MUSICHE E STORIA DI AUTORI LUCANI di Pietro Dell’Aquila – Numero 20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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MUSICHE E STORIA DI AUTORI LUCANI

 

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Così, per quanto riguarda la Basilicata, possiamo ricordare i rilievi di Diego Carpitella che, al seguito della spedizione di Ernesto De Martino, registra dalla viva voce degli ultimi cantori le testimonianze sonore di una cultura popolare ricca ed antica.

L’attività musicale lucana affonda le sue radici in un imprecisato passato 

di cui resta il segno nelle melodie delle arpi viggianesi risalenti agli inizi 

del Settecento. E dobbiamo agli artisti di strada, emigrati che portarono 

in giro prima per l’Europa e poi negli USA un repertorio di novene 

e canti natalizi originali, la diffusione della nostra musica popolare.

A questi ignoti musicanti e ai loro compagni suonatori d’organetto ha ridato vita in tempi recenti Ambrogio Sparagna, autore di numerose pubblicazioni relative alla tradizione musicale. Non meno importante l’esperienza di Antonio Infantino (1944-2018) che dal 1966 ha recuperato canzoni e musiche popolari riproducendole in versioni attualizzate dal suo notevole estro artistico. La sua scomparsa ha comunque lasciato una scia di allievi che va dai “Tarantolati di Tricarico” a Pietro Cirillo.

 

La posizione geografica del territorio lucano, posta a metà strada 

tra le capitali meridionali, Napoli e Bari, ne ha da sempre condizionato 

i gusti e le ricadute culturali.

 

Pertanto nell’ambito della tradizione musicale classica, fino agli inizi degli anni Novanta, se si esclude l’esperienza del venosino principe Carlo Gesualdo (1560-1614), famoso in ambito internazionale per la sua intensa attività di madrigalista, che interpretò con audacia stilistica utilizzando nuovi cromatismi e modulazioni sonore, i musicisti lucani erano di fatto rimasti nell’ombra. Si deve al maestro Luigi Pentasuglia, docente di musicologia del Conservatorio di Matera la riscoperta e la riproposizione di spartiti e musiche degli autori lucani dal Cinquecento al Novecento.

 

Nel travagliato passaggio dai canoni della musica strumentale polifonica 

di stile franco-fiammingo del ‘500 alle nuove sonorità barocche partecipano 

gli autori lucani: Gregorio Strozzi, Marc’Antonio Mazzone e Giovanni Trabaci.

Le forme poetico-musicali del madrigale trovano variegate assimilazioni nelle canzoni a quattro voci, dette “madrigaletti”, del Mazzone che da Miglionico raggiunse prima Napoli e poi Venezia dove pubblicò gli spartiti delle sue composizioni dedicate al Cavaliero Napolitano Antonio Grisano, nel 1568 e al Duca di Mantova, nel 1570. 

All’affinamento delle tecniche espressive sugli organi, sui cembali e sui clavicembali si dedicò Gregorio Strozzi, nativo di San Severino Lucano, in provincia di Potenza, che fu organista della Chiesa dell’Annunziata di Napoli e insegnante di canto.

 

Più affine all’estetica gesualdina, si rivela Giovanni Maria Trabaci (1575-1647 circa) nato a Irsina e morto a Napoli. Fu celebre organista e direttore della cappella reale di Napoli. Pubblicò raccolte di mottetti, messe e musiche profane. La sua produzione più significativa, tuttavia, resta la musica per organo e cembalo raccolta nei volumi “Ricercate, canzone francese, capricci a quattro voci” del 1603 e il “Secondo libro de ricercate et altri vari capricci” del 1615 di notevole complessità contrappuntistica.   

 

La maggiore produzione musicale, ritrovata e pubblicata in due supplementi al Bollettino della Biblioteca Provinciale di Matera nel 1993, riguarda le “Sei Sonate a Tre op.1” a cura di Angelo Pompilio e i “Minuetti e Contradanze” a cura di Luigi Pentasuglia del musicista materano Egidio Romualdo Duni (1708-1775).   

 

L’edizione, che si avvale di una preziosa presentazione di Giovanni Caserta che

 

inserisce l’attività della famiglia Duni nel complesso quadro della società materana dell’epoca, al bivio tra i resti di una cultura clerico-nobiliare 

e le insorgenti pulsioni illuministiche,

propone gli spartiti di un fine artista che nelle sue peregrinazioni francesi e inglesi è costretto, per motivi di sopravvivenza, a impartire lezioni di musica alle nuove leve di studenti borghesi (presumibilmente giovani gentildonne) alle prime armi nell’approccio agli strumenti musicali.   

 

Di origine familiare piuttosto modesta, Egidio Romualdo Duni fu avviato agli studi ecclesiastici insieme ai suoi fratelli. Naturalmente non gli mancò una robusta istruzione musicale. Tra i suoi fratelli, sacerdoti e musicisti, si distinsero prima Giacinto e poi Saverio ed Emanuele per la loro attitudine filosofica e giuridica sebbene d’impianto e stampo naturalistico.

 

Egidio, a soli nove anni, fu mandato a Napoli per studiare musica,

 

prima al Conservatorio di Santa Maria di Loreto e poi a quello della Pietà dei Turchini e, quindi, a quello dei Poveri di Gesù Cristo, da dove uscì Maestro di Cappella dopo aver avuto maestri del calibro di Pergolesi e Traetta. A solo ventiquattro anni musicò la sua prima opera (Artaserse) cui seguirono diverse altre (Baiarte, Nerone, Adriano in Siria, Demofoonte, Catone in Utica) con i versi di Pietro Metastasio. Seguirono numerosi spostamenti che lo portarono a Roma, Milano, Londra, Leida, Vienna e Firenze, componendo opere di musica sacra e alcuni oratori.

 

Intorno al 1789 approda a Parma, alla corte di Filippo di Borbone, dove s’imbatte 

con l’opera tragica e comica francese rappresentata da Carlo Simone Favart 

e Luigi Anseaume e soprattutto fa la conoscenza di Carlo Goldoni che avrà 

profonda influenza sulla sua successiva produzione artistica.  

A registrare l’incontro a Colorno, dove si erano recati entrambi per motivi di salute, è lo stesso commediografo veneziano nelle sue “Memorie” ritraendo Duni oltre che come musicista anche come uomo d’ingegno, di brio e di conoscenze letterarie.

 

Tra il 1756 e il 1757 Egidio Duni arriva a Parigi, patria e magnete degli artisti 

e degli intellettuali dell’epoca, dove sarà raggiunto da Goldoni e conoscerà 

Diderot e Gian Giacomo Rousseau.

 

In Francia il musicista materano rimarrà fino alla sua morte. Quivi musicherà numerosi testi tra i quali “La figlia malvista”, “La campanella”, “L’isola dei pazzi” e “Gli zoccoli” che furono molto apprezzati dal pubblico e dalla critica francese.   

 

In tempi più recenti hanno operato: Michele Carafa principe di Colobraro (Napoli 1787-Parigi 1872), Francesco Stabile (Miglionico 1801-Potenza 1860), Vincenzo Ferroni (Tramutola 1858 – Milano 1934), il tursitano Carmelo Antonio Bruno (1938-2016), Otello Calbi (San Mauro Forte 1917- Roma 1994) e l’irsinese Giuseppe Mascolo (1927-1974).

 

Del principe Carafa si sono occupati Luigi Pentasuglia ed Ernesto Pulignano pubblicando gli spartiti della “Collezione di Cavatine Italiane per canto e pianoforte” nel 1996 nel Supplemento al Bollettino della Biblioteca Provinciale di Matera.


L’alto lignaggio consentì al Carafa di muoversi con disinvoltura nell’ambiente parigino entrando nell’orbita di Cherubini e Rossini con canti e melodie originali ed eleganti, orchestrate con cura, e destinate più che ai teatri ai salotti della buona società parigina.   

 

Francesco Stabile, figlio di un latifondista potentino, dopo gli studi giovanili napoletani presso la prestigiosa scuola dello Zingarelli e nonostante il successo della sua prima composizione operistica (Palmira), preferì ritirarsi a Potenza sia per curare gli affari di famiglia dopo la morte dei genitori che per sfuggire alle contrapposizioni feroci coi colleghi del capoluogo campano tra cui, forse, anche il Bellini.

Le composizioni musicali del Carafa e dello Stabile, comunque, non si discostano dalla tipica tecnica costruttiva delle musiche in esecuzione presso il Conservatorio 

di Musica napoletano, caratterizzate da una limpida e ripetitiva grazia armonica.


La vicenda artistica di Vincenzo Ferroni si svolge prima a Parigi, dove completa gli studi con Massenet, e poi a Milano tra composizioni prima di stile wagneriano e poi di tipo nazionalistico. La sua composizione più celebre resta la “Fantasia Eolica” del 1916 che sembra preludere alle arie espressionistiche. 

Docente di armonia complementare presso il Conservatorio materano, Carmelo Antonio Bruno, allievo del maestro Nino Rota, nei suoi “Tre movimenti per pianoforte a quattro mani” del 1991 ripropone con originalità ritmi melodici minimalisti di straordinaria forza espressiva. Il compositore e critico musicale Otello Calbi, maestro presso il Conservatorio di Napoli, ha dedicato prevalentemente il proprio impegno alla produzione musicale per chitarra. Vanno ricordate le sue composizioni “C’era una volta” del 1976 e il “Canone per due chitarre” del 1881 che superano le classiche tipologie “segoviane” per iscriversi in una nuova letteratura chitarristica. 

Quasi a omaggiare un genere di musica che da sempre cerca di coniugare il genere classico con il gusto folclorico e popolare ricordiamo, in chiusura, il maestro Giuseppe Mascolo che ha composto meritoriamente arie per Bande da Giro tra cui il “Fascino esotico” del 1954.

 

Gran parte dei brani citati sono stati registrati e pubblicati in tre Compact Disk 

dal Gruppo Musicale “Ensemble Gabrieli”, purtroppo in edizione limitata 

e ormai di difficile reperimento.

 

Concerti si sono tenuti, oltre che presso il Conservatorio di Matera, al Ramapo College e all’Indian Trail Club nel New Jersey (USA) nonché nella prestigiosa sede dell’”Église de Saint Eustache” a Parigi rispettivamente nell’ottobre e dicembre 1997.

 

All’interno dei processi di omologazione e globalizzazione in atto, le identità culturali si vanno progressivamente sgretolando nonostante la sete di passato che ormai, paradossalmente, ci appare come l’unico futuro possibile. Pertanto sono significative tutte le ricerche e i tentativi di recupero e valorizzazione dei tratti distintivi delle tradizioni regionali che pure hanno trovato spazio a partire dagli anni Cinquanta.

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GENNARO RIGHELLI DIEDE VOCE AGLI ATTORI di Fernando Popoli – Numero 20 – Marzo-aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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GENNARO RIGHELLI DIEDE VOCE AGLI ATTORI

 

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nato a Salerno nel 1886 e figlio di un napoletano. Il padre era un attore dialettale e da lui fu influenzato per la sua scelta di vita, così, a sedici anni, cominciò a recitare nella sua compagnia facendosi le ossa sul palcoscenico. 

Affascinato dalla nuova arte, il cinema, si trasferì a Roma ed iniziò a lavorare per la Cines, per la quale riuscì ad ottenere l’incarico di regista del film La fidanzata di Messina, che ebbe un buon riscontro al botteghino ed inaugurò la sua carriera cinematografica. A questo film seguirono Giovanna la pallida e Povera Dora!. Passò poi alla Vesuvio Films, per la quale diresse altre pellicole, lavorando anche come attore.

 

Agli inizi degli anni Venti, a seguito della crisi del cinema in Italia, 

Righelli si trasferì in Germania insieme all’attrice Maria Jacobini, 

molto affermata in quegli anni, che diventò poi sua moglie.

 

Righelli, bell’uomo, elegante, era sensibile al fascino femminile e piaceva alle donne. In Germania fondò la casa cinematografica Maria Jacobini-Film GmbH e diresse alcuni dei suoi migliori film. Tra questi, ricordiamo Le rouge et le noir ed Il presidente di Costa Nueva, che ebbero un gran successo in tutta Europa, interpretati dal grande attore russo naturalizzato francese Ivan Mozžuchin.   

 

Tornato in Italia, riprese a lavorare nel periodo fascista, ma non fu mai influenzato dall’ideologia corrente, conservando completa autonomia di pensiero.

Poi la Cines di Stefano Pittaluga lo chiamò e gli dette l’incarico di girare 

il primo film sonoro della storia del cinema italiano,

 

in grave crisi da quando gli americani avevano cominciato a produrre film parlati dopo il grande successo de Il cantante di jazz di Alan Crosland. Il film fu La canzone dell’amore, tratto da un’opera di Luigi Pirandello, In silenzio, con Dria Paola, Isa Pola ed Elio Steiner, attori molto popolari, conosciuti ed apprezzati dal pubblico.   

 

Era il 1930, si apriva la strada del cinema sonoro in Italia e Righelli fu il primo ad affrontare questa meravigliosa avventura cinematografica. In concomitanza con la commissione di tale film, la Cines ne aveva affidato uno anche ad Alessandro Blasetti, le cui riprese furono terminate contemporaneamente, ma quello di Righelli fu fatto uscire prima nelle sale per la maggiore stima che si aveva in lui. 

La canzone dell’amore, com’era prevedibile, incantò il pubblico, la storia abbastanza melodrammatica commosse e meravigliò per l’innovazione tecnica. Il brano musicale Solo per te Lucia, di Cesare Andrea Bixio, era il leitmotiv del film che fu cantato da tutti.

Negli anni successivi si consolidò il successo di Righelli, 

che diresse il grande attore siciliano Angelo Musco


in
Pensaci Giacomino!, Lo smemorato e Gatta ci cova. Nell’immediato dopoguerra continuò il suo lavoro altamente professionale e girò Abbasso la miseria!, con la grande Anna Magnani, Abbasso la ricchezza!, ancora con Anna Magnani e Vittorio De Sica, e Quei due, con Eduardo e Peppino De Filippo.

 

La sua fama di professionista scrupoloso, narratore attento ai modelli sociali 

della piccola e media borghesia, era ormai consolidata

 

e ci ha lasciato a conferma del suo talento una filmografia interessante, specchio di un’epoca e testimonianza del cinema italiano. 

I suoi nipoti Luciano e Sergio Martino, figli di Lea Righelli, l’uno produttore e regista, l’altro regista, hanno continuato la tradizione di famiglia con grande professionalità. Luciano, scomparso da otto anni, ha prodotto oltre cento film ed è stato il pigmalione dell’attrice Edwige Fenech. Sergio ha diretto circa settanta film, passando con maestria dalla commedia al giallo, dal comico al drammatico, dimostrando indiscutibili capacità narrative.

 

La città di Roma ha omaggiato la figura di questo regista dedicandogli una strada, 

Via Gennaro Righelli, ubicata nel III Municipio. A fianco a lui, in buona compagnia, 

si trovano Via Roberto Rossellini, Via Luigi Pirandello, Via Ave Ninchi, 

Via Giovanni Verga ed altri illustri rappresentanti 

della cultura e del cinema italiano.

 

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LA SICILIA ROMANA di Gaia Bay Rossi – Numero 20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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LA Sicilia romana

 

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di circa 170 chili, più larghi anteriormente e posteriormente, e con i fendenti a formare la sagoma di un tridente. Insieme alla struttura lignea della prua delle imbarcazioni, questi rostri erano micidiali armi d’attacco.

E proprio dei rostri, sia romani che cartaginesi, sono stati ritrovati a nord-ovest di Levanzo, nelle isole Egadi, tra il 2005 e il 2015. Un successo archeologico della Soprintendenza del Mare di Sebastiano Tusa, che ha permesso di localizzare l’esatta posizione della battaglia finale della Prima guerra punica, conflitto di fondamentale importanza per i destini di Roma e della Sicilia.

 

Con la battaglia delle Egadi, avvenuta il 10 marzo del 241 a.C., iniziava infatti l’inarrestabile ascesa che avrebbe portato Roma a diventare potenza egemone 

nel Mediterraneo: lo storico Polibio ci ricorda come il sentimento che muoveva 

la società romana fosse la “brama di dominio universale”, 

su ogni persona e su ogni territorio.

 

Lo scontro finale, come rilevato, avvenne a nord-ovest di Levanzo. Roma stravinse, mentre i Cartaginesi subirono una disfatta di navi e di uomini. Le prime erano appesantite dai carichi ed i secondi inadeguati nel combattimento ravvicinato, oltre che inferiori nell’esperienza e nella capacità strategica in battaglia. Alla fine di quella memorabile giornata, i Romani avevano affondato cinquanta navi, catturandone altre settanta complete di equipaggio.

 

Con la resa dei Cartaginesi, la Sicilia occidentale e gran parte di quella centrale divenivano province romane: restava invece indipendente Siracusa, 

ma sotto protettorato romano, con un territorio che comprendeva 

buona parte della zona orientale. Gaio Lutazio Catulo, console 

e comandante navale romano,

«pose fine alla contesa, dopo che furono redatti i seguenti patti: “Ci sia amicizia fra Cartaginesi e Romani a queste condizioni, se anche il popolo dei Romani dà il suo consenso. I Cartaginesi si ritirino da tutta la Sicilia e non facciano la guerra a Gerone né impugnino le armi contro i Siracusani né contro gli alleati dei Siracusani. I Cartaginesi restituiscano ai Romani senza riscatto i prigionieri. I Cartaginesi versino ai Romani in vent’anni duemiladuecento talenti euboici d’argento”». (Polibio, Storie, I, 61, 4)

 

Mentre una buona parte dell’isola si dedicava quindi alla ricostruzione delle città devastate dalla guerra

 

il regno indipendente di Siracusa, sotto Gerone II, aveva firmato con Roma 

un trattato che garantiva al regno pace ed indipendenza per un lungo periodo.

 

In realtà, la stessa Siracusa, dopo la morte di Gerone, cadde sotto i Romani nel 211. a.C., al culmine della Seconda guerra punica, divenendo poi la sede amministrativa principale della provincia.   

 

Della guerra cadde vittima anche il grande matematico Archimede, come ci racconta Livio:

«Manifestandosi molti casi di furore e molti casi di ripugnante cupidigia, si tramanda che un soldato abbia ucciso Archimede, mentre in mezzo a quella grande confusione, era intento a tracciare nella polvere alcune figure geometriche […]». (Livio, Storia di Roma, XXV, 31.9.)   

 

Marcello fu desolato per l’uccisione del matematico, fece costruire una tomba in suo onore e pose i suoi congiunti sotto protezione. La sua uccisione fu un incidente dovuto ad un maldestro legionario romano e Plutarco ci riferisce che proprio Marcello deplorò l’assassino: «Distolse lo sguardo dall’uccisore di Archimede come da un sacrilego». Se l’assedio era durato ben due anni, dal 214 al 212 a.C., fu proprio per

 

il genio eccezionale di Archimede, ideatore e costruttore di avveniristiche macchine da guerra: enormi catapulte, artigli giganteschi e micidiali specchi ustori, 

di cui oggi ancora sappiamo poco.

È rimasta celebre nei secoli l’esclamazione “èureka” (εὕρηκα – ho trovato) attribuita al matematico dopo la scoperta (Plutarco racconta che avvenne mentre si immergeva in una vasca alle terme) del principio che porta il suo nome: “Ogni corpo immerso parzialmente o completamente in un fluido riceve una spinta verticale dal basso verso l’alto, uguale per intensità al peso del fluido spostato”. Quando Marcello espugnò Siracusa dopo la lunga resistenza della città, nel 212 a.C., il console romano scoprì un vero patrimonio di splendori artistici, tra cui il famoso planetario di Archimede (di cui in seguito si persero le tracce), che portò in trionfo a Roma, facendo conoscere ai romani meravigliosi esemplari d’arte greca.   

 

A Siracusa vennero quindi edificate opere di notevole importanza, come l’Anfiteatro romano per le lotte dei gladiatori ed i giochi d’acqua, il Ginnasio romano e l’intricata rete di catacombe (la più estesa dopo quella di Roma) ed altri monumenti.

 

Importantissima per la Sicilia, come per le altre parti dell’Impero, fu l’età di Augusto, 

il primo imperatore romano: la romanizzazione culturale della Sicilia 

cominciava in maniera metodica.

 

Il sistema di governo romano sottopose la maggior parte delle città siciliane a pesanti tributi, con la “decima” dei raccolti di grano e di orzo. Per l’abbondante produzione, la Sicilia venne definita da Catone il Censore “il granaio della repubblica”. L’isola si trasformò in un enorme campo coltivato con viti, ulivi, orzo e soprattutto frumento per il mercato esterno. Il grano era sicuramente la materia prima più importante per la capitale dell’impero, che ogni anno ne importava dalla Sicilia più di 3 milioni di quintali da destinare ai suoi cittadini.   

 

Dopo la morte di Augusto la decima fu abolita ed il sistema tributario radicalmente riformato. D’altra parte, l’annessione dell’Egitto forniva una nuova fonte di approvvigionamento di grano e quello siciliano non era più indispensabile.

La civiltà romana, diversamente da quella greca, non ebbe invece un peso incisivo nella cultura siciliana e non riuscì (né tentò) di sconfiggere la “grecità” dei siciliani. Nonostante ciò, importanti testimonianze del dominio romano restano 

le costruzioni architettoniche: teatri, ginnasi, terme, anfiteatri 

ed opere idrauliche, il tutto soprattutto nella Sicilia orientale 

e nella punta occidentale.


A partire dalla fine del III secolo sembra diffondersi l’uso delle statue marmoree, specialmente nei santuari e negli altri edifici pubblici. Al periodo tardo-repubblicano appartengono poi esempi di mosaici e pitture parietali. L’esemplare più notevole è stato scoperto a Palermo: un emblema con “caccia al leone”, appartenente ad una casa ellenistica, di cui si presuppone però l’intervento di maestranze dall’Oriente ellenistico. Importante in questo periodo è anche la produzione di ceramiche, in particolar modo in due città, Siracusa ed Agrigento


I primi secoli dell’Impero rappresentarono, invece, il periodo meno luminoso 

per la civiltà urbana della Sicilia,

 

con la sparizione in quegli anni di numerosi centri abitati. La marginalità culturale dell’isola si accentuò nel I e soprattutto nel II secolo d.C., evidenziata dall’assenza di ville e di monumenti funerari di alto livello, chiaro indizio dell’assenza di “classi medie” municipali e della predominanza assoluta del latifondo.

 

Nella fase tardoantica si ebbe, invece, un’inversione di tendenza

 

rispetto al periodo precedente, con il ripopolamento delle campagne e dei vecchi centri abbandonati. Primo indizio fu l’apparizione di ville di lusso, anche in zone che fino ad allora erano riservate alla sola produzione agricola.

L’eccellenza è rappresentata dalla Villa del Casale di Piazza Armerina 

(dal 1997 Patrimonio Unesco), dove si trova uno degli esempi più belli 

di architettura residenziale romana.

La villa si sviluppa in 60 ambienti, dei quali 42 pavimentati con mosaici policromi, un unicum per contenuto e rarissimi per lo stato di conservazione. È senz’altro il più importante complesso di mosaici finora trovato in una singola abitazione: nel vestibolo vi sono animali incorniciati da corone d’alloro, nella palestra le corse del circo Massimo, poi la sala del ratto delle Sabine, il corridoio della Grande Caccia, le scene allegoriche di Eracle e la distruzione dei Ciclopi, la raffigurazione dell’Oriente, la lotta tra Eros e Pan. E anche una curiosità, ormai famosa: in un ambiente interno un mosaico raffigura dieci fanciulle impegnate in esercizi atletici, che indossano come costume un “bikini”, molti secoli prima che, in epoca contemporanea, fosse… reinventato!

 

Tutti questi soggetti sembrano voluti non tanto per darne un’interpretazione 

“imperiale”, quanto in funzione di un proprietario la cui qualità di “intellettuale”

 

poteva essere suggerita dal nome stesso della pars dominica (la parte abitata dal proprietario), evidentemente connessa con la statio (la stazione di sosta per i viaggiatori che percorrevano la via Catania-Agrigento): “Philosophiana”.   

 

La Sicilia rimase provincia romana molto a lungo, per 637 anni, finché non venne conquistata dal vandalo Genserico nel 440 d.C. Non dimentichiamo che i siciliani nei secoli furono greci, romani, arabi, normanni (e molto altro ancora), ma sempre parzialmente, perché in primis restarono siciliani e gli invasori contribuirono in un certo senso a migliorare la loro… sicilianità, come segnalava Ermocrate già nel 424 a.C.:

 

«Noi non siamo né Joni, né Dori, ma Siculi».

 

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LA GAIOLA, AMATA DAL VENTO E DA NORMAN DOUGLAS di Aurora Adorno – N.20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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LA GAIOLA, AMATA DAL VENTO E DA NORMAN DOUGLAS 

 

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Il celebre romanziere inglese l’aveva trovata la sua casa, in quel della Gaiola, una piccola isola che chiamò “Nepente”, come il succo di quella pianta che se estratto e bevuto fa scordare ogni umano dolore e tormento. Un anno dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, egli scelse di chiudere il cerchio della sua vita nella piccola cava della costa di Posillipo,

 

ammaliato dal vento meridionale chiamato “scirocco” che, 

come lui stesso scrive in Vento del Sud


(celebre romanzo pubblicato a Londra nel 1917), modifica il comportamento degli uomini, in particolare degli anglosassoni, orientandoli verso una sorta di follia. 

 

“Era un posto aereo, sospeso fra terra e cielo. Qui, si può trovare ancora la pace lontano dal mondo, qui si possono raccogliere le cose che ci sono rimaste e passare le ore sognando, ispirando l’inebriante profumo dei pini e ascoltando quella loro melodia teocritea, che non è propriamente un sussurro, ma un quasi impercettibile respiro: musica d’estate”, scrive.

 

L’isola sorge nel Parco sommerso della Gaiola, area protetta che dal borgo 

di Marechiaro si estende fino alla Baia di Trentaremi.  


Egli preferì l’abbraccio del sole, il profumo dei fiori ed il colore dei frutti alla sua patria Inghilterra, trovando rifugio sull’isola detta un tempo Euplea, protettrice dei navigatori.  

 

Il nome Caiòla o Gaiòla, deriva dal modo in cui i ruderi di origine romana sono posizionati, ovvero a forma di gabbia, in napoletano cajòla. Gli antichi resti appartenevano ad una villa costruita nel 1874 da Luigi de Negri e che poi nel 1910 divenne del senatore Paratore. Nel cuore della Gaiola si trova la villa detta “maledetta”, composta da roccia, pietra e tufo sormontati da una costruzione che si rispecchia, come una dea vanitosa, nel mare cristallino.

 

Meta turistica incantevole e misteriosa, l’area marina protetta 

ospita nel suo fondale reperti archeologici, 

animali e vegetali colorati,

 

che aprono al visitatore le vie del mare in itinerari snorkeling e diving, un paradiso sommerso in cui la natura appare all’uomo rivelata nella sua bellezza.  

 

Dall’ingresso della Grotta di Seiano in via Coroglio si accede al Parco Archeologico del Pausilypon, dal quale è possibile ammirare i resti della fastosa villa di Pollione, sul promontorio che domina la baia di Trentaremi, per giungere infine alla Gaiola. 

Luoghi questi che furono apprezzati già al tempo dei Romani, dai senatori e da ricchi cavalieri che dal I sec. a.C. vi costruirono le loro eleganti residenze. Discendendo un’area rocciosa, una lunga rampa di scale si apre ad una bella spiaggia libera in cui il mare trasparente infrange le sue onde accarezzato dal quel vento di scirocco tanto amato da Norman Douglas.

 

Lo scrittore non fu l’unico a subire il fascino della Gaiola: 

 

negli anni Venti venne acquistata dal celebre medico Hans Braun, in seguito fu del commerciante di profumi Otto Grunback, poi del barone tedesco Karl Langheim, di Gianni Agnelli e del magnate americano Paul Getty, adesso di proprietà della Regione Campania.  

 

Luogo di culti e leggende: tra lo scoglio di Trentaremi e gli isolotti pare che Virgilio abbia tenuto una scuola di magia, tanto che i ruderi posti alla punta estrema del promontorio vengono chiamati “Scuola di Virgilio” o “Casa del mago”.

Si dice che durante le notti di plenilunio la Carrozza Anfibia di un mago, 

l’illuminista Raimondo di Sangro Principe di Sansevero, 

appare all’orizzonte stregando le onde del mare. 


La leggenda narra anche che nel 1600 essa fosse abitata da un eremita soprannominato Lo Stregone, che viveva delle offerte dei pescatori. Un’alchimia di elementi ispirò la fantasia dello scrittore a creare l’isola Nepente appunto, situata in un luogo immaginario tra la Sicilia e l’Africa, in cui personaggi della 
Belle Époque vissuti nella Capri dei tempi si intrecciano in uno scambio di dialoghi e storie.

 

“L’isola sembrava galleggiare sulle onde come un candido uccello marino, 

un uccello marino o una nuvola”.  

 

La frase tratta da Vento del Sud è stata incisa su una piccola mattonella di ceramica e posta sulla facciata del Bar Funicolare di Capri per rendere omaggio a quell’inglese che all’isola aveva portato fama e fortuna. Gaiola isola d’incanto, mistero e magia, che con i suoi colori e le sue storie incanta la bella Napoli e la Costa di Posillipo, meta incontaminata, lontana dal frastuono della nostra civiltà.  

 

Citando Henry David Thoreau: “Ai nostri giorni quasi ogni cosiddetto miglioramento a cui l’uomo possa por mano, come la costruzione di case e l’abbattimento di foreste e alberi secolari, perverte in modo irrimediabile il paesaggio e lo rende sempre più domestico e banale”. 

E alla Gaiola non vi è niente di domestico, né di banale… 

 

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Stelle al Sud

 

Con la serie “Stelle al Sud” Myrrha va alla ricerca di alcuni tra i tanti personaggi celebri la cui arte si è in qualche modo intrecciata con la natura incontaminata di un Sud selvaggio e incantatore, divenuto per essi fonte di ispirazione, talvolta dimora d’elezione.

 

 

MAUSOLEO DI ENNIO MARSO – Gemme del Sud – N.20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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MAUSOLEo DI ennio marso

 

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Lungo l’antico tratturo Pescasseroli-Candela, all’esterno della città romana di Saepinum, oltre porta Benevento, si erge il Mausoleo di Ennio Marso. Per chi volesse soffermarsi e tuffarsi nell’antica Roma molisana, può ricordarsi che il monumento funerario, del I sec. a.C. è del tipo

 

a tamburo cilindrico poggiato su un basamento quadrato 

ed è costituito da due ordini di blocchi.

 

Il coronamento superiore è formato da blocchi curvilinei alternati a cippi, che costituiscono una merlatura. All’interno si conservano le strutture di fondazione della cella sepolcrale, a pianta ottagonale divisa da quattro muri radiali.

Al centro del prospetto è collocata l’iscrizione con il cursus honorum 

del titolare, C. Ennius Marsus.

 

Al di sotto è la raffigurazione, in rilievo, dei simboli del potere magistratuale: la sella curulis con suppedaneo e la capsa affiancati da fasci. La sella ha gambe arcuate, la cui parte superiore è decorata da due busti, che fuoriescono da elemento vegetale e cassa tripartita su cui sono rappresentate all’estremità una testa maschile ed una femminile.

Al centro due sfingi affrontate con cratere centrale.

 

Agli angoli della base erano posti due leoni, nell’atto di schiacciare con una zampa la testa di un guerriero.

 

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DUE PICCOLI PREZIOSI MUSEI Gemme del Sud – N.20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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DUE PICCOLI PREZIOSI MUSEI

 

 

 Gemme del Sud

         Montemarano

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Montemarano è un borgo di meno di tremila abitanti in provincia di Avellino che, curiosamente, è indirettamente ricordato in uno degli affreschi di Giotto presenti nel ciclo della Basilica Superiore di Assisi, raffigurante “la morta di Montemarano”, una donna del paese che, secondo la tradizione, fu resuscitata da San Francesco.

 

In questo piccolo centro si trovano due chicche: il Museo Etnomusicale 

ed il Museo dei Parati Sacri, due istituti culturali che si potrebbero 

definire “minori”, ma che hanno invece l’importante funzione 

di tramandare storia, cultura, usanze di un passato 

che verrebbe altrimenti dimenticato. 

 

Tradizione tipica montemaranese è il Carnevale, i cui festeggiamenti, costituiti da sfilate, banchetti e serate danzanti, sono accompagnati dalla locale, particolare tarantella, che ha affascinato importanti musicologi ed è stata utilizzata anche da Pier Paolo Pasolini nel film Decameron. Il Carnevale di Montemarano è il più antico del Sud Italia ed

 

il Museo Etnomusicale è sorto allo scopo di valorizzare e conservare 

questo patrimonio dalle caratteristiche assolutamente peculiari,

 

che fu fonte di ispirazione per Lo Cunto de li Cunti di Giambattista Basile, il quale, risiedendo a Montemarano come governatore dal 1615 al 1617, portò a termine proprio qui il suo capolavoro.            Oltre all’esposizione di oggetti, strumenti musicali unici al mondo e costumi tradizionali, il museo possiede anche rari documenti audio-video e fotografici.

 

All’interno della piccola ex-chiesa del Purgatorio, di epoca settecentesca, vi è il peculiare Museo dei Parati Sacri

 

che, nato per volontà di Padre Mauro Perillo insieme con la Soprintendenza per i Beni Architettonici, conserva un notevole numero di stole, mitre, pianete, tonacelle, piviali utilizzati durante le celebrazioni liturgiche. Tali parati, tessuti e decorati nella zona del casertano, noto per la produzione di arredi sacri, sono di particolare ricchezza e rilevanza e risalgono ad un periodo che va dalla prima metà del Cinquecento ai primi del Novecento.                                                                                                    Il museo è uno dei primi esempi al Sud per la raccolta e la catalogazione di questa tipologia di reperti ed unico nel suo genere per l’importanza dei pezzi esposti.

 

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 Foto: Catalogo generale dei Beni Culturali

 

IL FIGLIO DEL SUD E LA CULTURA AL POTERE di Gianluca Anglana – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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IL FIGLIO DEL SUD E LA CULTURA AL POTERE

 

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dell’incoronazione di Federico II di Svevia imperatore: la sua consacrazione avvenne a Roma, per mano di papa Onorio III, il 22 novembre 1220.

Sono passati ottocento anni da allora. Eppure,

il fascino e il carisma di questo monarca sembrano sopravvivere 

allo scorrere del tempo.


L’Italia contemporanea gli è per varie ragioni debitrice. Il patrimonio artistico, moltiplicatosi grazie ai poderosi investimenti di Federico nel settore dell’edilizia regia, è composto di una fitta rete di residenze e fortezze: di esse l’emblema più noto è senza dubbio Castel del Monte, simbolo della maestà che si autoproclama assoluta, gigantesco diadema ottagonale apposto dal sovrano sull’amata Puglia, a ratifica del proprio imperio e sigillo di un’unione quasi sponsale.

Lo sforzo finanziario nell’architettura e l’ideologia ghibellina della Corte sveva 

diedero impulso a un’insigne generazione di artisti


e linfa a una delle due correnti interpretative in cui, nel corso del Duecento, venne a declinarsi la scultura italiana: la riscoperta, tutta meridionale e in chiave filoimperiale, di linguaggi espressivi attinti alla romanità classica, in alternativa al naturalismo di matrice padana. In questo clima culturale eccelse Nichola de Apulia, passato alla storia come Nicola Pisano: acclamato dai contemporanei come le archistar dei giorni nostri, fu autore di capolavori che tuttora impreziosiscono chiese e piazze dell’Italia centrosettentrionale.

Per Federico, la cultura era un tramite con cui esercitare la propria autorità: 


il recupero della classicità era funzionale alla propaganda imperiale, l’istituzione a Napoli, nel 1224, della prima università statale d’Europa era finalizzata alla formazione e all’impiego di giuristi al servizio della Corona. Ma la cultura era anche uno spazio di dignità affiancato al potere: Federico implementò l’autorevolezza della scienza, potenziando la scuola di medicina di Salerno, e incoraggiò la produzione lirica della poesia volgare di cui Palermo divenne centro propulsore. 

Lui stesso compose versi. 

Il suo celeberrimo trattato, De arte venandi cum avibus, dedicato alla caccia praticata con l’utilizzo di rapaci, è tanto una delle maggiori testimonianze scientifiche del Medioevo quanto la spia della vivida curiosità dell’autore per le scienze naturali.

Il sapere, da cui Federico fu forgiato, era per definizione privo di confini; 

la sua Sicilia un microcosmo fertile di contaminazioni, un luogo insolito 

in cui convivevano greci, ebrei, musulmani e cristiani.


Egli crebbe all’insegna delle diversità: se dai cinque ai sette anni ebbe come tutore il frate Guglielmo Francesco che lo avviò all’apprendimento del latino e all’educazione cristiana, dai sette ai dodici anni fu affidato alla guida di un imam musulmano, venendo così in contatto con riti, costumi e religione islamici. Federico parlava arabo, greco, provenzale, siciliano e latino, tutti idiomi di latitudine meridionale: das Kind aus Apulien, il fanciullo di Puglia, seppur di stirpe autenticamente germanica, necessitava di un interprete per il tedesco[1].

Affascinato dall’Oriente, fece di Lucera una medina araba adorna di moschee 

ed echeggiante delle voci dei muezzin, 


concentrandovi i saraceni prelevati dalla Sicilia (costoro sarebbero divenuti un corpo scelto della guardia dell’imperatore, garantendogli una fedeltà incondizionata). 

Fu grazie alla sua formazione poliedrica e alla sua tolleranza che, in età matura, Federico poté intessere

 

scambi epistolari con dotti islamici


e che, in occasione della sesta crociata,

riuscì a riconquistare la Terrasanta con il solo ricorso alla diplomazia,


quando altri avrebbero di gran lunga preferito uno spargimento di sangue come si deve e lo sterminio degli infedeli.

Il sovrano svevo amò circondarsi di intellettuali, che ospitò a corte


(come nel caso di Michele Scoto, Teodoro di Antiochia, Ibn Sab’in, Jakob Ben Abamari) o da cui si recò in visita (come nel caso del matematico toscano Leonardo Fibonacci, che incontrò a Pisa nel 1226).

I giureconsulti furono spesso precettati


sia nella progettazione di riforme di rilevanza capitale (come le Costituzioni di Melfi del 1231) sia nella gestione sul territorio delle concessioni imperiali (se è vero che Federico fu incapace di comprendere le istanze delle autonomie comunali italiane, è altrettanto vero che, nelle province più settentrionali dell’impero, fece scelte che avrebbero avuto conseguenze a lungo termine: ad esempio, l’elevazione di Lubecca a “città di immediatezza imperiale” avrebbe creato un modello per altri centri urbani e posto le basi per l’affermazione, nei secoli successivi, della Lega Anseatica). Gli intellettuali dovevano essere quanto più possibile prossimi al baricentro del potere, cioè al trono.   

 

Federico fece largo uso della guerra per difendere il prestigio imperiale e si armò anche della cultura, ma

perse nella lotta con i papi che lo scomunicarono per ben tre volte


e gli lanciarono contro interdetti e una battente campagna di discredito, fino al punto di trasformare in Anticristo colui che tempo prima era ribattezzato Filius Ecclesiae o celebrato come Meraviglia del Mondo. 

Egli finì per soccombere, forse anche perché precorse i tempi, non ancora maturi per figure di prìncipi inclini alle arti o bulimici di erudizione.

Federico era persuaso che è sterile la vita di chi resti lontano 

dall’astro della conoscenza. 


Ottocento anni dopo, in un’era in cui le ragioni della cultura sono spesso sacrificate ad altre rivendicazioni, in cui si diffida delle scienze, in cui l’avversione al sapere può persino diventare un vessillo, è forse questo il lascito più significativo dell’imperatore che fu il Figlio del Sud.

 

 

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 [1] Teresa Sardella, Federico II tra impero, papato e aristocrazie, in Federico II e il suo tempo, Edizioni di storia e studi sociali, 2016, p. 16.

 

GRUMENTO NOVA – Gemme del Sud – numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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GRUMENTO NOVA

 

Gemme del Sud

Grumento Nova

 

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Da Grumentum – antica città romana – a Saponaria fino a Grumento Nova (dal1932), il Borgo conserva numerose testimonianze della sua storia più antica

 

Svetta nella piazza principale il castello Sanseverino,


testimonianza del processodi incastellamento successivo all’abbandono dell’insediamento di epoca romana; le scuderie sono i locali meglio conservati.

Di rilievo la Chiesa Collegiata di Saponara, sorta in epoca altomedievale su preesistenti strutture sacre, riferibili ad un “Tempio di Serapide”.
Da rimarcare la presenza della

 

Biblioteca Nazionale “Carlo Danio”, ospitata all’interno di Palazzo Giliberti,


recentemente restaurata ma risalente al XVI secolo. La biblioteca è una delle più ricche in territorio lucano e consta, tra l’altro, di una collezione di

oltre 2000 volumi antichi, con manoscritti, incunaboli, cinquecentine e seicentine. 

Alcuni esemplari sono stati stampati utilizzando la tecnica di Gutemberg


a caratteri mobili appena un decennio dopo questa invenzione. Il paese può contare anche su due belvederi che affacciano verso est e verso ovest, fornendo una panoramica a 360° sull’intera Val d’Agri.

 

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LI GALLI, l’ISOLA A FORMA DI DELFINO di Aurora Adorno – Numero 18 – Settembre-Ottobre 2020

 

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LI GALLI, l’ISOLA a forma di delfino

 

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Sorvolando dall’alto tra Amalfi e Capri, un delfino sorridente appare adagiato sulle onde blu del mare che si increspano all’orizzonte: è Li Galli; così questo arcipelago ci appare, salutando il sole che lo benedice. 

Tre minuscole isole si affacciano sulla bella Positano e sulla rinomata Capri: Gallo Lungo è la più piccola delle tre, l’unica ad essere stata abitata fin dai tempi dei Romani, a ovest si trova la Rotonda, mentre l’Isola Dei Briganti si estende a nord, anticamente chiamata Castelluccio o la Castelluccia.   

 

Verso il 1131 l’arcipelago era detto Guallo e nel 1225 Federico II di Svevia lo donò al monastero di Positano riferendosi ai tre isolotti come alle tre Sirenas quae dicitur Gallus, probabilmente alludendo alle sirene, le donne-uccello cantate da Omero.

 

Questo piccolo paradiso ha attratto con il suo affascinante richiamo 

due delle stelle più luminose del firmamento della danza mondiale: 

prima il coreografo Lèonide Massine, poi 

il famoso ballerino Rudolf Nureyev.

 

Massine desiderava fare di Li Galli un luogo di culto, tempio della danza e delle arti. 

Nella sua autobiografia My Life in Ballet, egli descrisse il momento in cui vide l’arcipelago per la prima volta: “fui sopraffatto dalla bellezza della vista sul mare, col Golfo di Salerno che si estendeva in lontananza. Con Paestum a sud e i tre faraglioni di Capri all’estremità settentrionale del Golfo, essa possedeva tutta la potenza drammatica di un dipinto di Salvator Rosa. 

Il silenzio era infranto solo dal mormorio del mare e da qualche grido di gabbiano.

 

Sapevo che in quel luogo avrei trovato la solitudine che cercavo, un rifugio 

dalle pressioni estenuanti della carriera che avevo intrapreso.

 

Decisi dunque, proprio lì e in quel momento, che un giorno avrei acquistato l’isola e ne avrei fatto la mia casa”. 

Come nelle più belle fiabe, nel 1924 Massine avverò il suo sogno, nonostante il dissenso di amici e conoscenti: per trecento mila lire acquistò l’isola deserta, contornata da steppa e rocce. 

Lottando contro la natura e le furie del mare riuscì a scolpire delle terrazze e a interrare alberi di vite oltre ad edificare una villa che divenne la sua dimora: 

 

la celebre Villa Massine, progettata dall’architetto Le Corbusier,

suo rifugio dai problemi e i rumori del mondo, ormai lontano.   Non di rado egli si allontanava a piedi sull’isola per raccogliersi in meditazione davanti al tramonto, sognando ad occhi aperti di trasformare Li Galli in un centro d’arte che sposasse insieme la danza, la musica e la pittura. 

 

Tra quelle rocce, sotto il sole, egli creò tante delle sue più belle coreografie.

 

Tra quelle rocce, sotto il sole, egli creò tante delle sue più belle coreografie. La forza della natura nel 1964 demolì l’anfiteatro che Massine stava facendo costruire, in quel periodo egli scrive: “ero sull’isola a quel tempo e, precipitandomi fuori, vidi enormi pezzi di calcestruzzo frantumarsi in mare. Ma non sono scoraggiato e ho in programma di continuare con l’anfiteatro che ho disegnato secondo i modelli che ho visto a Siracusa, con l’aggiunta di una diga marittima per proteggerlo dalle tempeste. Quando tutto il lavoro sarà completato, intendo stabilirvi una fondazione che manterrà l’isola come un centro artistico (…)”.

Nel 1979 dopo la sua morte il figlio vendette Li Galli 

al grande ballerino Rudolf Nureyev

 

giunto un giorno a Positano per l’appunto a ritirare il Premio “Léonide Massine” per l’arte della danza.  

 

Nureyev si recava a villa Massine durante il mese d’agosto, egli personalizzò l’arredamento della casa donandole uno stile da Mille e una notte: drappeggi, cuscini e statue adornavano l’ambiente conferendole un fascino ricercato ed orientaleggiante.

Egli fece anche ricoprire le camere con sontuosi mosaici turchi e andalusi, 

vestito di stoffe preziose e dal suo tipico basco, animava l’ambiente 

con il suo spirito inquieto, sempre pronto ad ospitare 

amici e talentuosi ballerini.

Quanta bellezza in quell’isola che lo aveva accolto e che aveva nutrito e stimolato a lungo la sua arte e il suo spirito, quella terra che egli si inchinò  a baciare con gli occhi colmi di lacrime e il cuore gonfio di gratitudine, prima di salutarla per l’ultima volta e di non farvi più ritorno.   

 

Il suo genio aveva trovato ispirazione e pace in quel di Li Galli, regalando al mondo un artista completo, esibizionista e stravagante, che un giorno aveva confidato ad un amico: “tutto quello che si fa col corpo: la danza, l’amore, è armonia e bellezza”.

E forse da lontano, magari da sopra ad una barca o a un piccolo scafo, 

osservando quel piccolo arcipelago a forma di delfino


che ad oggi appartiene ad un privato, lasciandoci andare alla musica del vento e al canto dei gabbiani, potremo osservare lo spirito di quel grande ballerino che come un uccello volteggia su quella terra baciata dal sole, circondata dalle acque profonde del mare.

Ecco in lontananza Massine e Nureyev, intenti a danzare e a contemplare la natura, 

a creare le loro coreografie in comunione con quella vocazione artistica 

che ne diviene espressione,

essi ci ricordano di trovare rifugio in seno alla natura grezza, viva, irruenta, liberi di manifestare quel talento che brilla in ogni uomo come la piccola miccia di un grande fuoco. Angoli di paradiso sono disseminati nella nostra bella terra, luoghi che possiamo scoprire di volta in volta, rispecchiando il nostro sguardo curioso in località sconosciute ai molti, luoghi incantevoli amati da grandi artisti e personaggi e Li Galli è una di queste.   

 

Chissà che un giorno il richiamo delle Sirene si farà più forte e un nuovo talento abiterà l’isola ridando vita al sogno di Massine

 

 

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 Stelle al Sud

 

Stelle al Sud

 

Con la serie “Stelle al Sud” Myrrha va alla ricerca di alcuni tra i tanti personaggi celebri la cui arte si è in qualche modo intrecciata con la natura incontaminata di un Sud selvaggio e incantatore, divenuto per essi fonte di ispirazione, talvolta dimora d’elezione.

 

 

MUSEO DELLE CERAMICHE DI CASTELLI – Gemme del Sud – Numero 18 – Settembre-Ottobre

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museo delle ceramiche di castelli

 

Gemme del Sud

Castelli

 

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Istituito nel 1984 ed ospitato nel Chiostro dell’ex Convento dei Francescani, inagibile dopo il sisma del 2009, è attualmente ospitato nel Palazzo Municipale dell’Artigianato. Il museo offre una straordinaria testimonianza della produzione ceramica fiorita nel piccolo centro alle pendici del Monte Camicia, nel gruppo montuoso del Gran Sasso, ripercorrendo la storia della tradizione maiolica castellana, dall’alto medioevo sino ad epoche a noi prossime.

Di particolare interesse l’esposizione di 200 mattoni smaltati 

e decorati con motivi geometrici e naturalistici, oltreché religiosi, 

realizzati nel ‘500 dalle maestranze locali per coprire 

la volta della chiesetta dedicata alla Vergine;


essa lasciò il posto, nel 1615, alla Chiesa di San Donato, i cui soffitti a capriate furono analogamente coperti in maioliche, progetto unico nel panorama ceramico rinascimentale italiano. Oltre ad alcune opere di Orazio Pompeo e della sua bottega nonché alle splendide creazioni realizzate fra il ‘600 e l’800 dalle celebri dinastie di maiolicari quali i Grue, i Gentili, i Fuina e i Cappelletti (piatti, versatoi, vasi, fiaschi, pannelli), nel museo si possono ammirare alcuni esemplari di vasi farmaceutici della produzione cd. Orsini-Colonna, oggetto di ricercato collezionismo delle più importanti raccolte d’arte del mondo, dal Louvre al British al Metropolitan all’Ermitage, il quale ultimo conserva anche 80 manufatti prodotti a Castelli fra il ‘500 e il ‘700, di altissima qualità artistica.

 

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