L’ECLISSE DI UN REGNO di Cesare Imbriani – Numero 4 – Aprile 2016

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Nelle Memorie di Giuseppe Garibaldi si legge “La presenza di due legni da guerra inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti dei legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo a ordinare lo sbarco nostro. 

 

L’ECLISSE DI UN REGNO

 

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Fu però inesatta la notizia data dai nemici nostri che gli inglesi avessero favorito lo sbarco in massa direttamente e con i loro mezzi. I rispettati e imponenti colori della Gran Bretagna imposero titubanza ai mercenari del Borbone.”
Si compì, pertanto, a Marsala, un fato che consentì con alterne vicende a Garibaldi, con i suoi Mille e più, di sbarcare in Sicilia, di traversare lo Stretto, arrivando in Calabria; di entrare a Napoli per poi ricongiungersi con le truppe di Vittorio Emanuele II.

Purtroppo l’atto finale che si concretizzò in tale vicenda unitaria, che comportò il dissolvimento del più grande Stato italiano dell’epoca, sembrava annunciato da tempo.

Era opinione non diffusa, ma ben presente, nell’ambiente di Corte, che fosse necessario incamminarsi sulla via delle riforme istituzionali volute dalla Francia,

sia per i suoi vecchi rapporti con la Sicilia, sia per la strategica collocazione geografica del Regno al centro del Mediterraneo.
Ciò faceva ritenere importante un meccanismo di avvicinamento e alleanza della Gran Bretagna al Piemonte come contrappeso alla situazione determinatasi in genere con la crescita di influenza della Francia in Italia, nello specifico nei riguardi dello Stato borbonico.
Nel Regno delle due Sicilie, vi era coscienza del fatto che vi fosse una sorta di isolamento sia per ciò che riguardava i problemi della politica interna, specie per il problema di un costituzionalismo mai risolto, sia per quelli di politica estera, dove, a fronte di un preteso approccio neutrale dei Borbone, non corrispondeva da parte delle grandi potenze dell’epoca una adeguata considerazione.

come si direbbe oggi, in termini geo-politici, la preoccupazione inglese derivava dal timore di un allargamento della sfera di influenza del neo-bonapartismo francese su una realtà, quella del regno delle due Sicilie, che essa riteneva strategica

1si veda, tra gli altri, Eugenio di Rienzo: il Regno delle due Sicilie e le potenze europee, 1830-1861

Fatti e indizi, unitamente ad errori strategici, sono facilmente individuabili. Spesso, discorsi da “salotto” pretendono di individuare astratte ragioni che, però, restano avulse dalla triste logica storica che produsse il dissolvimento del Regno dei Borbone. Innanzitutto, come è stato nella letteratura sull’argomento evidenziato1, il vero problema per il Regno delle due Sicilie derivava dal deciso mutamento di strategia della Gran Bretagna sulla questione italiana;

tant’è che, dopo una defalcante trattativa con il potente alleato, era stato presentato un progetto di Costituzione di stampo moderato, che, come nella tradizione della dinastia, fu però rifiutato dal re. 
Ciò che avrebbe salvaguardato dal pericolo di un’aggressione rivoluzionaria (come poi di fatto avvenne) grazie alla copertura politica francese, divenne una ennesima occasione mancata per abbandonare l’assolutismo monarchico e collocarsi tra le nazioni a struttura istituzionale democratica.

In aggiunta a ciò, Francesco ll rifiutò di partecipare ad un evento fondamentale per l’epoca.

La crisi italiana dopo la seconda guerra di indipendenza fu discussa nella conferenza di pace di Zurigo tra Austria, Francia, Piemonte e vide concretizzare ulteriori opzioni di adesione al Piemonte (prima i Ducati padani, poi il voto delle Assemblee di Firenze e delle legazioni pontificie).
Francesco ll, indotto in ciò anche da suoi non preveggenti ed incapaci collaboratori, sostenne che, ove vi fosse stata una partecipazione a detto convivio, ciò non avrebbe favorito il ruolo di neutralità e la indipendente natura del Regno delle due Sicilie.
Insomma anche il naturale alleato, la Francia, che unico avrebbe potuto controbilanciare la deriva all’isolamento del Regno delle due Sicilie – dovuto sia all’atteggiamento ottusamente anticostituzionale borbonico (che non metteva in campo le richieste riforme istituzionali), sia alla sua chiusura al dialogo esterno a cagione di una pretesa (ma non richiesta) neutralità che isolava nei fatti un regno con confini rappresentati dal mare e dallo Stato pontificio – era in difficoltà.
Ciò nonostante vari furono i tentativi francesi per perseguire e realizzare la sua strategia di influenza: ad esempio,

Napoleone III cercò di rilanciare il programma federativo dell’Italia basato su tre Stati sotto la influenza francese;

programma ovviamente osteggiato dalla Gran Bretagna che ormai vedeva lo stato piemontese come l’utile medium dei suoi disegni.
Ma le cose correvano ed arriviamo alle battute finali.
La corruzione operata ad opera dall’ammiraglio Persano sulla Marina napoletana facilitò lo sbarco sul continente delle truppe garibaldine: la Gran Bretagna, nella logica dei suoi interessi, rifiutò di unirsi alla Francia per impedire tale evento.
Un cupio dissolvi inarrestabile, per una dinastia sorda alle tendenze del vero corso della storia, si realizzava; iniziava la triste pagina nazionale di quella che è stata definita una unità debole e precaria, di cui ancora il Mezzogiorno sopporta le conseguenze.
Ma quella del Mezzogiorno post-unitario è un’altra storia, che merita ben più approfondite considerazioni, partendo da una unità nazionale in buona parte subita.

 

SAN PIETRO AD ORATORIUM di Roberta Lucchini – Numero 4 – Aprile 2016

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Trovarsi in terra d’Abruzzo in una calda giornata di inverno beffardo. Inverno stranito, addolcito, vestito con insoliti abiti a fiori in rilievo di meli selvatici e violette odorose; abiti confezionati anzitempo dall’atelier creativo di una Natura imbizzarrita, che rifugge sempre più spesso dai canoni stagionali, cadenzati, da queste parti, in termometri sottozero, coltri nevose sulle alture e risvegli pacati.

In effetti, l’impressione è confermata. Spento il motore, lasciata l’auto nel parcheggio, la sensazione è di un mondo sospeso, dove la sola colonna sonora che accompagna l’andare curioso su brecciolino e foglie morte è il cinguettio tra le querce e i cipressi secolari insieme al garrulo scrosciare del fiume Tirino da presso.

La scritta sull’architrave dà l’ulteriore informazione di un rimaneggiamento nell’anno 1100 (anno milleno centeno renovata), avvenuto secondo gli schemi dell’architettura romanica tanto presente in Abruzzo e che, ad oggi, caratterizza impianto e decorazioni dell’edificio sacro. Ai lati degli stipiti due bassorilievi, uno di Vincenzo Diacono, l’altro con capo coronato, che alcuni hanno indicato essere proprio re Desiderio, altri hanno attribuito a Davide. Ma Angelo è ansioso di aprire il portone; e mentre lui armeggia con la serratura, la mente divaga, chiedendosi chi e come abbia scelto, mille anni fa, di aggiungere quegli inserti di greche e intrecci e fiori e animali, posti a caso fra i conci della facciata senza un disegno preordinato, ma con la lungimiranza di lasciare traccia degli ornamenti provenienti dal nucleo originario della Chiesa o da reperti di edifici risalenti ad epoche ancora precedenti.

La mano non sa resistere all’istinto, si protende, sfiora quelle lettere incise nella pietra, ripercorre una ad una le concavità che lo scalpellino ha immortalato sul blocco e il costruttore ha, forse sbadatamente, forse perché analfabeta o forse per qualche ragione inspiegabile, inserito fra i conci capovolgendo la scritta. Ma l’essenza non muta: SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS, il Quadrato magico.

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SAN PIETRO AD ORATORIUM

 

Roberta-Lucchini

Trovarsi lontano dal clangore di voci e ingranaggi della tentacolare metropoli da cui conviene, talvolta, allontanarsi, per riconquistare spazi di silenzi e di solitudine che fanno bene all’anima.

Viaggiare alla scoperta di uno dei tanti, sconosciuti luoghi di pregio, forzieri di storia e di arte, che appartengono all’Abruzzo più interno, geloso dei suoi borghi, delle sue chiese, delle sue rocche

Con sorpresa, non è la facciata della Chiesa che si mostra arrivando, bensì le tre absidi circolari con monofore che corrispondono alle tre navate in cui è suddivisa la struttura basilicale. E cresce quindi l’attesa. Finalmente Angelo, il custode – ironia della sorte! – contattato telefonicamente qualche giorno prima, arriva a bordo della sua Ape verde, tipico veicolo per brevi percorsi nei piccoli centri, dove da molti decenni ha sostituito il mulo negli spostamenti fra abitazioni e poderi. Uomo solido, mani da lavoratore. 
Apre il cancello, evviva. Lenta discesa sul viale di gradini bassi e profondi in acciottolato che costeggia, a sinistra, il lato lungo fino alla facciata: lo sguardo voglioso ignora per il momento il primo tratto di parete, sapendo di tornarci a breve, per concentrarsi sul portale. I piedritti plastici, con decorazioni in rilievo non riprodotte simmetricamente, dai motivi naturalistici ad intreccio, accompagnano lo sviluppo verticale fino ai capitelli, le cui foglie sembrano staccarsi dal blocco di pietra. Un bellissimo archivolto con due corone concentriche di palmette, sullo stile di S. Liberatore a Majella, sovrasta l’architrave. A rege Desiderio fondata, vi si legge. Desiderio. A rifletterci, quasi uno stridore. Il fascino garbato di un nome tanto evocativo – etimologicamente riconducibile alla mancanza di stelle (de – sidus), di buoni auspici, di prospettive leggibili, da cui tensione verso l’appagamento – accostato alla figura di un re “barbaro”, l’ultimo dei Longobardi che, giunti in Italia alla guida di Alboino nella seconda metà del VI sec. d.C., imperversarono lungo la penisola nel corso di due secoli, fino alla definitiva sconfitta ad opera dei Franchi di Carlo Magno nel 774. Desiderio. Padre di Adelchi (col quale governò nell’ultimo periodo del suo regno allo sbando) e padre, forse, della sfortunata Ermengarda, data in sposa, forse, proprio a Carlo Magno e da questi, forse, ripudiata nel 771; eppure così reale per l’indimenticabile acconciatura e per lo straziante affanno in letto di morte cantati dal Manzoni. Desiderio, dunque, passò di qui, prendendo sotto la sua protezione, piuttosto che ordinarne l’edificazione (come si ritiene essere erroneamente indicato nell’iscrizione), il primo e più antico corpo della Chiesa, la quale è

menzionata come esistente nel 752 (mentre Desiderio salì al potere nel 756) dal Chronicon Volturnense, una delle testimonianze più valide e importanti per lo studio della civiltà alto­medievale, redatto fra il 1124 e il 1130 dal monaco Giovanni presso il monastero benedettino di S. Vincenzo al Volturno e conservato, nei suoi 341 fogli di pergamena, presso la Biblioteca Vaticana.

ancora distanti dalle corsie affollate del turismo di massa, salvo assurgere all’onore delle cronache quando un passo falso della Madre Terra ne scuote e sconquassa muri e certezze. 
Non si arriva qui per caso. Bisogna cercare attentamente quell’indicazione, sulla Strada Statale 153, che dall’uscita “Bussi sul Tirino” dell’Autostrada A25 raccorda, salendo, la via Tiburtina Valeria con la Strada Statale 17, all’altezza di Navelli. Finché, dopo circa 10 km di percorrenza, nei pressi del comune di Capestrano, trovi il cartello sulla sinistra: S. Pietro ad Oratorium. E la strada asfaltata si stringe man mano, permettendo il passaggio di un’auto alla volta, anche per l’invadenza non contenuta di ginestre e roverelle che si appoggiano ostinate sul manto stradale. Poi, l’asfalto lascia il posto al terreno battuto, e ti rendi conto che stai entrando in una dimensione diversa, troppo lontana dalla quotidianità convulsa lasciata ad un’ora e mezza da qui.

Il portone è aperto: sarà che fuori il sole è alto e caldo, sarà che le mura in pietra isolano dall’esterno, sarà la mancanza di arredi, ma una cortina di aria fredda si para davanti, come impedendo l’accesso.

Poi è subito chiaro. Angelo racconta, quasi sussurrando, del restauro dopo il terremoto, che ha ricostruito il soffitto, palesemente rinnovato nella copertura lignea, che ha rinforzato le colonne e che dovrebbe ripristinare il bel ciborio centrale, a base ottagonale, con tiburio decorato da insolite maioliche in ceramica colorata: ma i soldi sono finiti, per ora non c’è che da accontentarsi. Ecco il gelo, è evidente. Secoli di storia hanno patito lo scossone, e il cemento usato per rattoppare è ancora fresco, troppo fresco, non sufficiente a risanare la crepa, qui come negli altri posti feriti… Per fortuna l’abside centrale attira l’attenzione: l’arcone con gli affreschi di un color rosso quasi monocromo – una particolarità assoluta – in cui è ritratto il Cristo in trono, in stile bizantino, con il tetramorfo ai lati, al di sotto di cui si dispongono i 24 Vegliardi dell’Apocalisse; e la fascia inferiore affrescata con immagini di 6 monaci benedettini, stigmatizzati dalla tonsura del capo e dalla Regola fra le mani, disposti lateralmente alla finestra centrale dell’abside. Pensare che questi affreschi sono considerati una delle primissime testimonianze della pittura romanica abruzzese, ancora così vicina, nell’impostazione grafica, nella fissità degli sguardi, nella linearità dei panneggi, al prototipo dell’iconografia bizantina. Qualcosa, tuttavia, suggerisce di uscire, di tornare sui propri passi, lasciandosi alle spalle, lentamente, quelle colonne massicce, sei per lato, che creano la navata centrale lungo la quale, dal mese prossimo, e dopo la pausa invernale, incederanno fra emozioni e fiori freschi coppie di innamorati che qui decidono di sugellare il proprio patto per la vita. Non c’è esitazione, gli occhi sanno dove cercare. Eccolo, a destra del portale.

Più e più volte letto sui libri, adesso materializzato. Il bagaglio di notizie, in un attimo, fluisce in un’unica immagine onnicomprensiva. Il “latercolo (di forma quadrata), pentadico (con parole di cinque lettere), palindromo (leggibile nei vari sensi)”, secondo la sintesi di Rino Camilleri nel suo scritto del 2004 dedicato a questo argomento, ha affascinato, incuriosito e stimolato la riflessione di studiosi che in tutto il mondo si sono confrontati con questo enigma senza essere riusciti, ancora oggi, a trovarne una spiegazione univoca. Una sola certezza: rispetto ad altri palindromi diffusi nell’antichità, questo è l’unico, rinvenuto negli angoli più disparati del Mondo Antico (solo in Italia presente in almeno 30 siti), ad aver resistito per secoli, inciso su mattoni, vergato su papiri, graffiato sui muri, utilizzato a fini taumaturgici o esorcistici. Perché mai? Cosa vi si nasconde? Qual è la chiave del crittogramma? Il solo tentarne una traduzione è cosa ardua. Le varie interpretazioni proposte convergono sull’idea del Sator quale Creatore, Seminatore (in questo senso il termine è già presente in opere di scrittori latini quali Cicerone, Virgilio e altri), per cui l’idea sarebbe di una Entità che governa (tenet) con fatica (opera) le ruote (rotas), forse riferito alle Sfere celesti.

Ma la logica si incaglia nella parola arepo, dal significato oscuro (nome proprio di persona?, verbo?, radice celtica?),

da taluni considerato solo come un escamotage per garantire la simmetricità del termine opera. Possibile una tale superficialità? Possibile che una siffatta orditura di lettere, riconducibile a scienze esoteriche, legato a numerologia ed aritmomanzia, si perda in una simile leggerezza? Ma sciogliere il nodo non è facile. Ed ancora: il Quadrato è un simbolo pagano? Da escludersi, non conoscendosene di antecedenti a quelli rinvenuti nel 1936 a Pompei (sepolta, si ricorda, nel 79 d.C.) sul muro della Grande Palestra e sulla casa di Proquio Paculo (dove, fra l’altro, l’ordine delle parole è invertito, iniziandosi da Rotas, caratteristica comune ai Quadrati più antichi, superata in epoca medievale ma che si verificherebbe anche qui, a S. Pietro, se capovolgessimo il mattone). È quindi un simbolo cristiano? Probabile, come dimostrano centinaia di ricerche effettuate nel corso dei secoli, che hanno condotto alla sensazionale scoperta, negli anni Venti del Novecento, ad opera di tre studiosi (i quali non si conoscevano fra loro) che anagrammando le 25 lettere si ottiene la parola PATERNOSTER, ripetuta due volte, che si incrocia sulla lettera N (presente centralmente una sola volta e contenente una simbologia antichissima, collegabile fra l’altro alla lettera fenicia nun, segno di acqua o di pesce), lasciando escluse soltanto la A e la O: la cosiddetta tesi Grosser – Agrell dimostrerebbe che il Quadrato racchiude la preghiera cristiana per eccellenza (quindi già diffusa a pochi anni dalla morte di Gesù), con un riferimento esplicito all’alfa e all’omega dell’Apocalisse. Il che comporterebbe una diversa datazione dell’Apocalisse stessa, fino a quel momento ritenuta composta dopo il 100 d.C., dovendosi fare i conti con la ricordata distruzione di Pompei nel ricordato 79 d.C., presupporrebbe la presenza dei cristiani in questa località, suggerirebbe la lettura in chiave cristiana di tutta una serie di rimandi ai culti mitraici, pitagorici, celtici e alessandrini che, scavando, si rinvengono in questa piccola, esigua, griglia di lettere. Esigua?

Come può considerarsi tale se alla base vi è il quadrato, la figura geometrica che da sempre ha incarnato il collegamento fra Cielo e Terra, fra l’uomo e Dio, così nelle Piramidi egizie, come nelle Ziggurat, come nelle Piramidi dei Maja (per i quali la Terra stessa era quadrata), come nel Sancta Sanctorum del Tempio di Salomone, per giungere fino alla prefigurata Gerusalemme Celeste.

Maria Grazia Lopardi, studiosa aquilana dedita soprattutto alla storia medievale, all’architettura dei principali edifici sacri della sua città ed alla simbologia che vi si nasconde, si spinge oltre: nel Quadrato, fra l’altro comune, seppur con differenti segni grafici, a rappresentazioni rinvenute ai poli opposti del globo, come ad esempio nella civiltà Inca, si celerebbe non un semplice – eppur complesso ­ passatempo, ma la “Matrice”, l’Arché, il principio ispiratore dell’architettura sacra che ha permesso per secoli di innalzare templi facendo a meno di progetti scritti e disegnati, affidandosi piuttosto ai rapporti che scaturirebbero dal sistema di griglie che lega le varie lettere dello schema. C’è di più: nel Quadrato magico sarebbe contenuto il mistero costruttivo del Tempio di Gerusalemme, recuperato successivamente dai Cavalieri Templari ed arrivato fino alla Massoneria, i cui simboli si potrebbero ricondurre al Quadrato stesso. Salvo il volerlo considerare privo di significato (come pure qualcuno ha fatto), questo arcano non potrebbe essere un mero esercizio enigmistico, un banale bisticcio di parole, troppe le coincidenze, impossibile la casualità.

Sia che lo si voglia considerare di origine non cristiana, legato cioè a miti pagani, all’esoterismo o più semplicemente all’occultismo, o che si accolga l’idea di una realtà rivelata in esso secretato, forse la trasposizione di quel Verbo, di quella Parola alla radice del Creato, rimane un dato di fondo,

vale a dire l’intrigante gioco di parole che si inseguono, si amalgamano, si uniscono e poi separano in un intreccio senza fine di cui a noi, uomini del XXI secolo, sfugge il senso profondo. “Il mondo è stato creato con delle frasi, composte da parole, formate da lettere. Dietro queste ultime sono nascosti dei numeri, rappresentazione di una struttura, di una costruzione ove appaiono senza dubbio degli altri mondi ed io voglio analizzarli e capirli perché l’importante non è questo o quel fenomeno, ma il nucleo, la vera essenza dell’universo.” Così scriveva Einstein. Forse prima di lui qualcun altro lo aveva intuito. Molto accattivante. 
Le informazioni scoloriscono, però, e si fa strada un lieve senso di invidia per l’Iniziato, per colui che ha avuto la fortuna di sapere e di custodire, insieme a pochi altri, un segreto le cui fondamenta si sono perse nella nebbia dei tempi… Colui che forse non ha dovuto interrogarsi, perché aveva già tutte le risposte. 
D’un tratto le notizie si disperdono, come se il bagaglio si aprisse lasciando cadere indumenti in ordine sparso; o come se un groviglio di fili lanosi e intrecciati si dipanasse creando spazio nella testa, mentre, dopo un veloce saluto ad Angelo, i passi assecondano il richiamo, abbandonano il cortile, risalgono il vialetto, conducono inconsapevolmente verso quel corso d’acqua, così peculiare nelle sue caratteristiche biologiche da essere oggetto di studi e monitoraggi, come indicato nella bacheca di legno che precede l’accesso al bacino: il fiume Tirino inserito in un progetto dell’Unione europea (Aqualife) per la valutazione dello stato di conservazione di ecosistemi dipendenti dal sistema di acque sotterranee, la cui biodiversità è minacciata dalle attività antropiche, per giunta troppo incisive solo pochi chilometri più a valle, ove insiste il polo chimico di Bussi. Il dato scientifico, ancorché interessante, è al momento secondario: un invito troppo forte va accolto, troppo forte l’impulso di immergere la mano nello scorrere limpido e festante, avvertendo quel brivido che scuote i sensi, brivido vitale che per un attimo ti fonde con la natura intorno, cancellando ombre e perplessità. Ed in quell’attimo sembra di avvertire “il nucleo”, quella unità nella diversità spesso millantata, mai veramente assaporata. 
Ma è un momento. Poi tutto torna al proprio posto, nella realtà frammentata e diffratta di una vita di rincorse affannose. E, ripartendo, rimane alle spalle un mondo sfiorato, una Storia millenaria che porta con sé molte domande, spesso non soddisfatte, per lo meno non abbastanza. Qui si chiude il cerchio. Dubito, ergo sum.

 

FRANCO CAVALLO, LA POESIA di Alessandro Gaudio – Numero 4 – Aprile 2016

FRANCO CAVALLO, LA POESIA

 

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 La plaquette, edita per i tipi di SIC − che poi confluiranno nella bellissima esperienza delle edizioni Altri Termini, nate da una costola dei Quaderni internazionali omonimi che, inaugurati nel maggio del ’72, risulteranno fondamentali, tra l’altro, per il recupero in chiave ironica e neosperimentale del surrealismo e delle avanguardie storiche europee −, ha una circolazione quasi clandestina: eppure, la silloge, pubblicata in proprio, giunge sorprendentemente fin sulla scrivania di Pier Paolo Pasolini che, qualche mese dopo, in aprile, ne dirà sinteticamente sulle colonne del «Tempo»: «un libriccino delizioso, − assicurerà Pasolini, al termine di una delle sue Descrizioni di descrizioni − credo fuori commercio».1 Forse sarà stato il Piccolo arazzo musicale che Cavallo, all’interno di Rien ne va plus, dedica proprio a Pasolini ad attirare l’attenzione del più grande intellettuale italiano del secondo Novecento? O, piuttosto, sarà stato il tono stravagante della poesia di Cavallo (poi scomparso nel 2005) a sollecitarne la considerazione?
A quell’altezza, Cavallo poteva già vantare, tra le altre cose, la pubblicazione di due apprezzabili raccolte di versi per Rebellato e, in particolare, di altre due sillogi, all’interno dell’importante collezione di poesia della Piccola Fenice degli italiani (diretta da Roberto Sanesi) che l’editore Guanda di Parma inaugurò alla fine degli anni Sessanta proprio con Fétiche di Cavallo.2 Per i lettori di «Myrrha» non riproduco l’elogio della natura dedicato a Pasolini, preferendogli invece Bruchi perché mi sembra che in essa sia maggiormente manifesta l’ammissione di una debolezza, quasi la certificazione di uno scacco dell’intelligenza, frutto dell’unione dell’indolenza meridiana del poeta campano e dello scetticismo riguardo alle regole fisse della trigonometria borghese che tanto disturbavano anche il grande intellettuale bolognese.

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l(ex)iquida obniscienza in presenza glaucale
nell’altissimo pino vedean li dèi e l’amore,
pipsula in insula corallina anfitrioni − e

poi ritornati alle belle giornate d’autunno
sull’auto(bus) che li conduce all’accettazione
supina della res padronale, lambruschi lombri-
chi cauti alla pozzanghera e alla genuflessio-
ne, alle regole fisse della trigonometria bor-

ghese (ah, corona di spine della rivoluzione!)

Franco-Cavallo

Nel gennaio del 1974 Franco Cavallo (nato nel ’29, a Marano, vicino a Napoli) pubblica un minuto volumetto contenente nove poesie e intitolato Rien ne va plus.

Rien ne va plus si era aperto prendendo in prestito da Edoardo Sanguineti l’ammissione franca dell’inutilità dei nostri destini («che non ci sono più storie / che si possono raccontare») e proseguirà, nella lirica successiva a quella qui riproposta, contestando il rapporto assiduo e geometrico tra la casa (la sua, come quella di Racine e quelle di tutti i poeti) e l’albero del Potere (scritto con l’iniziale maiuscola). Già nel 1974, al di sotto della franca accettazione dello scacco di un’intera generazione di intellettuali (sancita e resa definitiva, poi, dalla morte di Pasolini), Cavallo si calava, come un bruco, nel corpo vivo della lingua, cercando − come egli stesso aveva ammesso più volte − di realizzarsi in essa, provando a scavare in sé alla ricerca del posto sotterraneo in cui quella lingua si cela e correndo il rischio, alla fine dello scavo, di non trovare comunque niente.
A questo vuoto la poesia di Cavallo contrappone un eccesso di materialità3 che, poi, continuerà a caratterizzarla nei versi degli anni seguenti; essa è frutto di una scrittura che «[…] cigola / come il cardine / di una vecchia cassapanca» e che accoglie la mancanza, tematizzandola e, di fatto, prosciugandola o, se si preferisce, occupandola con la propria inquietudine formale e lessicale.4 Tuttavia, al di là di quel niente che si riempie di sé («Manca sempre qualcosa, − aveva detto qualche anno prima l’autore di Poesia in forma di rosa − c’è un vuoto / in ogni mio intuire […]»),5 ciò che nella poesia di Cavallo aveva incuriosito Pasolini era stata, con ogni evidenza, l’espressione della condizione greve di chi ha ormai compreso che tutto è stato fatto: di questo niente resta una confusa memoria che, in versi, è all’incirca un’ipotesi di distruzione; più propriamente, è una eco che si ripete di canto in canto, sino a includere, nella sua irrimediabile vacuità, l’intera condizione umana e la sua sorte. È su questo crinale che la poesia (anche quando, negli anni successivi, si verserà nel nonsenso) ricorrerà alla consistenza delle sue figure grammaticali e linguistiche e delle sue parole-cose per riempire quell’assenza che Cavallo sente così presente e finirà per ribadire l’indissolubilità del legame strutturale che la congiunge alla storia.

 1 P.P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, a cura di G. Chiarcossi, Milano, Garzanti, 2006, p. 390. 2 Si tratta di Paesaggio flegreo del 1957 e Reliquia marina e altri versi del 1959 per Rebellato e, per Guanda, di Fétiche (1969) e I nove sensi (1971). 3 Cfr. V.S. Gaudio, L’ascesi della passione del Re di Coppe, Milano, Celuc, 1979, p. 7. 4 Stefano Lanuzza ha già parlato della poesia di Franco Cavallo come di «parole squillanti nel vuoto»; l’espressione segnala con grande efficacia la concomitanza nei versi del poeta campano di nichilismo e artificio formale (cfr. S. Lanuzza, Lo sparviero sul pugno. Guida ai poeti italiani degli anni ottanta, Milano, Spirali, 1987, p. 117). 5 P.P. Pasolini, Poesia in forma di rosa [1964], Milano, Garzanti, 2012, p. 169.

 

IL CINEMA A MATERA di Delio Colangelo – Numero 4 – Aprile 2016

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Matera, a partire dal secondo dopoguerra, è stata terra di cinema; più di trenta produzioni cinematografiche sono state realizzate nei Sassi. Una tendenza dominante, da Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini a Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi, ha messo in luce la condizione di miseria e arretratezza della Basilicata, influenzata da autori come Carlo Levi ed Ernesto De Martino. Negli ultimi anni, Matera è diventata teatro di opere filmiche – come The Passion di Mel Gibson – che hanno contribuito a formare l’immagine di una città quasi mistica e culturalmente attiva.

La designazione di Matera come città Capitale Europea della Cultura del 2019 sembra essere la definitiva redenzione di una cittadina che per lungo tempo ha suscitato la “vergogna nazionale”.

Tratto dal libro omonimo di Carlo Levi, racconta l’esperienza di confinato vissuta da Levi stesso durante l’epoca fascista. Durante i due anni trascorsi in esilio, Levi, medico progressista torinese, ha l’occasione di entrare in contatto con la civiltà contadina lucana che osserva con meticolosa attenzione e che lo colpisce profondamente. Pur avendo come centro il paese di Aliano, dove lo scrittore ha vissuto, vi sono descrizioni di Matera che, come abbiamo già detto, hanno prodotto grande attenzione mediatica sul destino dei Sassi.

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IL CINEMA A MATERA

 

Delio-Colangelo

Il primo film di finzione interamente girato nei Sassi è La Lupa (1953) di Alberto Lattuada, trasposizione cinematografica dell’omonima novella di Giovanni Verga.

Nonostante non manchino ritardi e sterili polemiche, la città sta attirando la creatività giovanile e rafforzando i propri eventi e manifestazioni culturali. La stagione turistica si allunga, con sempre più frequenti episodi di overbooking, ed è caratterizzata da una crescente dimensione internazionale. Tra le grida di gioia che hanno invaso la Piazza San Giovanni nell’ottobre del 2014, quando il ministro Franceschini ha comunicato la scelta di Matera come capitale europea della cultura, molti parlavano di un importante riscatto per la città. Una città che ha compiuto un lungo percorso per riabilitarsi e che, dopo il risultato dell’iscrizione dei Sassi nel patrimonio Unesco nel 1993, trova, come Capitale Europea della Cultura, il suo compimento. 
Qualcuno ha detto che Matera, prima di essere stata città dell’Unesco e città della cultura, è stata città del cinema e su questo vorrei soffermarmi un attimo. Su come il cinema è stato importante sia per la riflessione sulla condizione della città che per la sua promozione mediatica e turistica.
Dagli anni ’50 agli anni ’70, la produzione cinematografica a Matera, infatti, risente di una vasta riflessione che, da Levi a De Martino, ha posto l’attenzione sui problemi della Basilicata.

In particolare, si può citare una piccola opera di un giovane Antonioni dal titolo Superstizione e diversi lavori, tra cui Magia Lucana e La Madonna di Pierno del regista Luigi Di Gianni, uno dei più importanti rappresentanti del documentario antropologico. 
Un film di finzione, girato in parte a Matera, che raccoglie questa eredità e questo fermento, è Il Demonio (1964) di Brunello Rondi. Il film ha come obiettivo quello di offrire un ritratto autentico della Basilicata, soprattutto in riferimento a quel “mondo magico” che circondava la realtà lucana degli anni ’50 e ’60. A metà strada tra storia drammatica e documentario, il film racconta i riti contro il malocchio, gli esorcismi, le superstizioni. La protagonista, Purificata, non riuscendo a superare una delusione d’amore, cade nella “fascinazione”. La fascinazione, o la possessione, rappresenta il momento di stallo in cui si trova Purificata che non riesce ad accettare la fine di un amore; il percorso di liberazione da questo male, che però la condurrà a una fine tragica, è un susseguirsi di riti liberatori, pratiche magiche, esorcismi, lamenti funebri che il regista inserisce all’interno della narrazione con intento quasi documentale. In alcune suggestive sequenze girate nei Sassi, avviene il conflitto magico: da una parte, Purificata che cerca di minare, attraverso filtri amorosi, la solidità del matrimonio tra il suo amato e un’altra donna mentre, dall’altra, gli sposi che proteggono con alcuni rituali la loro unione dalle forze negative. 
Un “paesaggio” magico che mostra il netto divario esistente tra l’arretratezza della terra lucana e il progresso e il boom economico che veniva vissuto in altre zone d’Italia. 
Questa tendenza rappresentativa, che incomincia a tramontare a partire dagli anni ’70, ha un ultimo e forse più importante esempio nella trasposizione cinematografica del romanzo di Levi a opera di Francesco Rosi.

A metà degli anni ’60, Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini inaugura una tendenza ad ambientare nei Sassi di Matera vicende di argomento biblico. I Sassi diventano la Gerusalemme della predicazione cristiana e della via crucis

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L’operazione interessante compiuta da Lattuada consiste nell’usare i Sassi non come sfondo per rappresentare un paese siciliano (originaria ambientazione del racconto di Verga), ma come effettivo luogo in cui si svolgono le vicende raccontate. Il paesaggio mostrato, quindi, porta nel film il suo carico di drammaticità che integra l’opera verghiana. Prova ne è, ad esempio, lo spazio che nella prima parte del film è dedicato alla Festa della Bruna di Matera in cui si snoda la vicenda. L’inserimento nel film di riti e tradizioni tipicamente materani serve proprio a intessere la trama nel nuovo contesto territoriale.
Nel Dopoguerra è intensa anche la produzione documentaristica. Nel 1949 vi è l’esordio alla regia di Carlo Lizzani con il documentario dal titolo Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato (1949). L’interesse verso la realtà materana e lucana coinvolge anche altri registi che, anche sulla scia delle spedizioni etnografiche organizzate da Ernesto De Martino, raccontano i riti e le superstizioni che regnano in Basilicata.

Una ricca produzione documentaristica investe la Basilicata con l’evidente compito di mostrarne le condizioni culturali e sociali.

Il Cristo si è fermato a Eboli (1979) di Rosi è sicuramente uno dei prodotti artistici più rappresentativi dell’identità lucana e racconta con realismo un pezzo di storia della Basilicata.

mentre la Murgia materana è il luogo della crocifissione e della resurrezione del Cristo. Tuttavia, Pasolini, non sceglie Matera in quanto somigliante a Gerusalemme, ma perché è rappresentativa del contesto socioeconomico del sud d’Italia. Così se, da una parte, c’è l’intenzione autentica di sottolineare la forza rivoluzionaria del messaggio cristiano e ricollegarla a un generale senso del sacro, dall’altra, emerge il desiderio di denunciare e mettere in luce i contesti di vita inaccettabili in cui vivevano gli abitanti di questa parte del Sud. La macchina da presa mostra i paesaggi, i volti scavati, con la stessa attenzione dimostrata da Pasolini nei suoi precedenti film sulle borgate romane

Matera, quindi, trasferisce all’interno del film non solo la sua conformazione fisica ma anche la sua specificità sociale, divenendo una metafora di tutta la questione meridionale.

Il tentativo compiuto dall’autore è quello di far emergere l’immagine autentica di un territorio raccontando una storia che non le appartiene.
Dagli anni ’70 in poi, Matera verrà utilizzata per rappresentare la Spagna (L’albero di Guernica), la Sicilia (L’uomo delle Stelle); diventa, quindi, esclusivamente una location cinematografica che avrà particolare fortuna con le storie di argomento biblico. Dopo un King David girato negli anni ’80 e di scarso successo (che però porta Richard Gere tra i Sassi), si apre per Matera l’epoca delle grandi produzioni hollywoodiane. Nel 2004 esce nelle sale The Passion of the Christ (2004), storia della passione di Cristo raccontata da Mel Gibson, i cui esterni sono stati girati quasi interamente nei Sassi. La pellicola, che racconta la passione di Cristo dall’invocazione nel giardino dei Getzemani sino alla resurrezione, ha dato una grande esposizione mediatica internazionale ai Sassi di Matera. Non vi è più riflessione sul contesto sociale né riferimento all’identità culturale; tuttavia, la distribuzione mondiale e il successo del film offrono a Matera un’importante vetrina promozionale. The Passion viene spesso citato come caso di cinema che ha dato un forte impulso al turismo cittadino ed effettivamente, dati alla mano, nei due anni successivi all’uscita del film il turismo straniero è raddoppiato. Probabilmente il film ha prodotto anche maggiore consapevolezza, nei cittadini e nelle autorità, sulla dimensione internazionale di Matera e sulle potenzialità turistiche dei Sassi che, pur essendo già patrimonio Unesco, risultavano ancora inespresse. 
Dopo il film di Mel Gibson, altre grandi produzioni, a tema religioso, si sono fermate a Matera come The Nativity Story (2005), The Young Messiah (2016) o remake di peplum famosi come Ben Hur (2016).

Oggi le strette stradine dei Sassi sono un set a cielo aperto, passaggio continuo di produzioni cinematografiche e televisive, dimostrando la stretta relazione tra il cinema e la città.

 

MATTEO DE AUGUSTINIS, DIVULGATORE E MAESTRO di Umberto de Augustinis – Numero 4 – Aprile 2016

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Matteo de Augustinis è stato un figlio del profondo Cilento, nel quale è nato 207 anni fa, a Felitto, un anno dopo lo scoppio della rivoluzione francese, da una famiglia che fu fatta oggetto della più bieca reazione da parte delle marmaglie del Cardinale Ruffo. 
La sua casa natale fu data alle fiamme, ed i suoi parenti costretti ad una terribile diaspora. Morì troppo presto, e nel luogo sbagliato (nel 1845 in quella Napoli, la cui classe colta era stata più che decimata con la restaurazione e chi che era sopravvissuto viveva nel sospetto e nel terrore), per essere incluso fin dall’inizio tra i padri della Patria.

MATTEO DE AUGUSTINIS, DIVULGATORE E MAESTRO

 

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Incarcerato ben due volte perché di idee sovversive, Matteo de Augustinis era un giurista (avvocato), professore ed economista, incarnando un’idea consolidatasi nella tradizione partenopea: prima che economisti, bisognava essere giuristi, perché

L’abolizione del feudalesimo fu una grande svolta “epocale”, dovuta anche all’impegno di molti economisti, come Giuseppe Palmieri, che aveva scritto, tra l’altro, “Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli e altri scritti” (1788), in cui, per “pubblica felicità” si intendeva l’uscita del popolo dall’ignoranza e dall’oscurità verso la luce, secondo il più ortodosso illuminismo. 
L’idea delle pubblica felicità è fondamentale nell’insegnamento di de Augustinis. Dal post-feudalesimo era derivato un complicato contenzioso che contrapponeva anche i proprietari latifondisti (baroni) alle città (università), in cui si riconoscevano le classi sociali borghesi ed operaie in formazione. Il tutto si svolgeva in uno Stato rigorosamente chiuso all’esterno, che faceva della politica dei dazi il suo centro propulsore economico. Vaghi accenni riformatori duravano poco e creavano delusioni (anche a de Augustinis).

il grande evento di quegli anni era stato l’adozione, per il Regno delle due Sicilie, della legge n. 130 del 2 agosto 1806, il cui primo articolo recitava: «La feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali, ed i proventi qualunque che vi siano stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili».

Il primo da ricordare è Antonio Genovesi (che era morto a Napoli nel 1796), il quale, nel teorizzare la necessità di far uscire l’uomo dallo stato di “oscurità”, è colui che, per primo, aveva compreso la decadenza culturale, materiale e spirituale del Regno di Napoli e, quindi, si era reso conto della necessità di intervenire, invitando le nuove generazioni ad approfondire lo studio dell’economia. All’Università di Napoli aveva insegnato economia politica, con un insegnamento istituito appositamente per lui, denominato “Cattedra di commercio e di meccanica”. Genovesi teneva sempre le sue lezioni in lingua italiana e questo costituì il modo per diffondere ad ampio spettro lo studio dell’economia e delle scienze tra sempre maggiori segmenti di popolazione. Matteo de Augustinis si innamorò subito dell’idea di raggiungere il maggior numero di persone con l’insegnamento.
Tra i suoi “economisti defunti” sono anche citati: Antonio SERRA (calabrese di nascita, ma morto a Napoli intorno al 1625), un’originale figura di genio meridionalista, che ha scritto, mentre era detenuto al carcere della Vicaria, l’introvabile “Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e d’argento dove non sono miniere”, con applicazione al Regno di Napoli, esaltando l’importanza del mercato interno per un’economia troppo ripiegata su se stessa; Giovan Donato TURBOLO, (prima metà del 1600) un precursore del mercantilismo, esperto della politica monetaria del Regno di Napoli, da Ischitella; Francesco MENGOTTI, collaboratore di Cesare Beccaria, e ministro della Repubblica Cisalpina, che aveva analizzato l’economia di mercato, osteggiata dal protezionismo borbonico, alla luce del mercantilismo; Pietro VERRI (morto nel 1797), in qualche modo precursore di Adam Smith, perché, nelle Meditazioni sull’Economia Politica (1771), aveva enunciato (per primo in forma matematica) le leggi di domanda e offerta, aveva spiegato il ruolo della moneta quale “merce universale”, aveva appoggiato il libero scambio e sostenuto che l’equilibrio nella bilancia dei pagamenti è assicurato da aggiustamenti del prodotto interno lordo (quantità) e non del tasso di cambio (prezzo). Matteo de Augustinis rimase affascinato dall’idea che la libera concorrenza potesse servire a distribuire correttamente la proprietà privata. In questo si spiega la sua ammirazione, testimoniata nell’opera “Lettere” per Ferdinando GALIANI (educato a Napoli), che, nel 1751, aveva teorizzato nel trattato Della Moneta il valore economico dei beni, passando attraverso una relazione nientemeno che tra quantità e qualità del lavoro, tempi di produzione, utilità e rarità del prodotto. Dalla lettura di Sallustio BANDINI (morto nel 1760), senese e gesuita, esperto in diritto bancario (la cui statua è a Siena, davanti alla sede del Monte dei Paschi), de Augustinis apprezzò l’idea di porre il sistema bancario a servizio di tutte le classi sociali, avvalorata dal libro di Lodovico Ricci, storico ed economista, che aveva pubblicato il libro “Riforma de’ pii Istituti della Città di Modena”.

In questo contesto, bisognava creare, da una parte, una coscienza tra la gente per sradicare l’idea stessa di vassallaggio e, nello stesso tempo, creare e utilizzare sia le nuove risorse che si erano liberate sia nuove frontiere di occupazione e produzione per ideare e favorire le riforme sociali, politiche ed economiche:

era, cioè, necessario coniugare la scienza giuridica e quella economica, nell’ambito della quale era fondamentale anche il ruolo della neonata statistica, che affascinò molto de Augustinis. Leggendo la prefazione, curata dall’autore stesso, del volume “Elementi di economia sociale” pubblicato a Napoli nel 1842, si nota che la dedica è fatta “ai grandi economisti defunti”, citati con rispetto e devozione, nel preambolo del libro. A costoro fa dire: “Noi non morimmo, ma viviamo, tuttavia, colaggiù, siam vivi nelle nostre opere e nella memoria di coloro che tanto amammo”. De Augustinis collega, dunque, la propria opera agli economisti defunti che vivono “colaggiù” e, cioè, nell’impegno dei suoi contemporanei. 
L’elenco che ne fa è lungo, ma ragionandoci sopra, è molto importante per capire da che parte stava.

La lettura della lista ha una sua logica e chiave interpretativa, che, senza mezzi termini, fa capire che Matteo de Augustinis si reputa una delle voci che intende saldare il nuovo al vecchio, assimilando e sviluppando la summa del pensiero della tradizione “colta napoletana”.

Da queste letture deriva a Matteo de Augustinis l’idea di ipotizzare un obbligo di investire nelle casse di risparmio, enunciata nel suo discorso sulla povertà degli Stati. In questo riecheggiano anche le idee di Cesare Beccaria.

 Nell’ambito dei grandi defunti non poteva mancare Gaetano FILANGIERI, brillante esponente dei “nobili liberali” napoletani, quelli dai quali derivò la rivoluzione del ‘99. Altri grandi economisti cari al Nostro furono Melchiorre GIOIA, che, dopo la caduta di Napoleone, aveva prodotto le sue opere maggiori, come il “Nuovo prospetto delle scienze economiche” e, ancor più, “Sulle manifatture nazionali” (1819), la cui eco si sente nell’ultima fatica di Matteo de Augustinis “della Valle del Liri e delle sue industrie”, che sarà, poi, anche la relazione tenuta a Napoli nei giorni della sua morte (1845) in un convegno di economisti italiani. Il libro sulle manifatture di Gioia, peraltro, non era stato gradito al Governo borbonico: il volume fu messo all’indice e Gioia fu arrestato, nel 1820. 
La stessa sorte, non foss’altro che per aver condiviso le tesi di Gioia, fu riservata a Matteo de Augustinis.
Da Carlo Antonio BROGGIA, autore di un Trattato de’ tributi, delle Monete, e del Governo politico della Sanità, de Augustinis trasse la logica del metodo nel gestire le risorse pubbliche in vista del loro uso sociale. Da Gian Domenico Romagnosi, de Augustinis derivò la convinzione che l’intera esperienza politico-sociale del XVIII secolo sia stata compresa, riassunta e condensata attraverso la fiducia nello sviluppo capitalistico e nella libera concorrenza economica, teorizzando che i poteri pubblici devono far rispettare le corrette regole della libertà di concorrenza. Di qui l’assoluta presunta centralità del pensiero di Romagnosi, secondo de Augustinis, nell’ambito del pensiero dell’800.

De Augustinis fu, in effetti, un acuto osservatore della realtà contadina ed industriale (come emerge nel discorso sulla Valle del Liri, di cui si è detto); non gradiva gli eccessi, ma si commuoveva davanti allo sfascio della sanità e della scuola della Napoli dell’epoca (pronunciò un accorato “discorso sulla povertà”). 
Si lanciava in ardite proposte “globali”, pur conoscendo l’Europa solo attraverso i libri: e così commise anche errori, come il considerare l’Inghilterra bersaglio di molti strali, pur apprezzando Adam Smith, o come arrivare a negare l’aumento della miseria nel Regno; ma,

la sua logica, in genere, è sempre quella di trovare forme di mediazione fra tendenze diverse, esaltando le specificità della vita del Sud, del Tavoliere pugliese, del Cilento, del casertano, della Calabria etc., e ritenendo, comunque, che ogni teoria economica possa essere, almeno in parte, buona per la causa di consolidare l’uscita del popolo di Napoli e del Sud da una situazione di abiezione, e di rassegnazione,

vera origine della sua povertà, stimolandone l’azione, il lavoro, il commercio e, dunque, la via della “felicità” nei termini elaborati da Genovesi. De Augustinis manifesta la fiducia che la strada intrapresa dagli economisti “amici” sia indefettibilmente esatta.

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Napoli, in realtà, a quell’epoca, era un centro di prima grandezza in Europa per tradizioni di influenza nei confronti delle istituzioni e del potere politico locale, consolidate e robuste nella cultura del diritto meridionale; ma era anche, diremmo oggi, in qualche modo terribilmente isolata ed autoreferenziale a seguito delle purghe post-1799.

Matteo de Augustinis resta vittima di questa situazione: il destino non gli concesse il tempo di collocarsi nell’Italia unificata.

La sua speculazione scientifica si concentrò sullo studio e l’analisi della realtà del Regno e della sua gente. E, in questo, fu davvero grande: lo stesso famoso VII Congresso degli scienziati italiani, tenutosi a Napoli nel 1845, puntò a dimostrare quanto i giuristi-economisti napoletani fossero assolutamente attenti ad incrementare la “felicità” essenzialmente del proprio popolo, con questo attirandosi ovvie ed autorevoli critiche (in particolare dalla Germania, che vedeva la miseria della gente). 
Il tempo in qualche modo, fu, però, galantuomo, perché alcuni di quelli che si allontanarono da Napoli, come Pasquale Stanislao Mancini, allievo, al pari di Antonio Scialoja, di Matteo de Augustinis, contribuirono con la loro idea di mercato libero ed allargato alla formazione dell’ideologia risorgimentale ed ai fondamenti economici della nuova realtà, mentre, nella seconda metà dell’800, chi era rimasto, senza colpa, nella logica e nella storia della Napoli preunitaria ne fu soffocato dalla decadenza. 
Forse questa conclusione potrebbe portare a capire come un’intelligenza eccezionale, interamente cresciuta e misurata sulla cultura e sulla gente del meridione, ha pagato il suo amore verso il Sud con l’emarginazione, dovuta alla diffidenza della grande tradizione economica continentale, pur potendo dire di aver contribuito seriamente al meglio della tradizione socio-economica italiana post-unitaria.

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LA VIA DELLE MEMORIE di Vincenzo Donzelli – Numero 4 – Aprile 2016

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Le cose accadono e spesso non per caso. Ricordo ancora quell’umido pomeriggio di novembre del 2013 in cui ho ricevuto la telefonata del mio amico geologo Gianluca Minin, Presidente dell’associazione culturale Borbonica Sotterranea. Aveva un’importante proposta da farmi e mi aspettava, la domenica successiva alle nove in punto, alla Galleria Borbonica in prossimità del parcheggio Morelli.

Arrivati in cima all’impalcatura, mi ritrovai in un ambiente un po’ polveroso, dove un gruppo di almeno 30 volontari stava scavando … Restai sbalordita davanti a questi ragazzi molto giovani che lavoravano affiatati, con passione e anche divertendosi. A quel punto, Gianluca mi chiese se ero pronta a conoscere la principale ragione del suo invito; mi sorrise e mi chiese di girarmi: dietro di me vidi una lunga scala con decine di gradini che erano stati appena finiti di pulire dai volontari che erano di fianco a me.

Dal 30 gennaio di quest’anno, il nuovo percorso della Galleria Borbonica è attivo e aperto al pubblico con il suggestivo nome di La Via delle Memorie.

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LA VIA DELLE MEMORIE

 

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Gianluca mi guardava divertito e, di colpo, sorridendo, mi disse: “Sei pronta a scavare?”. Ero attonita, quasi sbalordita. Lui non si scompose e sempre sorridendo mi condusse a fare un giro all’interno della Galleria per presentarmi “alcune persone speciali che avevano una sorpresa per me”.

Quella mattina, restai senza parole di fronte a tanta bellezza; ero impressionata dalle opere realizzate dai Borbone e orgogliosa dei ragazzi che avevano ripulito tutto senza alcun aiuto economico. Gianluca mi guardò e mi disse che mi avrebbe portata dove i lavori di rimozione dei detriti e dei rifiuti erano ancora in atto. Dopo l’apertura della parte iniziale della Galleria, infatti, nell’agosto del 2013, lui e il suo socio avevano iniziato a scavare all’interno di una cisterna del Seicento, alla ricerca del passaggio verso il ricovero bellico di Palazzo Serra di Cassano. Quando arrivammo alla cisterna, Gianluca si fermò di colpo e mi disse che ci trovavamo esattamente al di sotto del Palazzo, in un punto limitrofo allo spazio di mia pertinenza. Lo ascoltavo in silenzio, mentre lui mi spiegava tutto il sistema di cunicoli e attraversamenti. Alla fine della spiegazione mi indica il passaggio che cercavano da tempo e che era emerso dai detriti. Quel passaggio consentiva di entrare in una serie di ambienti di epoche diverse, su più livelli, collegati da bellissime scale. Salimmo queste scale e mentre guardavo l’altissima volta che era sopra di me, Gianluca mi rivelò che tutto ciò che vedevo risultava, in gran parte, dal riempimento di detriti derivanti dai resti degli edifici bombardati nella parte alta di Monte di Dio e versati subito dopo la guerra nei pozzi. Era incredibile e il mio stupore cresceva con i suoi racconti. A un certo punto, mi fece salire su un’impalcatura che conduceva ancora più in alto da dove arrivavano i rumori di persone che parlottavano divertite. Ero impressionata dalla quantità di materiale che era stata spostata.

Non solo la Galleria fu restituita al patrimonio culturale di Napoli, ma la scoperta di diverse cavità non censite ubicate in aree limitrofe alla Galleria, ha permesso di migliorare la conoscenza del sottosuolo dell’area di Monte Echia e di studiarne i movimenti, utili a prevenire possibili smottamenti e altre calamità.

Non avevo idea di cosa volesse propormi, il solo pensiero che mi venne è che potesse chiedermi una collaborazione tra la sua associazione e l’associazione artistico culturale Interno A 14, che, da lì a poche settimane, avrei aperto, in un locale di proprietà della mia famiglia a Palazzo Serra di Cassano. Ero davvero curiosa e quella domenica mattina mi recai all’appuntamento con un pizzico di ansia. Conoscevo quella parte di sottosuolo che partiva dal parcheggio Morelli perché ne avevo sentito molto parlare, ma non l’avevo mai visitata. Quando arrivai al cancello della Galleria Borbonica, Gianluca era lì ad accogliermi. Già all’entrata, rimasi colpita dalla maestosità delle cavità che si ramificavano da quel punto in varie direzioni e poi, entrando, dal susseguirsi di giochi di volte, scavate nel tufo, e dagli archi di grandezze diverse.

“Questo – mi disse Gianluca senza scomporsi – è il nostro piccolo miracolo napoletano”! Era la storia di decine di volontari che ogni domenica mattina andavano a lavorare alla Galleria per rimuovere a mano tutti i materiali che ingombravano gli ambienti.

Durante il tragitto mi raccontò la storia della Galleria e di come lui, e il suo socio – e collega – Enzo de Luzio, avessero trovato tutto quello che, con grande sorpresa, stavo ammirando. Mi parlò dei rilievi statici che faceva nelle cavità del sottosuolo di Napoli che, dopo alcuni mesi, lo avevano condotto all’interno della Galleria Borbonica – che era in uno stato di totale degrado e abbandono, invasa da rifiuti e detriti sversati abusivamente negli ultimi 30 anni. Gianluca, tuttavia, non si scoraggiò. Cominciò subito i rilievi e i lavori di pulizia, coinvolgendo decine di volontari. Dopo cinque anni di interventi pazienti e impegnativi, tutta la città ha potuto ammirare la bellezza di un’opera civile totalmente dimenticata. Si trattava di un piccolo miracolo napoletano, dovuto alla capacità e alla tenacia di geologici, tecnici, studiosi e al lavoro di tanti ragazzi e ragazze della città.

Mi disse che le scale terminavano proprio sotto il pavimento del mio spazio. Rimasi di sasso.

Nel periodo bellico, per consentire il ricovero degli abitanti durante i bombardamenti, qualcuno aveva ampliato la scala già esistente nel Rinascimento che collegava il Palazzo con i suoi ambienti sotterranei. Restai in silenzio, osservando tutto ciò che mi circondava. Guardavo i volti dei ragazzi e lo sguardo di Gianluca e degli altri volontari dell’associazione Borbonica Sotterranea che quella mattina erano lì e che con tanto amore e passione avevano per anni scavato per riportare alla luce una simile bellezza. Gli dissi che ero onorata di poter collaborare con loro e di ripristinare il passaggio chiuso dopo la II guerra mondiale, che univa due realtà importanti come il Palazzo Serra di Cassano e la Galleria Borbonica. Da quel giorno sono passati due anni di intensi lavori di scavo e di prolungate attese per i permessi. Finalmente, il 14 novembre 2015 abbiamo potuto eliminare l’ultimo diaframma che impediva il congiungimento tra il Palazzo e il sottosuolo, restituendo così alla città di Napoli un percorso che, senza alcuna retorica, rappresenta l’orgoglio dell’iniziativa privata e del volontariato.

Da quel giorno, chi proviene dal sottosuolo può seguire il percorso di Palazzo Serra e sbucare con sua grande sorpresa all’interno del mio spazio polivalente dedicato alle arti e alla cultura – chiamato Interno A 14. In questi spazi abbiamo allestito un’area con una mostra permanente fotografica in onore dei volontari della campagna di scavo dell’associazione Borbonica Sotterranea dove si possono ammirare anche delle teche con alcuni degli oggetti ritrovati nel sottosuolo.

 

“DON’T SELL MARIO D’URSO SHORT” di Francesco Serra di Cassano – Numero 5 – Luglio 2016

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ha omaggiato con una grande mostra Mario d’Urso, il napoletano più conosciuto in America, il finanziere che ha stabilito il record di tre capodanni in tre continenti diversi e che per decenni ha orientato fondi d’investimento, portando milioni di dollari in Italia.

Uscito da Lehman con un cospicuo patrimonio, dopo pochi mesi (inizio 1984), entra a far parte della Kissinger Associates, diretta personalmente dall’ex segretario di Stato Usa. Quando lascia Lehman, Mario d’Urso è all’apice della sua carriera nel mondo della finanza e delle relazioni internazionali. In un profilo tracciato un anno prima dal giornalista Marco Mese si dice: “Quando giovanissimo se ne andò in America non aveva in mente Hollywood. Aspirava ad un mondo più esclusivo e arduo da conquistare: voleva arrivare a Wall Street, la leggendaria via newyorchese delle banche e degli affari. E oggi, al suo ufficio al 44° piano di un grattacielo, domina questa strada che, ormai dovunque, significa cuore della finanza. Mario d’Urso, 42 anni, proveniente da una famiglia di avvocati napoletani, è uno degli italiani di maggior successo all’estero. Come socio della Lehman Brothers Kuhn Loeb si è collocato ai vertici di una delle banche d’affari più importanti d’America. Il compito precipuo di d’Urso è ampliare e consolidare le ramificazioni della banca verso i paesi stranieri. Vola perciò da un capo all’altro del mondo per intrecciare relazioni d’affari. “In questo momento – spiega – devo occuparmi dell’America Latina e del Sud est asiatico, aree curate in precedenza da due partner che sono recentemente usciti dalla banca”. Mario d’Urso non è un banchiere di tipo italiano, tutto casa e ufficio: vive tra le sue residenze di New York, Londra e Roma, ama i night alla moda e cura il suo fisico d’atleta con molto sport: attrezzi, tennis, sci… ma le radici sono sempre le radici.

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“DON’T SELL MARIO D’URSO SHORT”

 

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Dolce vita e buoni affari. Un mix che per Mario, da subito, funziona perfettamente. Cerimonie e incontri serviranno, poi, al banchiere d’Urso per unire aziende, capitali, persone attorno a grandi progetti e alle grandi cessioni internazionali.

Mario d’Urso nasce a Napoli l’8 aprile 1940, da Alessandro d’Urso e Clotilde Serra di Cassano. È l’upper class partenopea, ricca, colta e cosmopolita, con diffuse parentele anglosassoni. Tra gli antenati due martiri della rivoluzione napoletana del 1799 e un firmatario della Dichiarazione d’indipendenza d’America.
Arrivato a Roma negli anni della guerra, Mario, primo di tre fratelli, si ambienta perfettamente nella città. Il padre, internazionalista di chiara fama, gira il mondo e frequenta, per lavoro e per amicizia, Giorgio Cini, Vittorio Valletta, gli armatori d’Amico, la potentissima ambasciatrice Usa Clare Boothe Luce.
Mario studia al Collegio San Gabriele, frequenta le ragazze Caracciolo, destinate a sposare gli Agnelli, ma anche donne borghesi e divertenti come Marina Punturieri, oggi Ripa di Meana, ragazzi brillanti come i Pratesi. Alla fine dei Cinquanta, i giovani-bene si divertivano a fare le comparse. E così, un occhio attento può ritrovare Mario d’Urso in varie pellicole di quegli anni. In quel periodo diceva di essere innamorato di Lorella De Luca, che andava a prendere a casa con una scala per farla uscire di nascosto, ma la sua principale compagna di uscite era la “vivacissima Marina”.

All’estero i rapporti con lo scià di Persia e il presidente delle Filippine Marcos mi permisero di combinare affari straordinari. Passavo, inoltre, le mie vacanze sia d’estate che d’inverno con l’avvocato Agnelli, Kissinger, Rockfeller, il presidente Kennedy e Onassis”.

La sua squadra alla Shearson Lehman, per molti anni, ha rappresentato il più ragguardevole gruppo di esperti in relazioni Italia – Usa: da Antonio Carosi a Ruggero Magnoni, da Andrea Farace a Lorenzo Ward, dai fratelli Gilardin a Roberto Magnifico ed Enrico Bombieri. Come direttore esecutivo dell’équipe, Mario d’Urso, conosciuto tra i finanzieri come Mario di Wall Street, ha assistito all’accumularsi tra il 1970 e il 1984 di più di cinque miliardi di dollari in valuta per le corporazioni appartenenti al governo italiano.
Mario lascerà la sua partnership in Lehman nel 1983, pur restando per alcuni anni consulente della società come advisor director.

Alla festa d’addio, che si tiene a Manhattan nel settembre 1983, viene proiettata una scritta luminosa intermittente che dice: “Don’t sell Mario d’Urso short”, ovvero “Non vendete Mario d’Urso al ribasso”.

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Dopo la maturità classica, studia giurisprudenza e si laurea a Palermo. In verità, si iscrisse contemporaneamente a due Università, una in Italia e una negli Usa. In quella di Georgetown a Washington, prende un master in Comparative Law nel 1965. Appena laureato entra nello studio di un prestigioso avvocato, Oscar Cox, legale del governo italiano in America. “Mi devo considerare molto fortunato – ha dichiarato in una delle tante interviste degli anni ’80 – perché non ho avuto molti ostacoli. Sono stato tra i primi italiani, negli anni Sessanta, ad entrare in contatto con un’importante investment bank come la Kuhn Loeb che nel 1977 si è fusa con la Lehman Brother.

Sin dal mio primo affare di prestigio, l’acquisto della Maserati da parte della Citroën, ho fatto carriera nella stessa banca. Nel 1967, a 27 anni, ero già partner e uno dei vari amministratori delegati della Kuhn Loeb

e questo fu molto importante per aumentare, a mano a mano, la partecipazione nell’utile della banca. L’Italia è stato il nostro cliente più importante. Dal 1968/69, periodo in cui è incominciato l’indebitamento italiano con l’estero, alla fine degli anni Settanta, abbiamo concluso, con il settore pubblico italiano, oltre tre miliardi di dollari di prestiti”.
Mario d’Urso, sin dall’inizio della sua carriera a Wall Street, imposta un modello nuovo di contatto con i clienti: “I banchieri di solito stanno in ufficio dalle 8 alle 18; io, invece, ho sempre voluto mescolare il lavoro con il privato e, così, sono diventato amico di capitani d’industria, capi di stato e così via. Per fare qualche nome…in Italia Guido Carli e Tom Carini.

Ma non è stata solo la finanza a caratterizzare la vita sociale e l’attività di relazioni di Mario d’Urso. Sin da giovane ebbe il pallino della politica.

“Mi porta fortuna”, assicura. Da tipico self-made man, a 16 anni già concludeva affari. “Ero andato in vacanza a Londra – racconta – e mi iscrissi a un corso presso una compagnia di assicurazioni marittime della City. Finì che i titolari della società mi affidarono la loro rappresentanza in Italia”.
E’ Capital a certificare il suo successo. Gli dedica la copertina del 7 luglio 1981 con un’intervista che riassume le grandi operazioni della sua attività in Lehman. “Quali operazioni considera le più importanti e qualificanti della sua carriera? R. Dal punto di vista della soddisfazione e dell’impegno, l’affare Citroën-Maserati è stato forse il più interessante. Mentre, in termini di dimensioni, i più importanti sono stati, nel 1973, il prestito da un miliardo di dollari al Crediop e quello di cui si scrisse molto di 500 milioni di dollari per Venezia. Per quest’ultimo prestito eravamo in tre a concorrere: la Lehman Brothers, la Banca Commerciale e la Khun Loeb. Alla fine Mattioli ci mise d’accordo, e le tre istituzioni gestirono insieme il prestito. L’idea di Mattioli fu profetica. Cinque anni dopo noi di Khun Loeb ci siamo fusi con la Lehman Brothers, e l’unico nostro azionista istituzionale, al di fuori di noi partner, è la banca Commerciale. Un altro bell’affare della mia banca concluso in Italia è la partecipazione della St.Gobain nella Olivetti. Qui abbiamo lavorato in parallelo con Guido Vitale, che da tempo seguiva le vicenda della società d’Ivrea e che nel 1973 mi aveva presentato Carlo De Benedetti. L’idea del matrimonio con la St.Gobain venne al mio collega Istel, lo stesso con cui avevo concluso l’affare Maserati quindici anni prima”.

Nell’animo di d’Urso cova un residuo di sana scaramanzia napoletana. Così, quando deve firmare un contratto molto importante tira fuori dall’armadio un vecchio abito del nonno e lo indossa.

Nel 1957, appena diciassettenne, fu uno dei leader del movimento federalista e tra i promotori, nel 1961, delle prime elezioni a suffragio universale per gli Stati Uniti d’Europa. Il capo del movimento, all’epoca, era il grande europeista Altiero Spinelli. Racconta lui stesso: “Tentai di forzare le frontiere di Francia e Germania con pullman di giovani, per protesta contro le formalità doganali. Spinelli si spaventò, ero troppo rivoluzionario”. 
Sarà però solo nel 1983 che Mario d’Urso, finita l’esperienza di amministratore in Lehman, proverà la grande scalata al Parlamento italiano. Decide di candidarsi alla Camera con la DC, con questo slogan: “Dopo molti anni di vita all’estero che mi ha permesso di acquisire un’importante professionalità nel campo della finanza internazionale, ho deciso di mettere questa mia esperienza al servizio dell’Italia. Sono convinto che se ce la mettiamo tutta, l’Italia può essere campione del mondo in tutto”. 
Il tentativo non riesce, ma ci sono brogli e Mario d’Urso risulta tra i primi dei non eletti con un grande numero di voti di preferenza personali (quasi 40 mila). Ci riproverà con la Dc ancora due volte nel 1989 (a Roma) e nel 1992 (nel collegio senatoriale di Milano 1), prima di essere eletto senatore con l’Ulivo nel 1996, nel collegio di Castellammare di Stabia/Sorrento. 
Nel 1995, intanto, Dini aveva ottenuto l’incarico di formare il governo tecnico per sostituire l’esecutivo a guida Berlusconi, travolto dall’avviso di garanzia durante il Summit internazionale a Napoli. Dini chiama Mario d’Urso a ricoprire l’incarico di Sottosegretario al Commercio con l’Estero a fianco del Ministro Alberto Clò. Il governo resterà in carica un anno e, poi, le urne sanciranno la vittoria di Romano Prodi che darà vita al primo esecutivo dell’Ulivo. 
Nella carriera di Mario d’Urso la politica ricopre una parentesi significativa ma di breve durata. Al termine della Legislatura, nel 2001, non viene ricandidato. È lui stesso a raccontare che Dini gli ha preferito un altro candidato e soprattutto che logiche interne alla coalizione lo hanno di fatto emarginato. Le elezioni le vincerà Berlusconi e il 15 luglio Carlo Rossella sul Foglio chioserà in questo modo: “Mario d’Urso consiglia champagne Philipponnat grand cru a chi in queste ore vuole bere per dimenticare”.

 

PALMIRA. LA SPOSA DEL DESERTO di Paola Pariset – Numero 5 – Luglio 2016

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parlavano più delle parole – in un grande archeologo come lui, avvezzo alla pacata e fruttuosa ricerca degli scavi, che nei decenni resuscitarono Ebla, la sua biblioteca, i tesori fascinosi dell’antica Mesopotamia – a proposito della drammatica distruzione di resti intangibili di Nimrud e di Palmira, nell’incontro del 15 febbraio “Il Tempio distrutto. Una questione cosmopolitica”, all’Istituto Svizzero di Roma, in via Ludovisi.

Gli occhi specchio dell’anima di Paolo Matthiae tradivano l’immanità della tragedia e della barbarie di oggi, in cui le opere d’arte sono divenute – come, in tanti altri casi, il corpo brutalizzato delle spose, delle madri, delle sorelle – oggetto di ricatto e mercanzia bellica, che brucia al militare più delle proprie ferite e della propria morte.

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PALMIRA.

LA SPOSA

DEL DESERTO

 

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 E basterà ricordare (ma mai nessuno dimenticherà) la fiera resistenza dell’ottantaduenne direttore del Museo Archeologico di Palmira, Khaled Asaad, che, per non rivelare i luoghi di collocazione protetta dei reperti museali, ha subìto tortura e atroce decapitazione nell’agosto 2015, per mano dell’ISIS. Perciò, dinanzi a questo regresso della civiltà, il direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci, in occasione dell’intervista alla SIAE per la sua firma su “Unite for Heritage” e la presentazione dei Caschi Blu della Cultura, il 16 febbraio scorso affermò: “Sarò qui…

credo che ogni operazione fatta per la cultura abbia in sé una valenza pacifica, anche se i cani della guerra sono più forti di qualsiasi buona intenzione”.

Infatti nessuna costruzione a volta o a cupola qui tradisce la monumentalità dell’estetica imperiale romana: ovunque, nella rettilinea via colonnata simile a quella di Damasco, nel Teatro Romano di impianto ellenistico col favoloso proscenio a edicole, nel Tempio di Baal di tipo ionico-corinzio, trionfano la limpida geometria, il rapporto delle perpendicolari, la rettilineità ellenica. Su questo olimpico universo interferirono nel secolo III dopo Cristo il mondo partico, sassanide, iranico, coi loro simbolismi astratti e metafisici, appartenenti alla religione di Ahura Mazda: le coeve sculture funerarie palmirene, di livello artistico molto alto, palesano questo impossibile eppure realizzato connubio. Fu questo il periodo in cui prosperò il potente Regno di Palmira, retto dalla ricchissima e bellissima regina Zenobia, che osò muovere contro Roma proprio dopo la terribile disfatta dell’esercito dell’imperatore Valeriano da parte del sassanide Shapur I a Edessa, nel 270: ma solo l’imperatore Aureliano sconfisse e catturò Zenobia in fuga sull’Eufrate, conducendola a Roma per il proprio trionfo, stretta in catene d’oro, come il quadro tardoromantico di Herbest Schmalz testimonia, con immaginaria fedeltà. Sappiamo che anche Diocleziano e Giustiniano misero mano a fortificazioni della città di Palmira, che restò base militare romana e poi bizantina, prima di venire definitivamente abbandonata.

Paolo Matthiae ricordava, e dinanzi ai suoi occhi scorrevano i decenni serviti a riportare alla luce antichissime città e i pochi minuti per seppellire il Tempio di Baal e l’intero santuario di Baalshamin a Palmira, nella polvere di un’enorme e letale esplosione. Palmira, la Sposa del Deserto: il suo manto nuziale non è candido, è color sabbia, e tale è rimasto dall’origine dell’umanità, da quando essa iniziò ad accogliere le infinite carovane in sosta, lungo il viaggio tra Occidente e Oriente, per lo scambio di mercanzie, stoffe seriche, spezie.

Palmira era l’oasi fresca delle palme che le diedero il nome, fresca per la sete di centinaia di migliaia di uomini, in lento cammino.

Oggi essa vive di ricchezze archeologiche, perpetuanti fra le sue sabbie desertiche lo splendore della Grecia antica, anche se nella storia precristiana di Palmira rientrano le mitiche fortificazioni di Salomone, di cui nessuno conosce le fondamenta. Quando essa fu raggiunta dall’espansionismo romano, divenne provincia orientale di Roma, pur mantenendo l’autonomia che già possedeva nel periodo ellenistico seleucide.

All’imperatore Adriano, profondamente cólto, che dal mitico centro mediorientale rimase affascinato, risalgono quasi tutti i reperti archeologici monumentali di Palmira giunti fino a noi, che recano il segno del di lui amore per la Grecità classica ed ellenistica.

Un fascino unico promana da queste inclite mura, che ascendono come fiori dalle sabbie desertiche, del cui colore si ammantano: qui ebbe luogo la fusione culturale fra Est e Ovest, fra il mondo classico greco e quello bizantino e medievale.

Perché questo fu il ruolo storico di Palmira. Ma essa dal 2015 non è più come prima. Gli scempi perpetrati dall’Isis hanno sollevato lo sdegno mondiale, ma non hanno fermato il Califfato. Ed allora gli occhi smarriti del professor Matthiae si sono armati di nuova energia: e la sua opera si indirizza – come quella dei suoi colleghi internazionali e dell’ICCROM – a sostenere l’operato di chi vigila sui beni rimasti in situ, dai livelli direttivi all’usciere, visto che, nel frattempo, altri 15 custodi e funzionari sono rimasti uccisi per difendere il patrimonio artistico e il loro ruolo non si svolge affatto nella sicurezza. “L’ICCROM – afferma il direttore Stefano De Caro – è figlia delle distruzioni, ma si sa bene che la soluzione è il dialogo, anche coi Talebani. Intanto, teniamo corsi di preparazione alla guerra, al pronto-soccorso dell’arte, ad impacchettare i monumenti”. Matthiae, dall’alto dei suoi 76 anni, ha compreso che a ciò conduce “l’odio dell’altro”, come ai tempi di Costantino e Teodosio, ma anche della Francia di Luigi XVI (pochissime le statue di lui rimaste), e non finisce qui.

Questo, dunque, non è più il momento di nuovi scavi, della conquista di nuove conoscenze, ma quello pratico della salvaguardia, delle ricostruzioni

con criteri filologici o meno, per mettere infine i popoli – dice ancora Matthiae – “in condizione di fare da sé, di gestirsi da sé. E non sotto tirannide”.

 

LA DEA E I SUOI TABÙ di Giovanna Mulas – Numero 5 – Luglio 2016

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“Che cosa poteva sapere, Socrate, quando l’ho presa con me? Non aveva ancora quindici anni quando è venuta nella mia casa; fino allora era vissuta sotto stretta sorveglianza, doveva vedere meno cose possibili, udirne il meno possibili e fare meno domande possibili”.

Altra causa frequente di ripudio era la sterilità; rimandando al padre la moglie sterile, lo sposo adempiva addirittura a un obbligo religioso e patriottico. E in ogni caso l’eventuale gravidanza della moglie non costituiva ostacolo al ripudio. Il marito che ripudiava la moglie, però, doveva restituirne la dote e questa costrizione costituiva il solo freno – spesso efficace – al moltiplicarsi dei divorzi.

Ecco, questa è probabilmente la parola magica: follia, ma non rappresenta IL Tutto, ché sarebbe riduttivo parlare soltanto di follia,

LA DEA

E I SUOI

TABÙ

 

A scrivere queste righe è una donna ‘diversa’: forse più forte o forse no ma che in un capitolo nuovo, questa nuova vita, vive l’amore amata di stesso amore; ciò che ogni donna è portata fisiologicamente a vivere e dovrebbe vivere: in libertà, dignità, purezza.

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rivolgersi all’arconte, protettore naturale degli incapaci, e consegnargli una dichiarazione scritta dove venivano esposti i motivi sui quali si fondava la sua richiesta di separazione. E’ probabile che l’evidente infedeltà del marito non bastasse a far deliberare all’arconte la separazione giacché i costumi tolleravano la libertà sessuale del maschio; al contrario, percosse e maltrattamenti subiti dalla moglie, se accertati nel corso dell’inchiesta, costituivano motivo valido seppure l’opinione pubblica sarebbe rimasta comunque sfavorevole alle donne che si separavano dai mariti: “Lasciare lo sposo è infamante per le donne e non è loro permesso di ripudiarlo” (Euripide, “Medea”, vv.236-237).
Sappiamo che esistono ferite, nella vita, che non rimargineranno.
Il tempo potrà ammansirle, vestirle di una nuova prospettiva di saggezza e serenità, ma, mai, queste ferite potranno cicatrizzare del tutto. Vuoi perché sono troppo profonde; vuoi perché, oramai, fanno parte di noi, e solo con noi scompariranno. 
E ogni volta che una donna, Sorella di Lune e Destino, muore per mano di un amore malato, la mia ferita grida ancora. A volte vorrei che smettesse, qualche volta io stessa ho voluto smettere, ma il richiamo alla vita è sempre stato, purtroppo o per fortuna, più forte e maledetto, istintuale. La vita mi ha chiamato quando pensavo di non avere più nulla da darle o da risponderle, e credo che è pure per questo che io, oggi, sono qui a raccontarlo.

L’opera venne commissionata dal Vescovo di Ariano, Mons. Diomede Carafa al Pittore suo amico Leonardo da Pistoia, e allude alle tentazioni dalle quali si deve – dalle quali il prelato deve – trovare la forza di allontanarsi. 
Il Quadro raffigura un San Michele che abbatte il diavolo con un incantevole volto di donna. Il viso tentatore era quello della Nobildonna Vittoria d’Avulso, che aveva fatto perdere la testa al Carafa. Ancora oggi, a Napoli, una donna che reca solo guai è detta ‘bella come il diavolo di Mergellina’.
Dea uguale viaggio?: nell’ipocrisia, nei tristi, malsani pregiudizi di donne nei confronti di altre donne, noi che dovremmo essere sorelle e unite di quella forza che la Natura già ci dona semplicemente perché donne, creatrici, mestruate sempre, portatrici partorienti di energia.

Tale era dunque l’ideale della buona educazione, della sofrosine per le fanciulle. E’ il tutore della giovinetta – padre o nonno o tutore legale -, nel momento giusto, a scegliere il marito decidendo per lei e senza che il consenso dell’interessata fosse necessario. La principale ragione del matrimonio era di ordine religioso: ci si sposava per avere dei figli maschi, almeno uno che perpetuasse la razza e assicurasse a suo padre il culto che questi aveva dedicato ai suoi antenati, indispensabile per la felicità del defunto nell’al di là (tutta la vita era scandita dal ritmo delle feste religiose della famiglia, del demo, della città e dalla minuziosa esecuzione dei riti ereditati dagli antenati). Le fanciulle potevano sposarsi appena raggiungevano la pubertà, verso i 12 o 13 anni ma, in genere si aspettava che ne avessero 14 o 15. Esiodo consigliava all’uomo di sposarsi verso i 30 anni con una fanciulla di 16 (“le opere e i giorni”, vv. 696-698).

Il matrimonio legittimo fra un cittadino ed una figlia di cittadino era caratterizzato ad Atene dall’engyesis (“consegna di un pegno”) ch’era più di un semplice fidanzamento.

Era in realtà un accordo che si ha ragione di credere avesse luogo presso l’altare domestico; una convenzione orale ma solenne fra due persone: da una parte il pretendente, dall’altra il kyrios della fanciulla che era il padre, se ancora in vita. Ci si scambiava la stretta di mano e qualche frase rituale (da “La fanciulla dai capelli corti”, Menandro, vv.435-437):
PATAICOS -ti do questa fanciulla perché metta al mondo dei figli legittimi.
POLEMON – Io l’accolgo.
PATAICOS – Aggiungo una dote di tre talenti (il talento valeva 6.000 dracme, n.d.r.)
POLEMON – L’accolgo con piacere.
“Abbiamo le cortigiane per il piacere, le concubine per le cure quotidiane, le mogli per darci dei figli legittimi ed essere le custodi fedeli delle nostre case”. (Pseudo-Demostene, ‘Contro Neaira’, 122). E ancora, da Esiodo, ‘Le opere e i giorni’, vv. 376-377: “Abbi un figlio unico (…) E’ così che la ricchezza cresce nella casa.”.

Ben diversa era la situazione quando a volersi separare era la moglie, collocata dalla legge in una condizione d’endemica incapacità giuridica. La donna aveva una sola possibilità:

Una singolare tela, che va sotto il nome di ‘San Michele che calpesta il demonio’ o anche ‘Diavolo di Mergellina’, è conservata nella Chiesa di Santa Maria del Parto a Napoli.

Italia, i dati: dall’inizio del 2016, almeno 58 donne sono state uccise dal partner o dall’ex fidanzato. Tornando indietro nel tempo al gennaio 2015, risultano 155 le uccisioni. Telefono Rosa denuncia 9.000 casi di violenza e altri mille di stalking; quindi, una legge che non basta.
Una donna su tre (circa 6 milioni e 788mila persone) ha subìto violenza fisica o sessuale almeno una volta nel corso della vita. La percentuale è il 31,5% delle donne italiane fra i 16 e i 70 anni. Il 20,2% ha subìto violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% (un milione e 157mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652mila) e il tentato stupro (746mila).

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Un marito aveva sempre il diritto di ripudiare la propria moglie, anche senza alcun motivo valido. L’adulterio della donna, quando giuridicamente accertato; rendeva addirittura obbligatorio il ripudio, pena l’atimia per il marito che non lo intimasse.

Curioso che, ancora oggi, si debba rimarcare che a una donna la libertà spetta di diritto, per nascita. 
La mia è una storia come tante, e per raccontarla volo indietro nel tempo, al 2001, in un’apparentemente tranquilla cittadina di provincia, la mia Nuoro: una richiesta di divorzio dall’uomo che era mio marito, tre tentativi di omicidio subìto dei quali l’ultimo, per strangolamento e accoltellamento, avvenuto davanti agli occhi dei nostri quattro figli, allora tutti minori.
Sospesa tra la vita e la morte, un limbo.
Di quei giorni ‘non miei’ – tre anni di distacco dalla vita, dal mondo – porto, voglio portare, il ricordo nebuloso; incerto.
Infiniti perché, il pozzo profondo della depressione, il buio e l’alcol, la profonda crisi artistica, intima: perché ero viva, perché io e perché a me, perché i nostri bambini avevano dovuto assistere a tutto questo, perché lui aveva tentato il suicidio, perché lui a me, dove avevo sbagliato, come e ancora perché…e lui, che fino al giorno prima aveva ripetuto di amarmi alla follia.

e offensivo nei confronti delle sorelle che, per mano di un amore malato hanno perso e perdono la vita, o il sorriso o la speranza…donne che, in ogni modo, si sono perse dentro e non sempre riuscendo a ritrovarsi.
Troppi nomi, tabù e colpe, croci.

Viaggio in una chiesa misogina, in uno Stato che tenta di curare la donna vittima di violenza, tampona le ferite ma, paradossalmente, lo fa senza intaccare la radice della violenza, senza punire severamente chi la attua.

Si muore a “mani nude”, per le percosse, strangolamento o soffocamento: così nel 2013 è morta, uccisa, una donna su tre.

A rilevarlo è il rapporto Eures che mette in relazione tale modalità di esecuzione ad un “più alto grado di violenza e rancore”: 51 vittime, pari al 28,5% dei casi; in particolare le percosse hanno riguardato il 5,6% dei casi, lo strangolamento il 10,6% e il soffocamento per il 12,3%. Di poco inferiore la percentuale dei femminicidi con armi da fuoco (49, pari al 27,4% del totale) e con armi da taglio (45 vittime, pari al 25,1%).
La violenza fisica è più frequente fra le straniere (25,7% contro 19,6%), mentre quella sessuale più tra le italiane (21,5% contro 16,2%). Le donne che subiscono più violenze fisiche o sessuali sono le separate e le divorziate; i casi più gravi di violenze vengono perpetrati dai partner attuali o ex compagni. Il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente. Gli sconosciuti sono nella maggior parte dei casi autori di molestie sessuali (76,8%).
Aumentano le violenze che hanno causato ferite (dal 26,3% al 40,2% da partner) e il numero di donne che hanno temuto per la propria vita (dal 18,8% del 2006 al 34,5% del 2015). Il 16,1% delle donne (3 milioni e 466mila) ha subìto stalking nel corso della vita, nella metà dei casi dall’ex partner.
Oggi e ieri la violenza continua a nutrirsi di mala cultura, di omertà, di informazione perversa, di Non legge. Denunciamo la violenza e ovunque: oggi, domani e sempre. Come madri, insegnamo la Non violenza e che finalmente, in questa Italia da emergenza femminicidio, si faccia una Legge, giustizia vera contro la violenza.

Da Posidippo, frammento 11: un figlio lo si alleva comunque, anche se si è poveri, mentre una figlia la si espone anche se si è ricchi.

 

MAREVIVO PROTEGGE IL “POLMONE BLU” di Luce Monachesi – Numero 5 – Luglio 2016

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MAREVIVO PROTEGGE IL “POLMONE BLU”

 

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La passione per il mare è ovviamente in me sin da bambina a Napoli: preservarlo e difenderlo è stato il grande obiettivo della mia vita. Ho iniziato la mia battaglia ambientalista a Capri, regalando caramelle ai bambini affinché ripulissero le grotte dalle plastiche che le inquinavano. Contemporaneamente, cercavo di sensibilizzare tutti gli amici sul fatto che il mare è il nostro “polmone blu”: produce l’80 % dell’ossigeno che respiriamo e ricopre il 71% della superficie del Pianeta.
Determinante fu l’incontro nel 1985 con Fulco Pratesi, all’epoca presidente del WWF, che mi suggerì di creare una vera e propria associazione. Nacque Marevivo, a cui molti amici (per la precisione 27) aderirono con entusiasmo e coinvolgemmo, come comitato scientifico, il CoNISMa, cioè il Consorzio Nazionale Interuniversitario per Le Scienze Del Mare.

Qual è la storia dell’Associazione?

L’incontro della nostra associazione con Papa Francesco sui temi dell’ambiente. Soltanto attraverso la comunione degli ideali e la partecipazione di tutti possiamo promuovere la giustizia ambientale e difendere il Creato. Noi ambientalisti del mare, impegnati da trent’anni in attività e azioni in difesa dell’ecosistema marino e delle sue creature, siamo mossi da un’onda benefica di speranza e tutti dobbiamo attivarci seguendo l’invito di Papa Francesco.

Rosalba Giugni Laudiero, napoletana doc (figlia di armatori ed esperta subacquea), ha da poco festeggiato i trent’anni della associazione ambientalista Marevivo, che ha fondato e presiede con impegno e competenza meritando, a tutti gli effetti, il titolo di “regina del mare”.
La incontriamo a Roma presso il barcone sul Tevere, sede ufficiale dell’Associazione, e le chiediamo:

L’educazione ambientale soprattutto; a tale scopo abbiamo organizzato dei veri e propri percorsi per bambini, come il progetto “Delfini Guardiani” che coinvolge 1576 studenti delle isole minori d’Italia e si sta concludendo alle Eolie e alle Egadi, per sensibilizzare le nuove generazioni alla tutela del proprio mare e del proprio territorio.
Questa iniziativa ha avuto tanto successo e ora sta crescendo nelle principali città.
Poi ci sono le azioni di contrasto all’inquinamento; ad esempio, continua l’impegno di Marevivo per il mare di Napoli. Non ci arrendiamo, dobbiamo restituire il suo golfo e il fiume Sarno liberi dall’inquinamento.

Qual è la cosa che ti ha emozionato di più recentemente?

Luce-Monachesi

Qual è l’obiettivo di Marevivo?

Quale è stata la prima manifestazione dell’Associazione?

Il nostro trampolino di lancio fu la prima campagna di ripulitura delle spiagge e delle rive dei principali fiumi, alla quale parteciparono con entusiasmo moltissime persone.

Una delle molte manifestazioni è stata quella denominata “No Finning”. Puoi spiegarci di cosa si tratta?

Il nostro obiettivo era proteggere lo squalo, vittima di una caccia indiscriminata a causa della sua pinna gelatinosa, reputata una prelibatezza per la cucina orientale. Siamo noi ad attaccare loro: negli ultimi 40 anni la popolazione degli squali medio-grandi è scesa del 90%. Cause principali sono la pesca non selettiva, le cosiddette “catture accessorie”, il mercato di pinne e carne e, infine, l’inquinamento.

Avete creato anche una “Tavola Blu”.

Insegnare ai futuri chef che è possibile coniugare creatività e tutela del mare è stata una gran bella sfida. Ricordo l’esperienza che ci ha portato a cucinare meduse: poiché ne siamo invasi, abbiamo convocato un grande cuoco, Gennaro Esposito, che ci ha fornito preziose ricette per cucinarle, essendo le meduse ricche di proteine e collagene.

Qual è la prossima battaglia?

Pesca illegale ed eccessiva, petrolio, veleni di ogni tipo riversati, ogni giorno, nel mare; ma non finisce qui: c’è un mostro apparentemente inarrestabile e indistruttibile che si insinua, addirittura, nella catena alimentare dell’uomo: la plastica. Per capire come affrontarlo, Marevivo sta portando avanti la campagna di informazione, sensibilizzazione e conoscenza “Mare Mostro: un mare di plastica?”, realizzata in collaborazione con la Marina Italiana e il CoNISMa e partita a bordo della nave scuola Amerigo Vespucci.

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