MEDITERRANEI. ROSSELLINI TRA GRECIA E SPAGNA di Giusto Puri Purini – Numero 16 – Febbraio 2020

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MEDITERRANEI. ROSSELLINI  TRA GRECIA      E SPAGNA 

 

Nei suoi ultimi anni, di cui poco si è parlato, Rossellini era e si sentiva al centro di un vasto movimento storico umanista, costruito negli anni con una grande mole di lavoro e il cui unico comune denominatore erano il sapere e la conoscenza.

Su questo tasto aveva sempre battuto ed era convinto che una più ampia diffusione della conoscenza avrebbe lenito le ferite di un mondo lacerato dalla guerra e dalla diversità. 

 

La conoscenza, dunque, come ricerca di metodo, di nuova umanità. Essa, applicata al cinema ed alle sue arti collaterali, quali l’architettura, la scrittura, la fotografia, la pittura, la scienza, ecc., creava un insieme esplosivo,

un laboratorio vivente di arti intrecciate, dove anche la politica come gesto 

e comportamento veniva assorbita.


Questa specularità tra gesto ed opera ha in qualche modo fatto di Rossellini un trasgressivo – e quindi anche la sua grande lezione è stata in parte disattesa – almeno nell’attimo in cui entrava nelle case di tutti attraverso la Televisione,  creando onde d’urto, vedi India negli anni Cinquanta per la RAI, La presa del potere di Luigi XIV, l’esperienza di Houston, l’intervista ad Allende, nonché le lettere ai vari capi di Stato, coloro ai quali sentiva che più vicina fosse la sua intuizione sulla conoscenza, sulla sua evoluzione.

 

Ricordo una notte, in cui mi chiamò molto tardi,

 

io pensavo si trattasse di lavoro, di trucchi, stavo lavorando per lui ad un film che era iniziato con una telefonata: «Caro Giusto, non vorresti domani partire per la Spagna e realizzarmi Atene? Dobbiamo girare il Socrate…»”. E quindi mi aspettavo di tutto, e così fu.

Mi lesse la lettera che aveva scritto a Mao Zedong

 

e voleva la mia impressione. Era una lettera intensa, da un capo “cultura” ad un capo di Stato, piena di attenzione ai movimenti della rivoluzione culturale cinese ed a quelli giovanili europei… fuggire dalla violenza attraverso la chiave del sapere, del conoscere, da mettere al servizio dell’uomo. L’anelito era sincero e la fiducia nel mezzo, il cinema, era totale. Grande mago dei mass-media, fu il primo ad intuire e sperimentare con la propria opera che dietro il ruolo dalla regia ben altre corde di valori universali potessero essere toccate, diffuse e trasmesse.  

 

Questa scintilla, testimone d’una avvenuta e ormai sperimentata fusione tra ambiente e spazio, dove l’uomo, capite e create le regole, dedica il suo tempo all’evoluzione della società che lo circonda, era l’obiettivo non nascosto di Roberto Rossellini.

 

Dice Jean Louis Comolli, ex redattore dei Cahiers du Cinema e autore
del film L’ultima utopia, la televisione secondo Rossellini: 

 

“Il progetto (monumentale, più di 60 ore in previsione, realizzato in buona parte tra il 1963 ed il 1974) si rifà esplicitamente all’ambizione enciclopedica del Secolo dei Lumi.

Rossellini punta alla creazione di un nuovo umanesimo.

 

Dare agli uomini del proprio tempo, almeno a tutti coloro che vanno al cinema e/o guardano la televisione, gli strumenti necessari per impossessarsi della propria storia e, tramite la storia, del senso della propria vita; per ricominciare a pensare al mondo e alla propria condizione, per ritrovare la capacità di immaginare e il desiderio di conoscere; per prendere le distanze (questa, fra le righe, la dimensione politica del progetto) dall’alienazione, prodotta dal divertimento e dallo spettacolo dominato dal consumo e dalla pubblicità”. Non a caso, la sua ricerca storico-umanistica – iniziata con

 

La presa di potere di Luigi XIV (1964), film che sarà determinante

 

nella sua scelta futura – metterà in luce i momenti di trasformazione della storia, rileggendoli non solo come frutto di scontri e battaglie, ma evidenziando le condizioni economiche, sociali, religiose ed ambientali nelle quali gli esseri umani si sono evoluti. Un grande termometro, quindi, per rilevare ad ogni passo la temperatura della storia!  

 

Prosegue (o inizia) questa ricerca con La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza (più di 10 puntate) nel 1966/68, poi gli Atti degli Apostoli, quindi Socrate, Blaise Pascal, L’età di Cosimo de’ Medici, ecc.

Noi, con Gepy e Maurizio Mariani (Gepy era figlio di Marcella Mariani, sorella 

di Roberto), dovevamo quindi disegnare la “Storia” attraverso i famosi trucchi. 

Che progetto affascinante! 

 

Iniziai con gli Atti nel 1968: fui scaraventato da Gepy sul set tra i monti della Tolfa, dietro Civitavecchia. Bisognava girare l’entrata a Gerusalemme di un gruppo di cavalieri romani, attraverso la porta Ovest della città… Ma non vi era città, solo un grande modello di Gerusalemme in scala 1:500 dietro la macchina da presa. Davanti ad essa un grande cristallo inserito in una cornice di 6 metri per 2, sollevato da terra da due colonne laterali in legno, camuffate da “dorico”. Una parte del cristallo era specchiata e vi si rifletteva il plastico retrostante, cosicché la macchina da presa, inquadrandolo, permetteva alla città di incollarsi con il paesaggio frontale. Una delle Porte di Gerusalemme, non avevo lo specchio, e corrispondeva a trecento metri di distanza nel fondo valle, ad un portale ricostruito, che i cavalieri romani attraversavano al galoppo.

 

Avvicinai l’occhio alla macchina da presa, l’insieme era perfetto! 

Ero entrato nel mondo dei trucchi! E Roberto Rossellini era un Mago!

 

Oggi, con il digitale, i  rendering, l’elettronica, il sistema dei trucchi di Roberto Rossellini sembra anacronistico, ma allora questo artigianato tecnologico dava un contributo determinante, tecnico ed (altamente) economico, per sviluppare un cinema della “conoscenza” e del sapere, che oggi purtroppo non esiste più.  

 

Fu con questo Maestro che applicai all’architettura il metodo di rilettura della storia; non mi bastava più il Bauhaus, il movimento moderno, ma volevo risvegliare lo spirito critico che nasceva da questa ricerca, capire quali erano i fili che tenevano o sostenevano l’uomo, dai tempi del mito fino all’oggi, indagare su ciò che andava perduto, sradicare le false certezze,

cercare una via “italiana”, mediterranea del sapere, lontana 

dalle “colonizzazioni” culturali dei tanti movimenti moderni e contemporanei, 

non per disdegnarli, ma per recepire anche gli urli di dolore che provenivano 

dalla gabbia psichica, e costruttiva, che il mondo occidentale si era in parte creato.

Qualche mese dopo, per la Lotta, dovendo girare il funerale del Faraone e tutta la cerimonia, che si svolgeva tra il tempio a valle e la piramide (con il corteo che ne valicava la soglia), proposi, per risparmiare sul budget, le cave di sabbia della Magliana, più vicine a Roma delle dune dei deserti tunisini.

Rossellini ne fu entusiasta e realizzammo forse uno dei trucchi 

più belli e più “metafisici”. 

 

A duecento metri dalla macchina da presa venne creato un piano inclinato, appoggiato ad una montagna di sabbia, che serviva a far entrare nella piramide il corteo del faraone. In basso venne disposto il tempio a valle (in grandezza naturale), poi il cristallo, la macchina da presa e, dietro, il plastico della grande Piramide di Cheope, con i tre colori del rivestimento, in marmi e pietre: porfido rosso la base, calcare la parte intermedia e marmo nero per la cuspide! 

Oltre ai disegni, alle misurazioni, alle varie costruzioni da realizzare, bisognava, sul cristallo, traguardando attraverso l’obiettivo, scontornare con un pastello la proiezione del modello retrostante, perché è quello che andava specchiato… 

Imparai, grazie a Gianni Bonicelli, giovane collaboratore di Roberto ed ex studente dell’Accademia del Cinema, a miscelare le taniche di nitro con altri prodotti, per ottenere gli specchi.

Nessuna imperfezione era permessa, nessuna sbavatura.

 

Spesso si lavorava di notte ed eravamo in ansia, perché gli specchi dovevano essere pronti il giorno dopo, con centinaia di comparse in arrivo e la grande scena da girare… da brivido!  

 

Quando, nel mese di marzo del 2005, Gianni Bonicelli mi ha chiamato per parlarmi del lavoro di Jean Louis Comolli, e per chiedermi di riprendere il mio ruolo di architetto-scenografo e “uomo” di trucchi in un’intervista, ho risposto con entusiasmo. 

Mi sono soffermato con loro soprattutto sul Socrate.

Eravamo nel 1970 e tutto incominciò con una telefonata notturna 

di Roberto Rossellini, in cui mi chiese se ero disposto 

ad andare in Spagna per cercargli Atene.

 

Follie delle coproduzioni, ma affascinato dal senso metafisico, accettai con un entusiasmo, e ci mettemmo alla caccia di un luogo che evocasse con realismo quell’Idealità.

Lo trovammo dopo due settimane, a 70 km a nord di Madrid,

 

in mezzo alle montagne: Patones de Arriba! 

Il grande borgo di pietra era abbandonato: ulivi, rocce, colline, cieli blu, sembrava la Grecia… ed era dall’altro lato del Mediterraneo, culla della nostra storia e area di forti similitudini morfologiche.  

Cercai il punto “X”, quello del totale, con l’Agorà, la piazza da costruire in primo piano, sullo sfondo il Borgo di pietra e sopra, sulla sinistra, l’Acropoli, il “trucco”. 

Dovetti con dolore sradicare degli ulivi, scavare e pareggiare 2 gradoni della montagna.

Per allargare maggiormente lo spazio ne aggiunsi un terzo di almeno 300 mq, 

questa volta sospeso nel vuoto, ancorato a tubi innocenti. 

Avevo così finalmente realizzato la piazza, 

era l’Agorà di Atene

 

(Rossellini mi disse poi, confidenzialmente, che si era trovato a girare in un campo che gli stava stretto! Ma, di realtà virtù). 

La collaborazione con la TVE (Televisión Española) fu ottima, lo scenografo Bernardo Ballester, divertito e spavaldo, non arretrava di fronte a nessuna delle spericolatezze che l’allestimento del set richiedeva.  

 

Quel mondo aveva dei rituali stimolanti. Si formava, soprattutto nel cinema d’équipe di Rossellini, un gruppo di persone molto affiatate tra di loro. I più erano in squadra da tanto tempo ed era ammirevole vedere il loro coordinamento, coadiuvare le intuizioni del regista, i suoi desideri di “inventare” ed improvvisare le scene sul momento, come un work in progress.

 

La sceneggiatura definitiva veniva scritta con La Rochefoucauld solo la notte prima.


C’era il figlio Renzo, regista e produttore, metronomo di Roberto, c’era la mamma di Renzo, la costumista Marcellina De Marchis, l’operatore Mario Fioretti, il Direttore di Produzione Francesco Orefici, il musicista e compositore Mario Nascimbene e tanti altri, attori, macchinisti, una vera corte dei miracoli, votata ad evitare sprechi, coltivare risparmi, ma “eseguire” in grande. Questo rapporto dinamico dell’équipe è stato uno degli insegnamenti essenziali avuti dal Cinema. 

Un DNA che si rivelerà per me fondamentale nel successivo passaggio verso l’Architettura “costruita”, nascosto nei meandri segreti delle mie future realizzazioni.

 

Il cinema presta all’Architettura la sua velocità di esecuzione, affronta lo spazio 

in modo creativo e spavaldo, calibra i vuoti ed i pieni, i campi ed i controcampi

 

e l’Architetto, conoscendo le dinamiche che sovraintendono il realizzarsi dell’opera, deve avvolgere di contenuti la macchina da presa. 

Mentre nel set di Patones de Arriba la natura circostante, le costruzioni, la storia, i templi con i loro colonnati, il Thòlos,

gli edifici in pietra esistenti, resi multicolori, dai toni pastello, i fregi sgargianti 

dei timpani si fondevano tra di loro, misi l’occhio nell’obiettivo: 

in alto nell’inquadratura il modello dell’Acropoli, tutto di nuovo 

si ricompose, come per incanto,

 

ed il giorno dopo Socrate con i suoi allievi fluttuava, nel centro dell’Agorà, in un luogo X del Mediterraneo. E la sfida di Roberto Rossellini continuava.  

 

 

 

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Photo credit direttore della fotografia Mario Moretti

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RENZO ARBORE E IL SUO SUD PREDILETTO di Gaia Bay Rossi – Numero 15 – Dicembre 2019

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 RENZO ARBORE e il suo sud prediletto 

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nella sua bella casa romana, immersa nel verde, con la vista sulla città e naturalmente piena di oggetti dallo svariato grado di utilità, e poi libri, vinili, fotografie, il tutto condito da un mix di pop e colore. 

Renzo Arbore è un vero, completo, poliedrico artista, termine che, oggi così abusato, appare come una deminutio capitis per un personaggio come lui. E nello stesso tempo è un gran signore, un gentiluomo del Sud, colto, sensibile, aggraziato ed elegante anche nel pensiero e nelle parole, che riporto integralmente così come da lui espresse.

Myrrha, come ha letto, si dedica a dare rilievo a tutto ciò che di bello, 

importante e meritevole di divulgazione viene prodotto nel Mezzogiorno d’Italia. 

In primo luogo lo chiedo a lei, perché è lei stesso un’eccellenza del Sud: 

c’è qualcosa che vorrebbe sottolineare del nostro Sud 

per iniziare questa intervista?  


Beh, se vai sfruculiando un artista, non può non dirti che il Sud – lo dico senza nessun campanilismo – dal punto di vista artistico è forse più produttivo del Nord, ma non solo in Italia. Nel Sud del mondo, aiutati dal sole, c’è una vitalità artistica forse più ampia, più abbondante, non voglio dire migliore, di tutta la restante parte. Pensiamo alla cultura napoletana, alla cultura siciliana, e poi da tutti i punti di vista, anche musicale, umanistico, giuridico, il Sud è veramente un’eccellenza italiana che va fatta conoscere. Tutto questo riconoscendo che il Nord è sicuramente più produttivo dal punto di vista economico e che è molto ospitale nei nostri confronti, perché noi del Sud dobbiamo andare al Nord e far sposare la nostra creatività con l’operosità del Nord. Tutto questo naturalmente ricordando che la Capitale d’Italia è al centro e che ci sono due isole bellissime che sono la Sicilia e la Sardegna.

Con l’Orchestra Italiana ha girato sud e nord non solo dell’Italia ma del mondo.  

 

Devo dire che io ho veramente girato il mondo con la mia Orchestra Italiana, che da 28 anni è diventata l’orchestra stabile più longeva nella storia della musica, e sottolineo “orchestra stabile”. Più lunga, nel jazz, di quella di Duke Ellington che è durata quindici anni. E io con ‘sti napoletani duriamo da 28 anni e siamo andati per il mondo con le canzoni napoletane arrangiate da me.

 

Come Caravaggio, che non era di Napoli ma ha lavorato a lungo a Napoli 

ed è stato determinante per la formazione della pittura napoletana, 

così lei con l’Orchestra Italiana ha in qualche modo consolidato, 

accresciuto e creato una nuova memoria della canzone napoletana 

in Italia e nel mondo.  

 

Ti ringrazio che me lo riconosci, perché c’era un grande equivoco in cui erano caduti persino gli artisti napoletani. Gli artisti napoletani che avevano solo due maître à penser, vendevano la Napoli antichissima popolare e snobbavano la canzone napoletana borghese. C’era un’antipatia da parte di questi due personaggi che non nomino per le canzoni napoletane borghesi, perché queste canzoni bellissime, tranne in pochissimi casi, uno o due, sono state scritte tutte da borghesi, intellettuali finissimi, professori, dirigenti, avvocati e cantavano la Napoli popolare ma erano borghesi, e questo per loro era l’handicap. Così gli artisti napoletani, suggestionati da questi maître à penser così autorevoli, hanno creduto che queste canzoni fossero canzoni del passato. È come credere che la Traviata o la Toccata e fuga di Bach siano pezzi del passato. Non si accorgevano che queste canzoni hanno delle melodie, nelle quali noi italiani, e in particolar modo i napoletani, eccelliamo, che sono le più belle del mondo e le poesie, perché non le chiamiamo soltanto parole, le poesie più belle del mondo. Perché se uno prende Salvatore Di Giacomo, e quindi i grandissimi, come anche Ernesto Murolo, hanno scritto delle liriche meravigliose, sposate a una musica meravigliosa. Io non esito a dire, da colui che ha conosciuto e pratica tutta la musica del mondo, che le canzoni eterne più belle del mondo sono le canzoni napoletane. Poi ci sono le canzoni americane degli anni Trenta, ma sono canzoni molto più commerciali, molto meno profonde, sempre bellissime, Gershwin, Cole Porter; poi ci sono le canzoni brasiliane degli anni Cinquanta, ma quelle popolari forse più importanti dopo le canzoni napoletane sono le canzoni messicane, che tutti ritengono siano cubane o argentine, e invece no, sono messicane. Lì c’è un patrimonio bellissimo, ignorato dalla cultura mondiale, non si sa perché. Come lirica e come melodia le canzoni messicane sono fortissime, però quelle napoletane sono molte, ma molte, ma molte di più.

Le canzoni napoletane parlano spesso di amori tormentati o sofferti. 

 

Sì, è lo stesso soggetto delle canzoni messicane, anche quelle napoletane parlano di amori tormentati, gelosie, morti.

 

Quindi è vero quello che Einstein ha scritto alla figlia e cioè che l’amore
è “la più invisibile e potente delle forze, […] la quintessenza della vita”. 

 

Certo. Queste canzoni parlano d’amore, perché l’amore perbacco è quello lì, meraviglioso, che poi ha mille e mille sentieri. Perché io stesso mi meraviglio, ascoltando le canzoni napoletane antiche, ma non solo le più famose, di come sono andati a scovare certi tic di innamorati, certi momenti, certi vizi. Io ho fatto un film che si chiama Che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene, anche questa è un’intuizione bellissima. Lei lo sta lasciando e lui si lamenta e dice: “Perché mi hai portato in questo posto magico, meraviglioso, degli innamorati, se non mi vuoi più bene”. Ecco, nelle canzoni napoletane ci sono mille di queste idee, anzi di più. Questa è la bellezza di queste canzoni del Sud che adesso sto tentando di far apprezzare dall’Unesco, sperando di farle riconoscere come Patrimonio dell’Umanità. È stata riconosciuta la pizza, che è una cosa straordinaria, spero anche nel valore aggiunto delle canzoni napoletane che sono cantate anche in Cina o in Corea dai loro tenori e soprani, peraltro con accenti meravigliosi. Dovunque sono andato in Cina, ho sempre trovato delle persone a cui ho fatto cantare ‘O sole mio e non puoi immaginare con quanta dedizione ed entusiasmo. Ma poi non solo in Estremo Oriente, anche arabi, tunisini, li ho visti cantare ‘O sole mio. Questa è, non la canzone napoletana più famosa del mondo, ma proprio la canzone più famosa al mondo. Dopo viene Summer Time, e dopo Let it be.

Il suo grande amico Luciano De Crescenzo, da me intervistato qualche anno fa 

per Myrrha, mi raccontò che ‘O sole mio non è stata scritta a Napoli, 

come tutti pensano, ma a Odessa. E questo spiega il perché 

di questa ode al sole, mentre se fosse stata scritta a Napoli, 

dove il sole c’è sempre, non si spiegherebbe. 

 

Sì, ma te lo dico da foggiano, che ha vissuto sette anni a Napoli e ci va spesso: a Napoli loro non capiscono che sono baciati dal sole in quella maniera straordinaria. Napoli è esposta completamente a sud, quindi dal porto, da Castellammare fino al monte di Procida è esposta a sud, così come anche Amalfi e Positano. Quindi il sole quando c’è, quasi sempre, bacia quella città in maniera totale e straordinaria.

A Napoli anche lei è rimasto incantato dal Cristo velato? 

 

È bellissimo. Io ci andavo quando ancora non lo conosceva nessuno. Pensa che mi portò uno studente di medicina. Mi disse: “Devo andare a vedere i due scheletri” (le macchine anatomiche esposte nella cavea sotterranea ndr). Perché in quelli il principe di Sansevero aveva fermato tutto l’impianto circolatorio, non si sa come. Aveva iniettato qualcosa che avrebbe dovuto fermare il sangue e invece era rimasto tutto, c’erano persino i capillari.  Comunque, a Napoli ci sono dei capolavori. Come dice Sgarbi, Napoli è una città che è già cultura. È la verità, Napoli con tutte le dominazioni, con quello che ha avuto, la Napoli sotterranea, è una città che trasuda cultura da tutte le parti e la trasmette. Poi ci sono altre cose meravigliose che i napoletani non sanno e che io individuo da pugliese. A Napoli, siccome non hanno molto il senso pratico come noi pugliesi, o come i romani, i milanesi ecc., fanno anche delle meravigliose cose superflue, inutili. E questo è il segreto della creatività! Perché uno dice: “Io sono appassionato di piante e voglio fare un innesto, voglio fare una cosa particolare”, e da quella semplice azione magari salta fuori una scoperta eccezionale. Non hanno quella cosa tipicamente italiana del “a che serve? Come ci guadagniamo? A chi lo vendiamo?”, loro non partono da questo criterio, ma dalla passione. Ho la passione di dipingere Napoli capovolta? Non venderò mai un quadro, ma lo faccio perché mi piace. Questo è molto singolare e bellissimo.  Ma finiamo di parlare di Napoli se no poi si incavolano i miei amici pugliesi. Anzi, a questo proposito ti racconto una cosa che abbiamo rilevato con il mio amico Lino Banfi, pugliese come me. Noi naturalmente, essendo pugliesi ma innamorati della cultura napoletana come tutti i pugliesi, abbiamo notato una cosa. Banfi, che è curioso, ha detto: “Sai perché i napoletani ridono più di noi? Perché noi pugliesi un po’ invidiamo quelli che stanno meglio di noi”. Noi diciamo: “Oh, guarda che bella moglie che ha il mio amico”, e la guardiamo con invidia, o anche quello che ha la macchina più grande, quello che ha successo ecc. Mentre i napoletani indulgono di più al sorriso perché guardano quelli che stanno peggio di loro. Il napoletano dice: “Meno male che non dormo nell’automobile come questo poveretto”. Hanno questo atteggiamento di essere contenti del loro stato e sono abbastanza soddisfatti rispetto a quelli che stanno peggio di loro. Hanno sempre avuto a che fare con la miseria, con le disgrazie, con le dominazioni, quindi hanno un atteggiamento che la rende una città sorridente, come dico io.

 

Prima di Napoli c’è stata Foggia. 

 

Sì, ho parlato bene di Napoli ma voglio parlare bene anche della mia fucina, Foggia, “reale e preferita dimora di Federico II”. Noi avevamo una proprietà che abbiamo venduto nel dopoguerra, che era proprio la tenuta di caccia di Federico II, in località Cervaro. È una città che non ha grandi vestigia dell’antichità, ma la provincia rispetto alla grande città ti permette di stare per strada e di conoscere tutti: il figlio del ricco, quello che scappa di casa, il delinquente, il poliziotto, il venditore di nocelle, il corteggiatore, la ragazza generosa, tutta una fauna umana. Io poi ho ancora la mia casa in centro, scendo e incontro dei passanti che sono già miei amici, che sono quelli del tennis o quelli con cui ho studiato, mi accodo e si fa la famosa passeggiata per il corso parlando di cose inutili. Che però ti educano, perché incontri quello che ti racconta come si smista la corrispondenza nei vagoni postali delle ferrovie e quell’altro che invece faceva il pilota degli aeroporti militari ad Amendola, il più grande aeroporto militare d’Italia. Insomma, tutte conversazioni interessanti e anche a volte totalmente inutili come quelle del bar notturno, che poi io ho messo anche in Quelli della Notte: “È meglio il mare o la montagna?” Quelle conversazionacce inutili… Così in quegli anni ho conosciuto un campionario umano molto, molto vasto. Dovevo, per sconfiggere la noia, organizzare delle cose culturali, ma anche degli scherzi notturni, quindi una maniera goliardica di passare la sera, perché senza le ragazze che andavano a casa alle otto noi ci ritrovavamo che non sapevamo che fare. Quindi la provincia è diventata una palestra e poi c’era il carattere di noi pugliesi, che abbiamo la grande voglia di sprovincializzarci. Sai, quello che si dice a Bari, “se Parigi avesse lu mare sarebbe una piccola Bari”, è in realtà una spia popolare della nostra voglia di sprovincializzarci. Abbiamo un po’ il complesso di appartenere al profondo Sud, anche se non è poi così profondo come la Sicilia.

Come diceva saggiamente Luciano De Crescenzo, 

“si è sempre meridionali di qualcuno”. 

 

Già. Il pregiudizio che si ha sul Sud in generale è inutile e dannoso. Tu di una persona puoi vederne i difetti e non calcolarne i pregi. Persino di Leonardo da Vinci puoi dire male, puoi dire che non portava a termine le cose, che era vanitoso perché si è autoritratto ecc.

Come vi siete conosciuti e riconosciuti (tra persone fuori del comune ndr

con Luciano De Crescenzo? 

 

Noi ci siamo conosciuti perché avevamo la stessa fidanzatina. Io stavo a Sorrento e avevo ‘sta fidanzatina, Luciano stava a Napoli e aveva ‘sta fidanzatina. La mia fidanzatina diceva: “Vado a Napoli perché sono amica di Luciano De Crescenzo, ingegnere”. Io le chiedevo: “Ma siete fidanzati?” “No”. E la stessa cosa diceva a Luciano su di me. Poi in seguito ci siamo conosciuti, ci siamo confrontati e da lì siamo diventati amici. Naturalmente, siccome era una fidanzatina occasionale estiva, è diventata la prima risata con Luciano, e sul piano della risata ci siamo intesi subito. Noi avevamo una matrice goliardica tutti e due. La goliardia che era ed è considerata una cosa deteriore, perché naturalmente c’è anche una goliardia deteriore, però era una fucina di risate da parte di intellettuali o di futuri intellettuali, che appartenevano tutti all’Unione Goliardica Italiana, pensa a Eugenio Scalfari, Luciano De Crescenzo, Bettino Craxi, Pannella, erano tutti UGI, e tanti altri intellettuali. Erano i ragazzi svegli di quella generazione, prima della mia, che stando all’università aderivano a questo movimento goliardico, per cui mescolavano il basso con l’alto, le leggi della chimica con le parolacce o la religione ecc., ma la matrice era quella ridanciana della goliardia. Questa era la matrice anche per me e Luciano. Poi coincidevano le passioni per la cultura napoletana e per la canzone napoletana che avevo praticato e bazzicato nei sette anni della mia permanenza napoletana. Perché io mi sono laureato in giurisprudenza, ma invece di metterci quattro anni ce ne ho messi sette, perché suonavo anche, frequentavo gli americani, dirigevo il circolo napoletano del jazz, frequentavo Roberto Murolo, Sergio Bruni, tutti i cantanti napoletani, e in più gli studi. Questa cultura con Luciano l’abbiamo condivisa, lui era di una generazione precedente, generazione straordinaria, perché era quella di Raffaele La Capria, di Antonio Ghirelli, di Giorgio Napolitano, di Franco Rosi, grande regista, di Domenico Rea, di Giovanni Ansaldo direttore del “Mattino”. C’era una cultura napoletana meravigliosa, tradizionale, c’era un grande rispetto tra il popolo e la cultura borghese napoletana, che poi è stata cancellata ed equivocata col laurismo. Con Luciano siamo stati amici fino alla fine. È stato sottovalutato dalla critica snob dei “non venditori di libri”, perché Luciano li vendeva. Ha venduto più di venti milioni di libri in tutto il mondo, è lo scrittore che ha venduto più libri al mondo, più di Umberto Eco. E comunque le vendite sono una cosa e il valore un’altra, e Luciano è sicuramente da approfondire. Ora sto rileggendo i suoi libri e ci sono tantissime idee e pensieri profondissimi.

Cosa sta preparando adesso?  

 

Adesso sto preparando due revival, uno con Banfi e Mirabella, un programma pugliese, e poi un programma napoletano ricordando i cento anni dalla nascita di Renato Carosone che ricorrono quest’anno. Speriamo di farlo con Stefano Bollani che è un grandissimo pianista, un’eccellenza italiana anche lui.  Poi mi sto dedicando molto al mio canale: renzoarborechannel.tv dove h24 vengono passate sia cose mie, sia programmi che mi piacciono, che condivido o che sono nelle mie corde: Edith Piaf, Yves Montand, Aretha Franklin, io praticamente faccio il video jockey, mi diverto a mettere dei video che poi servono sia per i millennials, che non li conoscono, ma anche per i nostalgici, Aldo Fabrizi, Lulù, Sandra e Raimondo. Questa è la cosa che più mi affascina, fare il video jockey.

 

Prima mi raccontava una cosa interessantissima sulle origini del jazz. 

 

Sì, ho fatto con Riccardo Di Blasi un programma di un’ora e mezzo per Rai 2 sulle origini siciliane del jazz che vengono sottaciute dagli americani. In realtà, il primo disco nella storia del jazz è stato scritto e composto da un siciliano, Nick La Rocca, trombettista di genitori siciliani, padre di Salaparuta e madre di Poggioreale (entrambe in provincia di Trapani ndr) che, con alcuni altri siciliani trapiantati a New Orleans, fondarono l’Original Dixieland Jass Band (poi trasformato in Jazz) che servì di ispirazione perfino ad Armstrong che lo dice nella sua biografia. Nick La Rocca ha fatto il primo disco nella storia del jazz che si chiama Livery Stable Blues e ha fatto un celeberrimo brano che si chiama Tiger Rag, uno standard che ha fatto il giro del mondo. Ma la verità è che il contributo dei siciliani, così come quello dei neri, dei francesi e dei canadesi che stavano a New Orleans in quel periodo è stato determinante per l’invenzione della musica jazz. A New Orleans c’è un museo italo-americano e c’è anche la più antica gastronomia italiana dove si va a mangiare gli anelletti e le cose siciliane. A New Orleans nel 1835 cominciarono ad arrivare gli italiani perché il governo americano, che aveva comprato la Louisiana dalla Francia, offriva dei terreni gratis a chi era disposto a coltivarli e quindi da Palermo, ma soprattutto dalla zona di Salaparuta, si trasferirono in tanti. Quindi lì c’è una cultura antichissima, perché non erano neanche emigranti, erano coloni. Grazie a questa trasmissione sulle origini siciliane del jazz sono diventato palermitano ad honorem!

Una chicca meridionale per chiudere? 

 

Voglio ricordare che l’America ha avuto i primi italiani amati dagli americani, come Rodolfo Valentino, un attore meraviglioso, che era pugliese di Castellaneta, e un altro pugliese di Foggia, anzi di Cerignola, che è amatissimo dagli americani, che lo fecero sindaco di New York e gli intestarono anche un aeroporto, ora il secondo a New York, che era Fiorello La Guardia. Spero sempre che qualcuno possa decidere di fare una fiction, perché è una storia bellissima, su questo personaggio che fu tanto amato dagli americani.

 

Bene caro Renzo Arbore, ci aspettiamo tante altre belle sorprese da parte sua! 

 

 

Azzurra Primavera
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IL MAESTRO DEI MAESTRI EDOARDO SCARPETTA di Fernando Popoli – Numero 15 – Dicembre 2019

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IL MAESTRO DEI MAESTRI EDOARDO SCARPETTA

 

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Da piccolo, preso da un infrenabile desiderio infantile prodomo del suo destino,

costruì un teatrino di legno dove si divertiva a far recitare dei pupi di stoffa 

con la sorellina Gilda, unica spettatrice.


All’età di nove anni il padre, funzionario statale, lo portò al celebre teatro San Carlino dove il grande Antonio Petito, famoso Pulcinella, recitava. La visione di quella maschera brutta, con rughe sulla fronte e sguardo inquietante gli rimase impressa e segnò la sua scelta, ammaliandolo completamente.  

 

All’età di quattordici anni fu scritturato dall’impresario Salvatore Mormone e debuttò al San Carlino nella commedia dialettale Cuntiente e guaje dove recitava in una piccola parte con poche battute. Quello fu l’inizio di una grande ascesa, il pubblico cominciò a notarlo, a seguirlo, ad apprezzare il suo talento dirompente e comunicativo, a punto tale che il grande

 

Antonio Petito, che pure in precedenza non l’aveva preso in considerazione, 

gli affidò la parte di Felice Sciosciammocca

 

(alla lettera: soffia in bocca), che faceva da spalla a Pulcinella, un personaggio divertente, ingenuo e svampito che è rimasto nel teatro napoletano per decenni.  

Petito scrisse alcune commedie su misura per lui Feliciello mariuolo de’ na pizza e Felice Sciosciammocca creduto guaglione ‘e n’anno” ottenendo un grande successo di pubblico che prese in simpatia definitivamente questo giovane attore. 

Scarpetta passò da una compagnia all’altra mietendo sempre unanimi consensi, quando c’era lui i teatri erano pieni.   


Intanto Petito era morto e il San Carlino versava in condizioni critiche, quasi disperate, fu allora che l’attore decise di rilevarlo; lo mise completamente a nuovo e iniziò lì una nuova stagione teatrale aggiornando il repertorio e modificando la sua recitazione ispirandosi ai vaudevilles francesi, rielaborandoli e reinventandoli sempre con il principio che il pubblico voleva ridere, ridere, ridere. 

In breve calcò i palcoscenici di tutti i teatri d’Italia consolidando la sua fama 

e arricchendosi; scrisse altre commedie, tra queste quella più famosa, 

tramandata ai suoi discendenti e a tanti altri attori napoletani: 

Miseria e Nobiltà.


La storia di un giovane nobile innamorato di una ragazza figlia di un cuoco arricchito, amore ostacolato per motivi di classe sociale dai genitori, dove Sosciammocca e un altro spiantato si fingono parenti nobili della ragazza per far superare l’ostacolo, con tutta una serie di situazioni comiche poiché ad un certo punto entrano in scena i veri nobili di quella casata.  

 

Miseria e Nobiltà ebbe un grande successo di pubblico e di critica insieme 

ad altre due commedie di Scarpetta: Nu turco napolitano e O miedeco d’e pazze.


Queste tre commedie furono in seguito portate sullo schermo dal grande Totòche fece di Sciosciammocca una memorabile interpretazione ancora oggi godibilissima da spettatori di tutte le età. Attore e commediografo consacrato, Scarpetta ebbe una vita sentimentale travagliata e

si unì a più donne dalle quali ebbe figli legittimi e figli illegittimi come i tre fratelli 

De Filippo che raccolsero da lui il talento e il fuoco sacro dell’arte teatrale

 

segnando in seguito una pietra miliare nella recitazione del teatro di tutti i tempi.
Nel 1889 ottenne un memorabile successo con 
Na santarella al TeatroSannazzaro di via Chiaia. Tutta Napoli, elegante e mondana, accorse al piccolo teatro, e con gli incassi della commedia l’attore si fece costruire una villa sulla collina del Vomero chiamata Villa la Santarella, dove sulla facciata principale fece scrivere la celebre frase «Qui rido io!», ancora oggi viva nella memoria dei napoletani.  

Ebbe anche una lite giudiziaria per i diritti di una commedia, La figlia di Iorio,con il Vate, Gabriele D’Annunzio, dalla quale però uscì vincitore ma anche amareggiato per l’insuccesso che ebbe la rappresentazione.

Nel 1909 si ritirò dalle scene, stanco e deluso, lasciò in eredità al figlio Vincenzo il personaggio di felice Sciosciammocca e scrisse un saggio sul commediografo Raffaele Viviani. 


Morì nel 1925 all’età di 72 anni e il suo funerale a Napoli fu imponente. Oggi riposa in pace nelle cappelle delle famiglie De Filippo, Scarpetta e Viviani al cimitero di Santa Maria del Pianto a Napoli.  

La sua arte è rimasta ed è spesso ripresa da altri attori napoletani, la sua dinastia si è estinta, dei suoi discendenti non è rimasto più nessuno ma il ricordo di lui è vivo nella memoria di tutti gli amanti del teatro. 

 

il maestro dei maestri del teatro popolare napoletano, il capostipite di una grande famiglia di attori ormai del tutto estinta, padre di Eduardo, Titina e Peppino De Filippo, di Vincenzo Scarpetta, di Eduardo Scarpetta in arte Passarelli, di Pasquale De filippo, e nonno di Luca De Filippo e Mario Scarpetta. 

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EDUARDO, TITINA E PEPPINO

 

CODEX… PATRIMONIO DELL’UMANITA’ di Cecilia Perri – Numero 15 – Dicembre 2019

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CODEX…  PATRIMONIO DELL’UMANITA’ 

 

è un evangeliario greco miniato, uno dei più preziosi esistenti al mondo, che contiene l’intero vangelo di Matteo, quasi tutto quello di Marco, del quale mancano solo i versetti 15-20, e una parte della lettera di Eusebio a Carpiano sulla concordanza dei vangeli stessi.

È costituito da 188 fogli, pari a 376 pagine, di finissima pergamena purpurea e in origine doveva certamente comprendere tutti e quattro i vangeli, in uno o due volumi. La scrittura utilizzata è la maiuscola biblica, il testo è distribuito su due colonne di venti righe ciascuna, di cui le prima tre che costituiscono l’incipit dei vangeli sono scritte con caratteri aurei, mentre le altre in argento.
Il Codex è inoltre

 

arricchito da quindici miniature considerate un assoluto capolavoro dell’arte bizantina

 

Probabilmente le miniature oggi conservate non sono tutte quelle che ornavano e illustravano l’evangelario, ma rappresentano certamente un folto nucleo che comprende rievocazione dei fatti neotestamentari, concepiti allo scopo di servire la liturgia della chiesa greca. Il ciclo miniato di Rossano è considerato più di una narrazione illustrata della vita di Cristo; gli studiosi hanno infatti evidenziato il rapporto con le letture della settimana santa nella chiesa bizantina, tradizione ancora in uso in molte comunità della Calabria, sottolineando come le composizioni attingano spesso da più vangeli contemporaneamente.   

 

Le scene raffigurate in sequenza sono: la resurrezione di Lazzaro; l’ingresso di Gesù in Gerusalemme; la cacciata dei mercanti dal Tempio; la parabola delle dieci Vergini; l’ultima cena e la lavanda dei piedi; la comunione degli apostoli; Cristo nel Getsemani; il frontespizio delle tavole delle concordanze; la lettera di Eusebio a Carpiano; la guarigione del cieco nato; la parabola del buon samaritano; Cristo davanti a Pilato; il pentimento e la morte di Giuda; la scelta tra Cristo e Barabba; il ritratto san Marco con la Sophia.

In dieci delle quindici pagine miniate, al di sotto della scena figurata vi sono le figure 

di quattro profeti che reggono con la mano sinistra un rotolo sul quale 

è una loro profezia, mentre con la destra indicano la scena 

che si svolge in alto, per stabilire la stretta connessione 

tra vecchio e nuovo testamento.

 

Protagonista indiscusso delle miniature è la figura di Cristo, raffigurato secondo l’iconografia bizantina. L’espressività dei personaggi, la resa armonica e moderna del movimento, l’uso dei preziosi colori, sono alcuni degli elementi che rendono davvero unico il ciclo miniato. Ciò che rende ancor più affascinante il Codex è la sua storia, ancora oggi avvolta dal mistero. Il Codex è ricordato per la prima volta a Rossano nel 1831 da Scipione Camporota, canonico della Cattedrale, ed è segnalato poi, fugacemente, nel 1846, dallo scrittore Cesare Malpica in un libro-reportage dal titolo La Toscana, l’Umbria e la Magna Grecia, ma viene presentato per la prima volta all’attenzione della cultura europea ed internazionale nel 1879 dai due studiosi tedeschi, Oskar von Gebhardt e Adolf von Harnach, che pubblicano un testo dal titolo Evangeliorum Codex Graecus Purpureus Rossanensis, battezzando ufficialmente il prezioso manoscritto di Rossano.

Molteplici sono ancora oggi gli aspetti problematici dibattuti dalla critica 

e riguardano la precisa datazione del Codex, 

 

il luogo in cui fu realizzato, i tempi e le modalità del suo arrivo nella città di Rossano. La datazione è circoscritta alla metà del VI secolo, mentre più complessa resta la questione relativa al luogo di realizzazione dell’evangelario: esso fu realizzato in uno scriptorium bizantino dell’Impero Romano d’Oriente, ma le diverse tesi oscillano tra la Siria, l’Egitto, la Palestina o la città Costantinopoli, anche se oggi gli studiosi tendono a riconoscere Antiochia di Siria il luogo più probabile di esecuzione.

Circa la committenza è plausibile pensare che sia stato commissionato 

da una figura proveniente dall’ambiente della corte di Bisanzio,

 

dalla famiglia imperiale o dall’alta aristocrazia di corte, per la preziosità dei materiali di cui si compone – pergamena purpurea, inchiostro d’oro e d’argento – il colore porpora era a quel tempo riservato all’imperatore e ai suoi stretti congiunti. Probabilmente fu portato a Rossano dai monaci iconoduli, intorno alla metà del VII secolo, al tempo delle persecuzioni iconoclaste, ma non è da escludere l’arrivo a Rossano coincidente con la sua elevazione a diocesi nel X secolo, che, tra l’altro, coincide con il periodo di maggior splendore della città. Una tesi più recente afferma come il Codex possa considerarsi un dono della principessa bizantina Teofano, sposa di Ottone II e imperatrice del Sacro Romano Impero, la quale nell’estate del 982 tenne corte in Calabria, proprio nella città che da millenni lo custodisce.   

 

Dal 1952 il Codex è conservato nel Museo Diocesano e del Codex a Rossano, piccolo borgo intriso di cultura bizantina, il primo museo diocesano ad essere istituito in Calabria.

Il prezioso manoscritto, riconosciuto il 9 ottobre del 2015 

quale Bene Patrimonio dell’Umanità

 

da parte dell’Unesco ed inserito nella categoria “Memory of the World”, dopo un attento restauro compiuto dall’ICRCPAL, è dal 3 luglio 2016 conservato e tutelato all’interno di un nuovo percorso museale suddiviso in due sezioni, una interamente dedicata al Codex e l’altra alla collezione museale, studiata al fine di valorizzare al meglio l’intero patrimonio artistico della Diocesi.

Un Museo nuovo, in grado di comunicare l’arte anche in relazione alle esigenze 

del visitatore moderno attraverso soluzioni multimediali, quali totem 

che permettono di sfogliare virtualmente il manoscritto, 

video e monitor touch-screen che consentono 

di compiere un vero e proprio viaggio nella storia 

e nell’arte del territorio diocesano. 

 

Il Museo è gestito dall’associazione “Insieme per Camminare”, nata per volere dell’Arcivescovo Mons. Satriano e composta da giovani con varie professionalità, accomunati da un profondo amore verso il territorio. 

 

 

 

 

 

 

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DICI SIBARI E SEI NELLA MAGNA GRECIA di Michele Minisci – Numero 15 – Ottobre 2019

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DICI SIBARI        E SEI NELLA MAGNA GRECIA 

 

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Sibari-toro cozzante in bronzo originale

oggi frazione del comune di Cassano allo Jonio, in provincia di Cosenza, ieri tra i centri più importanti e floridi della Magna Grecia, fu fondata tra il 720 e il 708 a.C. da un gruppo di Achei provenienti dal Peloponneso.  

In breve tempo, divenne la meta di migranti provenienti 

anche da altre aree dell’Ellade, 

a cominciare dalla città di Trezene, antico centro dell’Argolide orientale. Sull’origine e la fondazione della polis scrissero Aristotele e lo storico Strabone, che ancora costituiscono le fonti principali per gli studi in materia. 

 

Ci si è chiesti, spesso, quali potessero essere state le motivazioni che spinsero quegli uomini e quelle donne a lasciare i propri luoghi natii per approdare in terre sconosciute. Molto probabilmente, alla base della decisione, anche allora, c’erano ragioni di natura economica e sociale.

 

Migrazione economica ante litteram, insomma, che coinvolse, 

nell’arco di più decenni, molte migliaia di persone.

 

Le spedizioni erano precedute, solitamente, da una chiamata pubblica, rivolta a tutti coloro che desiderassero imbarcarsi. Attraverso una serie di proclami, gli abitanti di una città venivano informati delle prossime partenze e chi voleva far parte della spedizione andava a registrarsi, lasciando il proprio nominativo ai magistrati.   

 

Scrive lo storico Strabone:

 

«La città raggiunse anticamente tanta fortuna che esercitò il suo potere 

su quattro popoli vicini; ebbe assoggettate 25 città; inoltre con le sue abitazioni, riempiva tutt’intorno lungo il fiume Crati un cerchio di 50 stadi 

(ogni stadio corrisponde a 178 m)».

 

Un contributo notevole alla crescita ed allo splendore di Sibari lo diede senz’altro il territorio. La vasta pianura, vocata per la coltivazione dei cereali, e le colline circostanti, ambienti ideali per i vigneti; i monti, da cui attingere materie prime, come legno e argento, ma anche prodotti come miele e lana.  

 

La città della dolce vita (Triphè), passata alla storia per gli interminabili banchetti, per il sofisticato e ricco abbigliamento, per i giochi in onore degli Dei, per il “culto della tranquillità”. A proposito di quest’ultima, si narra che a Sibari le case erano coperte da teli per impedire ai raggi del sole di disturbare il dolce sonno degli abitanti e che dentro le mura della città erano vietati lavori rumorosi!  

 

Nondimeno, stando alle cronache dello storico Diodoro Siculo, Sibari fu anche protagonista di un’intelligente politica di integrazione a favore dei migranti, prevalentemente italici. A proposito di integrazione, oggi tanto problematica!  

 

Grazie all’accoglienza ed all’inclusione di un numero molto alto di persone, accrebbe, infatti, la sua forza e la sua capacità di espansione, potendo contare su un esercito molto potente e motivato.

Nel massimo del suo splendore, Sibari arrivò a controllare un territorio 

che si estendeva a sud fino alla foce del fiume Traente, 

al confine con Crotone, e a nord fino alla piana del fiume Sinni

 

Sul versante tirrenico la sua influenza arrivò fino a Temesa e Terina, tra le attuali Amantea e Lamezia Terme. Fu proprio per la sua politica espansionistica, evidentemente, che intorno al 520 a.C. entrò in conflitto con Crotone, città guidata da un forte spirito moralista, sotto l’egida della scuola di Pitagora.

All’origine degli attriti tra i due centri, secondo la tesi prevalente, ci sarebbe 

la cosiddetta “questione tirannica”, ovvero l’evoluzione democratica 

del regime sibarita, ad opera di Telys, l’ultimo tiranno di Sibari, 

e del suo impero. 

 

Telys è stato definito «un tiranno di stampo o estrazione democratica», giunto al potere con una rivolta popolare, dunque in maniera diversa dai dittatori tradizionali, che generalmente conquistavano il potere con un colpo di Stato, appoggiandosi all’esercito.

 

La sua politica fu di scontro totale con il potere oligarchico, tant’è che scacciò 

dalla città 500 ricchi aristocratici, confiscandone i beni,

 

ed avviò una vera e propria rivoluzione sociale su basi anti-plutocratiche. Gli esuli, com’è noto, trovarono rifugio a Crotone e questo costituì il casus belli che fece esplodere il conflitto tra le due città. 

 

La battaglia finale sarebbe avvenuta nel 510 a.C., in un’area compresa tra la città di Lacinia e l’attuale Piana di Sibari, nei pressi del fiume Traente.

Crotone si impose con le sue armate guidate da Milone, 

l’atleta olimpionico plurivittorioso divenuto stratega dell’esercito.

 

La città viene distrutta e cancellata definitivamente con la deviazione del letto del fiume Crati sull’abitato. 

La sconfitta di Sibari fu dovuta senza dubbio ad interventi esterni. In occasione della battaglia, fu chiamato infatti Dorieo, figlio della prima moglie di Anassandrida, re di Sparta, che giunse con le sue truppe su esplicita richiesta d’aiuto di Crotone.

Il sito archeologico di Sibari 

 

Il sito archeologico di Sibari è ubicato sulla costa Ionica della Calabria a breve distanza dalla foce del Fiume Crati.

Questa parte del territorio calabro, nota topograficamente come Sibaritide vide 

il sorgere, lo sviluppo, l’espansione e poi il declino della grande polis di Sibari; 

qui furono impiantati, in epoche successive alla distruzione della città greca, sovrapponendosi in parte alle sue rovine, prima il centro ellenistico di Thurii 

e poi quello romano di Copia.

 

Questa eccezionale stratificazione fa di Sibari uno dei siti più estesi ed importanti del Mediterraneo di età arcaica e classica.   

 

L’area del parco archeologico è divisa in settori, ognuno dei quali è identificato con il nome del cantiere di scavo: Parco del Cavallo, Prolungamento Strada, Casabianca, Stombi. Tutti i settori, tranne quello di Stombi, sono visitabili.

La visita al Parco Archeologico della Sibaritide rappresenta un percorso a ritroso 

nel tempo che dalla tarda antichità e dall’età romana scende 

ai livelli della Sibari arcaica dell’VIII secolo a.C.; 

 

bisogna però tener presente che, tranne poche eccezioni, i livelli più profondi e quindi più antichi non sono visibili e che quanto è in luce rappresenta la fase più recente, cioè quella della città romana di Copia. 

Il Museo 

 

Inaugurato nel 1996, il Museo della Sibaritide ospita interessanti reperti di epoca greca e romana (vasellame, lamine d’oro, sculture e decorazioni in terracotta), ma anche materiali recuperati in tombe indigene dell’età del Ferro e manufatti di provenienza greca, fenicia ed egiziana a testimonianza degli intensi traffici marittimi dell’epoca. Nel 2013 un’alluvione ha coperto di fango larga parte degli scavi, oggi fortunatamente recuperati.

La città di Sibari lascia una traccia importantissima nella Storia 

come una delle più importanti e sfarzose città del mondo occidentale,

il cui periodo storico di oltre duecento anni trascorsi proprio qui, nella nostra Calabria, onorano così questa regione bellissima e sventurata allo stesso tempo.  

 

Recentemente il sito Casa Bianca ha ricevuto dalla Unione Europea un contributo di 500.000 € per ampliare l’accessibilità del sito e i percorsi pedonali – come mi dice la dottoressa Adele Bonofiglio, direttore del Museo Archeologico della Sibaritide, e un altro milione di euro per la predisposizione di nuove vetrine per accogliere altri importanti ritrovamenti oltre all’ormai noto reperto bronzeo del 5° secolo a.C. il Toro cozzante.  

 

 

 

 

 

 

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Credit foto: gentile concessione Direzione Museo e Parco Archeologico di Sibari

 

COSENZA CENTRO STORICO E TERRITORIO di Daniela Francini – Numero 15 – Ottobre 2019

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COSENZA  CENTRO  STORICO          E TERRITORIO

 

alcune idee per ridare al centro storico un ruolo territoriale. 

Come appare dalla carta dell’Angelica e del Pacichelli risultano evidenti due linee di attraversamento nel centro storico di Cosenza; per la prima, nella carta dell’Angelica, la via degli Orefici, il tracciato è chiaro; per la seconda, la scritta “via delli Padolisi” si trova ad un livello altimetrico superiore, nella via che oggi è denominata S. Francesco d’Assisi e poi via Giostra Vecchia.  

 

Il primo itinerario, partendo dai porticati, attraversa la Piazza dei mercanti (21) poi la Piazza Maestra al centro dell’itinerario, con il Duomo, (n.1) prosegue per la Piazza degli orefici (43) e si conclude a Porta Chiana (28);  

Il secondo itinerario storico è rappresentato sulla carta dal collegamento della fontana dello Mastro Andrea (n. 36), dalla chiesa di S. Francesco d’Assisi(n.2), dai Padolisi (26), da Capo Piazza (25) e si conclude anch’esso a Porta Chiana (28).  

 

L’inizio e la fine dei due itinerari sono rappresentati nella carta dai numeri in sequenza 29 e 28 che rappresentano rispettivamente l’ingresso, coincidente con i porticati (29) a piazza Valdesi e l’uscita a Porta Chiana(28).    

Oggi il secondo itinerario è riconoscibile salendo da Piazza Valdesi attraverso via Messer Andrea, arrivando a Piazza Berardi, proseguendo su via S. Francesco d’Assisi, percorrendo via della Giostra Vecchia, via Gaetano Argento passando sotto agli archi di Ciaccio, ed arrivando a Porta Piana. [Casella di testo] Al centro del primo itinerario è il Duomo, al centro del secondo itinerario è la Chiesa di S. Francesco d’Assisi.

La successione dei principali avvenimenti della chiesa di San Francesco d’Assisi mostra che in essa è rappresentata tutta la storia dei più importanti

avvenimenti della città 


e che nel suo intorno c’è la sovrapposizione storica di tanti secoli di ritrovamenti e di tante ricchezze ancora da scoprire.   

 

Il lavoro di restauro che abbiamo contribuito a realizzare è stato premiato da scoperte e ritrovamenti anche insperati: l’eliminazione dell’intonaco nella navata principale, nella zona del presbiterio e sugli archi della navata sinistra ha disvelato elementi in pietra locale pregiamente intagliati da maestranze roglianesi, riportati quindi in luce e accuratamente consolidati. Durante i lavori di restauro, si è rinvenuta un’incisione in una pietra della navata sinistra: ROGLIANO G.R.P.F.F.I.1613, datazione non riportata in alcun testo e che ha sottoposto la ricerca storica ad ulteriori approfondimenti.

La chiesa si riconferma testimonianza storica della scuola moglianese, 

maestri artigiani progettisti ed esecutori di opere di straordinaria fattura.


Ogni maestro si avvaleva di una squadra, fatta di manovali ed apprendisti attenti ad imparare, ad apprendere i sistemi di lavoro, le tecniche, il gusto estetico, la stessa cultura; da Napoli in giù ebbero una grande fama erano richiesti un po’ ovunque, specialmente dove le opere erano più impegnative e dovevano assumere i caratteri della solennità e della sontuosità. 

 

Ponti e portali le opere richieste agli scalpellini: gli scalpellini intagliano nella pietra i sogni degli uomini che quei palazzi e quelle chiese vedranno tutti i giorni e dovranno dire chi essi sono e come si pongono di fronte alla storia ed alla società.

Gli scalpellini prendono una pietra ne vedono all’interno una forma 

e con quella riescono a dare forma al confine stesso dell’architettura.


La tradizione assegna ad un gruppo di fratelli, pare fossero in sette, gli “sciardari”, così noti dal soprannome loro attribuito un ruolo d’avanguardia nell’arte calabrese del XVII sec. e un posto di primo piano nell’ambito della stessa dinastia di scalpellini ed intagliatori roglianesi; sciardari furono quei gruppi roglianesi le squadre al lavoro, le carovane fatte di architetti-capomastri, artigiani e manovali in partenza da Rogliano per prestare la loro opera in tutta la Calabria. Il termine deriva probabilmente dal togliere la Scarda, ossia ripulire la pietra dei suoi strati superficiali più deboli e predisporla alla lavorazione e così anche il legno.

Mastro Gerolamo, mastro Giliberto e gli sciardari rappresentano i riferimenti fondamentali che segnano in epoche diverse il fortunato percorso 

della scuola degli architetti e artigiani roglianesi


Oggi assistiamo alla decadenza dei mestieri tradizionali che da noi ormai da tempo non vengono più tramandati e sembra ormai persa ogni possibilità di perpetuare le tecniche, i modi e le regole artigianali di un tempo.   

 

Pochi sono infatti nella nostra regione gli scalpellini che lavorano ancora manualmente la pietra; dalla Chiesa di S. Francesco d’Assisi emerge quanto sia importante promuovere e rilanciare l’artigianato per un’adeguata preparazione sia teorica che tecnico pratica con il recupero dei mestieri tradizionali ed è importante anche per garantire un’attività di vero restauro e conservazione delle testimonianze artistiche del nostro passato.   

 

Il centro storico di Cosenza può contare sulla presenza di un nucleo architettonico di elevato interesse storico costituito dal complesso della Chiesa di San Francesco d’Assisi.  

 

Il Piano di recupero del centro storico può far riscoprire il significato dell’itinerario di storia e cultura della prima rigenerazione urbana a Cosenza e promuovere l’itinerario complementare di via S. Francesco d’Assisi.

Attraverso un riuso mirato di tale notevole struttura si potranno mettere in rete 

le diverse offerte culturali ed Il Centro Storico di Cosenza potrà costituirsi 

come un polo di eccellenza nel panorama calabrese.


Questo ed altro dal libro: “La storia interrotta” a cura di Daniela Francini, Carla Salamanca, Paola Luciano di recente ristampa. 

 

 

 

 

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TEATRO RENDANO TESORO DISTRUTTO E RINATO di Pietro Tarsia – Numero 15 – Ottobre 2019

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TEATRO  RENDANO  TESORO  DISTRUTTO E RINATO 

 

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Cosenza vanta uno dei teatri più importanti del Meridione la cui ultima “incarnazione”, il “Rendano”, è erede di una storia che inizia addirittura nel Rinascimento, con rappresentazioni di opere teatrali e musicali in città risalenti a quelle epoche.

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Alla fine del primo decennio del 1800 Re Ferdinando di Borbone promosse la costruzione di un teatro che però vide la luce solo nel 1830 il “Real Ferdinando”; poi nel 1857 per iniziativa di cosentini amanti dell’arte, di fronte al palazzo della Prefettura venne eretto un teatro in legno, il “Baraccone”, utilizzando gli arredi provenienti dallo smantellamento del Real Ferdinando.  

 

Nel 1877 il Comune decise di realizzare un Teatro Comunale in luogo del “Baraccone”, su progetto dell’ing. Nicola Zumpano, dell’Ufficio tecnico comunale. Ma solo il 20 novembre 1909 con Aida di Verdi, il Teatro Comunale verrà inaugurato.

 

Il Teatro disponeva di una sala con 3 ordini di palchi rivestiti in velluto rosso cremisi, decorazioni pittoriche ed in stucco realizzate da Giovanni Diana di Napoli nella sala, da Enrico Salfi nel soffitto che presentava in gruppi di figure allegoriche le 3 arti sceniche: la Musica, la Danza e la Drammatica.

 

Il sipario ideato da Domenico Morelli ed eseguito dal napoletano Paolo Vetri nel 1901, per fortuna visibile tutt’ora, mette in scena l’ingresso a Cosenza, nel 1433, di Luigi III d’Angiò, duca di Calabria e della giovane sposa Margherita di Savoia. Dopo il blocco delle rappresentazioni causato dalla Prima Guerra Mondiale, la ripresa avvenne nel 1920 e nel 1935 il Teatro venne intitolato al pianista e compositore Alfonso Rendano.

Nel 1943, una bomba destinata al vicino Castello Normanno-Svevo, 

sede della contraerea, colpì in pieno il teatro, distruggendone 

il soffitto e danneggiandolo gravemente. 

 

Il Comune incaricò l’architetto Ezio Gentile della progettazione in stile neoclassico, riproponendo quasi fedelmente lo schema originario con stucchi e decorazioni negli spazi interni (mentre venne realizzato all’ultimo piano un ampio foyer, poi intitolato al maestro e compositore cosentino Maurizio Quintieri)  ed io, venni investito della Direzione dei lavori, tuffandomi con passione in un’impresa, a buon diritto storica, in cui diedi “tutto me stesso”, non risparmiando certo tempo ed energie per la buona riuscita del progetto. Progetto improbo, reso tale dalle intuibili difficoltà di reperimento e selezione di materiali consoni, di controllo e guida delle maestranze neofite all’intento di ricostruzione e recupero di un edificio storico.

 

Grazie all’impegno di tutti quelli coinvolti, fra cui 

l’ing.Giovanni Travaglini, allora Provveditore alle Opere pubbliche 

per la Calabria, e non può certo obliarsi l’interesse primario e pressante 

dell’allora ministro dei Lavori Pubblici, il cosentino Giacomo Mancini, 

la ricostruzione ebbe termine con una alacrità e speditezza

 

oggi incredibili e purtroppo inusitati.   

 

Così già il 7 gennaio 1967 un moto di legittimo orgoglio ci ha consentito di partecipare all’inaugurazione del nuovo, vecchio, rinato “Rendano”, con le note della Traviata di Verdi che obliavano per sempre i rumori orridi di bombe e guerra ancora risonanti.

 

 

 

 

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800 ANNI DUOMO DI COSENZA di Mons. Francesco Nolè e Don Luca Perri Parroco della Cattedrale – Numero 15 – Ottobre 2019

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800 ANNI DUOMO        DI COSENZA 

 

vivrà un momento altamente significativo per la sua storia, giacché in quell’anno celebrerà l’Ottavo Centenario della dedicazione della Cattedrale di Cosenza, dedicata alla Vergine Maria Assunta in Cielo. 

 

 

La Diocesi, a partire dall’anno in corso, si sta preparando a ricordare e celebrare tale felice ricorrenza richiamando e sottolineando il significato religioso e la presenza testimoniale che ancora suggella e conserva il valore e la funzione della Chiesa Cattedrale nel tessuto civile e religioso della città e della terra dei Bruzi.  

 

Fare memoria dell’anniversario della consacrazione della Chiesa, che ospita la Cattedra, sarà stimolo a recuperare i legami di comunione in Cristo intorno alla figura del Vescovo e al suo Presbiterio, dei quali ogni Chiesa locale ha bisogno

 

Inoltre la collocazione della Cattedrale nel cuore della città antica di Cosenza deve essere di stimolo ad una rinnovata attenzione 

verso un patrimonio storico artistico,

 

quale il Centro Storico, che non può essere rilegato a periferia o peggio a problema urbano. 

La costruzione dell’attuale Cattedrale è dovuta ad un terremoto che il 24 maggio del 1184 sconvolse Cosenza e la Valle del Crati, procurando vittime e danni ingenti, e provocando la distruzione dell’antica Cattedrale Brutia che precipitò al suolo durante una celebrazione, travolgendo e uccidendo l’arcivescovo Ruffo con il clero e i fedeli.  

 

L’antica città dei Brettii, nota per la sua vivacità culturale, rinacque con lentezza, nonostante il delicato momento politico durante il tumultuoso regno di Tancredi.

Il 30 gennaio del 1222, alla presenza di Federico II, che portò in dono al Capitolo 

della Cattedrale la preziosa Reliquia della Stauroteca, il Legato Pontificio, 

cardinale Nicola di Chiaromonte, vescovo di Tuscolo, 

consacrò la nuova Cattedrale,

 

la cui ricostruzione fu promossa e seguita, dall’arcivescovo Luca Campano, già segretario di Gioacchino da Fiore e abate della Sambucina, il quale impresse nella nuova costruzione forme legate alla regola dell’Ordine Cistercense a cui apparteneva.  

 

Nel corso della storia, i tanti terremoti che sconvolsero la nostra terra, unitamente alla mano dell’uomo, alterarono l’impianto originario duecentesco e, solo

nel XIX secolo, sotto la guida dell’arcivescovo Camillo Sorgente, una serie di importanti restauri,

 

tramite la rimozione della veste barocca con cui nel Settecento era stata rivestita l’intera struttura, hanno restituito all’edificio l’aspetto primitivo.   

 

L’interno si presenta a croce latina, suddivisa in tre navate di otto campate ciascuna con copertura a capriate. Lungo la navata di sinistra, si aprono due cappelle risalenti al XVII-XVIII secolo: la prima dedicata alla Madonna del Pilerio, con l’icona bizantina del XII secolo del tipo Galaktotrophousa (Madonna che allatta il Bambino) alla quale i cosentini sono molto devoti dal 1576, anno della pestilenza da cui la Città fu liberata per l’intervento prodigioso della Vergine Maria; la seconda, appartenente alla Confraternita di Orazione e Morte, dedita alla sepoltura e al culto dei defunti, oggi destinata alla custodia dell’Eucaristia. 

Nella navata di destra si conserva il sarcofago detto di Meleagro, di epoca tardo antica, contenente resti umani appartenenti ad Enrico VII, figlio di Federico II.

La profonda abside, in parte ricostruita nel XIX secolo, ospita l’altare maggiore marmoreo in stile neoromanico e un pregevole crocifisso ligneo del XV secolo, proveniente dalla cappella ius patronato della famiglia Telesio. 

 

Nel transetto, incastonato nella muratura, fa mostra di se il mausoleo di Isabella d’Aragona, moglie di Filippo III d’Angiò, morta nel 1271 nei pressi di Martirano.  Nel suo insieme nobile ed austero, la Cattedrale di Cosenza, seconda per storia in Calabria solo a quella di Gerace, si presenta come il monumento più significativo della Città bruzia di cui rimane ancora un punto vitale per la sua storia di ieri e di oggi. 

 

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L’attuale Chiesa Cattedrale fu, infatti, solennemente inaugurata 

da un Legato Pontificio inviato da Papa Innocenzo III nel 1222 

alla presenza dell’imperatore Federico II di Svevia. 

 

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in collaborazione con 

Don Luca Perri Parroco 

della Cattedrale 

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STRUMENTI CIVILISTICI E TESORI DISVELATI di Francesco Saverio Sesti – Numero 15 – Ottobre 2019

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strumenti civilistici e tesori disvelati

 

del Peloritano il pittore contemporaneo “mediterraneo” per antonomasia, Salvatore Fiume, stupisce innanzi alle vestigia antiche di un borgo a strapiombo sulla costa, illuminato dalla luce dell’occaso sul mare e dal nome che gli evoca reminiscenze della aretusea natia: Fiumefreddo, Fiumefreddo Bruzio.

Vuol fermarvisi, vederlo, viverlo. E quivi un sindaco, il Sindaco, avvocato, umanista, anfitrione ineguagliato, lo accoglie e trattiene, facendogli profferta del paese intiero come di una tela a cielo aperto; pure sfidando i rigori normativi già rigidi, e di poi vieppiù pervasivi, di un malinteso tuziorismo, vincolistico e burocratico, della proprietà pubblica e della proprietà privata.

E l’artista, ispirato da quella luce dell’occaso, dalla bellezza 

delle sue muse, modelle somale, colte tra i vicoli, 

dalla balugine di Saraceni arrembanti dal mare, 

dipinge, scolpisce.


“dona”, fa “donazione” di affreschi conturbanti, di statue dinamiche che rivitalizzano ruderi di un antico maniero, volte di chiese, slarghi anonimi, e le genti, le genti del paese.  

Ed il Sindaco e l’Artista, e l’atmosfera fervida ed autentica di calabresità ospitale che inducono, attraggono intellettuali, professionisti, imprenditori, romani, milanesi, la borghesia professionale e delle magistrature del vicino capoluogo, che edificano alla Marina belle ville di stile moresco; e progetti imprenditoriali, e di sviluppo turistico, financo americani (di poi taluni cennati, di poi taluni impediti dal vincolismo montante ed ottuso, e fors’anco dalla improvvisa scomparsa del Sindaco).

 

Ed è così che principia a reviviscenza Fiumefreddo, Fiumefreddo Bruzio, 

uno dei “Borghi più belli d’Italia”. 


1960. Sila. Lago Arvo. Un sindaco comunista, un sindaco democristiano, un sindaco donna, comunista, l’uno di seguito all’altro, l’una congiunta all’altro, danno attuazione ad un vetusto, ambizioso piano di lottizzazione del 1951, auspicato per la nascita su quelle rive di un villaggio turistico, anzi pure di una stazione sciistica. E dei lotti fanno profferta – rectius, legittimisticamente, “assegnazione” – non a quisque de populo bensì ad esponenti della borghesia possidente, avvocati, notai, medici, magistrati, politici, del cosentino e del crotonese

E “vendono”“cedono” pur a prezzo “politico” i lotti, sotto condizione 

che vi edifichino rifugi consoni all’estetica rurale di montagna, 

utilizzando materiali e maestranze locali, e con l’obbligo 

di conservare gli alberi d’alto fusto.


Ed i borghesi vi costruiscono belle villette-chalet, di estetica alpina a latitudini africane. Ed un imprenditore-anfitrione ha l’ardimento, in un luogo ancora desueto, di voler ubicare un Grand Hotel, ove di poi scendono, ospiti dei contigui possidenti ed esponenti politici, epigoni molti della intellighentia politica e culturale, della élite imprenditoriale e professionale, meridionale ed italiana. Nasce così – e forse per troppo rimane immota – sulle rive di un sin lì anonimo invaso artificiale al servizio di una chiusa per la produzione di energia elettrica e pur dalla bellezza paesaggistica e naturalistica prepotenti, Lorica, la perla della Sila, ove si respira l’aria migliore d’Europa, candidata permanente, assieme all’Altopiano tutto, ad essere patrimonio dell’UNESCO per simbiosi paesaggistiche, naturalistiche ed ambientali.  

 

2002, o giù di lì. Cosenza. Centro cittadino, centro della Città “nuova”. Un imprenditore-mecenate newyorchese, di origini cosentine, collezionista sapiente d’arte moderna e contemporanea vuol lasciar traccia di sé – e della propria famiglia – ai posteri, vieppiù nel luogo natio.

E vuol far “donazione”, donazione “modale” di tante, molte opere, famose, 

soprattutto scultoree, alla Città, sol che si intitoli a sé, ed alla figlia 

prematuramente scomparsa, via o piazza del centro cittadino; 


e vi si dia adeguata collocazione, sì come già fatto dall’Urbe per altre donate, che vi destina ospitalità, all’Aranciera di Villa Borghese, intitolandola museo.  

 

Un Sindaco donna, giovane, di aneliti e sensibilità intellettuali formate e coltivate oltralpe, a Parigi, e memore della traccia ispiratrice del suo mentore politico, un grande, vecchio Leone socialista, subito coglie i desiderata e non esita a fronteggiare lo scandalo polemico dello stravolgimento della toponomastica del centro “nuovo” cittadino.

Anzi, si concepisce di accogliere quell’arte piuttosto che al chiuso museale, 

all’aperto, di “democratizzarla” lungo il corso principale, 

bensì ancora amorfo, cittadino.


Nasce così il MAB, il Museo all’aperto Bilotti, “germe” inoculato, embrione fervido di una “rigenerazione urbana” che un Sindaco, architetto, d’ispirazione politica affatto diversa, continua ed impronta, e rende diffusiva, con apporti inusitati d’arte e di architettura che indubitabilmente segnano un ambito urbano, quello della città nuova, altrimenti anonimo, e che assieme al fascinoso, vetusto centro storico ambisce, pur senza tradizione, ad attrarre flussi turistici.

Storie. Suggestioni, forse. Di uomini. Di luoghi. Di anelito a bellezza e sviluppo, 

magari incompiuti, magari imperfetti, magari opinabili, magari interrotti. Ma vividi!  


E che alla prospettiva, fors’anco un po’ “ristretta”, del civilista colpiscono e si stigmatizzano per la forma giuridico-economica in cui si è sostanziata la scaturigine di reviviscenza, addirittura di sorgiva, di paesi intieri, di paesaggi urbani e naturali, antropici e non, a me sì cari: Contratti.  

 

Contratti privatistici, civilistici comuni, donazioni, vendite condizionate, donazioni modali.  

 

Negotia, simulacri tipici di formalizzazione e composizione nei rapporti giuridici “privatistici” e tra privati di interessi distonici, che vi trovano contemperamento. Vieppiù quivi, ove gli interessi giustapposti erano, sono, spesso, pur in potenza, confliggenti.  

 

L’interesse privato, interesse egotistico per definizione, anche quando si estrinsechi in liberalità.  

 

E l’interesse pubblico, collettivo delle comunità rappresentate. Epperò “incarnato” nelle mozioni, sensibilità, intuiti di amministratori “ispirati” che, onde promuoverlo, non hanno esitato ad usare, funditus, lo spazio, vieppiù sempre più compulsato, di discrezionalità concessa alla funzione. E perseguito con metodo e nell’alveo “privatistici”.

Gli esiti? Parziali, imperfetti, magari opinabili; ma almeno dinamici, 

a fronte dell’immobilismo asfittico in cui spesso gli eccessi legittimistici 

e tuzioristici di procedimentalizzazione e vincolo, costringono 

(ed hanno costretto) l’azione amministrativa.


Esiti a mio giudizio efficaci, proficui, per l’induzione allo sviluppo, alla reviviscenza di luoghi e comunità.  

 

Esiti che interrogano il civilista, forse inconsapevole, forse ingenuo viandante dei sentieri stretti e labirintiaci del diritto pubblico, se non si sia forse troppo relegata a residualità, tra i tradizionali stigmi dell’azione amministrativa – buon andamento, imparzialità, legalità e financo nelle procedure di scelta del contraente – la favilla dinamica che sola può muovere quell’azione a risolutezza, efficacia e fors’anco ad economicità: la discrezionalità.

Discrezionalità,


nell’accezione tecnico-amministrativistica del termine.  

 

E che forse, se rettamente ispirata da un’idea politica, programmatoria, precisa e nitida, vieppiù se permeata da sensibilità culturale, e che metabolizzi ab imis la necessità di disporre le ovvie convenienze per auspicarsi l’apporto privato, sia strumento foriero di migliore efficacia e congruità e fors’anco garanzia, per l’induzione allo sviluppo di luoghi, di comunità.  

 

Discrezionalità: sol che si correli a Responsabilità; responsabilità soggettiva, responsabilità politica anzitutto, ergo giuridica, aquiliana, civile e penale.

Discrezionalità, Responsabilità del Pubblico, dal Pubblico. 


E che “incarnato” da chi ne curi, pro tempore od incidentalmente, funzione, tutela e promozione, nei rapporti giuridici di foro interno e, di più, nei rapporti giuridici di foro esterno, con i privati, sia “privato” innanzi ad altro “privato”. “Privato” magari poziore, dacché dotato di potestà extra ordinem, ma “buon padre di famiglia”, e “responsabile” per gli atti, per le mozioni. Sì che si persegua, nel metodo e nelle forme, l’interesse metaindividuale della collettività, della comunità che si rappresenti o per cui si agisca, come fosse interesse “proprio”, interesse “privato” del “Pubblico”.

Orbene, è vero: accanto agli esempi mentovati come per me proficui, 

positivi, quanti se ne potrebbero contrapporre di deteriori. 


Ma, di grazia, è forse men vero che brutture, abusi, abusivismi, dissimulati dal velo ipocrita della formale legittimità e della inidentificabilità ed irresponsbilità soggettive, abbiano proliferato parallelamente all’incedere progressivo nella normazione, ed in sua costanza, verso eccessi di procedimentalizzazione e vincolismo, vieppiù pervasivi siccome disposti per cautele ambientali, piuttosto che in funzione anticriminale (epperò, e magari, deprivati di efficace possibilità di controllo)? 

Arduo giudizio.

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CARAVAGGIO A NAPOLI di Stefania Conti – Numero 14 – Maggio 2019

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CARAVAGGIO A            NAPOLI 

 

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provenienti da istituzioni nazionali e internazionali, e di ventidue quadri di artisti napoletani influenzati o, forse è meglio dire, travolti dalla sua forza innovativa.

Come si sa, Caravaggio visse per qualche tempo a Napoli. La sua fama lo aveva preceduto ed ebbe importanti commissioni. Non solo,

è proprio nel capoluogo partenopeo che inaugurò 

un suo nuovo modo di dipingere, 

più tormentato.


Fu una grandissima affermazione, un successo che non solo lo fece conoscere nei circoli culturali più innovativi e ricettivi, ma gli fece guadagnare un bel po’ di soldini. La tela delle Sette opere di Misericordia (che faceva parte del percorso della mostra), eseguita per il Pio Monte, dove ancora si trova, gli verrà pagata ben 400 ducati. Una cifra stratosferica per l’epoca.

Nell’archivio storico del Banco di Napoli – uno scrigno fondamentale per gli storici: contiene 450 anni di storia della città e del regno borbonico – sono conservati 

i documenti che ci fanno vivere istante per istante, quasi fosse un film, 

il momento in cui il giovane Merisi riceverà la somma. 


In un foglietto di carta, Tiberio del Pezzo, economo del pio Monte, dà le disposizioni e le spiegazioni del perché si deve pagare l’onorario. 

“Banco di Pietà, 9 gennaio 1607. A Tiberio del Pezzo ducati 370. et per lui a Michelangelo da Caravaggio – si legge negli antichi bancali -, dissero a compimento di ducati 400, dissero per un pezzo di un quadro che ha depinto per il Monte della Misericordia, in nome del quale esso Tiberio li paga. Et per noi il Banco del Popolo”. Senonché quella mattina il Banco della Pietà non ha in cassa i fondi per liquidare Caravaggio. Quando la storia da grande diventa minuta, quotidiana! 

 

Il pittore era noto per non avere esattamente un buon carattere (ma intanto aveva già ricevuto l’acconto di 30 ducati). Non ci è dato sapere come l’abbia presa, ma non è difficile immaginarlo. Fatto sta che – dopo le proteste dell’artista – per ricevere i soldi, il Banco di Pietà lo manda al Banco del Popolo. Anche di questo evento abbiamo memoria nell’archivio storico del Banco di Napoli.

“Banco di Santa Maria del Popolo. Pagate per noi – annotano i ligi scrivani – 

a Michelangelo da Caravaggio ducati 370 al quale si pagano 

per polizza de Tiberio del Pezzo”.


Siamo sicuri che questa volta l’inquieto pittore se ne andrà soddisfatto. 

 

Ma vogliamo parlarvi anche di un altro quadro. In realtà un mistero, uno dei tanti enigmi che hanno costellato la vita del grande Merisi.

Sempre nell’archivio storico si trova una disposizione di pagamento 

di una cifra altrettanto favolosa per una grandiosa pala d’altare,


questa volta commissionata da un privato, un mercante d’origine balcanica, tal Nicolò Radolavich. L’opera è descritta con molta precisione dai “ragionieri” del Banco.

“6 ottobre 1606. A nicolò radovich ducati 200. E per lui a Michel Angelo Caravaggio dite per il prezzo de una cona de pittura che l’ha da fare et consignare per tutto dicembre prossimo venturo d’altezza palmi 13 e mezzo 

et larghezza di palmi 8 e mezzo”.


Deve raffigurare la Madonna col Bambino, insieme ad un coro di angeli e a una serie di santi, tra cui San Domenico e San Francesco. Ebbene, di questa pala non c’è più traccia. Forse non è mai stata finita, forse è stata distrutta in un tumulto popolare, o tagliata e venduta in più pezzi. O chissà cos’altro.

A oggi l’unico indizio di uno dei primi capolavori partenopei di Caravaggio è contenuto solo nel prezioso archivio storico del Banco di Napoli.

 

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