TRAVOLTI DALL’IMMENSITA’ DEL BLU di Giorgia Ippoliti numero32 febbraio marzo 2025 editore maurizio conte

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Travolti dall’immensità del blu

 

 

«è tutto sulle mie spalle». E chissà se, qualche volta, ci siamo chiesti a cosa fosse dovuta tale espressione, e se fosse vero che “tale peso” fosse espressivo solo di un grande sacrificio piuttosto che di una prestigiosa responsabilità. 

 È ancora una volta il Sud a disvelarci uno straordinario scenario,

 

fatto di miti, leggende e allegorie di vita che ci tramandano importanti e intramontabili insegnamenti. Lasciamoci, ancora una volta, guidare da questi insegnamenti. Affidiamoci alla mano sapiente della cultura tradizional-popolare che quest’oggi ci accompagna nella terra ove giunge chi sogna. 

«Salve, o Sicilia! Ogni aura che quo muove, pulsa una cetra od empie una zampogna, e canta e passa … io ero giunto dove giunge chi sogna»[2] 

 

Proviamo a chiudere gli occhi e ad immergerci 

in un mondo fantastico, nell’isola del sole.

 

Immaginiamo di tuffarci da uno scoglio, nell’azzurro mar di Sicilia, e qui incontrare un personaggio dal singolare aspetto. Metà uomo e metà pesce. D’altronde, «le ninfe inseguite qui non si nascosero agli dèi, gli alberi non nutrirono frutti agli eroi. Qui la Sicilia ascolta la sua vita»[3]. Ecco Cola (Nicola) che, quale punto di riferimento di naviganti e pescatori di sogni, ci si palesa innanzi, raccontandoci qualcosa di incredibile. Egli vive in mare, habitat che lo ha sempre affascinato, da quando la mamma, stanca delle sue incessanti giornate in mare, gli ha rivolto quella che, a prima apparenza, poteva sembrar una maledizione, ma che poi si è rivelata essere la “salvezza” della terra siciliana.

 

«Cola, che Tu possa diventar un pesce!». Ed ecco che improvvisamente i polmoni 
di Cola diventano branchie, i suoi arti inferiori amabili pinne.

 

Cola diviene veramente un pesce, pur rimanendo attaccato alle sue origini terrestri. 

Da quel giorno, egli sarà sì uomo, per metà, ma anche pesce, per l’altra metà, divenendo, grazie alla sua esperienza, un punto di riferimento per pescatori, naviganti e qualsiasi altro si affacci in mare. 

E se è vero che, «una notizia un po’ originale non ha bisogno di alcun giornale, ma come una freccia dall’arco scocca, vola veloce di bocca in bocca»[4], la notizia della straordinaria esistenza di Cola arriva sino alle sale del regno. Qui, tra busti di marmo e pareti rivestite d’oro, sullo scranno regale, Re Federico II, preoccupato delle sorti della sua terra e della sua amabile figlia, apprende dell’esistenza di Cola e della sua particolare condizione. Come sia possibile non sa, ma decide di indagare.

 

Cola viene convocato a corte, ove il Re decide di sottoporlo a una serie di prove,

 

per verificare che quanto «piano piano, terra terra, sibilando, va ronzando, nelle orecchie della gente»[5] fosse reale. 

Il Re, davanti a Colapesce, getta in mare una coppa d’oro rivestita di brillanti e fa una promessa solenne: se Cola riuscirà a recuperarla, sarà degno di congiungersi in matrimonio con sua figlia. 

Cola accetta la sfida e, senza pensarci su, si getta in mare, sino ai più profondi abissi, ove fa una scoperta singolare.

 

Esiste un regno parallelo, fatto di caverne, montagne e valli, ove si ergono tre colonne, chiamate a “reggere” la terra di Sicilia: una integra, una scheggiata e una rotta.

 

Cola, dunque, preoccupato delle sorti della sua città, riemerge in superficie e racconta al Re la sua sorprendente, e sconvolgente, scoperta. «Maestà li terri vostri, stannu supra a tri pilastri, e lu fattu assai trimennu, unu già si stà rumpennu»[6]. Il Re, preoccupato di quanto raccontato da Colapesce ma, al contempo, dubbioso della sua fondatezza, lo invita a ritornare negli abissi, per recuperare il sacchetto pieno di monete d’oro, che aveva gettato nel profondo mare, reiterando la sua promessa. «O destinu miu infelici, chi sventura mi predici. Chianci u re, com’haiu a fari, sulu tu mi poi sarvari»[7].

 

Cola, dunque, con estremo coraggio, si rigetta in mare. Ma, al momento di risalire, 

dopo aver recuperato il prezioso tesoro, si trova posto di fronte a un dubbio:

 

riemergere, lasciando la terra di Sicilia in balia del suo destino, e sposare la figlia del Re, o rimanere negli abissi, sacrificandosi pur di consentire alla sua amata terra di sopravvivere. Egli avrebbe, infatti, la potenza di sostituirsi al busto del pilastro e sorreggerne la parte su cui si poggia la terra di Sicilia. Ma, se è vero che da grandi poteri derivano grandi responsabilità, per Cola non vi sono dubbi: egli sorreggerà il peso della sua amata terra pur di consentirne la sopravvivenza.  

 

Decide, dunque, di rimanere negli abissi, rinunciando alla sua vita: pur di salvare 

la sua amata Sicilia, decide di farsi carico del peso della sua terra. 

Prende, sulle sue spalle, la parte alta della colonna rotta, 

pur di garantire la stabilità della città.

 

«Maestà! ccà sugnu, ccà Maestà ccà sugnu ccà. ’nta lu funnu di lu mari ca non pozzu cchiù turnari vui priati la Madonna ca riggissi stà culonna ca sinnò si spezzerà e la Sicilia sparirà»[8].

 

In un moto di estrema responsabilità, rinuncia all’amor della sua vita e alla sua “tranquilla” esistenza, pur di adempiere a qualcosa di più alto: ancora oggi, si narra si trovi lì, a sorreggere la sua amata terra, tanto che ogni smottamento del terreno vien inteso come “cambio” di spalla da parte di Colapesce. «Su passati tanti anni, Colapisci è sempri ddà. Maestà! Maestà! Colapisci è sempri ddà»[9].

Egli è sempre lì, travolto dall’immensità del blu, a testimonianza ed emblema d

el grande impegno che ognuno di noi porta sulle proprie spalle,


affinché  i  tre pilastri  della  nostra  esistenza,  secondo  le  più  variegate  accezioni,  rimangano  in equilibrio  per  sorreggere  la  nostra  vita,  in  un’ottica  di  continuo interscambio tra il nostro mondo sotterraneo e quello di superficie. 

 

 

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 [1] “Splash”, di Colapesce, Di Martino, 2023. 

 [2] Giovanni Pascoli, “Odi e inni”, Odi – L’isola dei poeti. 

 [3] Leonardo Sciascia, “L’aspra bellezza della Sicilia” in “ La Sicilia e il suo cuore”, 

 [4] Fabrizio De Andrè – Gian Piero Reverberi, “Bocca di Rosa”. 

 [5] Gioacchino Rossini, “La calunnia è un venticello” , cavantina di Don Basilio, in “Il Barbiere di Siviglia”. 

 [6] https://www.sicilias.it/la-leggenda-colapesce-colui-porta-sulle-spalle-la-sicilia/ 

 [7] https://www.sicilias.it/la-leggenda-colapesce-colui-porta-sulle-spalle-la-sicilia/ 

 [8] https://www.sicilias.it/la-leggenda-colapesce-colui-porta-sulle-spalle-la-sicilia/

 [8] https://www.sicilias.it/la-leggenda-colapesce-colui-porta-sulle-spalle-la-sicilia/

Il Pianto Romano di Gaia Bay Rossi numero 32 febbraio marzo 2025 editore maurizio conte

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il pianto romano

 

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Salgo su per la collina senza sapere esattamente cosa mi si presenterà davanti.    I cartelli con scritto “Pianto Romano” mi dicono poco e non so neanche il punto esatto in cui mi trovo, se non che sono nella statale 113 della bella ed assolata campagna della provincia di Trapani.

 

Arrivata in cima alla strada di congiunzione con la statale, vedo un imponente obelisco che scopro essere un monumento garibaldino. Fu costruito nel 1885 da Ernesto Basile sulla sommità della collina che fu teatro della battaglia di Calatafimi 

(a poca distanza dal paese stesso), battaglia decisiva 

per le sorti dell’Unità d’Italia.


Questo combattimento fu il primo, avvenuto nel corso della spedizione dei Mille il 15 maggio 1860, nel luogo individuato nelle carte storiche come Pianto Romano, “Chianti di Rumano” (le piante dei Romano) in siciliano. Il nome si trova in antichi documenti del XVII secolo ed indicava i terreni lavorati a vigneti della famiglia dei Romano, di origine ebraica, proveniente da Salemi.   

 

Dalla cima del colle si può osservare molto bene tutto il campo di battaglia. Le parti erano rappresentate da un lato dai garibaldini, con i volontari arrivati da sud dopo aver lasciato Salemi, dove Garibaldi si era proclamato dittatore della Sicilia, dall’altro dai militari dell’esercito delle Due Sicilie, comandati dal generale Francesco Landi, che arrivavano da Alcamo. Garibaldi aveva bisogno di una vittoria per convincere la popolazione locale ad unirsi alla sua truppa, composta principalmente da bergamaschi e genovesi, ma anche da tanti giovani siciliani, denominati “picciotti”. In quel momento in Sicilia c’era un forte malcontento nei confronti dei Borbone, che infatti presidiavano l’isola con 30000 soldati. Il generale decise di inviare i suoi reparti in perlustrazione del territorio. Un distaccamento si era accampato a Calatafimi, per bloccare la strada a Garibaldi
   

La mattina del 15 maggio l’Ottavo Battaglione Cacciatori del maggiore Michele Sforza, una delle migliori unità dell’esercito borbonico, avanzò verso sud in missione esplorativa. I garibaldini erano circa 1500 comandati dal generale Giuseppe Garibaldi, 

mentre i borbonici circa 2000 con al comando il maggiore Sforza.

 

Alle dodici i borbonici si erano sistemati sulla collina del Pianto Romano. I garibaldini sull’altura di fronte. Li separava una profonda vallata. Il maggiore Sforza osservava i garibaldini e decise di fare la prima mossa. L’Ottavo Cacciatori avanzò nella valle, ma qui intervenne il fuoco inaspettato dei carabinieri genovesi. I Cacciatori vacillarono e poi batterono in ritirata, inseguiti dai garibaldini. A quel punto però erano proprio questi a dover scavallare la collina costantemente bersagliati dai nemici. All’una e trenta i garibaldini erano a metà del colle, il momento era particolarmente difficile, al centro un gruppo di soldati borbonici strappò il tricolore ai soldati garibaldini. Si trattava di una bandiera donata a Garibaldi dalle donne uruguaiane durante la sua campagna in quel Paese e che, nello scontro, fu portata via dai nemici. Garibaldi si mise a discutere con i suoi, il luogotenente Nino Bixio suggerì la ritirata. Ma Garibaldi rispose senza incertezze: “Qui si fa l’Italia o si muore”. La battaglia avrebbe deciso il successo o il fallimento della spedizione. A metà pomeriggio i garibaldini arrivarono in cima alla collina e Garibaldi, per incitare i suoi, si schierò con gli altri in prima linea: i suoi uomini avevano bisogno della sua imponente personalità.

 

I borbonici, dopo ore di battaglia, si diedero alla fuga, dirigendosi 
verso Alcamo, e i Mille entrarono a Calatafimi.

 

I corpi dei caduti, inizialmente lasciati sul campo di battaglia, furono poi seppelliti in una fossa comune. Il 27 maggio successivo Garibaldi si sarebbe recato a Palermo dove, dopo tre giorni, il 30 maggio, avrebbe firmato l’armistizio e allontanato i borbonici dalle fortezze.

 

Allora la Sicilia fu finalmente libera, anche se forse 

non lo sarebbe mai stata veramente.  

 

Ma torniamo al Museo di Pianto Romano. Un comitato di abitanti di Calatafimi il 9 settembre dello stesso anno richiese a gran voce la costruzione di un monumento che contenesse i resti dei caduti e fosse anche in memoria della battaglia. Il Basile lo progettò nel 1885, facendo in modo che la facciata dell’ingresso principale assomigliasse al frontone del tempio di Segesta, che si trova a pochi chilometri di distanza. All’interno appare 

 

appare il primo modello plastico storico in Sicilia che rappresenta la battaglia 

di Calatafimi, realizzato dall’artista Gianvito Gassirà. Costruito seguendo 

la tecnica del modellismo di scenari realistici riprodotti in scala, 

lascia stupefatti ed è straordinario vedere la collina

 e la vallata con il percorso dei soldati in miniatura, 

con le loro divise, gli abiti, le loro bandiere 

e con l’aggiunta di tanti particolari 

come vigneti e campi di grano, 

il tutto in circa 4 metri quadri

 

I materiali utilizzati sono gesso, polistirolo, segatura e materiali comuni, come le setole degli spazzoloni per riprodurre i canneti. Per finire, a dare vita all’intera ambientazione, circa 2800 soldatini dipinti a mano. Oltre all’assemblaggio e alla pittura, è stato molto importante il lavoro di ricerca per rendere storicamente accurata la ricostruzione della battaglia. All’interno del monumento di progettazione neoclassica inaugurato nel 1892 sono anche conservati i corpi di parte dei caduti di entrambi gli schieramenti, gli abiti e numerosi quadri e fotografie attinenti a Garibaldi e al suo periodo.   

 

A lato del mausoleo si trova il Viale delle Rimembranze, fiancheggiato da cipressi. Percorriamo tutto il viale e ci troviamo di fronte al campo di battaglia, dove è stata posta una stele nel 1960, in occasione del centenario della battaglia, sulla quale sono scritte le famose parole dette, secondo quanto riporta Cesare Abba, da Garibaldi a Nino Bixio a Calatafimi: “Qui si fa l’Italia o si muore”. 

 

Ferma accanto alla stele, sento arrivare delle biciclette. Sono tre, si fermano 

e uno di loro legge “Qui si fa l’Italia o si muore” e prosegue sarcastico: 

“Era meglio chi muria” (era meglio se moriva).

 

 

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LA VOCE DI NAPOLI di fernando popoli numero 32 febbraio marzo 2025 editore maurizio conte

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 LA VOCE DI NAPOLI

 

Il cantante nacque a Villaricca, piccolo paese della provincia di Napoli, da genitori poverissimi e, come egli stesso racconta nel suo libro Scontri e incontri, è costretto a lasciare la scuola a metà della terza elementare perché non ha i libri, ha smarrito una scarpa dell’unico scalcagnato paio di scarpe che possiede e si vergogna di andare in classe come un pezzente. 

A nove anni,

 

poco più che bambino, si iscrive ad una scuola serale di musica organizzata per formare la banda musicale del paese. A undici anni diventa ufficialmente 

suonatore di clarinetto ed inizia così la sua carriera musicale.


A diciassette anni si trasferisce a Napoli con la famiglia. Comincia a lavorare come operaio per guadagnarsi da vivere ed entra nel giro di alcuni studenti ai quali palesa le sue prime qualità canore, che vengono subito apprezzate.   

Nel 1943 entra a far parte del novantunesimo reggimento di cavalleria di Torino. Si trova a casa in convalescenza quando riceve la notizia che a Napoli stanno insorgendo contro le truppe tedesche, dunque forma velocemente un gruppo di giovani volontari suoi coetanei, insieme si armano con l’aiuto di un capitano di artiglieria e riescono audacemente a sminare un ponte a Chiaiano. Sulla via del ritorno incontrano un drappello di tedeschi con cui si apre un violento conflitto a fuoco, dove viene ferito gravemente. Trasportato in ospedale dai compagni sopravvissuti su di una ”carrettella”, si salva la vita quasi per miracolo, ma rimane per sempre con una gamba claudicante.   

 

Spinto dagli amici di Chiaiano, inizia a frequentare la scuola di canto del maestro Gaetano Lama e del cantante Vittorio Parisi che lo prendono subito a ben volere e ne intuiscono le sue eccellenti doti canore. Dopo pochi mesi, presentato dallo stesso Parisi, debutta al Teatro Reale di Napoli ottenendo un lusinghiero successo, ma la sua carriera viene subito osteggiata dall’impresario del teatro che vuole favorire i suoi cantanti e lo esclude dagli spettacoli. Affronta così un momento estremamente duro e difficile. Frequenta la Galleria Umberto I, di fronte al Teatro San Carlo, dove si riuniscono spesso cantanti e attori disoccupati in cerca di scritture che non arrivano, ma l’anno successivo

partecipa ad un concorso bandito dalla Rai per voci nuove e riscuote un clamoroso successo. Giunto alla fase finale della competizione, che si svolge 

al Teatro Delle Palme, nel quartiere Chiaia, 

a ridosso della celebre Via dei Mille, 

si classifica primo assoluto


con 298 voti a suo favore, mentre il secondo classificato ne ottiene solo 43. La vittoria giunge come una salvezza: ottiene il premio in denaro di tremila lire ed un contratto con Radio Napoli, e la miseria è abbandonata per sempre. Comincia a cantare in seguitissime trasmissioni radiofoniche con la guida del Maestro Gino Campese che dirigeva in quegli anni Radio Napoli. Su suggerimento di Campese

cambia il suo nome d’arte in Sergio Bruni per non confondersi con un omonimo cantante ed inizia per lui un periodo di grandi successi, 


in un ambiente altamente professionale qual è la Rai di Napoli. Contemporaneamente riprende a studiare per affinare le sue qualità canore. Inoltre, si sposa felicemente con Maria Cerulli e ha con lei quattro figli.   

 

Nel 1949 partecipa alla prima Piedigrotta, trampolino di lancio per le voci nuove, e ha un grande successo con la canzone Vocca ‘e rose di Mallozzi e Rendine, due autori di chiara fama. Negli anni di partecipazione alle successive edizioni di Piedigrotta lancia le canzoni ‘O ritratto ‘e Nanninella, Suonno a Marechiaro, Vieneme ‘nzuonno e nel 1962 si classifica primo con Marechiaro Marechiaro, di Murolo-Forlani. Nel 1960

al culmine della sua carriera ormai consacrata, partecipa per la prima volta 

al Festival di Sanremo e canta Il mare, di Pugliese, e È mezzanotte, di Testa e Rossi, ottenendo uno strepitoso successo di pubblico ed entusiasmando tutta l’Italia.


Ora tutti gli impresari lo richiedono per i loro spettacoli, il Festival l’ha consacrato come grande interprete della canzone napoletana, ma lui si rifugia nella sua bella villa per una pausa di riflessione. Riduce drasticamente le sue esibizioni con la delusione dei suoi fans e il suo repertorio attinge sempre più alle canzoni classiche.   

 

Negli anni Sessanta tiene concerti acclamatissimi in America e in Russia, rifiutando molti altri inviti e rinunciando a fiumi di soldi. Comincia a porsi il problema della continuazione della canzone napoletana in un mondo ormai dominato dall’avvento del Rock e da altre forme musicali. Con il poeta Salvatore Palomba musica Parole povere e Carmela, che diventa subito un classico della canzone napoletana.  

Viene invitato alla trasmissione televisiva Levate ‘a maschera Pulicenella e il sindaco di Napoli Maurizio Valenzi si congratula con lui per la vitalità e la freschezza con cui rinnova la grande tradizione della canzone. 

Tra gli anni Ottanta e Novanta realizza un’antologia della canzone napoletana orchestrata da Roberto De Simone e da lui stesso. Si ricordano anche la sua interpretazione nel film Serenata a Maria, per la regia di Luigi Capuano, e le sue partecipazioni ai film Il viaggio di Vittorio De Sica e Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? di Billy Wilder.   

 

Per un certo periodo si dedica anche alla pittura, realizzando delle mostre. 

Fonda inoltre un’associazione dal nome “Centro di cultura per la canzone napoletana”, dove insegna a titolo gratuito canto e chitarra a tutti quelli che ne fanno richiesta. 


In un piccolo teatro di venticinque posti nella sua dimora si esibisce, sempre gratuitamente, con i suoi allievi. Nel 1994 la casa discografica Emi, la più importante in assoluto, pubblica l’album Sergio Bruni, la voce di Napoli.   

 

Nel 1995 tiene
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due memorabili concerti: il primo ha luogo a Napoli, a Piazza San Domenico Maggiore, alla presenza del sindaco Antonio Bassolino, con diecimila spettatori in delirio, 

il secondo a Roma, al Teatro dell’Opera, per volontà dell’assessore Gianni Borgna, 

che in quell’occasione scrive «Sergio Bruni è la voce di Napoli».


Anche Eduardo De Filippo, nel riprendere questa citazione, gli dedica una poesia.   

 

Nel 2000 lascia Napoli e la sua bella villa per ritirarsi a Roma, dove vivono le sue due figlie, e da allora si interrompono per sempre le sue performance.   

 

Cosa ha rappresentato Sergio Bruni per Napoli è presto detto: con la sua voce soave ha interpretato la più autentica canzone napoletana, quella che tocca il cuore per la sua poeticità e per la sua semplicità narrativa, allietando persone di tutti i ceti sociali, da quelli più popolari a quelli alto borghesi. Sergio Bruni, «la voce di Napoli», ha cantato per tutti coloro che chiedevano di sognare trasportati dai versi immortali e da quella melodia le cui radici si innestano nella grande tradizione musicale e canora napoletana. Quest’uomo semplice e schietto, modesto ed eccelso, generoso ed altruista rispose con il suo canto al loro bisogno di poesia. Su YouTube oggi vi sono migliaia di visualizzazioni dei suoi video e commenti entusiastici, a testimonianza di quanto sia ancora apprezzato.

 

 

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LA SARDEGNA E L’UNESCO di Gloria Salazar numero 32 febbraio marzo 2025 editore maurizio conte

 

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La sardegna e l’unesco

 

È la regione italiana che detiene, su scala nazionale, di gran lunga la percentuale maggiore di aree archeologiche, ossia il 17%, contro – incredibilmente – l’8,2% di quelle, ad esempio, del Lazio; ed è un valore sottostimato, perché si riferisce solo ai siti musealizzati. Per la precisione, oltre alle suddette aree archeologiche, nell’isola vi sono il 3,5% dei parchi archeologici ed il 2,7% dei manufatti archeologici nazionali. 

Numeri alla mano, dei 342 siti (tra aree, parchi e singoli monumenti) archeologici italiani, 61 si trovano in Sardegna. Senza contare le 30 strutture museali dedicate all’archeologia presenti nella regione.  La fonte è l’ISTAT, dati riferiti al 2017 del report del 2019 “I Musei, le aree archeologiche e i monumenti in Italia”. 

Un valore sottostimato, dicevamo, perché i siti archeologici censiti nel Piano Paesaggistico regionale della Sardegna sono più di 10.000 e molti, addirittura, non vi sono stati ancora inseriti. 

Praticamente 

non c’è neppure uno dei 377 comuni isolani che non annoveri delle vestigia archeologiche nel suo territorio. Si tratta di resti prenuragici, nuragici, fenici, punici, romani; un tesoro inestimabile e tuttora parzialmente inesplorato.


Di recente, nel 2020, è stata costituita l’Associazione “La Sardegna verso l’UNESCO”, per promuovere la candidatura di 32 dei principali siti nuragici, bene identitario sardo per antonomasia, alla lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità. 

Una goccia nel mare, ma una goccia importante. 

Ad oggi in Sardegna vi è un solo complesso nuragico, tra gli ottomila esistenti, ricompreso tra i monumenti 

Patrimonio dell’Umanità: il sito di Su Nuraxi a Barumini. Lo scopo prefissosi dall’Associazione è quindi quello di  

far includere il patrimonio nuragico nella World Heritage List, affinché ne «sia riconosciuto, tutelato e protetto l’inestimabile valore universale».


Augurandoci che questo possa servire anche a preservare nel presente – e per sempre nel futuro – l‘incontaminato contesto paesaggistico nel quale si trova questo patrimonio, di recente minacciato dall’indiscriminata installazione di foreste di pale eoliche e tappeti di campi fotovoltaici.   

 

L’iter è lungo, ma se la candidatura verrà – com’è auspicabile – accolta, una pagina importante della civiltà umana sarà portata all’attenzione mondiale. Quella di un’isola ancora da scoprire: una Sardegna che è un museo a cielo aperto.

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L’Italia, si sa, possiede un patrimonio archeologico straordinario. Quello che non si sa, o non si dice, è che la Sardegna di questo patrimonio ne possiede circa un quinto. 

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 Foto di Gloria Salazar

 

UN UOMO IN PIEDI di Marina Alberghini numero 31 ottobre novembre 2024 Editore Maurizio Conte

Benedisse l’unione la Dea lunare Diana, della natura gioiosa regina delle selve e dei boschi, di quella Natura incomparabile che splendeva nel luogo dove era nata quella magia musicale. Luogo incantato che fu chiamato Partenope, dal nome della Sirena suicida per amore, perché anche l’amore era indispensabile a quell’ alchimia, ne era anzi una componente essenziale, inscindibile

Quel luogo, dove cantavano Mare, Bellezza, Musica e Amore si chiamò in seguito Napoli, ed essendo un dono degli Dei, ammaliò per secoli 

i viaggiatori di ogni Paese,

 

che non potevano sapere che quella bellezza, quel fascino che apparivano nuovi ai loro occhi, erano anche misteriosamente antichi. Perché Napoli è il più sontuoso palinsesto di grandi culture stratificate. 

Di quell’antica bellezza, delle sue fortune poi declinate, tanti hanno parlato, ma alcuni sono stati glorificati in eccesso, altri, con meriti spesso maggiori, sono stati tenuti nell’ombra. Molti i nomi celebrati tra chi parla a sproposito di Napoli, ma quanti conoscono, ad esempio, quello di Giuseppe Marotta, scrittore tra i pochi che compresero pienamente la straordinaria poesia e umanità napoletane? E infatti il suo nome è caduto nel dimenticatoio. Per fortuna, nonostante le scopiazzature, fra gli storici emerge ancora un gigante: Luciano Salera.   

 

Sapevo della lotta del Sud per restare indipendente, il mio nonno napoletano, figlio di un ufficiale borbonico, mi raccontava quello che, secondo lui, aveva combinato Garibaldi, e in seguito anche mio marito, benché fosse bolognese, mi diceva sempre che Garibaldi e compagni avevano, consapevolmente o no, distrutto la più grande civiltà italiana dell’epoca. Poi otto anni a Napoli, dove mio marito era stato chiamato a fondare l’Aeritalia, mi riconfermarono nell’amore per una città incomparabile.

Ma mai avrei pensato di conoscere, incarnato, uno dei maggiori conoscitori 

di quella lotta dimenticata che raccontava nei suoi libri e il cui stile 

non era piatto e noioso come quello degli storici ufficiali, 

ma vivo, splendente e carnale.  


Come conobbi quell’uomo che era fatto di mare e come il mare poteva essere tempestoso e ferire, ma essere anche sereno e brillante delle mille luci del sole?     

 

L’incontro ebbe qualcosa di misteriosamente già previsto e d’altronde io non credo nelle coincidenze ma che tutto abbia un fine nella nostra vita perché guidato da un filo misterioso. Era una sera di ottobre del 2009. Mio marito Giordano, dopo 40 anni di matrimonio felice, da un anno era volato in Cielo e io avevo preferito restare sola nella nostra casa rifiutando di trasferirmi dai parenti. Lavoravo ai miei libri, ma a volte ero molto triste. Specialmente con l’arrivo dell’autunno, in quella sera fiesolana del 29 ottobre, sentivo il vuoto attorno a me.

Ma quella sera si rivelò speciale… Sul grande tavolo antico del salone 

era aperto il quotidiano Il Giornale. Stavo preparando la cena 

e buttai un occhio sulle Lettere dei Lettori. Una mi colpì. 

C’era una tale forza in quella lettera che rivendicava 

le ingiustizie passate di un popolo che era stato 

depredato e colonizzato!


Una forza tale che sentii l’impulso di dire a quella persona che aveva ragione, che la pensavo uguale! Che aveva ragione da vendere! Che io avevo scritto della grande civiltà dei Borboni nel mio libro sul Presepio Napoletano! Una cosa davvero inusitata, perché non sono mai stata propensa a scrivere a sconosciuti. Mai.

Vidi la firma: Luciano Salera, Napoli. Anche qui agì il destino perché, 

se avesse firmato la mail con uno pseudonimo, tutto sarebbe finito lì.


Cercai il telefono nell’elenco abbonati e lo chiamai. La sensazione immediata fu che fossimo due vecchi amici che si erano ritrovati, una sensazione reciproca di felicità. Che iniziò con uno scambio di libri e con lui che mi mandava ricette di cucina napoletana insieme con i ricordi dei nostri cari sposi defunti. Andò avanti per più di dieci anni. Parlavamo di tutto e tutti i giorni in un rapporto fatto di mail e di telefonate che arricchirono la nostra vita.   

 

Da quel primo incontro, non pensate che io stia esagerando, egli mi apparve come un antico Cavaliere senza Macchia e senza Paura, fedele per sempre alla sua “Patria napolitana”, come la chiamava, ai suoi colori che erano quelli dei Borboni. E l’arma di quel Cavaliere era la penna. Ho letto tanti libri di storia: alcuni leggeri e a volte umoristici oppure aneddotici, come quelli di Cervi e Montanelli, altri molto documentati, come Declino e caduta dell’Impero Romano, di Edoardo Gibbon, troppo austero per i miei gusti. Invece Luciano coniugava un filo di finissimo humour alla serietà delle sue documentazioni, spesso vere scoperte.

Dopo la morte della moglie adorata, anche lui come me aveva deciso di vivere solo nella dimora che aveva visto crescere una famiglia unita e felice. 

Si dedicava totalmente ai suoi libri. Amici pochi, ma buoni,

come Giorgio Salvatori che lo intervistò al tg2, il magistrato Edoardo Vitale, e l’editore Pietro Golia, che curò per Controcorrente due sue pubblicazioni “Garibaldi, Fauché e i predatori del Regno del Sud” (2006) e “La Storia Manipolata 1860-1861- Documenti e Testimonianze” (2009). Inoltre era circondato dell’affetto delle due figlie, Giorgia e Antonella, e delle nipoti che amava teneramente.

 

Ma  quando  lo  conobbi  io  aveva già  problemi  di  salute ed era diventato un misantropo. Col tempo si aperse con me completamente. Ma sempre da lontano, io a Fiesole, lui a Napoli. Forse lui, che era molto orgoglioso, non  avrebbe  voluto  farsi  vedere  nell’avanzare di un rapido declino, fisicamente diverso da come era stato. Era  un  uomo  molto  sensibile ma di una sensibilità maschia, mai l’ho sentito piangersi addosso. Anzi, se gli dicevo  di curarsi si  arrabbiava. Gli  scocciava  anche  sentirsi chiedere come stava. Era capace di momenti d’ira pensando al destino della sua  Patria Napolitana, e allora faceva paura. Ma a volte  poteva  tramutarsi  in un  umorista  divertentissimo che  mi faceva  piangere dal  ridere facendomi sentire una quindicenne. Posso dire che da quando non c’è più io non ho più riso come allora?
Si è portato via la mia allegria e sono improvvisamente invecchiata.

 

Era un vulcano, un uomo luminoso, i suoi momenti burrascosi 

erano nuvole che coprono il sole e che poi sparivano.


Io mi abbeveravo alla sua sterminata cultura, al punto tale che, grazie a lui, ritengo di essere cresciuta anche spiritualmente. Diceva spesso che Napoli non è una città, ma una nazione. Intuizione felicissima, infatti Napoli non ha niente a che fare con le altre città della Campania e del Sud perché è una stratificazione di molte e grandi civiltà, a cominciare dalla greca. Il suo orgoglio lo portava addirittura a non promuovere i suoi libri o a cercare editori. Fui io a fargli conoscere l’editore Solfanelli e a portare il suo
“La fuga di Garibaldi e il giallo della morte di Anita” (edizione Solfanelli, 2016), alla giuria del Premio Firenze. Ne scaturì un premio e una menzione d’onore. Ogni suo successo lo sentivo come mio. Inoltre mi affiancai a lui, inviando lettere ai giornali, nella sua lotta per ristabilire la verità sul Sud depredato e mistificato. 

Era geniale. Una personalità multiforme sempre determinata a chiedere il massimo a se stesso. Difficile definirlo. tenebroso, insondabile, ironico, focoso, gelido, romantico, scontroso, spiritoso, ma affettuoso, passionale, folle, cupo, iroso, fascinoso, misterioso, indomabile, incomprensibile, sboccato, raffinato… cambiava sempre, pur restando se stesso. 

Con gli editori non fu mai un uomo facile. Delegava tutto a me. Solo con Golia aveva un rapporto fraterno ma anche con lui una volta qualcosa si spezzò. Perché Luciano sapeva anche essere verbalmente violento, e riuscì a volte a farmi piangere, ma poi tornava il sereno e le volte che mi fece ridere o sorridere furono molte di più! 

Tenerissimo quando parlava delle figlie e in particolare delle nipoti. Ma si preoccupava di quando sarebbero cresciute in un mondo così corrotto e io lo consolavo dicendogli che tutto dipende sempre dalla base ricevuta in famiglia. Questo contava. E ho potuto averne la conferma oggi, constatando i successi accademici e professionali delle nipoti.

 

Quando cominciava un libro me ne parlava a lungo. Poi me lo mandava 

per sapere che ne pensassi e perché gli correggessi le bozze.


Perché  lui  scriveva di getto e non rileggeva. C’erano  momenti  in  cui  era  amareggiato al pensiero dei troppi arrivisti: scrittori  da  quattro soldi, spesso  solo  giornalisti, pseudo  scrittori che saccheggiavano i suoi  libri e che, mediante vantaggiose  amicizie,  balzavano agli  onori di citazioni su giornali e in TV con libri troppo spesso scritti male. Gli  dispiaceva  non  per  sé,  perché  rifuggiva da onori  e  successo,  ma perché il suo pensiero, le sue ricerche, andavano in giro storpiati. Un altro suo dispiacere era di non aver fatto Lettere, come gli sarebbe piaciuto (e come sarebbe stato giusto) ma Economia e Commercio, per volere del padre.

 

Io gli mandavo via via i miei libri a ogni uscita, e un divertente diario 

dove lui vestiva i panni di un greco antico protagonista di mille avventure. 

Per lui scrissi anche una poesia,

 

“Uomo solitario’’, che gli piacque molto: Uomo solitario e racchiuso / nella torre del tuo orgoglio.              / Sale invano la voce del mare / a ricordarti il rigoglio / della stagione carnale. / Nella tua casa silente / vuoi respirare soltanto / la polvere antica / di libri vissuti / Amaramente scrivendo / di cupe ingiustizie 

/ Di anni perduti.   

 

Negli ultimi anni era molto peggiorato, quasi paralizzato nelle gambe, e si disperava temendo di sopravvivere a sé stesso e di essere di peso alle figlie. Poi è arrivato il Covid e credo lo avrà accolto come un amico.   

 

Perché le aquile non sono fatte per restare in gabbia.

 

UN UOMO IN PIEDI

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RICORDO DI LUCIANO SALERA

   UNO STORICO DEL SUD DA NON DIMENTICARE 

 

 

RETABLOS di Gloria Salazar numero 31 ottobre novembre 2024 editore maurizio conte

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Chi ha reminiscenze scolastiche ricorderà di non aver mai sentito parlare dell’arte rinascimentale sarda.  

 

Quando si pensa alla Sardegna sotto il profilo artistico viene in mente tutt’altro. Tutti conoscono la civiltà nuragica con i suoi bronzetti e le sue misteriose torri, molti sanno dell’esistenza degli splendidi esempi di architettura romanica, forse qualcuno penserà agli artisti contemporanei; ma la pittura medioevale e rinascimentale sarda – se mettiamo da parte gli scritti di pochi storici dell’arte, in particolare Corrado Maltese, e i fondamentali studi di ambito locale – è sfuggita, almeno come movimento, ai radar della storiografia dell’arte nazionale. 

 

In una terra contesa per secoli tra l’Italia (Pisa, Genova e poi il Piemonte) e la Spagna, lo studio dell’arte sarda è rimasto terra di nessuno. Eppure in Sardegna vi sono, pressoché ignote, interessanti testimonianze di arte pittorica, cicli di affreschi e dipinti Medioevali di grande suggestione

 

Ma la manifestazione più notevole dell’arte sarda è rappresentata dai retabli

 

vasta espressione di un importante fenomeno artistico, altrettanto sconosciuto, fiorito nell’isola nel XV e XVI secolo.  

 

Paradossalmente, o forse no, negli ultimi anni la Spagna si è dimostrata maggiormente interessata alla storia ed alle vicende artistiche isolane, piuttosto che l’Italia stessa; probabilmente come conseguenza della dominazione iberica, sotto la quale la Sardegna si è trovata dal XIV al XVIII secolo. 

 

Ed è proprio dalla Spagna che nel ‘400 venne importata in Sardegna la fattispecie del retablo, termine derivato dal latino “retro tabula”, ossia dietro la tavola (dell’altare). I retabli – italianizzazione dello spagnolo retablos – per alcuni aspetti corrispondono ai nostri polittici. Hanno come caratteristica principale una struttura imponente in legno scolpito e dorato, suddivisa in numerosi scomparti posti su vari ordini, nei quali sono inseriti statue e dipinti su tavola, prevalentemente a fondo oro. La loro più impressionante rappresentazione è costituita dal Retablo Mayor della Cattedrale di Siviglia, il più grande del mondo, un’opera monumentale che misura quasi 30 metri di altezza e 20 di larghezza.

 

Anche in Sardegna i retabli sono pale d’altare maestose ricoperte d’oro. Incorniciano dipinti dai colori vividi, pervasi da una leggiadria iconografica 

che sotto certi aspetti rimanda all’arte gotica.


Sono opera di artisti sardi e sardo catalani, della maggior parte dei quali, purtroppo, non è noto il nome, e che sono conosciuti perciò come “Maestro” della località in cui si trovano i loro principali lavori. 

La Sardegna era stata una terra di conquista e per certi versi, seppure un’isola, idealmente anche una terra di confine, e come tale aveva subito le influenze dell’una e dell’altra sponda limitrofe al suo territorio. Per questa ragione

 

gli stilemi delle pitture dei retabli sardi sono riconducibili
sia a quelli coevi dell’arte spagnola che a quelli italiani;

non scevri, anzi spesso fortemente connotati, da richiami fiamminghi. D’altronde all’epoca l’impero spagnolo, di cui la Sardegna faceva parte, si estendeva fino alle Fiandre, della cui Scuola artistica la penisola iberica aveva recepito totalmente i modelli. 

Il Retablo di San Bernardino, datato al 1455, è noto per essere il più antico retablo sardo ed è conservato, come molti altri, nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari.

 

Ma è nel Retablo di Tuili che si rinviene la più alta raffigurazione
dell’arte pittorica rinascimentale della Sardegna,
opera del cosiddetto Maestro di Castelsardo,


cui fu attribuito tale nome per i frammenti di un retablo rinvenuti nell’omonima località. L’artista, la cui vera identità non è stata stabilita con certezza, era contemporaneo – per fornire una collocazione temporale – di Botticelli e Perugino. Recentemente è stato ipotizzato si potesse trattare di Gioacchino Cavaro, forse zio di Pietro Cavaro, pittore appartenente ad una prolifica dinastia. Quest’ultimo fece parte, insieme al figlio Michele, della più famosa Scuola d’arte del Rinascimento sardo, la Scuola di Stampace – attiva dalla fine del XV secolo – che prese il nome da un quartiere storico di Cagliari dove si trovavano le botteghe degli artisti.  

Ne furono protagonisti, oltre ai Cavaro, Antioco Mainas, insieme ad altri pittori minori, anch’essi autori, quasi sempre anonimi, dei dipinti di innumerevoli retabli.

 

Alla scoperta di queste opere d’arte della Sardegna si potrebbe ispirare
un inconsueto itinerario di viaggio nell’isola, una “via dei retabli”.


Infatti tali opere, o parti di esse, oltre che nella già menzionata Pinacoteca di Cagliari, che ne custodisce la principale raccolta, e nel Museo Diocesano della città, si trovano in numerose chiese e musei sparsi su tutto il territorio. Per citare alcuni tra i più notevoli ricordiamo i retabli di: Villamar; Perfugas (il più grande della Sardegna, con 54 tavole); Ozieri, con le splendide opere dell’omonimo Maestro, alcune visibili anche a Benetutti, a Ploaghe e a Bortigali, a proposito del quale Federico Zeri disse: “si potrà definire il Maestro di Ozieri un pittore sardo nella stessa misura in cui Chopin può dirsi risolto nell’etichetta di compositore polacco”; Ardara (il più alto – 10 metri – tra quelli sopravvissuti nella loro interezza); Dolianova; Codrongianos; Iglesias; Lunamatrona; Suelli; Oliena; Olzai; Gonnostramatza; Milis. Senza dimenticare la collezione conservata nel Museo Antiquarium Arborense di Oristano e quella del Museo Diocesano di Alghero.

I retabli perdurarono a lungo come “forma d’arte”. Con l’avvento del Barocco l’aspetto architettonico della struttura assunse un’importanza preponderante
ed i dipinti furono soppiantati da sculture lignee.


Anche di questa tipologia esistono in Sardegna vari esempi, tra i quali: lo spettacolare retablo di San Pietro a Sassari, alto 12 metri; e l’imponente retablo di Sant’Antioco ad Iglesias.

 

 

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IL VENTRE DI NAPOLI NASCONDE UN FANTASMATICO MONACO BAMBINO di Francesca Romana De Paolis numero 31 ottobre novembre 2024 Ed. Maurizio Conte

 

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IL VENTRE DI NAPOLI NASCONDE UN.FANTASMATICO MONACO BAMBINO

 

Soffia nelle orecchie di chi dorme, arraffa oggetti nelle case dei malvisti, accetta di buon grado le monete, spesso è foriero di buona sorte e si diverte a corteggiare le belle donne. 

Si tratta del 

 

Munaciello, il più stimato e temuto, il più antico e rispettato spirito 

del folklore partenopeo.


lMatilde Serao, celebre giornalista e scrittrice napoletana, racconta che le origini di questo piccolo monaco dispettoso, potrebbero essere legate a una vicenda accaduta intorno alla metà del Quattrocento a Napoli, durante il regno di Alfonso V d’Aragona.   

 

All’epoca, si consumava in gran segreto una storia d’amore tra Caterina Frezza, figlia di un ricco mercante di stoffe e il garzone Stefano Mariconda. Per raggiungere nottetempo la sua amata, sembra che Stefano, non gradito dalla famiglia di Caterina, dovesse arrampicarsi e camminare sui tetti della città. Una sera sventurata egli cadde e morì. 

Poco dopo, la sua Catarinella fu rinchiusa in un convento e diede alla luce un bambino malformato. Le suore, allora, accorsero in aiuto vestendolo con abiti monacali, per nascondere le sue deformità.

 

Quando fu in grado di camminare, questi se ne andava in giro 

per il quartiere Porto con saio e cappuccio alla francescana. 

Si guadagnò così il soprannome di “Munaciello” (piccolo monaco). 


Secondo la leggenda egli scomparve prematuramente e da allora si iniziò a credere che la sua anima girasse per Napoli e avesse misteriosi poteri magici.   

 

È possibile che un rifugio del monaco bambino si trovi a Marina del Cantone e più precisamente nella Torre di Montalto, presso Sant’Agata sui Due Golfi a Massa Lubrense. Altre voci raccontano che il Munaciello abiti le vecchie abbazie e i monasteri del centro di Napoli oppure le ville partenopee.

All’origine rinascimentale dello spiritello esoterico se ne aggiunge un’altra, 

legata al Sette-Ottocento.


E, in particolare, alla figura dei pozzari. Uomini minuti, abbigliati con mantello ed elmetto, dunque simili a piccoli monaci, che si occupavano della manutenzione e la pulizia delle cisterne in tufo che costellano la Napoli sotterranea. Le cisterne avevano cunicoli verticali scavati nella roccia, collegati direttamente ai soprastanti palazzi nobiliari.

 

Si racconta che, grazie alla facilità con cui i pozzari avevano accesso alle case, 

essi di tanto in tanto – specie quando non venivano retribuiti – vi sostassero 

per fare uno spuntino, conquistare la donna del focolare e rubacchiare. 

Ancora oggi se qualche oggetto domestico scompare, 

a Napoli si dice che è stato il Munaciello.


Insomma, tutto porta a credere che si tratti di una presenza bizzarra e un po’ canaglia. Però le sue apparizioni, sia reali che in sogno, sono descritte come miracolose, poiché il monaco indica a chi lo vede i numeri fortunati da giocare al Lotto e realizza i desideri. Questo a patto che nessuno riveli la sua presenza, poiché farlo porterebbe invece la cattiva sorte. 

La duplice e ambigua natura dello spiritello – generosa e molesta, irriverente, ma anche sacra, disturbante e sorprendente – lo rende simile ad una sorta di allegoria del destino. Non a caso un antico proverbio napoletano recita così: “O Munaciello: a chi arricchisce, a chi appezzentisce”.

La città che sorge all’ombra del Vesuvio è ancora fervidamente traboccante 

di segnali che fanno pensare all’esistenza del piccolo monaco.

La chiesa di Sant’Eframo Vecchio, il quartiere di Secondigliano, Piazza Garibaldi in centro, una casa in via dei Tribunali sono solo alcuni dei luoghi protagonisti di apparizioni, improvvisi arricchimenti, tranelli e fortune. 

E, a Castellammare di Stabia, tra il vulcano e la costiera sorrentina, nei pressi dell’antico terziero di Scanzano, c’è una strada rivolta a monte, proprio intitolata al Munaciello.

E anzi, a un particolare Munaciello, che da pizzichi 

e fa sgambetti a chiunque passi per di lì.


Secondo Carl Gustav Jung alcune figure del mondo favolistico soprannaturale rappresentano le forze sotterranee dell’inconscio. Risorse psichiche di cui gli esseri umani non sono consapevoli e che hanno a che fare con l’istinto e l’intuizione. Le figure cui si riferiva Jung sono i nani e gli gnomi, appartenenti alla cultura nordica, ai quali tuttavia, il piccolo monaco partenopeo sembra accostarsi per tipologia.

Ad ogni buon conto, il Munaciello resta ad oggi il fantasma più pop 

del nostro meridione. È stato protagonista di opere teatrali, 

cinematografiche e di canzoni.


Compare anzitutto nella famosa commedia di Eduardo de Filippo “Questi fantasmi”, in cui il personaggio dell’amante è vestito come un monaco. Fa capolino nella canzone “O’ Munaciello” (1891) di Roberto Bracco. E arriva fino agli anni Duemila, poiché “Munaciello” è il soprannome dato a uno dei boss nella serie tv “Gomorra” (2014-2021). Ma soprattutto il monaco bambino, compare nell’incipit del film “E’ stata la mano di Dio” (2021) di Paolo Sorrentino, dove la zia del protagonista gli da un bacio sulla nuca, su invito di San Gennaro, come gesto propiziatorio per la propria fertilità. 

  

 

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LA SCALINATA MONUMENTALE DI VIA GIUDECCA di Claudia Papasodaro numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 editore maurizio conte

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LA SCALINATA MONUMENTALE DI VIA GIUDECCA

 

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 L’eredità culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi;   Una comunità di eredità è costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future.

 

Convenzione di Faro, art. 2

La ratifica della Convenzione di Faro da parte dell’Italia, avvenuta nel 2020, ha rappresentato un momento significativo per il nostro ordinamento. Non solo perché tale Convenzione riconosce il patrimonio culturale come elemento fondamentale per lo sviluppo civile (questo principio era già sancito dalla nostra Costituzione), ma soprattutto perché introduce il “diritto al patrimonio culturale”, coinvolgendo i cittadini in nuove forme di tutela e valorizzazione. 

 

Ed è bello scoprire che 

proprio al Sud, ed in particolare in Calabria, questi principi abbiano trovato

spontanea attuazione, dando vita ad una straordinaria 

storia di cittadinanza attiva


cominciata ormai qualche anno fa, ma che vale la pena ancora oggi raccontare. 

 

Tutto nasce da un appello lanciato sui social il 31 marzo 2021 attraverso un gruppo facebook denominato “ILOVERC”. Un appello rivolto alla cittadinanza di Reggio Calabria per correre in soccorso di un luogo simbolo della città abbandonato da più di un decennio: la Scalinata Monumentale di via Giudecca. 

 

Questa storica scalinata è una delle opere di contenimento del dislivello di terreno fra il centro storico e la zona collinare sovrastante, costruita tra il 1916 e il 1930 per facilitare il collegamento pedonale tra la parte bassa e la parte alta della città. Il suo aspetto, nonostante l’inserimento delle ringhiere che hanno sostituito in molti tratti gli originari parapetti in mattoni alleggerendo la struttura, risulta davvero imponente: presenta una doppia rampa con terrazzamenti su ben 12 livelli e 23 scalinate di forma e dimensioni differenti. Il tutto crea  

uno scenografico effetto a cannocchiale che dall’alto attraversa la città sino a toccare

il mare. Un luogo davvero suggestivo e dall’alto valore storico e paesaggistico. 

Ma soprattutto un luogo identitario,

 

presente nelle memorie di tutta la comunità reggina. 

 

Grazie alla risonanza dei social, l’11 aprile 2021 un gruppo di sconosciuti si incontra ai piedi della scalinata. Sono persone giunte da ogni parte della città con un unico obiettivo comune: restituire dignità a quel luogo terribilmente offeso e reso inaccessibile da anni di incuria. 

 

I cittadini decidono dunque di unire le forze per la realizzazione di un interesse collettivo, in una nuova forma di libertà solidale e responsabile. Il 20 aprile 2021 il gruppo fb “ILOVERC” si trasforma in “Articolo118.RC” per richiamare il Principio di Sussidiarietà sancito dalla nostra Costituzione, in virtù del quale i partecipanti all’iniziativa stavano agendo. 

 

Nei tre mesi successivi tantissimi reggini si uniscono alla pulizia della scalinata. Ogni giorno, 

la bellezza di quei 180 gradini, che scandiscono il dislivello fra la Via Posidonea 

e la via Reggio Campi, veniva sempre più fuori, fino all’ultima rampa che, 

ripulita dalle sterpaglie altissime, ha restituito la meravigliosa vista 

sullo Stretto di Messina

 

Completata la fase di pulizia, i volontari non si fermano e decidono di occuparsi anche dell’abbellimento delle terrazze, arricchendo le aiuole con piante e fiori colorati. La Scalinata della Giudecca è finalmente pronta a vivere la sua rinascita: sui suoi gradini c’è di nuovo gente, artisti di ogni genere cominciano ad improvvisare performances ed arrivano anche i turisti. La scalinata non solo recupera la sua funzione di passaggio strategico per la città, ma torna ad essere luogo di ritrovo per la comunità e teatro di manifestazioni ed eventi culturali. 

 

Il progetto di riqualificazione e valorizzazione prosegue, si evolve e si fa sempre più articolato. Il 24 settembre 2022 i volontari costituiscono l’associazione “Scalinata Monumentale di via Giudecca APS”, che ottiene un importantissimo risultato entrando, poco dopo, a far parte della Rete delle Comunità Patrimoniali Italiane (CPI) presenti su “Faro Italia Platform”, un’iniziativa della Rete Faro Italia con il supporto finanziario del Consiglio d’Europa.   

 

Di luoghi come la Scalinata della Giudecca in Italia ne abbiamo molti. L’auspicio è che questa bellissima storia di cittadinanza attiva possa essere un esempio per tante altre comunità, affinché prendano coscienza della portata rivoluzionaria che il loro ruolo può avere nella tutela, nella valorizzazione e a volte, come in questo caso, nella rinascita del nostro straordinario patrimonio.

 

 

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LA LEGGENDA DELLE TESTE DI MORO di Francesca de Paolis numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 ed maurizio conte

 

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LA LEGGENDA DELLE TESTE DI MORO

anfore ed otri abbellite da fiori e limoni; piastrelle dipinte a mano con motivi fitomorfi. Sono questi i manufatti artigianali tipici della Sicilia: terra dove si addensano i profumi dei capperi e dei fichi, degli agrumi e dei giardini. Regione di mare e pescatori, di vini, anfiteatri ed altre bellezze antiche.

Fra tanti misteri esotici, c’è una storia di laggiù – di quell’isola così sfarzosamente mediterranea – che in pochi conoscono e che noi, per vezzo e smodata curiosità di arcani più che per scarno amore di verità, desideriamo raccontare.

A tutti è noto che Caltagirone, luogo in cui si affollarono i migliori artisti di ogni tempo, 

è capitale siciliana di ceramiche, esportate in tutto il mondo.


Catania e Taormina brulicano di botteghe allestite di terrecotte. E basta volgere lo sguardo alle finestre, all’ingresso delle case o dei ristoranti per ammirare e riconoscere il simbolo per eccellenza della ceramica siciliana: le Teste di Moro. 

 

Stravaganti vasi a forma di testa, dalle parvenze vagamente orientali, ai quali negli ultimi anni si sono ispirati anche i gioiellieri. Così, oggi capita di vedere, appesi ai lobi dei più barocchi, piccoli volti di ceramica, sempre in coppia. Una testa, dalla faccia nera, è di un arabo, con turbante, baffi e monili, l’altra raffigura una giovane normanna.

Non si tratta di un’iconografia inventata, frutto del fastoso virtuosismo 

di qualche artigiano, ma di una moda che ha attraversato i secoli, 

affondando le sue radici in una storia sicula del XII secolo.


Era il 1100, durante l’egemonia araba, quando una fanciulla del quartiere di Al Hàlisah di Palermo, oggi chiamato Kalsa, si innamorò di un Moro che era in città di passaggio, e ne fu ricambiata. 

 

Dopo qualche tempo di incontri amorosi, però, l’uomo rivelò all’amata che sarebbe presto dovuto ripartire, poiché in Oriente lo aspettavano moglie e figli. Folle di rabbia, la fanciulla, di tempra combattiva, come è d’uso fra le splendidamente vigorose e tenaci donne del Sud, uccise l’amante nottetempo. Gli tagliò la testa e la usò come vaso per piantarci del basilico che, per non si sa quale strana alchimia, crebbe più rigoglioso che mai. Tanto che il vicinato cominciò a commissionare vasi a forma di testa di moro, usandoli come ornamenti per i propri balconi. 

 

Di questa leggenda siciliana, nella quale si aggrovigliano passione e vendetta, tradimento e gelosia, sono sature dunque le famosissime Teste di Moro in ceramica dipinta prodotte in terra trinacria. Rese nelle più diverse varianti, ad assecondare il gusto di tutti coloro che, anche non conoscendone la storia, sono subito attratti dal loro eccentrico fascino. 

 

A distanza di duecento anni,

 

chi dimostrò di essere stato sedotto dalla storia delle Teste di Moro 

fu niente di meno che una delle tre corone della nostra letteratura: 

Giovanni Boccaccio


Nella ricchissima e variegata raccolta di novelle del Decameron (1349-1351), in particolare nella quinta storia, narrata da Filomena, si parla di una vicenda molto simile. Che certo il nostro novelliere trasse dalla Sicilia. 

La novella di Boccaccio racconta di una certa Lisabetta da Messina che amava in gran segreto Lorenzo, un giovane di Pisa, che non avrebbe potuto frequentare, poiché era di umili origini. Quando la famiglia lo scoprì, i fratelli di Lisabetta, tre ricchi mercanti, uccisero Lorenzo e lo seppellirono nelle campagne. 

La giovane affranta ebbe, tuttavia, una visione in sogno: il suo amato defunto le rivelò il luogo della propria sepoltura. 

 

Così Lisabetta si recò nel luogo indicato, dissotterrò Lorenzo, ne recise la testa e la portò a casa con sé, nascondendola in un vaso di basilico. Di giorno in giorno la giovane andava a piangere per il suo Lorenzo sopra a quel vaso. E fu così che le lacrime d’amore versate da Lisabetta annaffiarono il basilico, che divenne più florido e lussureggiante che mai. 

 

È certo che gli abitanti del posto sapranno offrire una dovizia di particolari in più sulla leggenda, ma prima di avventurarci in Sicilia per saperne di più, per intessere in Trinacria travagliate storie d’amore, o semplicemente per comprare delle splendide e ornamentali Teste di Moro, c’è un dettaglio da notare.

Il basilico ricorre sia nella storia originale delle Teste di Moro 

che nella versione di Boccaccio.


L’illustre scrittore toscano poteva scegliere un’altra pianta per la sua Lisabetta da Messina, invece sceglie la stessa. Il basilico, infatti, è una pianta fortemente simbolica, dal significato ambivalente. È ritenuto di buon auspicio per l’aldilà. Antichi egizi e greci lo usavano per le imbalsamature. Cinesi ed arabi ne conoscevano le proprietà medicinali, i crociati ne riempivano le navi per renderle profumate e nel Medioevo era utilizzato per guarire numerose ferite. Inoltre, in Occidente, al basilico, portatore di fertilità, è attribuito un significato erotico. Mentre sull’isola di Creta il basilico rappresenta una pianta nefasta. 

 

È un po’ come se nel basilico, rigoglioso ed olezzante, squisitamente mediterraneo, si celassero tutti quegli umori, sentimenti, accenti, venature di cui si compone la suggestiva storia che si cela dietro le Teste di Moro.

 

 

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LA PINACOTECA “GIUSEPPE DE NITTIS” A BARLETTA di Gianluca Anglana numero 30 dicembre 2023 e gennaio 2024 editore Maurizio Conte

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 LA PINACOTECA “GIUSEPPE DE NITTIS” a BARLETTA

 

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il fascino austero della cattedrale, la severità marziale del castello, l’aura di corrucciata enigmaticità del Colosso. E anche Palazzo della Marra, splendida dimora aristocratica ceduta al demanio dello Stato nel 1958: un edificio elegante, che oggi ospita la Pinacoteca De Nittis.   

 

Come si vedrà più avanti, questa collezione di quadri è uno dei più toccanti attestati d’amore che, per interposta persona, un artista abbia mai tributato alla propria terra natia. 

Già, perché Giuseppe De Nittis, tra i più originali protagonisti della pittura europea dell’800, nacque il 25 febbraio del 1846 proprio a Barletta. Qui trascorse l’infanzia e la prima adolescenza fino al 1860, quando si trasferì a Napoli. Perse il padre prematuramente: dovette così imparare a rendere conto al fratello maggiore Vincenzo, a discuterci, a negoziare con lui le prospettive del proprio futuro. La diffidenza del nuovo capofamiglia rispetto al «mestiere dei disperati» non fu evidentemente abbastanza coriacea ed impenetrabile da impedirgli di iscrivere Giuseppe all’Istituto di Belle Arti. Nondimeno l’indole inquieta e burrascosa dell’apprendista generò presto conflitti con i vertici dell’Accademia, da cui venne espulso come un imbrattatele privo di stoffa artistica.   

 

Eppure, gli anni napoletani furono determinanti nella formazione tecnica di De Nittis, che nel 1863 aderì, a Portici, alla cosiddetta “Scuola di Resina” e divenne sodale dei suoi fondatori: Marco De Gregorio e Federico Rossano. Privilegiò la pittura en plein air. Gli esordi in Campania consentirono a Giuseppe di scoprire e nutrire la sua passione per la natura e per i paesaggi, passione di cui si trova traccia nei suoi Notes et Souvenirs sotto forma di ammissione di debito e devozione sconfinata: 

«La natura, io le sono così vicino! L’amo! Quante gioie mi ha dato! Mi ha insegnato tutto: amore e generosità». Il trasporto, la brama di conoscere i misteri della terra, 

il desiderio tenace di capire, abbracciare, riprodurre le «belle nubi», le sfumature 

del cielo e persino i colori dell’aria:


tutto questo entrò nel suo bagaglio per il trasloco a Parigi, dove giunse per la prima volta nel 1867. Nella capitale francese, ancora sfavillante prima della disastrosa guerra contro la Prussia, conobbe Léontine Gruvelle, la futura moglie che ebbe grande parte nell’introdurlo negli ambienti culturali più innovativi; alcuni dei massimi interpreti dell’Impressionismo, come Édouard Manet o Edgar Degas con i quali strinse amicizia; soprattutto il mercante d’arte Adolphe Goupil che intuì subito il talento del giovane e sconosciuto italiano, al punto da legarlo a sé con un accordo di esclusiva stipulato nel 1872. 

 

Tramite l’esercizio, talora invadente, delle proprie pretese di controparte contrattuale, Goupil premeva sull’artista affinché, in una prima fase di produzione pittorica, rappresentasse panorami e soggetti del Mezzogiorno d’Italia: le atmosfere quasi esotiche, le tinte vivaci e i mondi rurali con biche e trulli solitari, così lontani dalla frenesia della ville lumière, catturavano l’attenzione e solleticavano la curiosità dei facoltosi compratori americani, che consideravano Parigi come la piazza principale per i loro acquisti d’arte. Quando invece la mondanità parigina e le frivolezze della Belle Époque si imposero come oggetto esse stesse di una promettente narrazione figurativa, Goupil sollecitò il Maestro al cambiamento. Fu così che, nel 1874, De Nittis realizzò una delle sue opere più celebri e accattivanti, 

Che freddo!, un gruppo di donne investite da un gelido vento invernale, 

che gli fruttò l’appellativo di “Peintre des Parisiennes” (pittore delle parigine) 

e che soprattutto fu venduto per la cifra astronomica di diecimila franchi


Quel guadagno da capogiro rese Goupil quasi pazzo di gioia e persuase De Nittis che era giunta l’ora di voltare le spalle al suo passato italiano per immergersi totalmente nel suo definitivo presente francese. A questa nuova fase produttiva appartengono molte delle tele esposte a Barletta. Tra le tante meritano di essere citate: Figura di donna (Léontine De Nittis) del 1880; Il salotto della principessa Mathilde del 1883, pregevolissimo racconto di un momento di festa dell’alta società; Colazione in giardino del 1884 e la Signora con gattino nero, del 1880, la quale colpisce per l’avvenenza e il sorriso negli occhi.   

 

Il pittore lavorò instancabilmente, anche per sostenere l’elevato tenore di vita cui aveva abituato la sua famiglia e se stesso. E viaggiò molto: tornò spesso in Italia, approdò a Londra che gli permise altre conoscenze ed inesplorati orizzonti di ricerca, rivide la sua Barletta che omaggiò il suo figlio illustre con una medaglia d’oro. Morì a Saint Germain en Laye, anche lui precocemente come suo padre, il 21 agosto del 1884.

La pinacoteca illustra chiaramente l’evoluzione artistica di Giuseppe De Nittis. 

Il percorso espositivo è ricchissimo di opere, frutto del generoso 

lascito testamentario disposto da Léontine, vedova, 

in favore della città che aveva dato i natali 

al suo Giuseppe:

portano la data del 3 Novembre 1912 le ultime volontà di colei alla quale oggi Barletta deve così tanto. Un’antologia di meraviglie che, seppure provvisoriamente, si è arricchita di un altro capolavoro del Maestro pugliese, forse il suo dipinto più commovente: La Strada da Napoli a Brindisi. Completato nel 1872, dopo un’impegnativa serie di disegni preparatori, fu esposto al Salon di Parigi di quello stesso anno. Recava il numero di serie 1177 della Maison di Adolphe Goupil, il quale ne era entusiasta e vi riponeva grandi aspettative di guadagno: rimase oltremodo deluso, come ammise furente in una lettera a Léontine, quando seppe che la piccola tela aveva ricevuto solo una menzione speciale anziché un premio vero e proprio. Ad ogni modo, l’11 ottobre 1872 riuscì a venderla, per milletrecento franchi, ad un magnate americano che, per l’acquisto, si servì di un prestanome per scongiurare incrementi di prezzo: fu così che la Strada da Napoli a Brindisi prese la via dell’America e, sempre restando dentro i confini statunitensi, passò di mano in mano fino ai primi anni Quaranta, quando fu acquisita dalla famiglia dell’attuale proprietario. È lui che ha acconsentito al prestito in favore del museo barlettano, dove oggi si può ammirare, anche se solo fino ai primi mesi del 2025. Dopo, tornerà oltreoceano, all’Indianapolis Museum, dove è custodito in comodato.   

 

Una strada bianca. Molto più che un tratturo: una di quelle arterie volute dai Borboni per connettere tra loro le città. Due contadini avanzano insieme, vestiti dei loro poveri stracci: procedono stanchi, forse si parlano, e sembra quasi di sentirli mormorare nella melodia di uno dei numerosi dialetti pugliesi. E poi una carrozza, trainata da due cavalli: dentro c’è qualcuno, se ne intuisce la gamba sinistra. I contadini ci vengono incontro. La carrozza no: pare allontanarsi, diretta verso Napoli, Brindisi, chissà. 

Eppure non siamo soli. Attorno a noi, la languida campagna pugliese, con le sue molteplici tonalità di verde e le sue voci selvagge, mandrie di bovini al pascolo. E poi un corso d’acqua, sarà l’Ofanto, il fiume di cui nessuno parla più se non Orazio nelle sue odi. E poi gli arbusti, i fiori, gli alberi e candide casette lontane: sembrano macchie di biacca, spruzzate qua e là. E poi c’è lui:

l’immenso cielo di Giuseppe De Nittis, la vastità di cui era deciso ad apprendere 

i segreti e le potenzialità cromatiche, il reame percorso dalle «belle nubi», 

la divinità eterna nella quale tutti noi, qui al Sud, presto o tardi, 

ci perdiamo incantati.


Stornare lo sguardo da un dipinto di De Nittis è come un risveglio. 

La sua arte è fatta d’incanto e di emozioni, seduzione e ipnosi, sogni e sentimento. È un’arte in moto perenne, come le nuvole in transito o la vita breve e inquieta di colui che la produsse. Un’arte fatta di momenti e di visioni, di opportunità da cogliere al volo, come il Maestro stesso ci rivela: «una immagine di quella dolce vita da sognatore al quale basta una distesa di cose bianche, una pioggia di neve o una pioggia di fiori. È la vita per la quale son nato: dipingere, ammirare, sognare».

 

 

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