BURRI A GIBELLINA IN CONTROLUCE di Alessandra Oddi Baglioni – Numero 11 – Luglio 2018

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BURRI              A GIBELLINA  IN CONTROLUCE

 

Una che ci vuole raccontare un Burri in controluce, un Burri dietro le luci accecanti che hanno illuminato le espressioni della sua arte. Un Burri vicino di casa, un Burri che siede alla stessa vostra tavola. Un Burri che vi prende per mano e vi spiega non la sua opera – perché quella lui non ha mai voluto spiegarla – ma vi spiega se stesso.

Eh già! Io Burri non l’ho conosciuto di persona, non l’ho conosciuto 

in carne ed ossa. Ma è un personaggio 

che mi ha sempre affascinato.


Ho cominciato piano piano ad avvicinare le persone che lo avevano incontrato, dapprima quelle ufficiali, poi gli amici, quelli delle partite di calcio, quelli degli appostamenti per la caccia. 

 

Al mio lavoro però mancava ancora un tassello, che per una donna è essenziale: mancava di parlare con chi aveva trascorso con lui le sere, con chi aveva condiviso gli attimi che rendono due esseri fusi in un solo pensiero. La moglie, l’enigmatica, l’estrosa Minsa, era morta. Altri con cui avevo parlato erano elusivi su questo tema. Finalmente un incontro ha da dato una svolta alle mie ricerche e, condotta per mano da una donna – anche lei grande artista, ho scoperto anche il cuore di Burri.

Pian piano mi si è ricomposto un mosaico; e credo di aver vissuto 

con la sua ombra, calpestato i suoi terreni, respirato la sua aria, 

addirittura mangiato ciò che mangiava lui: in una parola 

è come se avessi vissuto per sei mesi con la sua anima.


Ho cercato di raccontare “L’Umbrietà” di Burri, i suoi neri ed oro rispecchiavano i colori del rinascimento, le sue tele stracciate, l’estrema povertà della nostra terra, i territori aspri e difficili dell’alta valle del Tevere. Così, anche nel raccontare la sua presenza a Gibellina, ho voluto dare una immagine inusuale, convinta che la nostra Umbria, che pure è squassata continuamente dai terremoti, lo avesse segnato nelle sue decisioni.

Il più grande capolavoro europeo di land art poteva nascere solo 

da quella caparbietà che confronta l’uomo 

con la natura distruttrice.


Nel mio capitolo su Gibellina, estratto dal volume Controluce. Alberto Burri. Una vita da artista, edito da Donzelli, ho cercato di mostrare il momento in cui Alberto decide di occuparsi del territorio terremotato.

 

“Arrivai a Gibellina, alla nuova Gibellina, quella ricostruita a venti chilometri dal luogo della distruzione, nel primo pomeriggio, accolto dalla stella di Consagra. Una porta d`acciaio attraverso cui si intravedeva un cielo striato: la scultura sembrava impedire anche alle nuvole rosate di entrare in città. Diane aveva tanto insistito, Corrao mi chiamava quasi ogni giorno, ho dovuto accettare di andare almeno a fare un sopraluogo. Per fortuna c`era lei, Giovanna, l`unica in grado di capire l’angoscia che mi provocava quella desolazione: mi ricordava la guerra e la disperazione del dopoguerra. Ma lei con il suo sorriso, con le sue parole mi incoraggiava. 

 

Ero lì, seduto nella hall dell`albergo, incapace di muovermi, ma lei mi prese per mano, mi fissò negli occhi: «Pensa alla ricostruzione, a ciò che puoi fare per questa povera gente.» In quel mentre entrò Diane: «Andiamo, Zanmatti vuol farci fare un giro.» Vagammo per la città piena di cantieri. Ci fermammo nel portico del comune. Avevano voluto rappresentare la città ideale, e le ceramiche della Attardi richiamavano un colore rinascimentale, ma c`era qualcosa di discordante come un bellissimo pezzo musicale dove qualcuno stonava. Camminavamo in un immenso museo all`aperto, fuori dal tempo, vivo, ma la città… dov’era la città? 

 

Poi entrammo nella Chiesa di Quaroni. Mentre gli altri discutevano sulle rotondità della palla, io cercavo Dio in quel luogo, ma avevo l`impressione che se ne fosse tenuto lontano. L`avvolgersi su se stesso di quella palla non aveva nulla dello slancio verso il cielo dei miei campanili umbri. Diane cominciò a parlare con Giovanna: il gorgoglio delle parole rintronava nelle mie orecchie, uscii di scatto da quella chiesa alla ricerca di qualcosa di diverso. 

 

A cena dissi: «Basta andiamocene io non potrò mai intervenire in questo guazzabuglio, perché mi avete portato qui? Diane domattina ripartiamo.» Uscii infuriato, e Giovanna mi seguì mi prese per mano e cercò di calmarmi. Udimmo un leggero scampanellare e in fondo, di fronte alla montagna di sale di Paladino, da cui i cavalli spezzati cercavano invano di uscire, vidi passare un carretto siciliano luminoso nei suoi colori, tirato da un cavallo bardato a festa che faceva dondolare i campanellini dalle sue orecchie. Dietro di lui una processione di gente che cantava litanie, invocava la vergine e si dirigeva verso i luoghi della vecchia Gibellina, i luoghi spazzati via dal terremoto. Ci unimmo a loro, Giovanna stringeva sempre più forte la mia mano: in quel momento capii cosa volevo fare.

Gli occhi di quella gente che riflettevano il bisogno disperato di tornare 

alla loro Gibellina, che ormai era solo nei loro sogni mi aveva fatto venire un`idea. La mia opera avrebbe dovuto sorgere dove il terremoto aveva colpito, dalla rovina sarebbe sorto il simbolo della speranza, del futuro, di tutto ciò 

che sarebbe potuto accadere un giorno qui.


La mattina dopo mi diressi velocemente all`ufficio del sindaco: «Ho deciso, interverrò». Corrao tirò un sospiro di sollievo. Continuai: «Perimetreremo tutta la zona terremotata, la ricopriremo di cemento bianco lasciando emergere le vecchie vie. Farò in modo che dalle superfici bianche emergano i cretti.» Corrao impallidì: «L`idea è splendida, ma un`opera così colossale non posso affrontarla con le risorse modeste che mi sono state affidate.» Intervenne il mio angelo custode Diane: aprì una sottoscrizione internazionale, sollecitò gli emigrati denarosi: da tutto il mondo arrivarono i fondi. I lavori iniziarono alla fine del 1984 e continuarono per cinque anni.”

Dopo le importanti celebrazioni del grande artista Alberto Burri mi potrete chiedere cosa ci viene a dire una che Burri non lo ha conosciuto di persona.

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1 – A. Oddi Baglioni, Controluce. Alberto Burri. Una vita da artista, Donzelli Editore, 2015.

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EDUARDO, TITINA E PEPPINO di Fernando Popoli – Numero 11 – Luglio 2018

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EDUARDO, TITINA          E PEPPINO

 

Io avevo circa tredici anni ed ero amico di Gastone de Luca, che abitava in Via Vittoria Colonna 6, il proseguimento di Via dei Mille, la strada più elegante della città, dove i ragazzi della Napoli bene sfoggiavano le cravatte di Marinella, a poche centinaia di metri da Via Carducci, dove abitavo io, in un attico che vedeva da lontano Capri e il mare e ti riempieva l’anima di poesia. 

 

Gastone era cugino di secondo grado dei De Filippo, la madre, Margherita Pezzullo, era cugina di primo grado. La casa in Via Vittoria Colonna era stata costruita insieme a tutto il palazzo da Eduardo Scarpetta ed era stata anche la casa dei De Filippo, e Titina, che si era trasferita a Roma come i fratelli, quando tornava nella sua città natale per recitare al San Ferdinando, andava a dormire nella sua vecchia casa, abitata ora dai parenti.

Fu così che io la conobbi. Margherita Pezzullo, quando la cugina arrivava,
la andava a prendere alla stazione con la sua Millecento Fiat, color verde militare,
e Gastone ed io la accompagnavamo. Durante il tragitto l’argomento
era sempre centrato sui fratelli Eduardo e Peppino, sul teatro
e sulle recite al San Ferdinando.


Il San Ferdinando era un antico teatro costruito alla fine del Settecento dall’architetto Camillo Leonti e decorato da Domenico Chelli, nel cuore della città storica, in una traversa di Via Foria. Eduardo l’aveva comprato quando era praticamente distrutto e vi aveva investito tutti i suoi soldi per restaurarlo e rappresentarvi le sue commedie. I lavori furono affidati all’Ingegner Mannaiuolo e costarono quattrocento milioni di lire, una cifra enorme per quegli anni, ma il risultato fu molto soddisfacente. La vecchia facciata storica fu conservata, all’interno invece fu costruito un teatro moderno ed efficiente che ha funzionato per molti anni e ancora oggi è attivo e dove io, da ragazzino, ho visto buona parte delle commedie di Eduardo, che hanno contribuito alla mia prima formazione artistica.

Titina era rimasta legata a Eduardo quantunque la loro compagnia, “I De Filippo”, 

si fosse sciolta da un pezzo per via dei continui litigi tra Peppino e Eduardo.


Si erano uniti nella compagnia di Vincenzo Scarpetta, di fatto loro fratellastro, perché i tre fratelli erano figli illegittimi del grande attore e commediografo napoletano Eduardo Scarpetta che li aveva avuti dalla relazione con la sarta teatrale Luisa De Filippo, nipote di sua moglie Rosa De Filippo. Fu in quel periodo che Eduardo si cimentò nella sua prima commedia, Farmacia di turno, che fu rappresentata dalla compagnia di Vincenzo e ottenne un buon successo. Eduardo Scarpetta era molto rigoroso sulle scene e pretendeva il massimo da tutti i suoi collaboratori. Questo rigore fu acquisito anche da Eduardo che lo applicò in tutta la sua carriera di attore e commediografo. 

Uomo e Galantuomo fu la seconda opera teatrale che scrisse e mise in scena unendo elementi che gli saranno cari anche in seguito: la pazzia e il tradimento. 

E’ sicuramente una farsa molto divertente che lo mise in luce definitivamente 

nel mondo teatrale dell’epoca.


Alla fine degli anni Venti, dopo la morte del padre Eduardo Scarpetta e l’allontanamento dalla compagnia del fratellastro Vincenzo, Eduardo formò una sua compagnia con Titina, Peppino e Michele Galdieri e debuttò al Fiorentini di Napoli con lo spettacolo La rivista…che non piacerà; in seguito, sempre con i fratelli e un gruppo di attori che rimarrà sempre legato a loro, Pietro Carloni, Carlo Pisacane, Tina Pica, portò in scena Pulcinella principe in sogno, con il famoso sketch Sik, Sik l’artefice magico, dove costruisce il personaggio a lui molto caro dell’artista tormentato, povero e un poco filosofo come tutti i napoletani.

I De Filippo continuano insieme la loro grande avventura teatrale dividendosi 

tra lo spettacolo leggero come il varietà e i testi 

che Eduardo continua a sfornare


come Natale in casa Cupiello, consolidando la loro fama e ponendosi all’attenzione di tutta l’Italia affrontando poi anche i testi impegnativi di Luigi Pirandello. Sono gli alfieri della “napoletanità”, gli interpreti di commedie che rappresentano l’animo della città, l’animo di Napoli che assurge nella sua grande umanità e nelle sue contraddizioni a emblema di una società universale.

Al teatro ben presto seguì una vasta attività cinematografica, dove i tre fratelli 

con ruoli e parti diverse di protagonisti e comprimari legano la loro bravura 

a film indimenticabili


per la versatilità dei personaggi che esprimono come Tre uomini in frak, L’oro di Napoli, Guardie e Ladri, Napoli milionaria, Totò Peppino e la malafemmina, La banda degli onesti, ecc.

 

Sicuramente possiamo dire che

Peppino ebbe una grande notorietà come attore comico sia nel cinema 

sia nella televisione, memorabile il suo personaggio di Pappagone 

nel varietà della Rai Scala reale, abbinato alla lotteria di capodanno. 

Mentre Eduardo rimase insuperabile nel teatro sia come commediografo 

sia come attore arrivando a recitare in dialetto perfino a Mosca


dove il pubblico lo capiva e si divertiva. Titina appare tra i tre una figura minore, ma questo si deve unicamente alla minore attività nel piccolo e grande schermo, però sicuramente la sua bravura come attrice e la considerazione che aveva di lei il pubblico fu sempre grandissima. 

 

Eduardo io l’ho conosciuto al Teatro San Carlo, me lo presentò il Maestro Ferraresi, in quegli anni primo violino dell’orchestra, un apprezzato musicista molto conosciuto in Italia. Il Maestro era il padre di due miei amici, Marcello e Augusto e sapeva della mia passione per il cinema. Muovevo in quegli anni lontani i miei primi passi e volle presentarmi al grande attore e regista; egli stette pochi minuti ad ascoltarmi con attenzione, nel suo viso vissuto, velato di malinconia, segnato dalle rughe, si leggevano la saggezza e l’esperienza dei grandi. Mi fece capire che ci saremo rivisti in qualche modo ed io non gli dissi che ero amico del nipote Gastone e avevo conosciuto la sorella Titina. Egli faceva una vita abbastanza appartata rispetto alla famiglia, una vita che lo poneva su un piedistallo diverso, dove c’era lui e solo lui: il grande Eduardo, ormai attore e commediografo famoso in tutto il mondo. Nella sua vita aveva avuto importanti riconoscimenti: due lauree honoris causa e la nomina a senatore a vita.

Titina raggiunse l’apice della sua bravura nelle commedie di Eduardo
Filumena Marturano, scritta per lei dal fratello, e Napoli Milionaria

dove si consacrò come attrice di


successo, con pari dignità di Eduardo e Peppino. Fu molto versatile, interpretò tante commedie anche di altri autori e molti ruoli cinematografici. Soffriva di cuore e verso i sessant’anni dovette limitare il suo lavoro sino poi a ritirarsi del tutto. Sposò Pietro Carloni, che aveva conosciuto da giovane, ed ebbe un figlio, Augusto, che divenne giornalista parlamentare dopo una breve parentesi nello spettacolo. 

 

A Napoli, i De Filippo sono stati considerati una gloria nazionale ineguagliabile, intere generazioni hanno seguito nel teatro, nel cinema e in televisione i loro spettacoli, divertendosi, appassionandosi, amandoli. Hanno avuto molti allievi nelle loro compagnie, che si sono in seguito affermati.

Il figlio di Eduardo, Luca, e quello di Peppino, Luigi, hanno continuato 

il teatro dei genitori tenendo in piedi la commedia napoletana 

e conseguendo sempre ottime accoglienze 

di pubblico e di critica.


Ambedue sono scomparsi senza eredi. Con la morte prematura anche di Mario Scarpetta, nipote di Vincenzo, anch’egli attore affermato, la famiglia di attori e commediografi napoletani più famosa al mondo, quella dei De Filippo, che ebbe come capostipite Eduardo Scarpetta, si è estinta del tutto, lasciando dietro di sé un vuoto incolmabile e una profonda amarezza. Resta il ricordo della loro bravura, dei loro personaggi, delle commedie, di una Napoli scomparsa per sempre, di un bel tempo andato che non tornerà più, ma riempie il nostro animo di un indelebile ricordo d’amore per il teatro.

di grande creatività artistica; l’Italia, uscita distrutta dalla guerra, ritrovava se stessa e la sua anima più profonda.

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 Foto: Courtesy Teatro San Ferdinando

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IL GIARDINO ALPINO SUL GRAN SASSO di Loretta Giuseppina Pace – Numero 11 – Luglio 2018

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IL GIARDINO ALPINO SUL GRAN SASSO

 

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In una piovosa giornata di fine estate del 1952, a 2117 m di altitudine alle pendici del Monte Aquila, Vincenzo Rivera, primo rettore dell’Università degli Studi dell’Aquila, poneva la prima pietra del “laboratorio giardino” che avrebbe poi ospitato studiosi da tutto il mondo con lo scopo di svelare “i più affascinati interrogativi sul vivo” della ricerca botanica.

1_Il Giardino Alpino di Campo Imperatore sullo sfondo il Corno Grande

Iniziò così l’avvincente avventura di un Giardino Alpino che segue i ritmi propri della montagna, passi lenti e corti per arrivare alla meta.

 

Furono allestite alcune aiuole che ospitavano le specie più significative della flora appenninica d’alta quota, i primi studi riguardarono le piante foraggere dei pascoli montani che rappresentavano una indispensabile risorsa per l’allevamento del bestiame. Il completamento della foresteria e la collaborazione di un giardiniere per l’intero periodo primaverile-estivo permise, negli anni seguenti, l’impianto di circa 300 entità vegetali, tra le quali relitti glaciali, endemismi, piante rare e/o di particolare interesse fitoterapico.

 

Cominciò dunque l’iter burocratico, che nel 1993 assegnò
definitivamente all’Ateneo aquilano la proprietà del Giardino Alpino
ed all’allora Istituto di Botanica le responsabilità scientifiche.

Nel 1990 fu stipulata una Convenzione tra l’Università degli Studi dell’Aquila e l’Azienda di Stato per le Foreste Demaniali secondo la quale quest’ultima avrebbe provveduto agli interventi di manutenzione e di miglioramento del Giardino, mentre il responsabile universitario avrebbe programmato e guidato gli aspetti scientifici. Tale proficua collaborazione è stata svolta con i finanziamenti ottenuti dalla L.R. 9 aprile 1997, n. 35 “Tutela della biodiversità vegetale e la gestione dei giardini ed orti botanici”, fondi erogati fino al 2009.

 

La posizione strategica del Giardino Alpino, situato in prossimità della stazione 

della funivia, nel cuore del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, costituisce un importante richiamo per gli escursionisti attratti 

dalle sorprendenti ed inaspettate fioriture.

La bellezza e la complessità della flora e della vegetazione del Gran Sasso sono il risultato di eventi di varia origine che si sono succeduti e intersecati tra loro nel corso dei millenni. Il Massiccio del Gran Sasso, per la sua posizione geografica, ha rappresentato un antichissimo crocevia di entità mediterranee nella risalita verso il nord (interglaciale), di entità alpine nella colonizzazione dei versanti meridionali (nel glaciale), di entità orientali ancora più antiche e lontane che nel terziario, attraverso i collegamenti di terre emerse, ampliavano il loro areale verso occidente (Leontopodium nivale, Gentiana dinarica, Aster alpinus, ecc.). Le imponenti glaciazioni del quaternario, alternate da lunghi periodi interglaciali, sono testimoniate dai numerosi relitti glaciali, ora fortemente minacciate dal cambiamento climatico, che si sono rifugiate nei settori più elevati del Gran Sasso (Dryas octopetala, Gentiana nivalis, Vaccinium myrtillus, Artemisia umbelliformis ssp eriantha). Le entità più importanti della flora del Gran Sasso sono rappresentate da endemismi, tra i quali si ricordano: Androsace mathildae, Adonis distorta, Festuca imperatrix, Minuartia glomerata ssp. trichocalycina, Saxifraga italica.

 

La gestione del Giardino Alpino è oggi affidata alla sezione di Scienze Ambientali 

del Dipartimento di Medicina clinica, sanità pubblica, scienze della vita 

e dell’ambiente (MESVA) che promuove la ricerca scientifica 

con particolare riguardo alle specie ed alle comunità vegetali 

dei settori altitudinali.


Studi applicativi sono rivolti alla micropropagazione di piante rare e/o in pericolo di estinzione ed al monitoraggio delle particelle aerodisperse (pollini e spore fungine) in alta quota. Purtroppo, la mancata erogazione di fondi specifici e la carenza di personale dedicato, non permettono attualmente al Giardino di programmare anticipatamente le attività turistico-divulgative, tanto apprezzate dai numerosi visitatori. 

 

D’altronde, le rigide condizioni climatiche consentono la fruizione del Giardino solo per il breve periodo estivo. Tuttavia le attività di ricerca continuano per tutto l’arco dell’anno presso i laboratori dell’Università dell’Aquila, nella sede di Coppito 1, dove è stato organizzato anche un percorso espositivo dedicato agli aspetti botanici, zoologici, geologici ed ecologici dell’ambiente appenninico, con particolare riguardo al settore centrale.

 

Il futuro del Giardino Alpino è al momento incerto, in quanto non potendo contare 

su un finanziamento erogato in modo regolare dagli enti preposti, 

non è possibile programmare in modo adeguato 

la sua gestione ordinaria,


indispensabile per una efficace fruizione estiva per i tanti visitatori che frequentano Campo Imperatore e spesso rimangono delusi dall’impossibilità di accedervi, davanti al suo cancello chiuso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

la tenacia che resiste

Bibliografia: 

 

AAVV. (a cura di): PACE L. & FASCIANI P., Fioriture in alta quota: il Giardino Alpino di Campo Imperatore, Edizioni L’Una, 2014, p. 63-68, ISBN: 978-88-96319-31-4. 

 

PACE L., PACIONI G, PIRONE G., RANIERI L., Il Giardino Alpino di Campo Imperatore (Gran Sasso d’Italia, L’Aquila), Informatore Botanico, 37 (2), 2005, p. 1211-1214, Atti “I Giardini della Sapienza”. 

 

PACE L., A Campo Imperatore una preziosa eredità da custodire: il Giardino Alpino, CARSA Edizione, 2002, p. 72 -75. CATONICA C., 

 

PACE L., – Il Giardino Alpino di Campo Imperatore: una vetrina sul Gran Sasso. Il Limite Meridionale del Mondo Artico. Boll. C.A.I., G.T.E. L’Aquila, n.167, 2000, p. 25-36

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MULTAQA: UN MEDITERRANEO OLTRE LE INCOMPRENSIONI di Giorgio Salvatori – Numero 11 – Luglio 2018

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MULTAQA: UN MEDITERRANEO OLTRE LE INCOMPRENSIONI

 

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e che sottintende la locuzione: “tra genti diverse”. Un punto d’incontro che si deve riportare al centro del Mediterraneo, ed elettivamente in Sicilia, terra di antichi approdi, di fecondi scambi economici e culturali, di osmosi di civiltà, a dispetto di un presente diverso, che si propone, quotidianamente, con immagini di diaspora umana e di conflitti etnici.

 

Una sfida, in ardita controtendenza, lanciata ad Agrigento dai rappresentanti 

delle tre grandi religioni monoteiste: Cristianesimo, Islamismo, Ebraismo, 

le stesse che hanno plasmato la vita dei popoli del bacino del Mediterraneo 

ed hanno contribuito a scrivere la storia e la cultura di tre continenti, 

Europa, Africa e, almeno in parte, dell’Asia.


Un ‘idea ambiziosa che ha come data di nascita il 1998, quando, nella città dei templi, si svolse il primo incontro sullo stesso tema e con lo stesso titolo: Multaqa, Mediterraneo di civiltà e di pace’’. L’iniziativa, oggi come allora, è di Emmanuele F. M. Emanuele, presidente e infaticabile animatore della Fondazione filantropica internazionale Terzo Pilastro. Utopia? Certamente, ma è dalle utopie che scaturiscono le metamorfosi possibili e auspicabili quando le rigidità sociali e culturali reclamano un cambiamento di rotta.

Non erano forse animati da una smisurata utopia uomini come Francesco d’Assisi, Ibn Arabi, Rumi, che, spiritualmente distanti dal furore delle “guerre sante’’ che, 

di lì a poco, sarebbero deflagrate tra regni cristiani e califfati islamici, 

si prodigarono per il dialogo, la comprensione, l’incontro, appunto, 

tra genti diverse per costumi, fede, etnia?


E perfino durante i conflitti più aspri, con il clangore delle spade in assordante crescendo, vi fu chi, come Federico II di Svevia, non rinunciò all’utopia della Multaqa da contrapporre al fanatismo e alla omologazione religiosa, economica e culturale del Mediterraneo se fosse prevalsa la dominazione di una sola corona o di un’unica tiara. Ed e’ proprio la distopia dell’oggi a rendere prepotentemente necessario, per gli uomini di buona volontà, ritessere le sottili trame del dialogo tra le genti del Mediterraneo.

 

Non deve perciò meravigliare se l’incontro di Agrigento si sia svolto con il rimbombo delle armi israeliane e delle proteste palestinesi lungo la striscia di Gaza o con l’eco del pianto incessante dei migranti in precaria navigazione verso l’Europa. Per nulla scoraggiati da questo drammatico contesto, ad Agrigento hanno riaffermato la comune volontà di dialogo, tra i popoli delle diverse sponde del Mediterraneo,

tre relatori d’eccezione: il Cardinale Giovanni Battista Re, vice Decano 

del Collegio Cardinalizio, il Rabbino Capo di Napoli, Ariel Finzi, 

l’Imam della Moschea di Ethem Bej, in Albania, Elton Karaj.


Proprio da quest’ultimo e’ giunto il messaggio più incoraggiante per le sorti delle genti del Mediterraneo. Karaj ha ricordato come dal 1912 convivano pacificamente in Albania i tre Credo prevalenti: Islamismo, Cattolicesimo ed Ortodossia, aggiungendo che per favorire un proficuo dialogo tra le religioni si incentiva costantemente un impegno accademico assiduo nelle facoltà di teologia. In precedenza, il Cardinale Re aveva affermato con vigore: “Quel Dio che ci ha creato non può essere motivo di contrasti tra le religioni: esse devono tutte cooperare per il benessere, il progresso, la pace e la cooperazione tra i popoli.

Ogni Credo ha le sue caratteristiche e dobbiamo essere fedeli alla nostra religione, ma allo stesso tempo e’ indispensabile avere fiducia e rispetto verso gli altri 

e salvaguardare la libertà altrui, questa e’ l’unica maniera 

per poter vivere insieme in armonia e serenità”. 


Il Rabbino Finzi ha preferito citare alcuni esempi illuminanti della lingua ebraica per affermare la stessa ineludibilità del dialogo e della comprensione tra le religioni. “Pace’’, ha detto Finzi, “si dice shalom nella nostra lingua ed ha la stessa origine di shalem, che significa completo. Una comune radice che rimanda al cuore del problema, il mondo non può essere ‘completo’ finché non regni la pace”. Finzi non si è soffermato ad analizzare le cause storiche e politiche delle aspre contrapposizioni che caratterizzano il confronto tra il suo Paese e le genti della Palestina; ha invece affermato che i fondamentali principi di democrazia e rispetto dei diritti umani cui si ispira lo Stato d’Israele includono anche le pari opportunità per le donne e l’accoglienza degli omosessuali. E in un contesto metapolitico come quello in cui si è svolto l’incontro di Agrigento non desta meraviglia che la cronaca degli scontri tra opposti fanatismi sia stata tenuta fuori dell’aula del convegno. 

 

Ha lucidamente osservato il Professor Emmanuele F. M. Emanuele, chiudendo i lavori, che “Oggi la pace è ancora lontana, ma lo sforzo che l’umanità e noi in primis dobbiamo fare è quello di perpetuare diritti e valori che sono alla base del concetto di civiltà…

L’osmosi tra le civiltà nate nel bacino del Mediterraneo ha generato sensibilità comuni che hanno edificato l’Occidente per influsso 

delle culture provenienti dall’Oriente.


La poesia, la letteratura, l’arte, ma soprattutto il concetto di democrazia, la primazia delle leggi e la religione fanno parte di quel patrimonio che e’ diventato ormai parte della civiltà mondiale”. Emanuele ha poi lanciato una proposta ambiziosa: “Da anni propongo la Sicilia come la Bruxelles degli Stati Mediterranei…si tratta di un sogno, ma continuo a lavorare affinché ciò accada. Con la Fondazione Terzo Pilastro abbiamo contribuito al restauro della Cattedrale di Sant’Agostino ad Annaba, in Algeria…, sostenuto un progetto di irrigazione nelle aree pre-desertiche di Nabeul, in Tunisia…creato corsi ad Aqaba-Eilat in cui bambini arabi e israeliani studiano insieme…realizzato una Fondazione per la Ricerca sul Cancro a Malta, siamo intervenuti in Siria con il progetto Ospedali Aperti a Damasco, siamo presenti in Spagna e in prospettiva anche in Grecia”. 

 

 “Il Meridione – ha concluso Emanuele – rappresenta la naturale cerniera tra mondi che si affacciano sul nostro mare, ad esso bisogna guardare con l’intento di riconoscersi come comunità capace di trasmettere valori importanti sulla pace e sul rispetto reciproco…La mia speranza è che questo luogo in cui la civiltà è nata possa tornare ad essere motore della rinascita di un mondo in cui i valori della reciproca comprensione possano trovare opportunità di germogliare’’.

 

 

 

 

 

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PALERMO, PONTE TRA LE CULTURE di Lucia Gotti Venturato – Numero 11 – Luglio 2018

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PALERMO, PONTE TRA LE CULTURE

 

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Palermo, greca, romana, araba e normanna, crocevia delle culture del Mediterraneo era la capitale di un regno enorme. La città contava allora duecentocinquantamila abitanti quando Roma ne aveva soli trentamila. 

Le feste, le celebrazioni, i fasti e i personaggi di quegli anni non poterono essere ripresi da una telecamera, ma i più grandi artisti dei paesi vicini e lontani 

li hanno documentati,


e oggi ne sono testimonianze i mosaici della Martorana, i dipinti delle formelle del soffitto a mukarnas della Palatina, i più recenti mosaici del Duomo di Monreale e l’elenco potrebbe essere senza fine se si pensa all’intera Sicilia. 

 

L’arte si è evoluta nei secoli e così pure le sue forme espressive, ma gli artisti non hanno abbandonato la Sicilia; pittori, scultori, fotografi e soprattutto registi continuano a volersi misurare con l’arte, la storia e le tradizioni di questa terra. Ecco cosa scrive Win Wenders mentre sta girando Palermo Shooting e si trova in visita al Museo Abatellis ammirando il Trionfo della morte: “Sono entrato in un museo che stava all’angolo di dove vivevo e ho trovato la mia sceneggiatura in un dipinto sul muro di cinquecento anni prima, dove c’era tutto: la morte con le sue frecce, le persone spaventate e un fotografo che non aveva paura, anche perché lui è il pittore ed è praticamente lo stesso. Tutta la mia storia era già stata dipinta da un pittore sconosciuto a Palermo cinquecento anni fa. Ho ringraziato e ho pensato che questa fosse la mia sceneggiatura. Poi ho sentito altre storie sulla città e ho capito che la vitalità di Palermo era dovuta al fatto che conosceva così bene la morte. Quindi forse fare un film che avrebbe contribuito a ristabilire l’immagine della morte, non solo negli affreschi ma in generale, avrebbe aiutato non soltanto la città ma anche tutti quelli che avrebbero visto il film.” 

 

Palermo, che nel suo DNA riassume l’eredità del mondo, che geneticamente incarna il ciclo della vita dell’uomo, ci è parsa luogo ideale per ospitare il 

Sole Luna Doc Film Festival, un festival di documentari che si proponeva l’obiettivo di fare luce sulla condizione dell’umanità e di approfondire la conoscenza 

delle culture “altre”, di favorirne l’incontro, il dialogo, l’interazione, 

di costruire nuovi ponti da attraversare e di indicare nuove vie 

da percorrere in grado di avviare processi 

di amicizia e inclusione tra i popoli.

Un’intuizione felice che ha contribuito a farlo divenire negli anni, un luogo riconosciuto a livello internazionale, un’area di libero scambio intellettuale e artistico, una corte privilegiata dove si mescola il pubblico più eterogeneo,

composto da intellettuali e artisti ma anche da gente comune e da turisti, 

così come da giovani studenti e da migranti.


La forza del progetto si riscontra anche nella partecipazione di questi ultimi, giovani e adulti, uomini e donne che ancora aspettano di accedere a uno status e che sono alla ricerca di uno spazio, di un territorio che li accetti, li accolga, li consideri parte integrante della società civile. Al festival si sentono a casa, scoprono attraverso i film proiettati l’attenzione che viene data alla loro condizione, 

a volte nelle immagini riconoscono gli alberi, i colori, i cieli della loro terra d’origine, altre sono accolti con musiche, cibi e bevande dei loro paesi.


Il festival ebbe il suo esordio nel 2006 a Santa Maria delo Spasimo e negli anni è stato ospitato nei più importanti siti storici della città, alla GAM, ex Convento di Sant’Anna, a Palazzo Chairamonte Steri e ai Cantieri Culturali alla Zisa, ritornando l’anno scorso allo Spasimo dove saremo di nuovo accolti per la tredicesima edizione dal 2 all’8 luglio 2018, nell’anno in cui Palermo è capitale della cultura e in piena attività con la Biennale Europea itinerante Manifesta12. In questi 12 anni abbiamo avuto l’onore di lavorare con siciliani come Nino Buttitta, Francesco Alliata, Ludovico Corrao, con registi come Christopher Nupen, il premio Oscar Mark Peploe, Gianni Massironi, Nima Sarvestani, Mohammad Bakri, Eyal Sivan, Stefano Savona artisti di fama mondiale come James Turrell, Wael Shawky, Karim Said, personalità come Adama Dieng, Frederic d’Agay, abbiamo prodotto documentari e video-art. Abbiamo fatto buona scuola avviando percorsi formativi con alcuni licei palermitani, coinvolgendo i loro studenti nelle giurie e in programmi di alternanza scuola/lavoro. La tredicesima edizione confermerà l’eccellenza della manifestazione con un programma di anteprime nazionali e internazionali, che offriranno tanti nuovi spunti di riflessione, sia nelle rassegne in concorso che fuori concorso.

Riceveremo ospiti prestigiosi come Ingrid Rossellini e Nima Sarvestani, 

membri della giuria internazionale, tanti amici e abitué ci raggiungeranno 

dall’estero e dal resto d’Italia. Sarà un’occasione per tutti di ritrovare 

una Palermo in grande attività, che da Capitale della Cultura, offrirà 

il meglio della produzione artistica mondiale del momento. 


Anche Sole Luna Doc Film Festival, a modo suo e rispettando i temi cari al progetto, esporrà
Il Sacro degli altri, una mostra di fotografie sui diversi culti religiosi praticati in città, proporrà Renegotiating Identities, una selezione di Video-art di sul tema dell’identità rinegoziata, una installazione sonora Crossfade, e una performance del disegnatore Gianluca Costantini, Auto da fé, nelle celle dell’Inquisizione dello Steri. 

 

In occasione di Manifesta 12, che ha come tema “il giardino planetario”,

Sole Luna Doc Film Festival ha scelto come simbolo dell’anno 

il gelsomino di Sicilia il Jasminum grandiflorum,


e lo ha fatto riprodurre in maniera ecosostenibile da ArtFicial, un’azienda siciliana che realizza cloni di opere d’arte con gli scarti del mais. Questo fiore, originario dell’Asia Meridionale e del Nord Africa, ha migrato di terra in terra, raggiungendo i Grandi Laghi, lo Yunnan e il Sichuan, arrivando anche in Guinea, nelle Indie Occidentali, nell’America centrale e quindi in Italia. Per sottolineare questo suo itinerare nei secoli,

abbiamo dato il nome al nostro distintivo di “gelsomino migrante” e tutti noi, 

operatori, artisti, ospiti, lo indosseremo durante la settimana del festival 

e inviteremo il nostro pubblico a condividere con noi anche questo momento 

del nostro percorso comune. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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era presente la nobiltà, il clero, la diplomazia di tutto il mondo conosciuto: le tiare si mescolavano ai turbanti, molte erano le lingue parlate, dal latino all’arabo, dal greco al tedesco, dal francese all’ebraico

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SUD ETERNO MITO di Paola Pariset – Numero 11 – Luglio 2018

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SUD ETERNO MITO

 

 

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della cultura dell’Italia, della Grecia, dei popoli del Mediterraneo, è rimasta propria del mondo tedesco, persino con l’avvento della Rivoluzione industriale del secolo XIX. Gli architetti del Movimento Moderno, i creatori del Werkbund di Monaco nel 1914, Muthesius, Behrens, van der Rohe, e poi Gropius, accettarono sì i princìpi ideologico-estetici della produzione seriale, dell’utile senza l’ornato (“ciò che è funzionale è anche bello”), della standardizzazione, della typisierung: ma vedendo in ciò un’estetica pari a quella delle

Questione di punti vista. Anche ciò che può sembrare incontrovertibile, acquisito, indiscutibile, si presta talvolta ad interpretazioni alternative. Cos’è, ad esempio, il “Sud” se non l’esito di una delle possibili prospettive con le quali guardare al territorio? Per Myrrha, infatti, il Meridione geografico italiano è un polo di attrazione e non sinonimo di arretratezza culturale, così come, nei secoli scorsi, il Sud, considerato depositario della perfezione artistica ed estetica, coincideva con la città eterna – Roma – ove stili e forme rimanevano inalterati nonostante le traversie storiche. A conferma di ciò, una vicenda singolare che ha ispirato anche una pièce teatrale.    

(La redazione)

.

Ed a Roma, oltre che gli sconvolgenti monumenti archeologici e l’arte antica, c’era un avamposto tedesco straordinario, la casa di via del Corso 18 (oggi Museo), in cui aveva abitato per quasi due anni Wolfgang Goethe, nel 1786-88, durante il celebre Viaggio in Italia (poi diventato un libro-modello per l’Ottocento). Dopo la morte del poeta e drammaturgo, la casa è stata frequentata da intellettuali ed artisti e tuttora è sede di mostre a tema: dal 30 maggio 2018, ad esempio, essa ospita sino ad ottobre la mostra di R. Gschwantner, sulla Cascata delle Marmore e il porto di Traiano a Fiumicino, già mèta degli artisti del Gran Tour, a partire da Goethe. Ma, pur nella magica atmosfera della casa del poeta, un bel mattino del gennaio 1876, una coppia di ospiti tedeschi vi fu trovata morta nella propria camera. Ne riferisce il libro Via del Corso 18, Roma – Storia di un indirizzo di Dorothee Hock, mitica specialista del Museo Casa di Goethe a Roma, che in esso ha dato spazio e rigore documentario sia alla vita romana del grande tedesco che la abitò sia al “dopo”.

 

Ma torniamo alla tragica fine della coppia di Maximilian Schmidt e Luise Munstermann, morti nell’appartamento abitato da Goethe, lì dove lo spirito tedesco si era unito per sempre con l’eternità di quello greco-romano. Ad avvertire il potenziale drammaturgico dell’episodio, è stato il direttore artistico della stagione musicale della RomaTre Orchestra, Valerio Vicari, conquistato dalla vicenda narrata nel libro della Hock. Insieme con Giorgia Aloisio, ne ha redatto un testo teatrale, Amore e morte al Corso, andato in scena dapprima nel Museo Casa di Goethe nel maggio 2017, indi il 29 marzo scorso nel Teatro Torlonia presso via Nomentana. Guidati dalla accattivante ricostruzione di Valerio Vicari, ci chiediamo:

 

cosa spinse il maturo Schmidt, funzionario della Polizia di Stato tedesca, 

innamorato della figlioccia Louise, figlia di primo letto di sua moglie 

(che già gli aveva dato un bambino) a lasciare l’Alsazia per Roma, 

dove vivere un amore impossibile e morire 

nella casa che era stata di Goethe?


Furono l’amore per l’arte e la bella giovinezza di Louise, con la quale egli era fuggito lasciando la troppo rigorosa Germania: cosa ventilata dal Vicari sulla falsariga del libro di Dorothee Hock. 

 

Nei dialoghi, egli delinea molto bene i caratteri opposti della fanciulla, lanciata – nella sua irresponsabile felicità – fra i capolavori artistici di Roma, le immense Terme, i Musei, le pinete, le fontane, e del tormentato ex funzionario, che invece paventava lo scandalo generato dalla propria bruciante colpa. Intanto, in pochi mesi erano finiti i denari e avanzava la gravidanza di Louise. Vicari a questo punto – staccandosi dal testo della Hock – ha fatto leggere in scena il servizio del quotidiano romano “La Gazzetta della Capitale” del 25 gennaio 1876, che nella cronaca cittadina descriveva con commozione e pietà il ritrovamento dei due suicidi: la bionda giovinetta, biancovestita, sdraiata sul letto accanto al suo compagno in un abito scuro, che ne accentuava la durezza dei tratti del volto. Sul tavolo i calici, coi resti fatali di cianuro di potassio.

I due certamente non si sentivano di vivere oltre nella colpa, nemmeno nella conciliante Italia, dove pur si respirava la vita intramontabile della grecità.


Ma, più fortemente dei motivi sociali, in una giovane con un figlio in grembo, non doveva prevalere la volontà della vita sulla morte, verso cui l’innamorato decisamente la spingeva? La scelta invece fu di entrambi, poiché nella cronaca del predetto quotidiano non risultano segni di colluttazione: anzi le braccia di Louise, attorno al collo dell’uomo, sembrano indicare l’assolutezza di un amore, fino alla morte. Possibile mai, insomma, che una giovane incinta non difendesse la vita, soprattutto quella non più solo sua?

Ma infine il fascino e il di lei secondo amore per l’arte e per la sua culla nel Sud ebbero la meglio e le diedero il coraggio della morte.


Il cianuro comprato in Germania tempo prima (i cronisti ne lessero l’etichetta) rende indubbia la volontà dei due di togliersi la vita: né la casa di Goethe a Weimar bastò a persuaderli. Se il grande poeta era sceso a Roma per vivere l’arte sino in fondo, i due amanti ebbero bisogno di questo immenso aiuto, per morire insieme. 

 

E la Medusa Rondanini, simbolo immortale della “quieta grandezza” dell’arte greco-romana, in copia nella casa romana di Goethe, aleggiò sulla coppia di innamorati. E in un ultimo attimo, decise per loro.

 

 

 

 

 

 

 

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arti armoniche. Le quali riposavano ancora e sempre lì, nel modello greco, 

nel Sud e a Roma: già, perché se Paul Klee – giunto con la moglie in Liguria 

all’inizio del secolo – scriveva nei suoi Diari “Sono a Genova, sono nel Sud”, 

Roma era privilegiata terra “dove fioriscono i limoni”, 

il vero Sud tanto vagheggiato

 

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AUDENO, VESCOVO DI CASSANO di Mario Manzin – Numero 11 – Luglio 2018

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AUDENO, VESCOVO DI CASSANO

 

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Il foglietto è tuttora conservato nel Liber ma da una più attenta lettura si evince che a consacrare l’altare il 6 settembre 1578 fu sì un “episcopus cassanensis”, ma non l’Owen, bensì Giovanni Battista Serbelloni che resse quella diocesi dal 1561 fino alla rinuncia avvenuta nel 1580.

Al parroco prealpino era evidentemente nota la storia antica 

della lontana diocesi calabra


ed era a conoscenza che, dal 1553 fino all’Owen, era stata illustrata da tre eminenti prelati legati a Carlo Borromeo. Con il santo arcivescovo i tre intrattennero strettissime relazioni anche familiari: Gianangelo Medici, zio del santo, eletto poi pontefice con il nome di Pio IV; Matteo Sittico Altemps, cugino del Borromeo e, dopo la sua rinuncia, Giovanni Battista Serbelloni.

In queste brevi note sembra buona cosa riproporre la figura dell’Owen, 

vissuto in un periodo tra i più tormentati della storia d’Europa 

e della Chiesa, che proprio nella Diocesi di Cassano 

attuò alcune delle più significative novità 

successive al Concilio di Trento.


Nasce a Llangadwaladr, nell’Anglesey, dunque gallese, il 28 dicembre 1533. La sua educazione si forma a Winchester e al New College di Oxford, diplomandosi nel 1558 dottore in diritto civile, nell’atmosfera torbida della restaurazione cattolica tentata da Maria Tudor; ma la carriera di docente avviene in concomitanza con l’avvento al trono di Elisabetta. Non accetta l’Atto di supremazia e ripara nelle Fiandre.

Nominato alla cattedra di diritto civile e canonico nella nuova Università di Douai 

col titolo di regius professor, prevosto nel capitolo di Cambrai, dal suo arcivescovo viene inviato a Roma per discutere un delicato affare giuridico e svolge l’incarico 

con tale competenza che papa Gregorio XIII lo trattiene, intuendo le sue capacità soprattutto nell’attuazione dei decreti tridentini riguardanti i seminari.


Diventa referendario dell’una e dell’altra Segnatura. Era attivo a Roma, dal 1362, l’Ospizio inglese della SS Trinità e di S. Tommaso, meglio conosciuto sotto il nome di Ospizio dei Pellegrini inglesi in via Monserrato: Owen convince il pontefice a trasformarlo in Collegio-Seminario rendendolo aderente alla realtà del momento storico. Nell’autunno del 1579 Carlo Borromeo è a Roma, conosce Owen, ne apprezza le qualità e lo porta con sé a Milano, nominandolo suo confessore e quindi vicario generale, affidandogli la riforma dei seminari, incarico che svolgerà con impegno guadagnandosi l’apprezzamento dell’arcivescovo che lo definisce “ottimo personaggio e mio amico carissimo e come fratello”. Sono ambedue vicini a Maria Stuarda, l’infelice regina che dimostra stima per il gallese. Incarcerata, scrive a Carlo Borromeo chiedendogli preghiere e l’arcivescovo risponde confortandola. Avviandosi alla conclusione così si esprime: “Lewis Audoeno, mon vicaire, m’a dit que votre Majesté désiderait vivement que la recommandasse à Jésus Christ”. Si dice a disposizione ma quando nel 1587 Maria sarà decapitata, egli sarà da tempo nella tomba.

L’attenzione della Curia romana su Owen non era mai mancata e il 3 febbraio 1588 papa Sisto V lo nomina vescovo di Cassano, oggi Cassano all’Ionio, dominio spagnolo. Consacrato il 14 febbraio, parte il 26 marzo per la sua “montagnosa Diocesi calabrese”. Amministrarla non era impresa facile. A parte l’estensione 

del territorio popolato da latini ed albanesi di rito greco, il vescovo godeva anche 

del temporale dominio su Mormanno e Trebisacce con la giurisdizione 

“in criminalibus” eccettuati due casi, “videlicet ubi venit imponenda 

poena mortis et mutilationis membri”.


In quell’estremo lembo della penisola non erano stati pochi i vescovi che vi avevano soggiornato con scarsa continuità; non così Owen, che sente l’importanza dell’incarico e, memore degli insegnamenti controriformisti borromaici, si impegna anzitutto sull’istruzione dei preti, organizza il IV Sinodo Diocesano, conduce la prima Visita pastorale al territorio, istituisce la Congregazione per l’insegnamento della dottrina cristiana, l’orazione delle “Quarant’ore”, il registro dei poveri, fonda diverse Confraternite di laici e altre iniziative di uguale peso. Secondo il dettato tridentino era teso alla razionalizzazione della diocesi di cui il seminario doveva essere struttura portante. Già nel 1565 nel sinodo indetto dal vescovo milanese Giovanni Battista Serbelloni si erano nominati quattro ecclesiastici per avviarne la costruzione, ma evidentemente non se n’era fatto nulla perché il suo successore Tiberio Carafa lo fondava per decreto nel 1588. L’Audeno (il nome sarà sempre latinizzato) lo conferma e passa immediatamente all’organizzazione entrando nel concreto e stabilendo in 12 il numero dei seminaristi. Nella sua Diocesi, il Nostro ha lasciato anche tracce lapidee. Sul piede del fonte battesimale della cattedrale di Cassano e sulla parete di fianco è conservato il suo blasone definito dagli esperti “di sobria eleganza geometrica, triangolato col capo alle tre stelle in fascia” assai raro nell’araldica italiana. Lo stemma è riportato su una formella lignea applicata nella parte bassa del vicino altare. Un terzo bell’esemplare del blasone si reperta su una parete esterna dell’antico seminario di Mormanno

Nel 1591, grazie ai buoni rapporti con papa Gregorio XIV, ottiene per la Diocesi 

di Cassano, alcune indulgenze perpetue conservate in una pergamena 

con sigillo datata 10 maggio 1591.


In quei giorni doveva trovarsi a Roma perché il papa stesso il 20 giugno gli comunica la nomina a Nunzio Pontificio in Svizzera. Il vescovo obbedisce ma senza nascondere una certa riluttanza perché, dichiara, era necessario seguire le iniziative del concilio tridentino felicemente avviate in Cassano: si nota ancora una volta quale peso abbiano avuto su di lui gli insegnamenti borromaici ai quali si ispirava la sua azione riformatrice. Ciononostante, parte per la nuova destinazione e a Bologna incontra il cardinale Ottavio Paravicini che era stato Nunzio in Svizzera negli ultimi quattro anni e gli presenta un fosco quadro della situazione in quel paese. Fa cenno soprattutto alla irrisolta questione del pagamento dei mercenari da parte della corte papale, ragion per cui gli svizzeri, se il debito non fosse stato saldato, avrebbero rifiutato di accogliere un altro Nunzio. Roma viene messa al corrente e ordina il rientro con grande sollievo di Owen come si evince da una lettera nella quale parlando della Svizzera, il paese che avrebbe dovuto accoglierlo, afferma che “l’aria freddissima, il brusco et barbaro proceder et la conversatione soldatesca di quella natione haveria bisogno di complessione di ferro, d’età manco di 60 anni, et di Nuntio che saperia fare il buon compagno et supportare il brindisi di molte hore, et d’esser quasi mezzo-soldato alle volte con loro”

 

Nel 1592 è ancora lontano da Cassano perché risulta al seguito di papa Aldobrandini, Clemente VIII, nella visita alle chiese di Roma con l’incarico di esaminare la preparazione teologica degli ecclesiastici. Avrà a fianco Ludovico de Torres, l’eminente e coltissimo arcivescovo di Monreale, in quei giorni impegnato nella liberazione di Torquato Tasso che, al presule, dedicherà due sonetti.

Secondo alcuni storici dopo queste nuove esperienze l’Owen non avrebbe più fatto ritorno nella sua diocesi calabra. Pare non sia così se dà corso ad un’altra iniziativa di profondo significato sociale, la fondazione, il 24 novembre 1593, 

del Monte di Pietà nel borgo di Papasidero


(dal greco “Papas Isidoros”, capo di una comunità basiliana), organismo dalla duplice finalità. Lo statuto del Monte e il relativo regolamento per il maritaggio delle ragazze povere sono contenuti in un manoscritto apografo, copia ottocentesca dell’originale. Sono 52 gli articoli che definiscono la costituzione dell’organismo caritativo-assistenziale, e 12 quelli del maritaggio. Dopo la morte di Owen, avvenuta a Roma il 14 ottobre 1595, la diocesi cassanese sarà gestita da altri personaggi eminenti e la sua storia ecclesiastica si misurerà con quella civile. Un’opera inedita conservata manoscritta nella Biblioteca nazionale di Vienna, opera di Francesco Cassiano de Silva datata 1693, ne racconta brevemente la storia così concludendo: “Fu Marchesato dei Signori Sanseverini, hoggi è della nobile Famiglia Serra Genovese, e co’ suoi Patrizj 284 Fuochi li ha’ numerati la Regia Corte”.

 

 

 

 

 

 

 

ameno paese dell’alto lago Maggiore in Diocesi di Milano, ad un tiro di schioppo dal confine elvetico, un parroco alla fine dell’Ottocento annotava di aver rinvenuto, durante lavori di restauro ad un altare dell’antica Canonica, un foglietto stinto e scarsamente leggibile attestante la consacrazione della mensa da parte di Ludovico Lewis Owen, “episcopus cassanensis”.

 

 

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CORTE BORBONICA E “REAL CACCIA” DI PERSANO di Nadia Parlante – Numero 11 – Luglio 2018

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corte borbonica        e “real caccia”  di persano

 

Quella distesa verde e infinita, tanto ricca di selvaggina da fare invidia a qualsiasi altra, situata tra due fiumi, il mare e la città di Paestum, doveva essere sua. Ad ogni costo. Entrarne in possesso dal duca delle Serre, non fu cosa facile né veloce ma alla fine vi riuscì. 

 

A quel tempo, la piana del Sele, se pur caratteristica e selvaggia, era una landa acquitrinosa e malarica, isolata dai commerci e dalla capitale. Il sovrano vi fece edificare un sontuoso ma sobrio palazzo di caccia ed esso era stato appena terminato, che dovette lasciarlo. La morte del fratellastro lo richiamava sul trono di Spagna mentre affidava quello napoletano al terzogenito Ferdinando, di appena otto anni. 

 

Il distacco dal suo regno fu molto difficile per Carlo e lo fu ancor di più perché vi lasciava incompiute le sue riforme antifeudali e anticlericali oltre alle sue “reali delizie” di caccia, in primis Persano. Nel suo carteggio settimanale con il fidato primo ministro Tanucci, che aveva affiancato al figlio per aiutarlo a governare,

il re non mancava mai di informarsi di questo sito e della razza di cavalli 

che proprio qui si allevava. Arrivò più volte a definirlo un luogo unico 

ed era certo, anzi certissimo, che in tutto il mondo 

non ne esisteva un altro uguale.


Per permettere alla corte di raggiungere agevolmente Persano (e di conseguenza Paestum), il re fece costruire nuove strade e nuovi ponti di cui le comunità locali poterono usufruire uscendo finalmente dall’isolamento atavico e feudale nel quale vegetavano apatici da secoli. Di contro però, egli si appropriò in maniera esclusiva del bosco, del fiume e delle sue ricchezze, fonte di sostentamento per le popolazioni viciniori, i cui miseri raccolti venivano costantemente distrutti dai cinghiali e dagli altri animali selvatici della riserva. Militari e guardiacaccia le presidiavano di giorno e notte e frequentissimi furono gli scontri con i cacciatori di frodo locali che entravano nel bosco e nel cosiddetto “miglio di rispetto”.

 

Se la passione di Carlo per la caccia fu certamente la prima ragione 

della nascita di Persano, è fuor di dubbio che questo luogo, 

a differenza di altri siti reali borbonici, 

fu una corte “decentrata” 


a tutti gli effetti e svolse pertanto molteplici funzioni militari, amministrative, rituali. Prima fra tutte, il controllo militare di un territorio vastissimo a sud di Salerno, fino a quel momento preda dei grandi feudatari locali sul quale il re ora rivendicava il potere e l’ubbidienza alla corona. Inoltre, la vicinanza ai magnifici templi dorici di Poseidonia, da poco riscoperti e valorizzati, originalissimo patrimonio personale del re di Napoli, permetteva al sovrano, alla sua corte e alla diplomazia internazionale di far sfoggio di rarità archeologiche uniche e distintive del grande regno dei Borbone di Napoli.

 

Tra faraoniche cacce al cinghiale e suggestive colazioni all’aperto allestite 

nelle rovine di Paestum, alla presenza di imperatori, principi e ministri, 

furono celebrati importanti avvenimenti, stipulati trattati, strette alleanze 

che ebbero ripercussioni sull’Europa intera. 


Lo studio comparato dei documenti d’archivio conservati presso gli archivi torinesi e campani, unito all’indagine degli immensi epistolari tanucciani e carolini, ha permesso di tracciare un profilo dettagliato del sito, del palazzo e dei suoi abituali frequentatori, restituendone una visione europea, in grado di ridefinire la sua effettiva funzione all’interno della complessa rete amministrativa e simbolica dei siti reali dei Borbone. 

 

Attualmente, il palazzo della Real Caccia ospita il “Reggimento Logistico Garibaldi” ma grazie alla disponibilità del comando militare, appare sempre più disposto ad aprirsi al pubblico, per mostrare le sue originalità architettoniche, storiche ed artistiche che nel XVIII secolo, ne fecero uno dei luoghi più amati ed apprezzati dei Borbone di Napoli e di Spagna.

 

 

 

 

 

 

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Quando il giovanissimo Carlo di Borbone, da poco diventato re di Napoli, vide l’immenso bosco di Persano ne rimase assolutamente affascinato.

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1 – Ed. Studi Storici Il Saggio, Castellabate 2018

 

LE DUE SICILIE DI FEDERICO II di Fabio De Paolis – Numero 11 – Luglio 2018

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LE DUE SICILIE DI FEDERICO II

 

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la Sicilia con una monarchia caratterizzata da idee assolutistiche, una burocrazia articolata, forzieri ragionevolmente pingui, una eredità culturale composita, che si rifletteva nella presenza a corte di Greci, Ebrei, Arabi

Una Sicilia il cui reggitore si considerava inviato dal Cielo sulla terra per proteggere il popolo dagli attacchi dei rapaci nemici del regno: la Sicilia di Ruggero II, creata da quel grande monarca con volontà indomabile. Di fronte, l’altra Sicilia: un regno squassato dalla ribellione delle etnie sottomesse, soprattutto musulmani del lato occidentale, un regno dissanguato dalle feroci imposizioni fiscali necessarie a finanziare le guerre contro i cattivi annidati a Roma o nel resto dell’Italia. Una minaccia non più che occasionale per i Siciliani veri o propri. Un regno la cui burocrazia serviva gli interessi della Corona molto più che quelli dei sudditi, gravati di tasse, interferenze nei diritti ereditari, obblighi di leva.

Al cuore di molte delle mire sul Regno di Sicilia nel XII secolo, vi era la convinzione che essa fosse una terra baciata dalla fortuna. Un regno la cui fama di ricchezza, 

vera o presunta, lusingava avventurieri in cerca di un trono.


Lo spagnolo Ibn Jubayr, trovatosi qui nel 1184-85, così la descrisse: “La prosperità dell’isola supera ogni descrizione. Sia sufficiente dire che è figlia della Spagna nella misura delle sue coltivazioni, nell’esuberanza dei raccolti, e nel benessere, avendo dovizia di prodotti selvatici, e frutti d’ogni sorta e specie. Invero l’intera isola per fertilità e abbondanza è una delle più mirabili nella creazione di Dio.”

All’epoca di Federico II arrivare a Palermo era sicuramente una emozione straordinaria. Varcate le mura si entrava dentro una città incantata 

e cosmopolita. Enorme era la ricchezza della capitale del Regno.


Si rimaneva colpiti soprattutto dai traffici e dalla vita del porto, grandi spazi dove erano aperti i numerosi fondachi per accatastare le mercanzie e dove erano di base i quartieri amalfitani, pisani e veneziani. Nelle sue strade si amalgamavano razze e costumi diversi. Ovunque si stendevano mercati. Dentro e fuori le mura della città mercanti di ogni paese e provenienza avevano le loro botteghe artigiane, esponevano tappeti di Siria, argenti e pellami egiziani o tunisini, vasi greci, stoffe e profumi orientali. Nelle vie si ascoltavano linguaggi diversi: greco, latino, arabo, germanico, egiziano, toscano, veneto, pugliese e lombardo.

Per rendersi conto della sua ricchezza, basti pensare che sul finire del XII secolo 

gli introiti della sola Palermo pareggiavano quelli affluiti nelle casse dei re d’Inghilterra dall’intero loro regno. Mentre l’Albione era ricca d’argento e doveva il suo benessere alla lana, la Sicilia doveva la sua straordinaria ricchezza all’abbondanza di cereali 

e di materie prime, tra l’altro pelli e cotone.


Possedeva una terra che, se ben sfruttata, non ne aveva di uguali per bontà, feracità e ampiezza. Con queste qualità, la Sicilia rappresentava di per se stessa la principale fonte di grano. Il frumento siciliano era in prevalenza di qualità dura, adatto all’immagazzinamento, ed era oggetto di forte esportazione allora come nell’antichità. Questo veniva coltivato sui pendii nelle zone occidentali e sudorientali dell’isola. 

 

I sovrani siciliani erano i proprietari fondiari di maggior peso.

Un’ampia estensione del territorio siciliano nel XII aveva carattere demaniale, 

non concessa ai feudatari, bensì sottoposta al diretto controllo del governo centrale.


Soltanto una parte dell’isola di Sicilia era nelle mani dei baroni Normanni. Per il resto i proprietari erano ecclesiastici: in primis l’Abbazia di S. Salvatore, il potente monastero greco basiliano a Messina, e poi l’Abbazia di Monreale, di fondazione latina, che ebbe in concessione nella Sicilia occidentale le terre a larga componente musulmana. La produzione destinata alla vendita era abbondante, tanto più che le rese erano eccezionalmente elevate: dieci chicchi almeno per ciascun seminato, senza contare che le produzioni annuali erano in costante aumento, grazie anche all’assenza di carestie, fenomeni assai rari per tutto il corso del XIII secolo. E per giunta i prezzi erano bassi.

La grande espansione demografica del XII e XIII secolo comportò un aumento 

della richiesta di derrate alimentari. Quale occasione migliore per la Sicilia 

che produceva un grano versatile e conservabile. Il grano siciliano divenne 

allora un prodotto richiesto da un capo all’altro del Mediterraneo. 


Un grano usato per le gallette ad uso dei marinai, un grano usato per produrre la pasta che iniziava a comparire sulle tavole dell’Italia del nord, un grano usato in tutto il Nord Africa per produrre il cuscus. Ovviamente la Corona era il maggior beneficiario dello smercio di grano all’estero, il controllo della produzione le faceva ricavare grandi guadagni dalle vendite e dalle relative gabelle. Era, questa, una realtà da cui Federico II seppe trarre grande vantaggio: egli ne controllava personalmente le coltivazioni, ne favoriva il commercio con imposte ridotte e prestava il massimo impegno per cercare di migliorare gli standard di rendimento (lo dimostrano anche le sue lettere colme di apprensione durante una infestazione di bruchi tra le spighe siciliane).

Ma la forte economia siciliana si basava anche su altro: soprattutto sul sale, 

sul ferro, sulla coltivazione dei gelsi e sulla produzione della seta grezza.


I re di Sicilia mantenevano al loro servizio un gruppo di setaioli specializzati. Erano istallati nei palazzi reali, artigiani che erano arabi, o ebrei greci. Setaioli destinati a conservare il segreto della lavorazione e tramandarlo alle nuove leve di corte. Sono molti i ritrovamenti di seta siciliana nelle tombe di principi e vescovi nordeuropei, come numerose sono le lettere che attestano di come la seta siciliana venisse esportata in Egitto e nello Yemen.

Ma Federico aveva occhio anche all’industria locale. Per questo diede forte impulso anche alle piantagioni di indaco e non trascurò gli zuccherifici. Non pago, 

incoraggiò anche la fiorente industria ceramica, e si sforzò molto 

per reintrodurre specialità orientali come l’hennè. 


Nel 1231 Federico II promulgò le
Costituzioni di Melfi, un’ordinata raccolta di leggi ispirata alla dottrina giuridica romana e alle esperienze di governo normanne, compilata grazie al contributo del gran giustiziere Taddeo da Sessa e dal gran cancelliere Pier delle Vigne.

Le Costituzioni rappresentano il maggior monumento legislativo del Medioevo 

con il quale l’Imperatore intendeva combattere la frammentazione feudale, 

eliminando i poteri intermedie e attribuendo a sé ogni prerogativa.


Le Costituzioni sancivano: consolidamento e ampliamento del potere regio; divieto di vendere feudi in quanto proprietà statali; assoggettamento degli ecclesiastici ai tribunali comunali; obbligatorietà per i sudditi di pagare tributi; eguaglianza per i cittadini davanti alla legge e difesa dei deboli contro le prepotenze dei baroni; funzioni giuridiche e amministrative nelle mani del re. Vennero introdotti monopoli sul sale, sulla seta, sul grano, ma furono abolite le dogane interne per facilitare i commerci tra le province; vennero unificati pesi e misure, coniate monete d’oro, dette “Imperiali “e “Augustali”; fu ricostruita una flotta e nel settore agricolo vennero introdotte nuove colture e allo stesso tempo costruite imponenti masserie. Fu una grande innovazione. Ma questa è un’altra storia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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IL VAL DI NOTO di Sergio Spatola – Numero 10 – Marzo 2018

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IL VAL DI NOTO

L’<<ELOGIO DELL’INDUGIO>>1

 

Sergio-Spatola

Sembrerebbe un racconto dell’ultimo evento sismico che ha interessato, come troppe volte accaduto, il nostro Abruzzo (insieme a Umbria, Marche e Lazio), a parte forse per la frenesia ricostruttiva. Ma non si dimentichino le vittime, seppur eventi più recenti ce ne facciano piangere altre, della nostra Sicilia.

 

11 gennaio 1693. «Vide che alle due mezza improvvisamente rovinò tutta la città (…) e che durante il terremoto si era ritratto il mare di due tiri di schioppo e per la risacca conseguente aveva trascinato con sette tutte le imbarcazioni che erano ormeggiate in quell’insenatura […] State certi che non c’è penna
che possa riferire una tale sciagura»2.

 

Due terremoti – o due scosse dello stesso evento – e uno tsunami, tra il 9 e l’11 gennaio 1693, distrussero tutto il Val di Noto. Così, era definita la circoscrizione amministrativa che si occupò della giustizia, dell’erario e occasionalmente anche delle milizie del Regno di Sicilia dal periodo normanno alla sua abolizione nel 1812 e, dunque, l’area sud-orientale siciliana – individuata tra la provincia di Ragusa, di Siracusa e parte della provincia di Catania, di Enna e di Caltanissetta. 

 

Quello che ne seguì, ai tempi, fu un fervore costruttivo senza precedenti nell’intera penisola. Vuoi la devozione religiosa con la promessa salvezza dopo la vita terrena vuoi il rispetto per il sovrano che passava sei mesi a Palermo e sei mesi a Catania, scattò, negli uomini che allora avevano i mezzi procurati col prezzo dell’enorme divario sociale, la volontà di rialzarsi e di esprimere – dopo l’immenso dolore per le perdite – la gioia della vita.

 

Il barocco siciliano e, in particolare, quello di Val di Noto, rappresenta lo sforzo, 

da un lato, ricostruttivo più riuscito della storia italiana quando si guarda a Catania, Ragusa, Modica e Scicli e, dall’altro, edificatorio, quando si pensa a Noto, 

Avola e Grammichele.

 

Infatti, mentre le prime città vennero «tirate su» dalle macerie, per Noto e Avola la storia fu ben diversa come dimostra lo sdoppiamento in «antica» e «barocca». È impossibile descrivere tutto il Val di Noto, e forse inutile, per l’offerta documentata e attenta di guide e siti che, giorno per giorno, si dedicano a rappresentarlo. Si può, invece, cercare di descriverne lo spirito. Il Val di Noto, infatti, rappresenta un «Viaggio» esso stesso, dove tra bellezze naturalistiche (Vendicari e le Gole dell’Alcantara, in primis), architettoniche (Noto, ma anche Catania, Scicli, Modica) ed enogastronomiche (per trovare qualcosa di veramente locale occorre riferirsi alla rosticceria tipica), si respira un’aria che elogia «all’indugio».

 

L’indugio. Nel documento di presentazione per la candidatura del Val di Noto 

a Capitale della Cultura 2020, esso è stato correttamente contestualizzato 

come «una specificità e un’anima che (…) si è riusciti 

a salvaguardare quasi intatta,

 

diventando oggi formidabile elemento dì attrazione per chi, colto e consapevole, è legato a una concezione del “Viaggio” radicalmente diversa dagli stanchi rituali del turismo di massa». 

 

Questo perché, se ti trovi sul Corso di Noto, in primavera, non troverai alcuno che voglia divorare la bellezza e magari perderla dietro il filtro del proprio smartphone, ma vedrai colui che, nella pasticceria davanti ad una granita, la mattina, oppure nel locale per un aperitivo, al tramonto, starà col naso all’insù per osservare tutt’intorno la caratteristica pietra color «oro tendente al rosa», chiedendosi il perché di un mancato trasferimento immediato. 

 

Questo «indugio» pervaderà il suo viaggio e penetrerà le sue ossa senza accorgersi che non sono gli abitanti ma il luogo a richiedere riflessione quieta. Modica, d’altronde, ti costringerà a rinunciare allo strumento tecnologico approntato per immortalarla. Il Duomo di San Giorgio infatti, sia per la ripida e incredibile scalinata sia per l’altezza, non ti consente di inquadrarne agevolmente la facciata. Prospettiva e equilibrio ne costituiscono il punto di forza. Potrai ammirarne la completa bellezza solo recandoti nella collina di fronte, al Belvedere, dove penserai di essere parte di un presepe.

 

Insomma, un vero e proprio viaggio dell’anima durante il quale riflettere 

sulle dinamiche contemporanee.

 

D’altronde, si sta ripensando il Val di Noto come un luogo dove «il processo di crescita e sviluppo non (è) fondato (…) sull’emulazione impacciata e dannosa di modelli estranei al territorio, ma, per la prima volta, sul riconoscimento e la piena consapevolezza del valore della specificità del proprio patrimonio materiale e immateriale»3

 

Incredibile. Quanto è vero. Ciò – mi dispiace contraddire i redattori del Dossier – non si applica al solo Val di Noto ma all’intero Sud, come Myrrha cerca di affermare, edizione dopo edizione, sostenendo che il nostro Meridione deve essere finalmente considerato attraverso la sua propria «eccellente specificità», da leggersi attraverso criteri che «il PIL non sa contare».

 

 

 

 

Altra distruzione, ancor peggiore della prima. Solidarietà per le vittime. Frenesia ricostruttiva.

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1 – L’espressione azzeccata è contenuta in ValdiNoto 2020 – DOSSIER DI CANDIDATURA A CAPITALE ITALIANA DELLA CULTURA 2020, Noto, 2018, pag. 14

2 –  Relacion de lo refirio el Patron Marco Calapar que vino de Zaragoza. Augusta y Catania en Santa Cruz de Mesina en 15 del coriente mies de Enero de 1693. Citazione contenuta nel testo di Lucia Trigilia, 1693 – Illiade funesta – La ricostruzione delle città del Val di Noto, Palermo, Arbaldo Lombardi, 1994.

3 – ValdiNoto 2020 – cit.

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