LE VIE FRANCIGENE DEL SUD di Giorgio Salvatori – Numero 9 – Dicembre 2017

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LE VIE FRANCIGENE DEL SUD

 

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Era nata la via Francigena che, in seguito, si estenderà,
con un prolungamento del percorso e decine di diverticoli,
al resto della penisola. Diventerà così non soltanto
la via per Roma, la “Romea”, ma anche
la ‘’via verso Gerusalemme’’,


arricchendo il cammino di nuove tappe in quelle regioni che, oggi, sono il Molise, la Campania, la Basilicata e, soprattutto, la Puglia. Un percorso di fede e, contemporaneamente, una sfida, un viaggio alla scoperta di se stessi. 

 

E oggi? Sulla scia del sorprendente successo che anima ancora l’itinerario di fede cristiana verso Santiago di Compostela anche la Francigena, anzi le francigene, come sarebbe più giusto dire, tornano, da alcuni anni, a rianimarsi di frequentazioni. Non solo di fedeli ma anche di curiosi ed amanti di percorsi turistici alternativi e paesaggi rurali. Un rifiorire di passi lenti lungo antichi borghi e mansioni e, soprattutto, cammini impegnativi. Gli itinerari vanno da Nord a Sud e viceversa, attraverso quattro nazioni, Gran Bretagna, Francia, Svizzera e Italia. Ma non bisogna spaventarsi. Chi ama viaggiare senza le quattro ruote, ma non vuole o non può camminare troppo a lungo o affatto, può utilizzare altri mezzi, come la bicicletta o il cavallo. E se la fede oscilla, oltre a chiese e ostelli religiosi che, tradizionalmente, offrono soste di preghiera e pernottamenti ai pellegrini più devoti, il percorso concede approcci diversi e appuntamenti culturali. Un confronto laico, ma non un travestimento irriverente, che, in sette edizioni, ha visto crescere e raddoppiare le presenze di viaggiatori lungo le Francigene, senza nulla sottrarre al sacro e favorendo il contatto con genti e tradizioni dei luoghi percorsi. Collegato strettamente alle diverse tappe dell’itinerario un poliedrico festival ne vivifica le giornate, e soprattutto le serate. I camminatori possono così scegliere tra il silenzio olistico del proprio pellegrinaggio oppure ritagliarsi spazi meno solitari e più animati da svaghi ed eventi che favoriscano lo spirito di gruppo e la voglia di conoscersi. Il Sud, naturalmente, ha carte d’oro da giocare su questo tavolo. Per scoprirle abbiamo incontrato Sandro Polci, ideatore e Direttore del Festival Europeo della Via Francigena. 

 

I numeri ci dicono che il lungo tracciato delle Francigene
si sta popolando sempre più di pellegrini, appassionati, curiosi.
E’ stato il festival a favorire questo interesse?
E come è nata la manifestazione?

 

Molto umilmente abbiamo dato il nostro contributo. Io credo che la crescita – che direi in doppia cifra, anno su anno, negli ultimi 5 anni – dipenda dal momento culturale: vi è bisogno di verità e certezze. Non parlo (solo) di un anelito religioso ma più ampiamente spirituale e condiviso. Qualcosa “oltre”, verso una verità da scoprire, innanzitutto in se stessi e con compagni di strada, spesso non scelti. La condivisione più bella non è esclusiva è inclusiva e trae vantaggio anche dall’imprevedibilità (pioggia, fame, malinconia?). Sognare, creare bellezza, senza remore ma con rinnovata passione. Solo così sapremo valorizzare anche i piccoli centri che traversiamo e che rappresentano: una peculiarità e una garanzia del nostro sistema sociale e culturale; una certezza nella manutenzione del territorio; una opportunità di sviluppo economico. Francia e Italia sono le nazioni europee dove la popolazione è maggiormente distribuita: nel nostro Paese l’85% dei comuni – ben 6. 875 – ha meno di 10. 000 abitanti. Popoliamo un territorio che conta oltre 22.000 centri abitati, quasi 33. 000 nuclei insediativi, senza considerare le caratteristiche di tanta parte del nostro sistema agricolo composto di “case sparse”. 

 

La “piccola dimensione” è spesso considerata un forte limite, rispetto alle esigenze di capitalizzazione e di capacità competitiva, dato dalle necessarie economie di scala e dai sistemi di rete che solo organizzazioni più complesse garantiscono. Io invece credo che ciò può costituire una “attrattività smart”: intelligente e innovativa, ad iniziare dalle politiche di inclusione. E’ dunque possibile un nuovo protagonismo sociale, basato sull’“economia circolare”, di cui il “dinamismo” è una componente fondamentale. Pensiamo ad esempio al turismo delle identità, per “(ri)creare identità antiche e nuove” e valorizzare culture materiali e immateriali, in agricoltura, nell’artigianato e nell’industria creativa, legate alla naturalità dei luoghi. Tale ibridazione, se “ben narrata”, è una opportunità concreta e ancora inesplorata. 

 

Il Sud è entrato a pieno titolo nel progetto di rinascita
della Francigena. Qual è stato l’evento più seguito
del suo Festival in Meridione La scorsa estate?

 

Mi permetto di segnalare il sito festival.viefrancigene.org, dove valutare i circa 500 eventi quest’anno raccolti sotto il tematismo “Borghi e nuvole”. “Borghi”, perché nell’anno dei borghi abbiamo voluto favorire trekking urbani e non solo ruralità affascinanti. “Nuvole”, perché dobbiamo alzare lo sguardo per cogliere leggerezze e qualità di natura e genti. Tra tanti eventi, le tipologie più affascinanti per me sono: le musiche serali, i pasti condivisi, semplici ma di tipicità locali che sposano saperi e tradizioni. Così la “Compagnia dei 12” nel sud del Lazio o gli amici del Cammino di San Benedetto o la vitalità pugliese fino alla nostra finis terrae italiana sono solo alcuni esempi. 

 

La cosiddetta ‘’bisaccia del pellegrino’’ che cosa è esattamente?

 

La bisaccia è il magro bagaglio del pellegrino, fatto di poche, indispensabili cose: il sacco, un ricambio, un farmaco di emergenza e un cellulare augurabilmente spento. Ma da 2 anni la bisaccia del pellegrino è anche una fortunata iniziativa, voluta dall’Associazione Europea delle Vie Francigene e dall’Associazione Civita, che promuove la promozione e la vendita di alcuni prodotti tipici e naturali dei diversi territori ai camminatori di passaggio. Stiamo mutuando l’efficace capacità francese del terroir, ovvero la valorizzazione dell’inscindibile legame tra i prodotti di una terra e la voglia di scoprire quella stessa terra, da parte di un turismo pellegrino che chiede verità, sincerità ma anche godimento.

 

Potrà contribuire a far conoscere meglio ed apprezzare
la cornucopia di odori, colori, sapori del Sud?

 

Lo sta già facendo e attende soltanto i suggerimenti di opinion leader e maker che interpretano al meglio tanti valori e desideri. È un’opera aperta da scrivere insieme. 

 

Un recente sondaggio condotto tra i pellegrini delle Francigene
ha portato alla luce le differenti motivazioni che spingono
i viaggiatori a ripercorrere questo storico itinerario religioso.
I risultati sono sorprendenti: solo il 10 per cento lo compie 

perché spinto dalla tradizionale molla della fede, il 22 per cento 

è spinto da ragioni culturali, il 17 per cento per cercare
percorsi alternativi al turismo di massa. Terrete conto
di queste motivazioni per comporre il calendario
degli eventi della prossima edizione del Festival?

 

Le chiedo. Quando lei mangia un gustoso minestrone, giudica la pietanza nel suo insieme o disquisisce di ogni ortaggio? Io, ad esempio, quando la mattina prima di camminare mi chiedono se sono credente o meno, rinvio la risposta alla sera, quando stanchi e felici sembra una domanda inutile o, come si diceva, sovrastrutturale. Camminare è fratellanza, condivisione, spiritualità e, per chi crede, religione e fede. Comunque, a onor del vero, altre analisi elevano la percentuale dei credenti.

 

 Quale sarà la proposta, l’iniziativa più significativa
del Festival nel 2018?

 

Stiamo faticando, senza risorse e armati solo di passione, per creare il Festival veramente Europeo dei Cammini, per ogni cammino. Ben sappiamo infatti che la Via di Santiago e la Via Francigena sono per antonomasia le “Vie traino” ma che in nulla offuscano i mille altri itinerari di fede, cultura, natura e coesione sociale. Dunque, confidiamo nei suggerimenti, proposte e nuovi progetti di cammini per l’8° Festival Europeo dei Cammini, francigeni, romei e di ogni altra ispirazione perché, ripetiamolo, i Cammini sono la linfa vitale che connette e condivide le eccellenze borghigiane. Un fitto reticolo che, muovendo dalla conoscenza per antonomasia della Via Francigena, traversa i nostri territori innervandone bellezza e ospitalità. E il Festival, in ciò, ne è il messaggero, il buon lievito del pane che alimenta l’hardware, favorendo la fruizione sociale, culturale ed economica di questo vasto scrigno paesaggistico. Dunque, Buon Cammino.

 

 

 

 

nonsolo fede e sudore

Sono trascorsi più di mille anni dal primo, storico viaggio a Roma di Sigerico, neoconsacrato arcivescovo di Canterbury. Ricevuto il pallio, durante il rientro nella sua sede vescovile, l’alto prelato descrisse minuziosamente le 79 tappe che si dovevano rispettare per percorrere, a piedi o a cavallo, i quasi duemila chilometri che separavano (e separano) la capitale della cristianità dalla terra degli Angli, all’epoca fresca di evangelizzazione. Altri monaci avevano compiuto lo stesso percorso prima di lui, ma Sigerico fu il primo a documentare la mappa precisa dell’itinerario e delle inevitabili soste. 

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IL ROMANZO DEI CAMINANTI di Alessandro Gaudio – Numero 9 – Dicembre 2017

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 IL ROMANZO DEI CAMINANTI

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Cos’è un camminante (o caminante, in siciliano)?1
Quali tracce hanno lasciato i Camminanti lungo il corso dei loro molteplici itinerari attraverso tutta l’Italia? Specialmente dal 1952,
quando molti di loro si insediarono a Noto, a Priolo,
a Sommatino e in altri centri siciliani,

 

principalmente nella provincia di Caltanissetta, e poi, negli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo, come si è evoluto il loro legame con il mondo esterno? Cosa resta oggi delle loro attitudini originarie? Grazie a un bellissimo documentario di Giuseppe Tumino, regista indipendente ragusano trapiantato in Basilicata2, e della fotografa Rita Mirabella, ideatrice del soggetto e co-regista3, possiamo tentare di dare una risposta a tali quesiti. Dal lavoro − intitolato Il segreto dei Caminanti (Italia – 63′), uscito nel 2016 per Extempora e realizzato con il sostegno della Sicilia Film Commission − apprendiamo, se non altro, il modo in cui quel legame, non certo dei più labili, si è sviluppato nel tempo. Sulla sua consistenza e il suo peso sembra aver influito la scelta di stabilirsi in alcuni luoghi, di disporre di qualcosa che appartenesse finalmente a loro, di una casa, nella quale abitare durevolmente, di arredi, di alcuni oggetti, senza che, del resto, tale scelta abbia mai modificato la loro attitudine di nomadi.

 

La ricostruzione di questa attitudine, dell’universo del camminantismo, della filosofia e della ratio alla base del fenomeno, è giocata nel film sull’individuazione di alcuni concetti chiave, il principale dei quali
pare senz’altro essere quello di miseria.

 

è la miseria il motivo cardine del nomadismo di un popolo che, a quanto pare, sbarcò in Sicilia già alla fine del XIV secolo, al seguito dei profughi Arbëreshë che Carlo V stanziò nell’Italia meridionale per rinforzarne le difese contro la minaccia degli Ottomani? Pur dovendo sospendere ogni conclusione sull’autoctonia o sulla ziganità di antica data di questa comunità, sembra proprio così; tuttavia, non è il solo presupposto. C’è qualcos’altro cui pare che alluda anche il titolo del film. 

 

Alla miseria dei Camminanti – un tempo conciabrocche e stagnini, ora riparatori di cucine a gas e d’ombrelli e venditori di palloncini – Tumino e Mirabella si accostano lasciando che le immagini e le persone stesse parlino il più possibile per conto loro.

 

Alle immagini si aggiunge un uso contrappuntistico della musica, spesso a mo’ di vero e proprio commento ironico. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di componimenti neomelodici napoletani, prima ancora che popolari, prediletti dai Camminanti medesimi. Le parole delle canzonette di Mario Merola, di Gianni Celeste o di Angelo Mauro, richiestissime star del genere, integrano o, talvolta, contraddicono il senso di una immagine o la reticenza di una dichiarazione. Aggiungono una sfumatura laddove questa non sia immediatamente deducibile da quell’immagine o da quella laconica asserzione. In fondo, i registi costruiscono il loro film proprio sul non detto, pur avendo scelto di servirsi di modalità cineastiche che recuperano la concretezza dell’esperienza umana, concentrandosi non tanto sulle cose in se stesse, quanto sulle storie di alcuni uomini vivi nelle cose. Passando dall’uomo − in particolare, dalla storia e dalle parole di Antonino Rasizzi Scalora4 e della sua famiglia − ed eliminando ogni commento fuori campo, Tumino e Mirabella trovano una misura, un controcanto mai meramente emotivo o incantato o mitizzato che consente loro di liberarsi della struttura ideologica del documentario e del suo soggetto: i diversi intervistati rispondono con le loro voci, senza doppiaggio, 

 

e la fotografia s’impone come mezzo privilegiato dell’analisi della realtà, alternando veloci fotogrammi con inquadrature lunghe e fisse, in modo da definire la staticità di un volto, l’accendersi improvviso di uno sguardo o il peso di un gesto, come se fossero scolpiti in un tempo
eternamente presente, di fatto sottratto alla storia.

 

I registi, che non possono comunque limitarsi a mostrare, di fatto partecipano alla rappresentazione. Lo fanno, osservando, intervenendo sul sentimento del film. Ciò non significa affatto indulgere nel sentimentalismo, ma prediligere alcune modalità di figurazione: l’alternanza delle inquadrature, il montaggio serrato, la presa diretta di parole e spesso di suoni, rumori e musiche sono tutti accorgimenti che consentono di tradurre in termini audiovisivi tanto le dinamiche endogene del gruppo di Camminanti quanto le complesse e spesso difficili relazioni con l’esterno.   

 

Tumino e Mirabella vanno ben oltre la fascinazione che può originarsi dall’osservazione di una tribù di nomadi semistanziali e fornitori di servizi5, scegliendo di curare il nesso con i gaggi, vale a dire con i non camminanti.

 

Se si vuole indicare lo spazio di rappresentazione individuato da
Il segreto dei Caminanti bisogna cercarlo laddove la vita e le esperienze di questo popolo incontrano il nostro mondo, quello sul quale continuano a camminare («il camminantismo – assicura uno di loro – non si fermerà mai; come la rondine che non resta in gabbia»).

 

Si tratta dello spazio dell’immaginario e non è affatto scontato che un film riesca sempre a intercettarlo. Tumino e Mirabella ci riescono ponendo su quello spazio le eterne problematiche dell’integrazione e della comprensione dell’altro. Contribuiscono, per così dire, a colmare quel vuoto di immaginazione nel quale troppo spesso si è deciso di relegare questa gente. Lo hanno fatto con la passione e la sensibilità che filtrano da un lungo lavoro di ricerca (cui Rita Mirabella si è dedicata sin dalla fine degli anni Ottanta), senza rinunciare a mostrare le ombre, le cose poco scoperte, i simboli (significativo quello della rondine, ad esempio, talvolta ferita), le reticenze del baccaglio (il singolare linguaggio usato per non farsi capire), le superstizioni e le tante contraddizioni di questo popolo nel popolo. Presentano anche i tentativi di auto-rappresentazione operati dagli stessi Camminanti e, valutandoli alla luce della loro storia, delle rinunce alla loro libertà e alle specificità della loro cultura, ne registrano il fallimento. Questo fallimento, che pertiene anche al modo in cui i non camminanti si sono rappresentati questa comunità, qualcosa significa. «Cos’è un camminante?» − si chiede Antonino, il protagonista, alla fine del documentario. E arriva, subito dopo, alla conclusione che no, non c’è definizione che si possa dare, non c’è paragone che si possa fare. E non risiederà magari proprio in questa diffusa impossibilità di rendersi comprensibile uno dei motivi, forse il principale, della mancata integrazione di questa comunità?

 

Tutto sommato, sembra che la storia dei Camminanti, essendo interamente chiusa nel presente, sia rimasta in ombra per secoli
rispetto all’avanzare del progresso.

 

è quanto sostiene Sebastiano Vassalli nel ventiduesimo capitolo, intitolato Il camminante, del suo romanzo più noto, La chimera. Vassalli racconta di Gasparo Bosi, tra i Camminanti del basso Piemonte meglio conosciuto come Tosetto, che, nel tentativo di difendersi e di difendere il modo della sua esistenza, si chiude nel suo io, vivendo di appagamenti elementari; si costituisce, cioè, come personificazione di una esistenza votata al romanzo, dice Vassalli, rifacendosi alle testimonianze sui Camminanti fornite dagli scritti di Antonio Massara, letterato e studioso novarese vissuto tra Ottocento e Novecento. E allora, con Vassalli, proviamo a fornire qui una definizione di Camminante.   

 

Cos’è un Camminante se non un romanzo? Romanzo che nessuno si sarebbe sognato di scrivere perché vissuto interamente nel presente del suo essere Camminante, fatto di sofferenza fisica, indifferenza e discriminazioni.

 

Il destino comune a tutti i Camminanti è memorizzato, commemorato, trasmesso di generazione in generazione attraverso la famiglia,
il lavoro, le musiche. 

 

Sebbene la scuola pubblica italiana integri il passato nazionale nello spirito dei ragazzi Camminanti che la frequentano in numero sempre maggiore6, essi rivivono le angosce, i lutti, le poche vittorie della loro esperienza di vita. è proprio nel dolore e nella sofferenza della loro specifica condizione che i Camminanti individuano la loro visione del mondo, la loro immagine, la metafora palpitante della loro vita.

 

L’identificazione con questo passato, che continua inesorabilmente
nel presente, rende quella dei Camminanti una specie di comunità
di destino, i cui limiti, fatti di una miseria che si teme, ma che si
usa per vivere, non sono facilmente superabili nella riflessione
o in qualcosa che risieda al di là di quella comunità medesima.

 

Così, come conclude Vassalli, «un camminante è un camminante e basta»7: una tautologia − dunque non quel paragone che Antonino non riesce a formulare − che restituisce pienamente lo spirito cui si sono attenuti anche Tumino e Mirabella nel tentare di scrivere il romanzo di uomini di cui si parla da secoli ma che, contro ogni evidenza e nonostante il loro profondo legame con la vita e con il mondo, non sono mai esistiti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Sulla comunità dei Camminanti, di cui si era occupato Giuseppe Pitrè sin dalla fine dell’Ottocento, si veda il documentario andato in onda il 12 dicembre 1989 all’interno della rubrica Binocolo di Maria Grazia Mazzola, intitolato I camminanti e diretto, per la RAI, da Rita Calapso. Si considerino, poi, la tesi di laurea di Rita Paola Toro, di cui «Lacio Drom», rivista del Centro Studi Zingari (all’interno del n. 3-4 del 1991, pp. 4-79), ha pubblicato un’ampia sintesi, il volume di Teresa Schemmari, I Caminanti. Nomadi di Sicilia (Firenze, Atheneum, 1992) e i lavori di Sebastiano Rizza, apparsi su «Lacio Drom», negli anni Novanta, su «Italia Romaní», nel corso del decennio successivo e, più recentemente, sui «Quaderni di Semantica», tutti per lo più dedicati al bbaccàgghiu, il gergo usato dai nomadi siciliani. Se ne riportano qui di seguito i titoli più significativi: I ‘gizi’ di Sicilia erano zingari?, «Lacio Drom», settembre-ottobre 1991, n. 5, pp. 27-28; Alcune note: Tre voci ebraiche nel gergo dei Camminanti di Noto, «Lacio Drom», marzo-aprile 1993, n. 2, p. 25; Alcune note: Un blasone popolare zingaro, ivi, pp. 25-26; Zingari in Sicilia fra magia e religiosità popolare, «Lacio Drom», maggio-giugno 1995, n. 3, pp. 13-16; Genesi e metamorfosi dello “zannu” siciliano, «Italia Romaní» (a cura di M. Aresu e L. Piasere), Roma, CISU, 2008, vol. V, pp. 166-184; Tabbarari a mašcu: viaggio nel gergo dei caminanti siciliani, «Quaderni di Semantica», n. 2, 2012, pp. 291-308; Bbaccagghiu sic. e parlèsia nap.: due gerghi a confronto, «Quaderni di Semantica», n. 1, 2014, pp. 125-133; L’elemento zingarico nel bbaccàgghiu dei caminanti siciliani, «Quaderni di Semantica», n. 2, 2016, pp. 191-217.
[2] Giuseppe Tumino ha diretto documentari, cortometraggi, tra i quali Beddu nostru signuri (2’52”-2005), Terramadre (15’-2012), Abbiamo raccolto le pietre (23’-2008) e Atti e scene in luogo pubblico (25’- 2014), nonché diversi lavori sull’intercultura e alcuni videoclip. Sta lavorando alla sceneggiatura del suo primo lungometraggio. 

[3] Di Rita Mirabella si veda l’interessante indagine fotografica intitolata Caminanti siciliani, pubblicata su «Italia Romaní» (vol. II, a cura di L. Piasere, Roma, CISU, 1999, pp. 37-46); della stessa si consideri anche Parole di Caminanti, «Italia Romaní» (a cura di S. Pontrandolfo e L. Piasere), Roma, CISU, 2002, vol. III, pp. 199-237. 

[4] La foto che lo ritrae è un frame del documentario. L’altro scatto è di Marcello Bocchieri. 

[5] Cfr. D. Nemeth, Nomadi fornitori di servizi: signori temporanei di mercati imperfetti, in L. Piasere (a cura di), Comunità girovaghe, comunità zingare, Napoli, Liguori, 1995, pp. 231-248.

[6] Nel 2010 i Camminanti iscritti alle scuole pubbliche di Noto erano quasi 4 mila e costituivano il 40 per cento della popolazione scolastica. Tra i diversi studi dedicati all’analisi del processo di educazione scolastica di questa comunità, si veda A. Palazzolo, Noto. L’inclusione scolastica dei Caminanti siciliani, in Rom, Sinti e Caminanti e comunità locali. Studio sulle condizioni di vita e sull’inserimento nella rete dei servizi socio-assistenziali nel Mezzogiorno, Roma, maggio 2010, pp. 146-161. Si considerino anche S. Taccone, Dove i caminanti hanno trovato casa. Esperienza di integrazione a Noto, «Popoli e missione», maggio 2010, pp. 10-15 

 

 

 

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MORREMO TUTTI QUI di Alessandro Gaudio – Numero 8 – Luglio 2017

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MORREMO TUTTI QUI

 

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erano piaciute le deformazioni espressioniste e grottesche della narrazione, ma ciò non era bastato per accordarle, infine, dignità di stampa, in quanto «la cornice di storia paesana [soffocava] − a detta di Calvino − l’interesse delle pagine più vive».[1] Questo difetto e altri convinsero Lazzaro, traduttore e poco conosciuto scrittore, nato nel 1912 in un più che sperduto paesino calabrese, a lasciare il manoscritto in un cassetto, fino a quando non venne pubblicato postumo, nel 1987, a diciotto anni dalla morte del suo autore. Pur tuttavia, a distanza di altri tre decenni, appaiono ancora evidenti quelle virtù intraviste dai lettori di allora.[2]

 

Al centro della vicenda c’è la vita − tanto miserabile quanto grottesca, nella descrizione che ne fa lo stesso Lazzaro − di un indefinito villaggio del meridione d’Italia, avvinto in un mortale silenzio, i cui mille abitanti 

vengono sterminati da una misteriosa e fulminea epidemia.

 

È servendosi delle armi dell’ironia e dell’allucinazione che lo scrittore di Motta Filocastro[3] quasi arriva a suggerire come le cause del tragico evento vadano fatte risalire all’attitudine di quegli uomini per superstizione e fatalità o, più sinteticamente, a una bestemmia o, meglio ancora, a una specie di eccesso di immaginazione. Non può essere considerata trascurabile la portata di un espediente di ordine creativo in grado di legare così finemente l’oscurità della miseria alla luminosità della fantasia.

 

E, d’altronde, neanche un’evasione di massa salverebbe il villaggio di 

Mille anime dalle persecuzioni dei santi o dall’attesa senza fine dei loro miracoli. Né, tutto sommato, risolverà alcunché 

la scomparsa dei suoi abitanti:

 

bisognerebbe, piuttosto, ristabilire il corso del tempo, ricollocarsi nel ritmo della vita, oppure − secondo Michele, amico e maestro del protagonista − «mutare il corso del sole e delle stelle, la direzione dei venti, l’animo degli uomini»;[4] purtroppo, non si può. Tale consapevolezza provoca uno sgomento diffuso che, progressivamente, finisce in una inesorabile brama di morte, di autodistruzione, quasi di ritorno a uno stato inorganico.

 

Lazzaro racconta di una esistenza inerte, resa ancor più opprimente dall’immobilismo fascista (cui più volte si riferisce, neanche troppo sommessamente, lo scrittore)[5] e popolata da corpi senza vita, 

oltre che da fantasmi.

 

Sogni, ombre e magàrie incombono sul villaggio, di volta in volta percepito come «un terribile e gigantesco ragno con volto umano che urla spesso di dolore»,[6] come un «carcere della miseria»,[7] «un morto lago da cui emergono grigi fantasmi senza epoca»,[8] spesso colto in «un’immobile e vitrea luce lunare, e, lontano, il mare come un gran lago di mercurio chiuso dalle ombre azzurre delle isole e dominato da Mahammetta»,[9] che non è che uno di quei fantasmi.    

 

Eppure, si tratta di fantasmi − la Vergine di Romania, San Nicola di Bari, San Rocco di Mileto, San Giuseppe il Corto, San Giuseppe il Lungo e molti altri − le cui proprietà e azioni sembrano essere sottomesse alle medesime leggi del mondo visibile e che non posseggono, dunque, uno statuto soprannaturale. Sarà per questo che da essi non si genera alcuna azione, né essi costituiscono un motivo di evasione in un mondo misterioso all’interno del quale la ragione non possa penetrare. Un quadro così interamente improntato sulla reificazione collettiva dell’immaginario presuppone, sul versante opposto, un’idea di letteratura che, ironicamente, si ponga come osservazione razionale difficile da mettere nel sacco, ma che, tuttavia, allo stesso modo del quadro che delinea, è incline a quell’amarezza che erompe tanto dalla scrittura quanto dalla miseria.

Certo è che laddove, da un lato, troviamo la disperazione del villaggio, quell’«irreparabile merdaio»,[10] con le ottusità e l’apatia che pervadono chi vi abita, dall’altro, c’è l’enorme spettro dell’immaginazione,

 

dal quale l’autore di Mille anime recupera la materia − fatta di memorie, miti e superstizioni − diffusa tra il popolo, con l’intento di normalizzarla, il più delle volte mediante l’ironia. Esemplare, nel realismo fantastico che riesce a prefigurare, quella di un contadino che, entrato in chiesa a ora insolita, parla in questi termini ai suoi fantasmi:

 

O Vergine di Romania, se non sei una svergognata, mandaci la pioggia. O San Nicola di Bari, se non sei più cornuto delle tue vacche, 

 mandaci una goccia d’acqua.[11]


In nessuna occasione, tale processo di normalizzazione, è bene precisarlo, sfocia in una considerazione votata all’indulgenza; anela, invece, alla rottura del cerchio, a mostrare che quanto meno sia possibile porsi contemporaneamente nel tempo e fuori di esso. Possibilità che sembrerebbe essere negata dal finale del romanzo (e anche dall’inesorabile frase di Michele che ho scelto come titolo per questa nota), ma che forse risulta, anche solo per un istante, avvalorata dall’idea dalla quale la narrazione è generata e dalla struttura d’insieme acutamente canzonatoria per la quale Lazzaro propende e che neanche Calvino aveva compreso sino in fondo.

 

 

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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 [1] Lo rivela lo stesso Lazzaro in una nota del 1968, pubblicata poi in appendice a P. Lazzaro, La stagione del basilisco [1968], Milano, Jaca Book, 2003, pp. 139-142; nella nota è inclusa una lettera di Calvino, datata 17 maggio 1957, dalla quale è desumibile il parere di lettura cui si fa rifermento (p. 142). [2] Delle mille anime di Motta Filocastro, da una prospettiva antropologica, si parla anche in V. Teti, Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Roma, Donzelli, 2004, pp. 361-370. [3] Si tratta di una frazione di Limbadi, paese di poco più di tremila abitanti, oggi in provincia di Vibo Valentia, situato tra Tropea e Rosarno. Dall’alto del centro abitato, sede di confino politico negli anni del fascismo, si vede tutta la piana di Gioia Tauro e il porto. Sul muro di una casa abbandonata di Mandaradoni, altra frazione di Limbadi, sta lentamente sbiadendo un dipinto che ritrae la faccia del duce (e che era accompagnata dalla seguente didascalia: « Solo Iddio può piegare la volontà fascista, gli uomini e le cose mai»). Sono state scattate nel 2017 da Annalisa Lentini le foto che ritraggono il Mussolini di Mandaradoni e uno scorcio di Limbadi.[4] P. Lazzaro, Mille anime, Milano, Jaca Book, 1987, p. 45. Anche il titolo di questo intervento è parte del concetto espresso qui da Michele. [5] Il riferimento, si intende, è sempre condotto in chiave ironica, come, ad esempio, nella frase che si trascrive: «Gridarono alalà quasi tutti, sconcertati dal tono di lui e dal mistero che quella incognita parola introduceva nel nostro Villaggio. […] E qualche caposcarico andava recitando la seguente banale filastrocca: Alalà, Alalà / tua sorella l’ha fatta o la farà?» (ivi, p. 87). [6] Ivi, pp. 24-25. [7] Ivi, p. 45. [8] Ivi, p. 46. [9] Ivi, p. 72. [10] Ivi, p. 9. [11] Ivi, p. 15.

 

 

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IL SUD È UN DONO? – Intervista a Valeria Parrella di Giuditta Casale – Numero 8 – Luglio 2017

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IL SUD È UN DONO?

 

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Chiedo a Valeria Parrella, scrittrice napoletana tra le più interessanti del panorama letterario contemporaneo, e feconde nella capacità di creare immaginari esistenziali e di indagare l’animo umano.

Ma cazzo, è un dono. – mi risponde, con la straordinaria capacità di fondere lo sguardo tagliente e ruvido sulla realtà alla felicità piena della parola, mai abusata e sempre pluristratificata di suggestioni, che in parte provengono dalle letterature antiche su cui si è formata e che ancora plasmano l’universo da lei narrato. –  È il dono che l’ente supremo dei doni, cioè il principio evolutivo, ha voluto concedere al mondo per bilanciare il nord.   
 
Se dovessi offrire in dono alla divinità un elemento del sud, quale le porgeresti? E quale invece è talmente irrinunciabile che lo terresti stretto a te, senza cederlo a nessuno, uomo o dio che fosse? 
 

Nulla è irrinunciabile, ma mi fa fatica pensare a una divinità, non sono abituata.

 

Allora facciamo che posso portare in dono a un extraterrestre qualcosa del sud, mhh, vediamo gli porterei una pianta di limone, una di ulivo e una di vite. Così posso tenerne altre strette a me.


Valeria Parrella ha nelle corde sia il respiro profondo del racconto (“Mosca più balena”  con cui nel 2003 esordisce per Minimum fax, a cui segue per la stessa casa editrice “Per grazia ricevuta”, e ancora “Troppa importanza all’amore” per Einaudi) sia  l’ampiezza dello sguardo del romanzo: “Lo spazio bianco”, “Lettera di dimissioni” e “Tempo di imparare” pubblicati con Einaudi; “Ma quale amore” con Rizzoli, poi ripubblicato nei tascabili Einaudi; e da pochi giorni di nuovo in libreria con “Enciclopedia delle donne. Aggiornamento”, un romanzo “scostumato” come me l’ha definito lei stessa. La sua produzione attinge anche alla polifonia del teatro, la molteplicità e l’effetto scenico delle parole: “Il verdetto”, “Ciao maschio” e “Euridice e Orfeo” per Bompiani; “Tre terzi”, insieme a Diego De Silva e Antonio Pascale, e “Antigone” per Einaudi; nel 2011 il libretto “Terra” su musica di Luca Francesconi.

 

Valeria Parrella ha il dono di una scrittura che misura con grazia e attenzione maniacale il peso delle parole, che scava nei diversi registri linguistici, letterari e non solo, per portare alla luce prospettive e visioni inedite dell’interiorità

 

Capace di presentare personaggi che nella loro individualità assurgono a emblemi di una condizione esistenziale universale. 

 

Nei tuoi romanzi i luoghi non prendono mai il sopravvento, sono sempre filtrati dai personaggi e dalla loro percezione emotiva. Penso ai posti frequentati dalla madre in “Tempo di imparare” o a quelli vissuti dalla protagonista di “Lo spazio bianco”. Forse una loro più forte caratterizzazione c’è in “Lettera di dimissioni”, che tra i tuoi libri è quello in un certo senso più “civile” e meno introspettivo. Con “Ma quale amore” dalla Napoli dei romanzi precedenti la scrittrice protagonista passeggia per le strade di Buenos Aires, il sud letterario per eccellenza. Nei racconti invece il tuo orizzonte geografico appare più vario. Che valore hanno i luoghi, quelli meridionali in particolare, nella tua narrativa? È fuorviante osservare che nei romanzi rimani più ancorata a Napoli, e nella forma del racconto “emigri” in altri luoghi, senza mai lasciare veramente la città partenopea? Si potrebbe arrivare a ipotizzare, anche attraverso i luoghi narrati, che nei romanzi Valeria Parrella regala più della sua autobiografia, e nei racconti invece il distacco è più netto?  

 

L’unico problema è Napoli, intendo come luogo tutto, geografico e umano. Perché tra teatro letteratura cinema e televisione capisci che archetipo e stereotipo comune che ne abbiamo e a cui bisogna sempre cercare nuove smussature, facce nascoste, o rifiutarlo…insomma un casino. Il resto del sud, la provincia per esempio non mi spaventa quanto Napoli.

 

Il mio sistema è non verificare, lasciare che il ricordo abbia il sopravvento sulla realtà. Insomma spaesarmi.

 

Rispetto all’autobiografismo non sono d’accordo. No: credo che siano profondamente autobiografici i temi che tratto, nello spazio di una racconto o di un romanzo, o di una piece teatrale. Alla fine mi interessano cinque o sei cose e tutta la mia produzione è una declinazione di queste. Gli avvenimenti, cioè le storie che racconto invece non sono MAI autobiografici. Non c’è una, per dire, delle mie voci narranti, non c’è un IO che sia davvero mai stata io.

 

Le tue meravigliose donne: non ce n’è una che non sia stata un po’ ME. Non è forse questa la forza straordinaria della letteratura: non parlare di sé ma parlare al sé, che è in ciascuno? I tuoi libri sono molto amati, tradotti e i testi teatrali rappresentati in molti luoghi: veicolano un’idea di sud o l’appartenenza a una geografia narrativa e letteraria non ti interessa? Ti senti in un certo senso di rappresentare come scrittrice una nozione di sud, e quale?   

 

Allora: a me non interessa, cioè nel momento in cui scrivo non ho un obiettivo, non mi interessa di nulla e di nessuno. Se poi a posteriori arriva questa idea di sud e di donne mi va benissimo, visto che sono una donna del sud.

 

Mi chiedo ad esempio se la madre di “Tempo di imparare” non sarebbe una donna o una madre diversa lontana da Napoli,

 

e lo stesso per Clelia, di “Lettera di dimissioni”, se la sua vicenda professionale non sia straordinariamente legata a una certa “politica” caratteristica, anche se non unica, del meridione. No, non credo. “Tempo di imparare” è un romanzo così intimo che non ha collocazioni spazio temporali, e ho conosciuto tante donne nel mondo e fuori dal mondo (detenute per esempio) con bambini disabili e ti dico che la geografia non c’entra nulla. Anche per Clelia non credo: quella politica lì non appartiene al sud, appartiene alla ex sinistra e a Roma o a Milano è uguale. Certo, Clelia non potrebbe essere una scandinava, questo sì. Ma in Italia potrebbe stare dappertutto.   

 

Quale delle tue protagoniste, includendo anche le eroine mitiche come Antigone ed Euridice, è più necessaria oggi al sud, e con chi l’accompagneresti?   

 

Scelgo la protagonista di “Lettera di dimissioni”, Clelia: una donna dal passato comunista, che deve ricollocarsi nello spazio e nel tempo. Credo che quello sia il mio vero romanzo civile. E la farei andare a cena con Jane Eyre.

 

“Sono una donna del sud”: c’è stato un momento nel tuo percorso letterario, in cui questa affermazione è stata pronunciata con orgoglio? Oppure ti sei trovata ad affermare con più disinvoltura:
“sono Valeria Parrella”?

 

Sono Valeria Parrella e sono una donna del sud che più sud non si può. E certo che c’è orgoglio nel dirlo, cosa altro? Però ti dico pure che se mi sento più vicina ai sud che ai nord, alla Grecia che all’Olanda, è anche vero che penso sempre che dove nasciamo è un caso, altrimenti non potrei capire profondamente le migrazioni e pensarle come una possibilità di rinascita, per chi parte e per chi accoglie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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I BRONZI RICOLLOCATI di Daniele M. Cananzi – Numero 7 – Aprile 2017

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I BRONZI RICOLLOCATI

 

Atteso da alcuni anni, il nuovo museo – evento nell’evento – ha portato alla ricollocazione dei Bronzi di Riace nella sede naturale che li ha accolti da quando vennero ritrovati nel 1972 a largo della costa ionica e dopo le operazioni di ripulitura e restauro attente e delicate, che hanno restituito la bellezza e l’incanto dei due nudi del V sec. a.C. che il mare nostrum si è preso la briga di conservare e preservare tanto a lungo.

 

 

E evidentemente, se si ammette l’assunto, è perché l’evento non è poi così tanto piccolo, e perché magari trova compimento in un momento di favorevole concatenazione di fatti che agevolano il verificarsi della novità. Fatto è che nel profondo Sud un evento, piccolo ma non tanto piccolo, si è verificato: la riapertura del Museo Archeologico Nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria. Uno dei più importanti siti magno greci, punto di riferimento internazionale, uno dei pochi edifici progettati sin dall’origine come museo e che esce dalla matita di Marcello Piacentini nel 1932.

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Cosa significa che due capolavori indiscussi dell’arte di ogni tempo sono stati ricollocati nel Museo? Si potrebbe pensare che nulla è più ovvio
di un’opera d’arte in un museo. 
Eppure parlare di evento
non è esagerato in questo caso.

 

Il Sud, specie quando è profondo, si ammansisce dietro un trascorrere del tempo che si dilata e sembra, in taluni casi, quasi arrestarsi. È quanto è accaduto per il Museo di Palazzo Piacentiniquando, sette anni addietro, è stato chiuso per una restaurazione che è diventata una ricostruzione, tanto da mantenere le mura esterne del progetto originario e da ristrutturare lo spazio interno quasi totalmente. Tanti anni, troppi, trascorsi nell’assenza di uno spazio essenziale, vitale, per una città. 
Finanziato nei progetti di elevato interesse tra quelli che dovevano essere rimessi a nuovo per i centocinquant’anni anni dell’Unità d’Italia, i lavori hanno trovato una serie di difficoltà che hanno ritardato il loro completamento, avvenuto solo con l’inaugurazione del 2016. Cose che capitano, purtroppo, togliendo così però spazi essenziali perché “spazi pubblici di apparizione” – per dirla con Hanna Arendt – nei quali e grazie ai quali si mantiene e raccoglie la cittadinanza, si mantiene e raccoglie la vita, quella migliore, di un territorio e di una città.

 

Ricollocare i due Bronzi, allora, ha un forte valore simbolico oltre che culturale. Durante la chiusura del Museo per restauro,essi sono stati trasferiti
a Palazzo Campanella dove a loro volta sono stati sottoposti

a un delicato intervento di ripulitura interna.

 

Si  era  infatti  osservato  che  le  crete di fusione,  rimaste al loro interno,  stavano lentamente corrodendo il bronzo. Con strumenti  chirurgici  e  sonde,  una équipe  specializzata  ha  provveduto  a  rimuovere il materiale in modo da impedire il processo corrosivo. Per tutto il periodo di questo nuovo restauro, i due Bronzi sono rimasti in una apposita sala costruita per permettere al pubblico di seguire le operazioni.

 

Un vetro, come nelle nursery, ha permesso di andare a trovare
i due augusti ‘malati’ nel letto di ricovero, 
rivelando l’amore
e l’affezione non solo di turisti e appassionati,
ma dell’intero popolo reggino.

 

Il quale non ha mancato di farvi visita e così di mostrare la partecipazione –come avviene per ogni degente – alle cure prima e alla guarigione dopo, dimostrando il perdurare di un legame profondo del popolo rispetto ai suoi illustri e antichi campioni che, ora perfettamente ristabiliti, si ergono nuovamente nella sala museale, fieri eredi di un nobile passato, audaci narratori di una storia che sfida, proprio attraverso loro, il tempo. Avere ricollocato i due Bronzi, dicevo, acquista così un valore simbolico altissimo.

 

Si tratta di un intero territorio che tenta di risollevarsi, che ora deve nuovamente ergersi, superando le difficoltà della sua storia recente e meno recente,
per ritrovare la fierezza e l’audacia che non può rimanere solo
entro le mura del Museo a testimonianza del passato,

 

ma da lì ed esemplarmente deve uscire per tornare a vivere tra le vie di una Città, Reggio Calabria, che tenta di risorgere, tra tante difficoltà, per riacquisire lo splendore del suo antico passato. Perché il Museo e proprio dal Museo ci si può aspettare tanto? Perché lì è conservata la memoria, perché nel percorso appassionante che conduce il visitatore dalla Preistoria e dalla Protostoria all’età Magnogreca, passando dalla terra al mare, dal mare alla terra, c’è la possibilità di verificare la grande bellezza e l’ineguagliabile capacità svelata nelle crete, negli oggetti di uso comune, nei pinakes, nelle opere decorative degli edifici pubblici e privati che ci narrano di un gusto, di una spiritualità, di un modo, che in realtà è un modo di vedere lo spazio, un modo di pensare, riempire, abitare lo spazio; di pensare e abitare la città.

 

I due Bronzi ricollocati anche questo rappresentano, e di questo rimangono in un tempo senza tempo – com’è quello che si avverte nella sala quando si è a loro cospetto – esemplari e testimoni.

 

Una terra martoriata, com’è quella della neo Città metropolitana di Reggio Calabria, da qui può e deve ripartire; lavorando sui problemi e superando le difficoltà, ricollocandosi – proprio come i Bronzi – in uno spazio diversamente pensato rispetto a quello asfittico che ne ha segnato drammaticamente, soprattutto dagli anni ottanta dello scorso secolo, una sub-condizione urbana. Anche per la Città c’è da rimuovere incrostazioni che ne deturpano e corrodono l’anima, quella nobile, quella bella; anche per la Città c’è bisogno di una opera di riqualificazione.

 

Ecco perché un evento piccolo, ma neanche troppo piccolo, potrebbe portare una grande novità che deve venire dal popolo innanzitutto.
Quello stesso che ha dimostrato la sua partecipazione
alla salute dei Bronzi 
e che deve volere rivendicare
l’orgoglio del Sud, della sua bellezza 

tutt’altro che sfiorita.

 

E forse proprio il combinato disposto di nuovo Museo, dunque luogo della memoria e del passato, con l’istituzione (nel 2014) della Città Metropolitana, dunque di una nuova struttura amministrativa territoriale operativa e luogo del futuro, potrebbe essere quella concatenazione favorevole per una svolta, finalmente, attesa e desiderata da tempo che i cittadini meritano ma di cui si devono essi stessi fare primi promotori; loro per primi devono riqualificare responsabilmente il loro spazio e le architetture sociali che lo determinano; magari proprio riprendendo quel gusto antico e magno greco per lo spazio pubblico che è bene comune. Una città, in fondo, è fatta dai cittadini, a loro si conforma e con loro cresce o si involve. Nei momenti difficili sono proprio i cittadini, è il popolo che deve riconquistare il diritto ad avere un futuro, esercitando quella tenacia iscritta nel DNA italico e meridionale in particolare.

 

 

I Bronzi ricollocati rappresentano la possibilità, rappresentano la speranza, indicano la via che è quella della bellezza mediterranea, nel tempo e fuori dal tempo, di un modo di pensare il proprio spazio, il proprio futuro.  

 

 

 

 

Cananzi
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 Immagini concesse dal Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria

 

PALERMO CAPITALE DELLA CULTURA di Ilaria Borletti Buitoni – Numero 7 – Aprile 2017

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PALERMO CAPITALE DELLA CULTURA

 

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Nessuna strada o tratto del cammino umano è mai obbligato. Esistono sempre delle alternative. E se la politica riesce a fare il suo mestiere queste alternative le disegna per poi suggerirle per la scelta libera del popolo. Ciò vale anche in campo culturale. Per questo la vittoria di Palermo come Capitale Italiana della Cultura per il 2018 mi sembra molto significativa.

 

Palermo è stata certo premiata per la qualità informativa del dossier presentato al Ministero, per la significatività del progetto e per la sostenibilità del progetto stesso. Ed il riconoscimento di Capitale Italiana della Cultura è un riconoscimento alla capacità di progetto, 

e non solo alla città più bella o ricca di storia.

 

 

Un progetto che ha un fiore all’occhiello: Palermo ospiterà infatti nel 2018 MANIFESTA12, una fra le principale biennali di arte contemporanea su scala mondiale. “Nel 2018” ha dichiarato il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, “la nostra città sarà di fatto una capitale dell’arte contemporanea e la possibilità di abbinare le attività con quelle di Capitale Italiana della Cultura rappresenta una grande opportunità non solo per Palermo, ma per tutto il nostro Paese. La Capitale italiana potrà diventare un palcoscenico, facendo di quello che sarebbe un evento nazionale, un grande evento internazionale. La visibilità internazionale data da Manifesta sarà uno straordinario strumento per venire incontro alla volontà del Governo di diffondere il valore della cultura come volano per la coesione sociale, l’integrazione e lo sviluppo”.

 

Dunque non di sola bellezza parliamo. Palermo infatti non primeggia così tanto rispetto agli altri finalisti ­Alghero, Aquileia, Comacchio, Ercolano, Montebelluna, Recanati, Settimo Torinese, Trento e l’Unione comuni
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Lo ha spiegato del resto assai bene il Sindaco del capoluogo siciliano Leoluca Orlando quando, andando al microfono per ringraziare e dichiarare la propria gioia per la vittoria, ha subito “costretto” tutti gli altri sindaci a salire sul palco con lui, perché “questa è una vittoria di tutti”, e “nessuno può vincere da solo”.

 

 

Ma piuttosto Palermo ha vinto perché con Palermo vince e afferma la sua forza un modello di cultura che si è fondato nei secoli sulla capacità
di essere crocevia tra diverse civiltà, ­con un’impronta indelebile
lasciata da quella araba­ e diversi popoli, 

 

 

piuttosto che sulla capacità di erigere muri sempre più alti, come sembra purtroppo essere la moda odierna. Muri la cui altezza è direttamente proporzionale all’incapacità di stare nel mondo del territorio recintato. 

 

 

Palermo ci parla invece della forza e della vitalità che viene dal sapersi mescolare in spezie e pensieri, in tratti artistici e tratti somatici, 

in caratteri linguistici e musicali.

 

 

Questa capacità di attrazione ­- questa e non altro – è il vero segreto per una forte capacità di innovazione anche economica, come dimostra la resistenza che sta opponendo la Silicon Valley ai propositi isolazionisti del neo Presidente Trump. Su questo si è basato il segreto della prosperità di Palermo, da cui si è irraggiata la sua grande cultura e da cui, ­non a caso, è nata anche la nostra lingua italiana. Non appena anche a Palermo si sono cominciati ad erigere muri, essa ha cominciato a spengersi. Teniamolo a mente.

 

 

PalSolo cercando di governare i processi storici e vincendo paure
e superstizioni, una nazione può prosperare. E il mondo
diventare un po’ più sicuro. 

 

 Grazie Palermo.

 

 

 

 

 

 

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QUANDO LA SICILIA INCONTRÒ D’ANNUNZIO di Franca Minnucci – Numero 7 – Aprile 2017

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QUANDO LA SICILIA INCONTRÒ   D’ANNUNZIO

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A questa pubblicazione non era estraneo l’interessamento del poeta che aveva conosciuto il giovanissimo studente, all’epoca poco più che ventenne, e ne aveva avuto grande stima e ammirazione. Il poeta aveva trovato l’analisi dei suoi lavori geniale e particolarmente interessante; e forse è per questo che, terminato il suo furore creativo, finita la tragedia – La figlia di Iorio – nel bucolico soggiorno a Nettuno, il primo pensiero del poeta, in quei giorni di fine agosto, fu di invitare lo studente e proporgli la traduzione del dramma in siciliano. Ce lo racconta in un articolo sul Corriere della Sera lo stesso Borgese: “D’Annunzio, compiuta la tragedia pastorale, mi telegrafò ch’io andassi a visitarlo a Nettuno; e lì volai; lì, dov’era già de Karolis, fui suo ospite fra i lecci di Villa Borghese che Fausto Maria Martini chiama ampollosi; lo vidi la mattina cavalcare un cavallo scuro di nome Pertinace; e nel pomeriggio udii dalla sua voce d’araldo La Figlia di Jorio.

 

Era cosa fresca e bellissima, un Aminta davvero agreste, un melodramma tutto pieno di musica senza bisogno di strumenti musicali; a me parve  miracolosa; e meraviglioso dono mi parve l’invito del poeta a tradurre il poema per la compagnia siciliana di Grasso nel mio dialetto nativo,

 

 

e a dargli “la seconda vita”, come egli poi troppo benevolmente mi lodò di aver fatto dedicandomi il libro”. Il giovane siciliano si impegnò moltissimo nella traduzione e come dichiarò egli stesso: «stesi giù una Figghia di Joriu in un siciliano illustre e colto che ricalcava anche nei versi e nelle assonanze il testo originale». Le prove con la compagnia Grasso iniziarono a Roma nel maggio del 1904, sull’onda del successo che La figlia di Jorio stava avendo con la compagnia Talli, in tutti i teatri d’Italia, da quella prima memorabile al Lirico di Milano del 1° marzo, così raccontata da d’Annunzio: «Quando La figlia di Iorio andò in scena a Milano, io, ad inizio di spettacolo, mi allontanai dal teatro. Ero, al solito, sereno; e solo ero veramente curioso di vedere che avrebbe pensato del mio pastore mistico e allucinato e della mia fola abruzzese, tanto diversa, e dei suoi riti, il pubblico milanese, il pubblico della ricchezza e del lusso, dei salotti e dei teatri. Mi aspettavo burrasca. Come mi parve che il primo atto fosse per finire, consultai l’orologio e tornai in teatro. Entro in palcoscenico e vedo un attore con la testa insanguinata: era caduto, credo per epilessia e si era ferito alla fronte: era Talli. L’atto era, però, finito proprio all’ora. Oltre il sipario, nel pubblico un silenzio: un silenzio sepolcrale come una pausa. Pensai, mi chiesi rapidamente: non è piaciuto? E allora scoppiò un tuono, un applauso solo, impressionante».

 

 

   L’edizione siciliana della Figlia di Jorio andò in scena invece solo qualche          mese  dopo, al Costanzi di Roma. Era il 17 settembre. La prima lettura      sembra che si sia svolta sul palcoscenico dell’Adriano e le prove
furono molto laboriose; Giovanni Grasso e gli attori emozionati
fino alle lacrime, tanto che d’Annunzio dichiarò che non aveva mai visto interpreti intenerirsi tanto della loro parte ad una semplice lettura.

 

 

Erano infatti schierati i più grandi attori siciliani come Mimì Aguillia, Maiorana, Angelo Musco e tanti altri. D’Annunzio aveva una grande ammirazione per Grasso e non nascose mai un giudizio esaltante sulle sue capacità attoriali. Lo spettacolo, nonostante le tante difficoltà, parve a tutti bellissimo; il pittore Pietro Sassi aveva allestito straordinarie scene e l’introduzione del poeta Martoglio, sostenuto da una base musicale, aveva dato il via ad uno spettacolo – melos – intensamente vicino all’anima dell’Isola che fonde in un’armonia di suoni, di colori, di sapori, la dolcezza e la forza, la violenza e la delicatezza.

 

   Una traduzione dove i motivi popolari venivano cantati con dolcezza e     armonia e dove le nostre incanate erano diventate delle nenie ossessionanti
e violente e dove, ancora con un grande colpo di genio teatrale, si erano riportate integralmente le lamentazioni delle prefiche ancora in uso
nelle provincie di Catania e di Trapani.

 

 

D’Annunzio fu chiamato in proscenio tantissime volte e si trascinò sul palco un riluttante giovanissimo Borgese a ricevere i meritati applausi di un pubblico tra l’altro competente ed esigente: basti pensare che in platea erano seduti personaggi come Mascagni, Franchetti e lo stesso Edoardo Scarpetta, arrivato per l’occasione da Napoli. Grande merito, quello di Borgese, di aver risvegliato, attraverso le parole di d’Annunzio, quelle muse sicule che lo stesso Virgilio invocava e di aver ricondotto la lingua siciliana ai suoi fasti letterari più alti e nobili Questo “file rouge” che ci unisce alla Sicilia credo che dovrebbe essere più conosciuto e più amato sia dai concittadini abruzzesi che da quelli siciliani, perché solo attraverso queste comuni radici ed esperienze si può ritrovare il senso e il valore della nostra civiltà. E, come scriveva Eleonora Duse proprio da Palermo, ritrovare proprio nell’azzurro di quel mare, che è anche il nostro, la vita e l’amore.

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Infatti il 1° e il 16 settembre 1903 sulla Nuova Antologia erano apparsi due articoli di un giovanissimo Giuseppe Antonio Borgese, dal titolo L’opera poetica di Gabriele d’Annunzio il primo, e Dal Canto Novo alla Laus vitae l’altro.

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«Chi legge le “Laudi” vive nel centro di un cerchio al di là del quale non v’è che il dubbio e il nulla. Vive dunque in un capolavoro»

 Gabriele D’Annunzio – Foto dai libri Meyers Lexicon scritto in lingua tedesca. Collezione di 21 volumi pubblicati tra il 1905 e il 1909.Diritto d’autore a href=’httpsit.123rf.comprofile_nicku’nicku 123RF Archivio Fotografico

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LA VUCCIRIA DEV’ESSERE SALVATA di Salvatore Maraventano – Numero 7 – Aprile 2017

LA VUCCIRIA DEV’ESSERE SALVATA  

 

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 Fino a qualche tempo fa, quando voleva farsi riferimento ad un evento che non sarebbe mai accaduto, in dialetto palermitano si diceva che sarebbe successo quando le balate della Vucciria si sarebbero asciugate.
 

In effetti, per centinaia di anni, il pavimento di Piazza Caracciolo, cuore pulsante di quello che, un tempo, era il mercato della Vucciria, è rimasto costantemente bagnato per effetto della massiccia attività di vendita del pesce e conseguente scarico del ghiaccio. Anche lo stesso nome del mercato racconta, poi, qualcosa della sua gloriosa storia: vucciria, in siciliano, significa “casino”, rumore, e testimonia la presenza dei cosiddetti abbanniatori (dal siciliano abbanniare: gridare), mercanti che propongono la loro merce con un urlo intonato che arriva a sembrare quasi un canto.

 

Ebbene, ciò che un tempo era metro di paragone dell’ impossibile è infine successo; le balate della Vucciria si sono asciugate.

 

Passeggiando per la piazza del mercato si percepisce un silenzio che, per chi ha memoria, è quasi assordante: gli abbanniatori non ci sono più. I commercianti rimasti nel mercato, ormai, sono veramente pochissimi. Ancora più inquietante, poi, è la desolazione di tutto il quartiere circostante – chiamato Della Loggia –in cui la fanno da protagonisti antichissimi e un tempo stupendi palazzi nobiliari abbandonati, diroccati, caduti in rovina, dove ormai a vivere è rimasta solo la nostalgia di tempi migliori.

 

 Le cause dello stato in cui versa oggi tutto il quartiere della Loggia – che per mille anni, grazie alla sua vicinanza col porto, è stato casa di ricchi armatori e mercanti provenienti da tutto il Mediterraneo e oggi, invece, è un deserto di tufo – sono molteplici e tutte, più o meno, legate alla complicata storia del capoluogo siciliano e alle sue contraddizioni.

Durante la seconda guerra mondiale, la città di Palermo subì numerosissimi bombardamenti che ne sfigurarono i bellissimi palazzi nobiliari del centro storico. In quel periodo, le classi più abbienti si spostarono verso le periferie o verso i paesi delle montagne per sfuggire ai pericoli della guerra. Le classi più povere, invece, non ebbero la stessa possibilità e furono costrette a subire la pioggia di bombe. I danni agli edifici, oltre che quelli alle persone, furono enormi, al punto che la maggior parte dei palazzi risultava completamente inagibile. Nell’ immediato dopoguerra la borghesia palermitana si tenne lontana dal centro storico e, in mezzo alle macerie della città dal cuore arabo, rimasero a vivere solo pochi disperati. La connivenza tra mafia e politica, infatti, permise a imprenditori edili senza scrupoli di inaugurare una fase di speculazione edilizia che consumò letteralmente tutte le campagne della periferia della città e portò alla demolizione di numerose antiche ville ed esempi unici di architettura liberty. Il cosiddetto “Sacco di Palermo” fornì alle classi medie della città nuovi e splendenti palazzi a basso costo dove andare a vivere. Al contempo, tra le macerie del centro storico crescevano povertà, miseria e quindi criminalità. Il processo di ricostruzione sarebbe ripartito solo negli anni ‘ 90 ed è, attualmente, ancora lungi dall’ essere completato.

 

I mercati del Capo e di Ballarò, che in precedenza si raccontavano essere vivi
e vitali come non mai, risentirono meno di questo processo di desertificazione. La ragione sta nel fatto che questi due mercati sono sempre stati, nella storia,
i mercati più popolari. La Vucciria era, invece, il mercato più ricco
e rivolto alle classi abbienti.

 

Alla fine degli anni ’ 90, il mercato della Vucciria, per quanto claudicante e in difficoltà, ancora resisteva. Ad assestargli il colpo di grazia fu l’ interesse che il luogo cominciò, agli inizi degli anni 2000, a suscitare per la movida della città. Piazza Caracciolo, la piazza principale del mercato cominciò a diventare luogo di ritrovo serale per i giovani palermitani. Qualche anno dopo, la vicina Piazza Garraffello diventava una delle più grandi discoteche a cielo aperto d’ Europa. Non si può negare che in quegli anni la movida della Vucciria esercitasse un fascino unico e inconfondibile: il sabato sera, centinaia di persone si ritrovavano a ballare all’ aperto, tra le rovine e le macerie di un quartiere bombardato in cui un tempo vivevano ricchi mercanti amalfitani e pisani, tra i fumi densi e fitti degli stigghiolari (venditori di stigghiole, un tipico cibo da strada palermitano), comprando birra a due lire da commercianti improvvisati e con la possibilità di trovare erba e anfetamine nel vicolo dietro l’ angolo. A quei tempi la Vucciria non era bella, ma sicuramente affascinante.

 

C’era la decadenza, c’era l’ anarchia e c’era l’unicità di un luogo che probabilmente non aveva simili in tutto il mondo.

La movida sregolata e gli enormi interessi degli abusivi, che cominciavano a sviluppare importanti volumi d’ affari, resero la Vucciria una zona franca e senza regole nel pieno centro di Palermo. Fu così che la Vucciria divenne pericolosa e violenta. Fu così che cominciarono a susseguirsi senza sosta notizie di scippi, aggressioni gratuite e crimini di vario genere. Eppure, ancora oggi, le stesse forze dell’ ordine si mostrano restie ad entrare nel quartiere.
Il declino della Vucciria non si è arrestato. Dopo il boom della movida anche quella oggi sembra starla abbandonando, a causa dei troppi pericoli e dei numerosi episodi di violenze. Da quanto raccontato, risulta chiaro che oggi il quartiere della Loggia e il suo storico mercato della Vucciria abbiano bisogno di essere salvati dal declino. Che nel 2017 si permetta che un tale contenitore di storia e di bellezza rimanga ignorato, calpestato e insultato – e per di più in una città che riesce a dimostrare fermento e vitalità – è intollerabile.

 

Da queste considerazioni, nasce l’ idea della Professoressa Giovanna Acampa, docente di Estimo all’ Università Kore di Enna, di stimolare la rigenerazione
del quartiere attraverso micro-interventi di agopuntura urbana.

 

L’ idea alla base di questa metodologia di intervento è che progetti di rigenerazione su larga scala ed eterodiretti abbiano spesso scarsa capacità di incidere sul tessuto urbano del quartiere e, al contempo, generino frequentemente fenomeni di gentrification. Al contrario, micro-interventi accurati e chirurgici, a basso costo e a basso impatto sociale – quando messi a sistema in un quadro progettuale dagli obiettivi omogenei – hanno maggiore capacità di catalizzare la rigenerazione urbana e renderla più inclusiva e rispettosa del tessuto sociale preesistente.

 

Dalla creazione di orti urbani per i residenti, alla pulizia di piazze e spazi dove prima insistevano discariche abusive, etc., è questo il tipo di intervento su cui, in periodo di crisi, vale la pena scommettere.

 

Su questi presupposti metodologici la Professoressa Giovanna Acampa ha cominciato a coinvolgere numerose realtà all’ interno di questa cornice progettuale; da liberi cittadini a residenti, associazioni giovanili come il PYC, un gruppo di editori, il CODIFAS per lo sviluppo di Orti Urbani, il FAI, alcuni esperti di virtual reality per sviluppare forme di fruizione innovative del patrimonio storico, etc. Il lavoro di questo comitato spontaneo, che è chiaramente aperto a chiunque volesse contribuire, è appena iniziato, ma già sono numerosissime le iniziative in cantiere. Speriamo divengano presto realtà.

 

Se però, oggi, altri mercati come quello di Ballarò o del Capo sono ancora in grado di esprimere la stessa vitalità umana e commerciale e la stessa atmosfera da suq arabo che li hanno consacrati nella storia millenaria della città, negli ultimi decenni la Vucciria è andata, al contrario, incontro ad un graduale e lento processo di decadenza e desertificazione.

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“I SUD CHE AMO”. PATRIZIA RINALDI di Giuditta Casale – Numero 7 – Aprile 2017

Premio Andersen 2016 come migliore scrittrice per ragazzi: Patrizia Rinaldi è scrittrice senza specificazioni o determinazioni. Scrive di passioni, con raffinatezza ma senza affettazione, con l’eleganza e la grazia innata di cui godono certe anime.

 

Nel tuo ultimo romanzo, “Ma già prima di giugno” (E/O) c’è la volontà di rappresentare e descrivere un sentimento del sud incarnato da una città multiforme e contraddittoria come Napoli, attraverso una donna, Maria Antonia, forte propositiva volitiva e tenace, carnale e sensuale, che non cede al destino né alla Storia (è una delle sfollate da Spalato: scena che tu racconti con straordinario impatto).

 

Il Sud è maschile o femminile? Oppure la scommessa per il futuro
è di non essere né lui né l’altra?

 

Forse ogni femmina bella e sapiente contiene il suo contrario. Forse ogni maschio virile e fiero sa concedersi la fragilità che per sbaglio
è ritenuta donna. 
 

Ho cercato di rendere Maria Antonia un personaggio che si dimena nelle sue differenti nature.
Mi auguro un Sud ermafrodita, che indichi il rispetto per quello che siamo e pure per quello che non desideriamo essere. 

 

Nei libri per ragazzi, i luoghi sono più ombreggiati, meno determinati e dettagliati. Penso alla scuola crollata di “Piano Forte” (Sinnos),  in cui i protagonisti rimangono prigionieri a sperimentare le loro fragilità e più ancora le loro potenzialità; ai (non) luoghi, che sono ambientazione universale della gioventù, di “Adesso scappa” (Sinnos): casa strade palestra; ai cunicoli di “La compagnia dei soli” (Sinnos), in cui però si possono scorgere i sotterranei di Napoli, come in “Federico il pazzo”, (Sinnos) in cui appare una Napoli presente, ma sfumata nei contorni, definita ma anche universalizzata nella sua carica di “periferia”, che non vuol dire solo degrado e abbandono, ma anche solidarietà, amicizia, cultura e convivenza. Perché da Francesco, adolescente che si finge Federico II di Svevia, e che viene etichettato dai compagni come “pazzo”, impariamo concretamente che la cultura ci salva, dal bullismo, dalla storia e da un destino segnato.

 

 

C’è nel Sud, quello più direttamente pensato e abitato dagli adolescenti,
una carica di riscatto e di universalità, 
che lo fa assurgere
a ombelico del mondo? 
Possiamo sperare che del Sud
i nostri figli comprenderanno 
e valorizzeranno

gli aspetti positivi e i valori portanti? 

 

Non so se noi possiamo sperare, ma dobbiamo consentire la speranza
ai nostri ragazzi.

 

La denuncia dei danni e delle omissioni sociali non basta, i ragazzi che vivono nelle periferie dei poteri sono la maggior parte. Hanno diritto al futuro, allo spiraglio possibile.
In questo non faccio alcuna differenza tra nord e sud.

 

Patrizia Rinaldi è una scrittrice del Sud? E se sì, quali sono gli elementi che rendono la tua scrittura “meridionale” o “mediterranea”?

 

Sono una scrittrice nata a Napoli da genitori campani e sono profondamente legata alla mia terra.
La sfida che propongo alla mia scrittura, a ogni nuovo romanzo, è cambiare per accordarsi al contesto narrativo e continuare a somigliarsi.
 

 

Un’ultima domanda in omaggio alla rivista che ci ospita: Myrrha il dono del sud.
Qual è la myrrha del sud, quel potenziale culturale e letterario degno di essere portato in dono a una divinità? E se dovessi scegliere tra i tuoi titoli, o i progetti letterari a cui hai aderito, quale di questi definiresti un dono del Sud?

 

Un particolare anche minimo che cambi in meglio il giorno, soprattutto
dei ragazzi, che contenga la variabile dell’amore, in ogni forma.
L’omaggio che porterei è una piccola utopia di bellezza,
anche solo da immaginare. 
Sceglierei i progetti letterari
del carcere minorile di Nisida, mi hanno insegnato
la resistenza ostinata contro il danno.
 

.

 

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 I Sud che amo non sono omologati in definizioni fisse.
Sfumano, si contraddicono, gridano e sussurrano.

 

Hanno la rabbia della Ortese, la lucidità perfetta di Sciascia, strascichi barocchi di Consolo, la perfezione della lingua di Bufalino, gli squarci vivi e popolari di Viviani e De Simone, la cultura mai didattica di Montesano, i ricordi nostri tradotti in arte da Starnone, le fondamenta da tradire di Basile, la grazia sublime, drammatica e amorosa, di Ruccello.
La lista sarebbe troppo lunga e rischierei di diventare pedante, cosa che il Sud non deve diventare. Noi siamo in movimento e non possiamo contrapporci ad altri afflati culturali, ad altri paesaggi. Piuttosto li dobbiamo amare e comprenderli. Farne pane nostro, come si addice ai porti e ai monti scalati e senza muri.

 

La voce calda e suadente di Patrizia Rinaldi, scrittrice a tutto tondo,
come poche in Italia, si presenta da sola con la lista che traccia
un itinerario di poetica: la sua.

 

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“I SUD  CHE AMO”

 

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IL BATTISTERO DELL’ANIMA. CASTEL DEL MONTE di Nicola Primo Zema – Numero 7 – Aprile 2017

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La “folgorazione” è avvenuta a cavallo delle ultime feste 2014 – 2015. Stefano Benazzo, Ambasciatore d’Italia, fotografo, scultore e modellista architettonico, che mi onora della sua amicizia, aveva allestito in Doglio, un luogo delizioso quanto mai adatto ad ospitare la bellezza, una Mostra intitolata “Dialogo” in cui venivano esposti modelli architettonici di chiese cristiane, una moschea ed una sinagoga. Tra questi luoghi esplicitamente di culto, al centro della Mostra, spiccava un modello in scala di Castel del Monte.

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IL BATTISTERO DELL’ANIMA. CASTEL         DEL MONTE

 

Si va da posizioni “negazioniste” di qualunque valore simbolico del Monumento, a derive estreme che affermano realtà esoteriche nascoste alluse da elementi simbolici: cercherò di stare nel mezzo, non tanto perché “in medio stat virtus”, quanto perché mi sembra, in definitiva, una posizione più plausibile. Divido la riflessione in tre parti: Ipotesi sulla funzione del Castello; un monumento disegnato dalle mani del Sole; percorso attraverso alcuni simboli presenti, simulando un itinerario iniziatico.

Da svariati decenni si è discusso sulla reale “funzione” del Castello: è un dibattito ancora aperto.

Il prof. Giorgio Masetti della Università di Bari, Facoltà Lettere Antiche, afferma che di tale termine esistono ben sette significati, tutti validi in funzione del contesto. Tra questi, si possono citare “lastricato” o come pavimentazione, o come lastrico solare, cioè una copertura, il che porta a considerare l’intervento come completamento di una struttura già esistente; oppure, indicante, genericamente, “materiale edilizio da costruzione”, per un’opera da completare o da iniziare, quindi, nello specifico, potrebbe indicare la costruzione ex novo del Castello. Dubito di questa ultima interpretazione, proprio sulla base del documento riportato: 

 

– Se actractus significa genericamente materiale edilizio da costruzione, allora diventa pletorica la specificazione actractum ipsum in calce lapidibus et omnibus aliis oportunis…“questo actractus con calce, pietre e tutto il necessario”…

 

– Diventa incomprensibile l’esecuzione totale di un’opera così importante affidata ad un funzionario di una giurisdizione territoriale diversa, licet de tua iurisdictione non sit “benché esso non stia nel distretto della Tua giurisdizione”; si può capire questo incarico solo con carattere di estemporaneità, per un intervento urgente e di completamento. Dunque il Castello, di cui si ignorano il nome dell’architetto, l’impegno economico e, in definitiva, il primo committente, era un fabbricato preesistente, completato da Federico II solo per un intervento marginale.

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Ipotesi sulla funzione del Castello. 

Chi ha costruito il Castello? 

Sembra una domanda oziosa dalla risposta scontata: Federico II di Svevia. Non sembra così certo.

Per ogni Castello che Federico II intendeva costruire sono documentati il luogo scelto, il nome dell’architetto e la somma di denaro destinata all’opera1. Per Castel del Monte si ha soltanto un mandato del 29 gennaio 1240 dell’Imperatore Federico II, inviato da Gubbio al giustiziere di Capitanata, Riccardo di Montefuscolo, in cui viene prescritto: «Cum pro castro, quod apud s. Mariam de Monte fieri volumus per te, licet de tua iurisdictione non sit, instanter fieri velimus actractum, fidelitati tue precipiendo mandamus, quatinus actractum ipsum in calce lapidibus et omnibus aliis oportunis fieri facias sine mora; significaturus nobis frequenter, quid inde duxeris faciendum.». «Poiché per il castello, che abbiamo intenzione di costruire vicino a Santa Maria de Monte, vogliamo che venga subito eseguito tuo tramite – benché esso non stia nel distretto della Tua giurisdizione l’actractus, ti incarichiamo, quale nostro fedele, di predisporre senza indugio questo actractus con calce, pietre e tutto il necessario, in attesa che Tu ci tenga continuamente informati di ciò che intendi fare in questa faccenda…»2

Cosa è l’actractus.

Ipotesi di studiosi che si fondano sul simbolismo esterno e sui simboli ancora visibili all’interno del fabbricato stesso, attribuiscono la originaria proprietà del Castello ai Templari: Castel del Monte, come vedremo nella seconda parte, è come disegnato dalle “mani del sole” caratteristica tipica delle costruzioni templari.

In proposito, nella terza parte, relativa ai simboli presenti, ne citerò due tipicamente templari e trarrò interessanti sviluppi su uno di essi. Il prof. Giorgio Masetti, succitato, definisce actractus in questo modo: canalis in quam aqua actrahitur “canale nel quale si attira l’acqua”. Si tratterebbe, quindi, della esecuzione di un’opera accessoria per una struttura esistente. E qui si apre il pregevole e convincente contributo di due docenti del Politecnico di Bari, Facoltà di Architettura, prof. Ubaldo Occhinegro e prof. Giuseppe Fallacara che hanno redatto un saggio: Castel del Monte: Nuove ipotesi sull’utilitas del monumento, accessibile per via informatica e che invito caldamente a leggere. Castel del Monte non è un’opera militare e questo si può chiaramente dedurre sulla base degli elementi di architettura militare e logistica non rilevabili nel Monumento. In estrema sintesi, il Castello è una costruzione per la raccolta dell’acqua piovana e di falda per il loro trattamento finalizzato alla cura del corpo e dello spirito.

Dicono i nostri Autori: “Castel del Monte è stato progettato per essere il “battistero” per la redenzione del corpo in primis, ma anche dell’anima dell’Imperatore stesso, alla strenua ricerca dell’Immortalità”.

In effetti, il Castello era impiegato per gli stessi scopi anche per ospiti importanti dell’Imperatore, siano essi alti funzionari che Cavalieri che intraprendevano come un percorso iniziatico. “In esso, concepito come ideale battistero del corpo e dell’anima, lavoravano medici ed alchimisti…”I nostri Autori espongono, in modo puntuale, l’organizzazione degli spazi interni del Castello riconducendoli alla loro funzione e ipotizzando i trattamenti che vi avvenivano leggendo le geometrie interne e segni lasciati dai residui secchi di prodotti alchemici, senza entrare, però, per onestà intellettuale, nella interpretazione dei simboli presenti di cui il castello è pieno. I percorsi sono obbligati ed indicati dalla struttura dei portali: riccamente decorati sul prospetto di entrata, nudi nella parte posteriore, come a “vietare”una via di ritorno, assimilabile ad un ripensamento di chi ha intrapreso il “viaggio”.

Si accede obbligatoriamente nel cortile ottagonale al centro del quale è testimoniata la presenza di una grande vasca anch’essa ottagonale, monolitica, di marmo, con sedile periferico interno3, riempita d’acqua e con getto centrale a mo’ di sorgente: la forma di questa vasca ricorda un “battistero”. L’inizio di un lavacro purificatore per il corpo
e per lo spirito.

I vani finemente decorati originariamente con marmi, stucchi e mosaici, fungevano da “tepidari”e “calidari”, con pavimenti più bassi, soglie di separazione delle sale più alte, rispettivi camini e servizi igienici con acqua corrente: i pavimenti, come negli hammam islamici, sarebbero invasi di acqua più o meno calda adatta alle diverse cure del corpo. L’edificio è munito di cinque cisterne pensili di raccolta di acqua piovana, di 28 m3 l’una, non a servizio diretto dei cinque servizi igienici delle torri, ma comunicano, per il troppo pieno, in altre direzioni, ma soprattutto con una cisterna posta sotto il cortile ottagonale della capacità di 250 m3; questa ultima riversa il troppo pieno entro una ultima cisterna interrata posta a 20,00 m dall’edificio. I recenti restauri, inoltre, hanno rilevato la presenza di pozzi profondi 60,00 m che raggiungono falde ricche di acqua sottostanti il castello. Chiudo questa sezione con una osservazione sintetica degli autori citati, raccomandando, ancora, di accedere al loro lavoro:

“Studiando il progetto dell’edificio, dalla planimetria generale sino ai più piccoli elementi di decoro architettonici, il castello risulta essere una enorme macchina di raccolta, smistamento ed utilizzo delle acque piovane.” E, come detto sopra: “…concepito come ideale battistero del corpo e dell’anima…”.

(Seguirà la seconda parte: Un monumento disegnato dalle mani del Sole).

1 Cfr. Aldo Tavolaro, Castel del Monte e il santo Graal, EDIZIONE GIUSEPPE LATERZA di Giuseppe Laterza, 2004, p. 30 e segg. 

Traduzione di Dankwart Leistikov , da un opuscolo AndriArte curato da R. Ruotolo – P. Petrarolo, Sveva Editrice, Andria, 1993, pagg. 33-42

Completamente demolita da vandali nella seconda metà del XIX secolo.

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