Benedisse l’unione la Dea lunare Diana, della natura gioiosa regina delle selve e dei boschi, di quella Natura incomparabile che splendeva nel luogo dove era nata quella magia musicale. Luogo incantato che fu chiamato Partenope, dal nome della Sirena suicida per amore, perché anche l’amore era indispensabile a quell’ alchimia, ne era anzi una componente essenziale, inscindibile
Quel luogo, dove cantavano Mare, Bellezza, Musica e Amore si chiamò in seguito Napoli, ed essendo un dono degli Dei, ammaliò per secoli
i viaggiatori di ogni Paese,
che non potevano sapere che quella bellezza, quel fascino che apparivano nuovi ai loro occhi, erano anche misteriosamente antichi. Perché Napoli è il più sontuoso palinsesto di grandi culture stratificate.
Di quell’antica bellezza, delle sue fortune poi declinate, tanti hanno parlato, ma alcuni sono stati glorificati in eccesso, altri, con meriti spesso maggiori, sono stati tenuti nell’ombra. Molti i nomi celebrati tra chi parla a sproposito di Napoli, ma quanti conoscono, ad esempio, quello di Giuseppe Marotta, scrittore tra i pochi che compresero pienamente la straordinaria poesia e umanità napoletane? E infatti il suo nome è caduto nel dimenticatoio. Per fortuna, nonostante le scopiazzature, fra gli storici emerge ancora un gigante: Luciano Salera.
Sapevo della lotta del Sud per restare indipendente, il mio nonno napoletano, figlio di un ufficiale borbonico, mi raccontava quello che, secondo lui, aveva combinato Garibaldi, e in seguito anche mio marito, benché fosse bolognese, mi diceva sempre che Garibaldi e compagni avevano, consapevolmente o no, distrutto la più grande civiltà italiana dell’epoca. Poi otto anni a Napoli, dove mio marito era stato chiamato a fondare l’Aeritalia, mi riconfermarono nell’amore per una città incomparabile.
Ma mai avrei pensato di conoscere, incarnato, uno dei maggiori conoscitori
di quella lotta dimenticata che raccontava nei suoi libri e il cui stile
non era piatto e noioso come quello degli storici ufficiali,
ma vivo, splendente e carnale.
Come conobbi quell’uomo che era fatto di mare e come il mare poteva essere tempestoso e ferire, ma essere anche sereno e brillante delle mille luci del sole?
L’incontro ebbe qualcosa di misteriosamente già previsto e d’altronde io non credo nelle coincidenze ma che tutto abbia un fine nella nostra vita perché guidato da un filo misterioso. Era una sera di ottobre del 2009. Mio marito Giordano, dopo 40 anni di matrimonio felice, da un anno era volato in Cielo e io avevo preferito restare sola nella nostra casa rifiutando di trasferirmi dai parenti. Lavoravo ai miei libri, ma a volte ero molto triste. Specialmente con l’arrivo dell’autunno, in quella sera fiesolana del 29 ottobre, sentivo il vuoto attorno a me.
Ma quella sera si rivelò speciale… Sul grande tavolo antico del salone
era aperto il quotidiano Il Giornale. Stavo preparando la cena
e buttai un occhio sulle Lettere dei Lettori. Una mi colpì.
C’era una tale forza in quella lettera che rivendicava
le ingiustizie passate di un popolo che era stato
depredato e colonizzato!
Una forza tale che sentii l’impulso di dire a quella persona che aveva ragione, che la pensavo uguale! Che aveva ragione da vendere! Che io avevo scritto della grande civiltà dei Borboni nel mio libro sul Presepio Napoletano! Una cosa davvero inusitata, perché non sono mai stata propensa a scrivere a sconosciuti. Mai.
Vidi la firma: Luciano Salera, Napoli. Anche qui agì il destino perché,
se avesse firmato la mail con uno pseudonimo, tutto sarebbe finito lì.
Cercai il telefono nell’elenco abbonati e lo chiamai. La sensazione immediata fu che fossimo due vecchi amici che si erano ritrovati, una sensazione reciproca di felicità. Che iniziò con uno scambio di libri e con lui che mi mandava ricette di cucina napoletana insieme con i ricordi dei nostri cari sposi defunti. Andò avanti per più di dieci anni. Parlavamo di tutto e tutti i giorni in un rapporto fatto di mail e di telefonate che arricchirono la nostra vita.
Da quel primo incontro, non pensate che io stia esagerando, egli mi apparve come un antico Cavaliere senza Macchia e senza Paura, fedele per sempre alla sua “Patria napolitana”, come la chiamava, ai suoi colori che erano quelli dei Borboni. E l’arma di quel Cavaliere era la penna. Ho letto tanti libri di storia: alcuni leggeri e a volte umoristici oppure aneddotici, come quelli di Cervi e Montanelli, altri molto documentati, come Declino e caduta dell’Impero Romano, di Edoardo Gibbon, troppo austero per i miei gusti. Invece Luciano coniugava un filo di finissimo humour alla serietà delle sue documentazioni, spesso vere scoperte.
Dopo la morte della moglie adorata, anche lui come me aveva deciso di vivere solo nella dimora che aveva visto crescere una famiglia unita e felice.
Si dedicava totalmente ai suoi libri. Amici pochi, ma buoni,
come Giorgio Salvatori che lo intervistò al tg2, il magistrato Edoardo Vitale, e l’editore Pietro Golia, che curò per Controcorrente due sue pubblicazioni “Garibaldi, Fauché e i predatori del Regno del Sud” (2006) e “La Storia Manipolata 1860-1861- Documenti e Testimonianze” (2009). Inoltre era circondato dell’affetto delle due figlie, Giorgia e Antonella, e delle nipoti che amava teneramente.
Ma quando lo conobbi io aveva già problemi di salute ed era diventato un misantropo. Col tempo si aperse con me completamente. Ma sempre da lontano, io a Fiesole, lui a Napoli. Forse lui, che era molto orgoglioso, non avrebbe voluto farsi vedere nell’avanzare di un rapido declino, fisicamente diverso da come era stato. Era un uomo molto sensibile ma di una sensibilità maschia, mai l’ho sentito piangersi addosso. Anzi, se gli dicevo di curarsi si arrabbiava. Gli scocciava anche sentirsi chiedere come stava. Era capace di momenti d’ira pensando al destino della sua Patria Napolitana, e allora faceva paura. Ma a volte poteva tramutarsi in un umorista divertentissimo che mi faceva piangere dal ridere facendomi sentire una quindicenne. Posso dire che da quando non c’è più io non ho più riso come allora?
Si è portato via la mia allegria e sono improvvisamente invecchiata.
Era un vulcano, un uomo luminoso, i suoi momenti burrascosi
erano nuvole che coprono il sole e che poi sparivano.
Io mi abbeveravo alla sua sterminata cultura, al punto tale che, grazie a lui, ritengo di essere cresciuta anche spiritualmente. Diceva spesso che Napoli non è una città, ma una nazione. Intuizione felicissima, infatti Napoli non ha niente a che fare con le altre città della Campania e del Sud perché è una stratificazione di molte e grandi civiltà, a cominciare dalla greca. Il suo orgoglio lo portava addirittura a non promuovere i suoi libri o a cercare editori. Fui io a fargli conoscere l’editore Solfanelli e a portare il suo “La fuga di Garibaldi e il giallo della morte di Anita” (edizione Solfanelli, 2016), alla giuria del Premio Firenze. Ne scaturì un premio e una menzione d’onore. Ogni suo successo lo sentivo come mio. Inoltre mi affiancai a lui, inviando lettere ai giornali, nella sua lotta per ristabilire la verità sul Sud depredato e mistificato.
Era geniale. Una personalità multiforme sempre determinata a chiedere il massimo a se stesso. Difficile definirlo. tenebroso, insondabile, ironico, focoso, gelido, romantico, scontroso, spiritoso, ma affettuoso, passionale, folle, cupo, iroso, fascinoso, misterioso, indomabile, incomprensibile, sboccato, raffinato… cambiava sempre, pur restando se stesso.
Con gli editori non fu mai un uomo facile. Delegava tutto a me. Solo con Golia aveva un rapporto fraterno ma anche con lui una volta qualcosa si spezzò. Perché Luciano sapeva anche essere verbalmente violento, e riuscì a volte a farmi piangere, ma poi tornava il sereno e le volte che mi fece ridere o sorridere furono molte di più!
Tenerissimo quando parlava delle figlie e in particolare delle nipoti. Ma si preoccupava di quando sarebbero cresciute in un mondo così corrotto e io lo consolavo dicendogli che tutto dipende sempre dalla base ricevuta in famiglia. Questo contava. E ho potuto averne la conferma oggi, constatando i successi accademici e professionali delle nipoti.
Quando cominciava un libro me ne parlava a lungo. Poi me lo mandava
per sapere che ne pensassi e perché gli correggessi le bozze.
Perché lui scriveva di getto e non rileggeva. C’erano momenti in cui era amareggiato al pensiero dei troppi arrivisti: scrittori da quattro soldi, spesso solo giornalisti, pseudo scrittori che saccheggiavano i suoi libri e che, mediante vantaggiose amicizie, balzavano agli onori di citazioni su giornali e in TV con libri troppo spesso scritti male. Gli dispiaceva non per sé, perché rifuggiva da onori e successo, ma perché il suo pensiero, le sue ricerche, andavano in giro storpiati. Un altro suo dispiacere era di non aver fatto Lettere, come gli sarebbe piaciuto (e come sarebbe stato giusto) ma Economia e Commercio, per volere del padre.
Io gli mandavo via via i miei libri a ogni uscita, e un divertente diario
dove lui vestiva i panni di un greco antico protagonista di mille avventure.
Per lui scrissi anche una poesia,
“Uomo solitario’’, che gli piacque molto: Uomo solitario e racchiuso / nella torre del tuo orgoglio. / Sale invano la voce del mare / a ricordarti il rigoglio / della stagione carnale. / Nella tua casa silente / vuoi respirare soltanto / la polvere antica / di libri vissuti / Amaramente scrivendo / di cupe ingiustizie
/ Di anni perduti.
Negli ultimi anni era molto peggiorato, quasi paralizzato nelle gambe, e si disperava temendo di sopravvivere a sé stesso e di essere di peso alle figlie. Poi è arrivato il Covid e credo lo avrà accolto come un amico.
Perché le aquile non sono fatte per restare in gabbia.
UN UOMO IN PIEDI
RICORDO DI LUCIANO SALERA
UNO STORICO DEL SUD DA NON DIMENTICARE