’ASSEMBLEA COSTITUENTE di Giannicola sinisi – Numero 6 – Ottobre 2016

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LA PUGLIA ALL’ASSEMBLEA COSTITUENTE

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1. In un’epoca in cui il massimo degli approfondimenti concepibile è un quarto d’ora di navigazione su Google e le modifiche alla Carta fondamentale che sancisce il sacro Patto di unità della Nazione si misurano con la capacità di far cadere o meno il Governo, è utile ricordare che non è sempre stato così.

C’è stata una stagione di grandi personalità, che sviluppavano il loro talento e le loro conoscenze nella società per metterle poi al servizio dell’intera comunità, coltivando ambizioni collettive il cui unico denominatore comune era il miglioramento delle condizioni di vita di tutti ed il rafforzamento delle istituzioni democratiche.

La Puglia è stata una terra generosissima nel fornire un contributo fondamentale allo Stato italiano sin dalla nascita della Repubblica.
Il 2 giugno 1946, per la prima volta a suffragio universale, non solo venne distribuita una scheda elettorale nel referendum per la forma dello Stato, ma anche, dopo 22 anni, una scheda per l’elezione del nuovo Parlamento, l’Assemblea Costituente.
Vennero eletti 556 deputati, con l’incarico di approvare la nuova Costituzione, di dare la fiducia al Governo, di ratificare i Trattati internazionali.
Solo 75 di questi Parlamentari entrarono a far parte della Commissione per la Costituzione, ovvero quella che aveva lo scopo di redigere il Progetto generale della prima Costituzione Repubblicana.

Fra questi autentici Padri costituenti, vi furono alcuni pugliesi che hanno illustrato la Nazione come veri Maestri di politica, di etica e di diritto, per formazione culturale, spinta ideale e visione generale.

Giuseppe Di Vittorio e Aldo Moro, ad esempio, hanno legato la loro stessa esistenza alle sorti del progresso civile e sociale dell’Italia, accompagnandola anche nei momenti più drammatici; ma

la raffinatezza intellettuale e l’altissimo contributo scientifico di Giuseppe Codacci Pisanelli alla Costituente rimangono ineguagliabili.

2. Giuseppe Codacci Pisanelli nacque a Roma il 28 marzo 1913, in una famiglia di illustri giuristi.
Lo era il padre, Alfredo Codacci Pisanelli, che fu avviato agli studi giuridici dal patrigno Giuseppe Pisanelli, che, non potendolo adottare poichè alla sua morte era ancora minorenne, volle che prendesse anche il suo cognome.
A quest’ultimo si deve il legame con Tricase, dove era nato e dove portò la famiglia Codacci, dopo il matrimonio con Bianca Naldini, vedova di Luigi Codacci, e madre di Alfredo.
Giuseppe Pisanelli (Tricase, Lecce, 1812 – Napoli 1879), avvocato ed accademico di chiara fama a Napoli, deputato nel Parlamento napoletano nel 1848, liberale e antiborbonico, fu costretto alla fuga, perseguito da una condanna a morte in contumacia. Nel 1860, tornato in patria, fu anche per 22 giorni ministro della Giustizia con Garibaldi e, dopo ancora, nei Governi Farini e Minghetti, oltre ad essere eletto deputato nel primo Parlamento dell’Italia unita dal 1860 al 1867. A lui si deve il codice civile e di procedura civile durante il suo incarico di Governo, oltre ad essere stato autore di numerose pubblicazioni.

Alfredo Codacci Pisanelli (Firenze 1861 – Roma 1929), dopo la laurea in giurisprudenza a Napoli, decise di completare la sua formazione a Berlino. Rientrato in Italia a soli 24 anni iniziò la sua carriera accademica nell’Università di Camerino, proseguendola a Pavia, Pisa e Roma nella cattedra di diritto amministrativo.

Iniziò la sua carriera politica nel 1897, quando fu eletto deputato nel collegio di Tricase, dove fu rieletto più volte. Alla discussione politica preferiva la cura del progresso materiale del Salento, occupandosi del progetto per l’acquedotto pugliese, della necessità di una prosecuzione della ferrovia nella zona del Capo di Leuca, dei lavori per il porto di Castro, dei progetti di bonifica in Terra d’Otranto, del servizio postale da Lecce a Otranto e a Gallipoli.
Fu sottosegretario al Tesoro ed all’Agricoltura nei Governi Giolitti e Sonnino, rimanendo liberale e conservatore anche dopo l’ascesa al potere di Mussolini, aderendo al Fascio parlamentare e poi nazionale, senza, però, mai perdere la sua originaria impostazione ideologica.
Pur non partecipando alla scelta Aventiniana dopo l’omicidio Matteotti, e rimanendo in Parlamento con le forze liberali, votò “con una piccola minoranza contro la proposta di legge di Farinacci per la riforma elettorale (16 gennaio 1925), contro la legge che limitava la libertà delle associazioni (19 maggio 1925), e contro la dispensa dal servizio dei funzionari dello Stato “sospetti” di antifascismo (19 giugno 1925)” consumando il suo strappo dalle posizioni mussoliniane.1

I cenni biografici dei suoi predecessori aviti segnano in qualche misura il destino intellettuale e politico di Giuseppe Codacci Pisanelli (Roma 1913- 1998), ed il suo legame con la Puglia ed il Salento:

Professore ordinario di Diritto Amministrativo; Rettore dell’Università degli Studi di Lecce; Rettore del Consorzio Universitario Salentino; Pretore di Tricase; Sindaco di Tricase dal 1962 al 1968; componente dell’Assemblea Costituente; più volte Deputato; Ministro della Difesa nell’ottavo gabinetto De Gasperi; Presidente dell’Unione Interparlamentare; Ministro per i rapporti con il Parlamento nei governi Fanfani e Leone. 
Se ne riconoscono i tratti dell’indipendenza, dell’autorevolezza, della sagace visione politica, del legame profondo con il territorio di appartenenza e di elezione, dello spessore culturale, della proiezione internazionale.

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Ma e’ dalla lettura dei suoi interventi all’Assemblea Costituente che se ne ricava con maggiore efficacia il senso di come le conoscenze giuridiche e la sensibilita’ politica abbiano offerto al nostro Paese una prospettiva di grande rilievo democratico e di perfezione tecnica che ancor oggi merita di essere non solo ricordata, ma soprattutto ristudiata.

Così come la sua serietà politica ed accademica emerge già dall’approccio a questo suo delicatissimo incarico: in preparazione alla sua elezione all’assemblea Costituente ed alla sua nomina nella Commissione per la Costituzione, la Commissione dei 75, si premurò di pubblicare il volume “Analisi delle funzioni sovrane” edito a Milano dalla Giuffrè, nel 1946.

3. Gli interventi di Giuseppe Codacci Pisanelli all’Asseblea Costituente sono numerosi e toccano molti aspetti della nostra Carta Costituzionale.
Di essi, alcuni hanno maggiore rilevanza per la loro completezza, ma soprattutto perche’ il suo pensiero giuridico e politico, di scuola anglosassone, determinò la posizione dell’intera Democrazia Cristiana, il partito per il quale era stato candidato ed eletto.
Egli, infatti,

l’anno dopo la laurea in giurisprudenza, nel 1934, aveva trascorso sei mesi di studio ad Oxford, partecipando alla vita assembleare della Oxford Union Society.
Si tratta di due temi, in particolare, la cui centralità e rilevanza nel definire l’architettura di una democrazia parlamentare sono di vitale importanza: il bicameralismo ed il sistema dei decreti legge.

Il primo risultò minoritario al voto dell’assemblea e non venne approvato, e pur tuttavia introduce argomenti di formidabile attualità.
Il secondo e’ una guida contro gli abusi del sistema che, ancora oggi, molti politici e studiosi, farebbero bene a rileggere.
Giuseppe Codacci Pisanelli era fermamente convinto della bontà del sistema bicamerale, anzi della sua necessità, ma raccomandava una seconda Assemblea legislativa basata su un principio di rappresentanza di categorie sociali ed interessi, essendo convinto della multipolarità di una società complessa (Seduta plenaria dell’Assemblea Costituente del 10 settembre 1947).
A sostegno della tesi di Codacci Pisanelli intervennero, per la Democrazia Cristiana, anche Aldo Moro e Attilio Piccioni. Lo stesso Costantino Mortati aderì a tale impostazione di una seconda Camera delle categorie sociali e delle autonomie locali, nei lavori della Costituente, modificando il suo orientamento a favore dell’attuale bicameralismo perfetto solo nel 1962, nella pubblicazione del suo notissimo manuale “Istituzioni di diritto pubblico”. 2
Quanto al decreto legge, Giuseppe Codacci Pisanelli può esserne considerato a buon diritto il Padre costituente. 
La materia era stata avversata nella seconda sottocommissione di cui faceva parte, sino ad escluderne del tutto la possibilità di emanazione da parte del Governo.

La preoccupazione degli abusi del passato era una ferita che bruciava ancora sulla pelle di quanti si accingevano a strutturare le fondamenta della democrazia repubblicana.
Pur tuttavia, Codacci Pisanelli sin dal primo momento, con una lezione di realismo e con una formidabile capacità di leggere le dinamiche dello Stato, ben oltre le barriere ideologiche ed i rancori del passato, sostenne, con le ragioni della logica, l’esigenza di dotare il Governo della potestà legislativa ordinaria in casi di necessità ed urgenza, precisandone i limiti.

Il testo che noi conosciamo nell’art. 77 della Costituzione venne approvato dall’Assemblea Costituente dopo un suo mirabile intervento del 19 settembre 1947 che suscitò una notte di ripensamenti della Commissione, determinandone l’approvazione.
La serena e lungimirante visione politica e giuridica, all’indomani delle distruzioni della guerra, in una società ancora dilaniata da divisioni e conflitti interni, è un insegnamento più grande della stessa perfezione tecnica degli emendamenti che propose.
La sua non fu una graziosa concessione di poteri di ordinanza al Governo, ma un atto di fiducia nella funzione di controllo politico del Parlamento e nella funzione di controllo giurisdizionale della Corte Costituzionale, secondo lo schema per il quale è proprio il sistema dei controlli che qualifica il grado di efficienza ed il valore di una democrazia.

Si dice che conoscere la storia aiuta ed evitare gli errori del passato. Ma quando la storia non ha commesso errori, c’è solo da augurarsi che possa ripetersi.

1 Dizionario biografico Treccani.
2 Codacci Pisanelli e la Costituente, di A. W. Pankiewicz, Napoli, ESI, 1995

 

LAURO, MUSICA NEL PAESE DIPINTO di Gaia Bay Rossi – Numero 6 – Ottobre 2016

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LAURO, MUSICA NEL PAESE DIPINTO

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che pochi conoscono e molti dovrebbero visitare, si distingue ancora una volta per una eccellenza: la Musica. Un liceo sostenuto entusiasticamente dai coniugi Anna e Leonardo Visconti di Modrone e nato per iniziativa di un sindaco lungimirante, Antonio Bossone, che credono, in controtendenza, che proprio la musica, dopo la pittura, possa educare ed appassionare le nuove generazioni e prepararli culturalmente al loro futuro.

E se Lauro nel mito ha stregato il dio delle Arti, sono proprio due di quelle arti, la pittura e la musica, a caratterizzare oggi questo paese, Lauro.

 Lauro, laurus, l’alloro, i cui boschi circondavano la cittadina in epoca romana, ma anche Laurus come Daphne (Alloro, infatti, nella lingua greca è Δάφνη), la mitica ninfa che fece perdutamente innamorare Apollo – dio del Sole, di tutte le Arti, della Musica e della Poesia. Perseguitata dal dio innamorato, la ninfa disperata chiese di essere salvata e venne trasformata in una pianta di alloro. Per questo il lauro divenne la pianta prediletta di Apollo, con cui faceva ornare sia i suoi templi sia i suoi capelli.

 Abbiamo detto Lauro, come paese di pittura e musica. 
Pittura, perché Lauro è un “Paese dipinto”: dal 1976 artisti e pittori di passaggio hanno romanticamente “vestito” molte delle strade del paese con deliziosi murales naïf, i cui temi riportano alla storia e alle attività della cittadina, facendo di essa quasi un museo all’aperto.

 Lauro – incredibilmente fuori dalle rotte turistiche e che andrebbe valorizzato e svelato a chi decide di avventurarsi nel proprio personale “viaggio in Italia” – ha una posizione geografica che non gli rende giustizia e non facilita il passaggio di ospiti stranieri: è situato, infatti, nella bassa Irpinia, in provincia di Avellino, in fondo ad una valle circondata da una catena di monti, con una sola apertura ad ovest verso Nola – anche nota per essere stata il paese in cui morì Augusto, primo imperatore romano. 
Lauro, quindi, non è in una strada di passaggio, né in una zona facilmente raggiungibile; chi passa di qui non lo fa per sbaglio o di passaggio: lo deve volere. Ed è vero che non molti turisti diretti a visitare le bellezze e le particolari suggestioni della Campania decidono di fermarsi a Lauro. Sbagliano, inconsapevolmente o richiamati altrove da nomi noti, come Napoli o le più vicine Pompei ed Ercolano, perché non sanno che, anche in questa piccola cittadina, vi sono opere, monumenti ed attrazioni che reclamano la più viva attenzione.

E così è, se pensiamo che sono proprio alcune famiglie che hanno avuto a Lauro la loro origine, ad occuparsi di mantenere viva questa cittadina, pensando a come migliorarla continuamente e preservarla, e a come espandere la sua notorietà ben al di là delle semplici località vicine.

Tutto è nato da una mostra naïf organizzata nel 1975 al castello Lancellotti, il cui successo ha stimolato pittori italiani e stranieri a venire a Lauro per contribuire alla decorazione del paese. Nel 1994 Lauro si è iscritta all’ASSIPAD, l’Associazione Italiana dei Paesi Dipinti e oggi è uno dei paesi con il più alto numero di dipinti.
Il tempo e gli agenti atmosferici rischiano di rovinare decenni di opere, nonostante siano state messe delle tettoiette a protezione, ma la cittadina risulta ancora ricca di queste importanti suggestioni di artisti, ammiratori e viaggiatori di talento. Un pittore, Marco Berlanda, ha chiamato un suo murales del 1995, situato in Via Principe Lancellotti, “Lauro, capitale del naïf“: si vede una chiesa, un palazzo, un albero, degli uomini e le torri del Castello Lancellotti, il tutto inserito in un cerchio che, a sua volta, è sistemato all’interno di altri quattro cerchi dove si vedono qua e là delle persone. Come dire: il destino di Lauro è in mano alla gente, ai suoi cittadini, alle persone che circondano e vivono quel paese.

Incontriamo donna Anna Sanfelice Visconti che, tra un trasferimento e l’altro al seguito del marito – l’Ambasciatore Leonardo Visconti di Modrone – non ha mai perso di vista le sorti di Lauro. Oggi i coniugi, ormai stabili a Roma, hanno deciso di occuparsi più attivamente della cittadina e delle sorti dei giovani lauretani. Come la trisnonna Emilia Higgins, che è sempre stata coinvolta nelle sorti di Lauro (avendo sposato Gaetano Pandola, dell’omonima famiglia eminente di Lauro), e come la zia Teresa Sanfelice, che ha addirittura fondato e finanziato una vera squadra di calcio per dare ai giovani la possibilità di avere una disciplina sportiva che formasse il carattere e insegnasse le regole, e che, nello stesso tempo, li tenesse impegnati con una forte passione che li distogliesse soprattutto dal perdersi in cattive abitudini e possibili compagnie malavitose, i coniugi Visconti, entrambi appassionati di musica, hanno pensato che forse proprio quest’arte sarebbe potuta essere la chiave di volta con cui riuscire a dare ai giovani lauretani regole, cultura e passione. Ed ecco quindi la seconda arte ad entrare prepotentemente a Lauro: la musica.
Grazie ad un incontro fortunato con il sindaco, Antonio Bossone, medico prestato alla politica, nonché uomo dalle mille iniziative e grandi aspettative, che ha sposato subito l’idea di un liceo musicale interessando Provincia, Regione e Ministero dell’Istruzione, si è dato vita alla prima classe di questa scuola, tutti convinti immediatamente della portata positiva e formativa per una gioventù che normalmente avrebbe poche opportunità.

In un Paese come l’Italia, dove si chiudono le orchestre e i teatri, Lauro va in controtendenza, riportando civiltà, cultura e spessore alle nuove generazioni. Perché fare musica e studiare musica è una ricerca continua di idee, di stimoli, di creatività, di nuovi orizzonti.

La musica è, come il francese o il latino, una “lingua straniera” che contribuisce a sviluppare un alto grado di apprendimento; forma e articola il pensiero; impone regole e disciplina, perché senza disciplina è impossibile fare musica. Ma è ancora di più: quello della musica è un linguaggio spirituale che parla all’anima dell’uomo; è un linguaggio che non ha bisogno di traduzione in qualsiasi parte del mondo, perché è un’arte che va direttamente al cuore dell’ascoltatore ed è compresa con la stessa intensità in Paesi di lingue, usi e costumi diversissimi. 
In un’epoca, dove le differenze di civiltà portano alle tragedie che quotidianamente leggiamo sui giornali, imparare un linguaggio universale che unisce e non divide è una vera speranza per il futuro. Oltretutto, la musica è passione; è trasporto alla conoscenza dell’arte e del bello; è formazione perché è sviluppo intellettuale. Chi sa fare musica, poi, avrà gli strumenti per poter fare tutto il resto con un cervello diverso, più formato, disciplinato e strutturato.

Un liceo musicale dà ai giovani gli strumenti per poi muoversi in maniera autonoma non solo nel mondo dei suoni, ma in quello sociale delle persone e del lavoro, in quel mondo che si troveranno davanti una volta terminato il liceo.

Non a caso Platone scrisse: “La musica comprende l’insieme delle arti alle quali presiedono le Muse. Essa racchiude tutto quello che è necessario all’educazione dello spirito”.
Il liceo musicale è situato, da due anni, all’interno del Palazzo Pignatelli, già sede del Museo Umberto Nobile, il celebre esploratore ed ingegnere, noto soprattutto per le due trasvolate del Polo Nord per le quali costruì i famosi dirigibili “Norge” e “Italia”, che nacque proprio a Lauro. Il Palazzo Pignatelli è uno dei luoghi più indicati dove potersi dedicare alla musica, se non altro per la bellezza e la particolarità delle decorazioni a grottesche, rinvenute casualmente nel 1980 e riportate alla luce con un importante lavoro di restauro. Questo tipo di decorazioni, che vedono volti mostruosi, fauni e arieti, motivi floreali, animali antropomorfi e figure allegoriche, erano già note nella Roma imperiale, ma vennero sviluppate nel Rinascimento da illustri pittori come Giorgio Vasari.
I programmi musicali per il prossimo futuro vedono l’organizzazione di una master class di due giorni, tenuta dalla violinista Susanna Pisana, allieva del celebre Norberto Brainin (tra l’altro fondatore del celebre quartetto Amadeus) alla scuola di musica di Fiesole, e specializzata all’Accademia Chigiana. Si chiuderà con un piccolo concerto tenuto dagli allievi, che avranno così l’opportunità di potersi esibire in pubblico. Nella stessa data verrà organizzato un open day per presentare il liceo e far conoscere nel dettaglio il programma della scuola.

Ma Lauro non è solo questo: è anche storia, architettura e monumenti, con le sue chiese, i suoi palazzi, la villa romana del I sec. d. C. con il suo bellissimo ninfeo e il castello Lancellotti che domina il paese. Per questo Lauro andrebbe valorizzato e preservato, facendo in modo di attirare i turisti ad ammirare le sue bellezze.

Per fare questo, è necessario riportarlo allo splendore, curando i murales, riaprendo i musei, ricominciando ad organizzare eventi ed iniziative, innalzando il suo spessore culturale. Bisogna fare in modo che i tanti che non conoscono Lauro desiderino scoprirla avendo, così come accaduto a noi, una inaspettata sorpresa.

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