IL SANTUARIO DI CASTELPETROSO Gemme del Sud Numero 22 Settembre ottobre 2021 ed. Maurizio Conte

cat-arte
cat-cultura

IL SANTUARIO di CASTELPETROSO

 

gemme

 Gemme del Sud
         Castelpetroso (IS)

 

Nel piccolo comune molisano di Castelpetroso, in provincia di Isernia, a pochi metri da un antico tratturo un tempo percorso dai pastori, incastonato tra il verde dei boschi, sorge il maestoso Santuario di Maria SS. Addolorata.

 

La storia di questo santuario ha inizio il 22 marzo 1888, 

giorno in cui la Vergine apparve per la prima volta:  

 

due contadine del luogo erano alla ricerca di una pecorella smarrita, quando una delle due si trovò di fronte ad un bagliore di luce nel quale vide l’immagine della Madonna genuflessa, con ai piedi il Cristo morto, lo sguardo rivolto verso il cielo e le braccia allargate in atto di offerta. Il 1° aprile 1888, giorno di Pasqua, la Vergine apparve anche all’altra contadina. Le voci sulle apparizioni si diffusero velocemente ed in tanti si recarono in pellegrinaggio in quel luogo. Anche Monsignor Francesco Macarone Palmieri, vescovo di Bojano, volle recarsi sul posto per indagare sulle presunte apparizioni ed anch’egli ebbe la grazia di vedere la Madonna Addolorata. Nel luogo delle apparizioni sgorgò una sorgente, la cui acqua miracolosa guarì un ragazzo affetto da tubercolosi. Così, il 28 settembre 1890, venne posta la prima pietra del Santuario di Maria SS. Addolorata di Castelpetroso e lo stesso Monsignor Palmieri diede ufficialmente il via ai lavori. 

Il Santuario di Castelpetroso,

 

definito da alcuni la “Piccola Lourdes italiana”, non è soltanto un importante luogo 

di pellegrinaggio per i fedeli, ma una vera e propria meraviglia 

per gli occhi di chiunque abbia la fortuna di visitarlo, 

 

specialmente per chi vi si reca d’inverno, quando, coperto dalla coltre nevosa, assume un aspetto quasi fiabesco.  Progettato in stile neogotico da Francesco Gualandi di Bologna, è stato interamente costruito in pietra locale, scolpita da artisti molisani, che nei loro intarsi sui rosoni della facciata principale sembrano rendere omaggio all’antica arte della tessitura del tombolo. Straordinaria anche la pianta: di tipo radiale, essa presenta sette bracci a simboleggiare il cuore di Maria trafitto da sette spade, i Sette Dolori, a ciascuno dei quali è dedicata una delle sette cappelle laterali.

 

Santuario_castel_petroso
fine-t-blu

 

LA FONTANA DELLA FRATERNA Gemme del Sud Numero 22 Settembre ottobre 2021 ed. Maurizio Conte

cat-arte
cat-storia

LA FONTANA DELLA FRATERNA

 

gemme

 Gemme del Sud
              Isernia

Per la sua misteriosa e travagliata storia e l’assoluta incertezza riguardo alle sue origini, la Fontana della Fraterna, ad Isernia, è un monumento molto affascinante. 

Oggi la fontana si trova in piazza Giosuè Carducci, ma nel passato subì diversi trasferimenti di sede prima di trovare una definitiva collocazione.

Edificata nel XIII secolo, periodo in cui l’Italia è interessata 

da un forte rilancio per le architetture civili,

 

prende il nome dalla sua originaria collocazione a Piazza Fraterna, di fronte alla Chiesa della Concezione, dove aveva sede l’antichissima confraternita fondata da Pietro Angelario nel 1289, futuro papa Celestino V. Nel 1835 la nobile famiglia isernina Rampini trasferì la fontana in Largo della Concezione e la fece agglomerare con un’altra già esistente, conferendole l’aspetto attuale. 

Più tardi, nel 1889, secondo l’archivio storico comunale, il monumento venne nuovamente spostato, questa volta in via Marcelli e sempre vicino alla Chiesa della Concezione. Danneggiata dai bombardamenti il 10 settembre 1943, il monumento fu poi ricostruito per anastilosi, usando cioè le parti recuperate e di nuovo trasferita nell’attuale sito, Piazza Giosuè Carducci. 

La fontana è costituita da sei archi a tutto tondo disposti a loggiato, con sei getti d’acqua. Osservandola attentamente, si nota che la forma delle colonnine e dei capitelli sono diverse fra loro. Ciò è molto comune per le opere medievali, poiché i materiali usati – blocchi in pietra locale ed in travertino – erano di “spolio”, vale a dire reimpiegati, prelevati da strutture edificate in vari periodi, principalmente in epoca romana, di cui Isernia è ricca. Per questo motivo, 

la fontana presenta anche alcune epigrafi di ardua decifrazione. Le lettere D ed M visibili su di essa sono una dedica agli “dei Mani” (anime dei defunti).

 

Al centro vi è una lastra in marmo decorata da due delfini e motivi vegetali, proveniente sicuramente da un edificio sepolcrale datato tra 99 a.C. e 50 a.C. 

Un’altra lastra reca l’epigrafe AE PONT ed una legenda vuole che sia appartenuta al sepolcro di Ponzio Pilato, originario di queste zone.

 

 

FONTANA_FRATERNA
fine-t-blu

 

LA CHIESA DELL’IMMACOLATA A NOVOLI Gemme del sud – Numero 22 – Settembre ottobre 2021 Ed. Maurizio Conte

cat-arte
cat-cultura

LA CHIESA DELL’IMMACOLATA A NOVOLI

 

gemme

 Gemme del Sud

             Novoli

A Novoli, in provincia di Lecce, la chiesa dell’Immacolata (precedentemente detta della Mater Dei), dalla semplice facciata,

custodisce al suo interno un’importante testimonianza 

dell’arte bizantina nel nostro Meridione.


L’interno è ad un’unica navata con volta a crociera, nella cui abside semicircolare con due nicchie ospitanti statue si trova un notevole affresco bizantineggiante, rinvenuto nel 1865 e risalente ai primi decenni del XIV secolo, che raffigura una rarissima immagine della Madonna Odigitria. Il culto di tale Vergine in Puglia ha origini antiche ed è praticato nel Salento e nella Valle d’Itria (nome, quest’ultimo, probabilmente derivante proprio dal termine “odigitria”).

La Madonna Odigitria è un tipo di iconografia cristiana – proveniente dall’omonima icona venerata a Costantinopoli dal V secolo fino alla caduta della città ad opera 

degli Ottomani nel 1453, quando l’icona andò persa – diffusa specialmente 

nell’arte bizantina e russa del Medioevo.


Tale iconografia presenta l’immagine della Vergine che tiene in braccio il Bambino Gesù (seduto nell’atto di benedire e con una pergamena in mano) e lo indica con la mano destra, gesto da cui deriva l’appellativo “odigitria”, dal greco bizantino “colei che conduce, indicando la direzione”. 

 

Nell’affresco della chiesa dell’Immacolata, ai lati del volto della Madonna e a destra del Bambino sono presenti monogrammi in greco. 

 

Nel medesimo edificio vi sono anche i resti di un altro affresco bizantino nei quali sono visibili la Vergine ed un angelo, che farebbero pensare alla rappresentazione di un’Annunciazione o, seguendo invece altri studi più recenti, della “Madonna del Risorto” (in dialetto locale “della Cutùra”, cioè “del Pane”), poiché tale Madonna è venerata in altri luoghi del Salento dove era professato il culto greco-bizantino. Per il particolare tipo di iconografia, questo affresco è unico nella sua specie nella storia dell’arte bizantina dell’Italia meridionale.

 

NOVOLI_MADONNA
fine-t-blu

 

GARGANO IL MONTE DEL SOLE di Santa Picazio – Numero 22 – Settembre ottobre 2021 – Ed. Maurizio Conte

cat-ambiente
cat-storia
cat-arte

GARGANO IL MONTE DEL SOLE

 

come di un luogo di estremo interesse, ma erano mancate le occasioni per verificarlo, mi era mancato il tempo, avendone trascorso molto fuori per motivi di studio, e mi era mancata un’auto personale per poter decidere un percorso in piena autonomia.

Poi capita che all’improvviso, quando non ci pensi più, ti ritrovi ad avere una macchina tua, ed un figlio di tre anni con una tosse che potrebbe giovarsi di aria buona, proprio di quella del nostro Gargano, bisognava solo decidere dove andare per poterla respirare a pieni polmoni. Interpellato mio marito, che da un po’ di tempo, sollecitato dai miei racconti, ha scoperto il piacere di fare delle escursioni sul territorio, azzardo la mia proposta. Dopo un attimo di esitazione per il fatto che si trattava di un percorso poco noto, decidiamo di andare.

 

Partiamo nascondendo una certa ansia per la viabilità irregolare ed approssimativa. L’ansia, però, si spegne all’improvviso; si spegne quando si apre di fronte a noi 

uno spettacolo naturale di rara bellezza!

 

Scendiamo dalla macchina quasi intimiditi; il paesaggio è fantastico. Il Gargano, infatti, anche per chi ci è nato, si rivela all’improvviso. Il Gargano si cela come in uno scrigno, e quando credi di aver pescato anche l’ultima gemma, ne scopri un’altra. Poi scopri che esiste addirittura un doppio fondo, e che le cose più preziose sono ancora tutte da scoprire. Il casale di Devia è una di queste! Lo spettacolo che si apre davanti ai nostri occhi ci toglie il fiato.

Restiamo muti ad osservare il mare, un mare di un incredibile colore, a cui le Tremiti movimentano l’orizzonte. Restiamo a lungo accovacciati sul limite dell’altopiano.


Sotto di noi la collina degrada per 250 metri, e si incunea dividendo i due laghi costieri di Varano e di Lesina. Penso alle tante spiegazioni che si danno ai toponimi; ma, per me, Devia può significare solo separa”! II Monte d’Elio, infatti, si protrae verso il mare separando i due laghi che, come due languidi occhi, sembrano destinati ad osservare l’infinito cielo!   

 

Decidiamo che il posto merita una esplorazione più approfondita, ed

 

Iniziamo con la visita agli importanti ruderi che ci siamo lasciati alle spalle 

per l’ansia di affacciarci sul panorama.

 

È difficile definire come chiesa quei ruderi, ma la struttura è chiara. Proviamo ad entrarci. Il tetto è praticamente scomparso; un paio di falchi danno segno di inquietudine ed abbandonano la trave su cui erano appollaiati. Una mucca, forse stanca per aver brucato l’erba non più tanto tenera, riposa ai piedi di un affresco coperto dalle ragnatele. C’è anche un asino che, come tutti gli asini, non mostra alcun interesse per le novità; sembra crogiolarsi nella sua solitudine. I nostri passi, seppure attenti, mettono in fuga una lucertola. Senza muoverci dal punto in cui ci troviamo, diamo uno sguardo in giro.

 

Sulle pareti notiamo degli affreschi che si sforzano di resistere al tempo 

e alle intemperie! Quel luogo, di cui pure avevo sentito parlare con interesse, 

sembra lontano anni luce dall’interesse degli uomini

 

che, solo un po’ più a valle, cominciano anche a parlare di turismo! Continuiamo l’esplorazione, inerpicandoci per quanto possibile con un bimbo al seguito.   

 

Scopriamo altri ruderi, mentre avanza il desiderio di saperne di più; bisognerà avviare una vera ricerca, e mi riprometto anche di interrogare gli amici di San Nicandro per capire i motivi di tanto abbandono. Da quel giorno, dal giorno di questa nostra prima esplorazione, sono passati tempo e storia.

Sono passati anni durante i quali, fra alti e bassi, abbiamo assistito anche da vicino 

ad un felice recupero del sito. La chiesa restaurata si è rivelata un vero gioiello. 

Gli scavi archeologici lungo i fianchi della montagna hanno messo in luce 

i ruderi del borgo di Devia.

 

Ora sono solo dei ruderi, dei quali solo alcuni sembrano degni di attenzione. Peccato, perché Devia deve aver avuto un passato importante. Già dal VII secolo erano iniziate le escursioni dalmate sui nostri litorali, governate da uno Juppano, una particolare figura di capo villaggio. ln seguito, secondo alcuni documenti risalenti all’Xl secolo, ritrovati nell’ abbazia delle Tremiti, Devia fu sede fortificata di una colonia slava. Ricordata nei documenti come civitas, pare sia stata fondata per volere dei Bizantini proprio a tutela delle coste perennemente soggette agli sbarchi di popolazioni poco gradite. Con il tempo, forse per l’arrivo dei Normanni, Devia viene abbandonata a vantaggio della piana Sannicandrese.

Di tutto il villaggio resta la chiesa. Una fortuna perché si tratta di un vero gioiello, 

con un importante ciclo di affreschi.

Ceduta nel 1032 all’abbazia di Tremiti dal Vescovo Giovanni da Lucera. Santa Maria iuxta mare, per la sua particolarissima posizione fronte mare, mostra all’esterno tre absidi semi circolari. ln quella centrale esiste, e resiste, un affresco del Cristo Pantocratore. Alcune monofore contribuiscono, filtrando la luce, a focalizzare gli affreschi lungo le pareti. Gli affreschi tutti molto interessanti, meriterebbero una trattazione a parte per il loro richiamo allo stile cavalleresco e crociato, una trattazione troppo lunga per iniziarla ora. L’abbazia delle Tremiti, e quasi tutte le chiese garganiche, che si avvalevano del mare come via di transito, erano importanti proprio in considerazione delle scarse ed impraticabili strade interne di quei tempi. Ai lunghi periodi di culto seguirono crisi e desolazione, e poi ancora una felice ripresa nel XVI secolo che durò fino al 1744. Da quel momento in poi inizia un nuovo abbandono, che la trasforma nella stalla sfondata che noi ritrovammo negli anni 60.

 

L’interesse per il sito riprese vigore, anche grazie alle mie convincenti chiacchierate, solo nel 1970 quando iniziarono finalmente i dovuti restauri!

 

Ora c’è un nuovo black-out! Ancora una volta si è spento l’interruttore culturale su Devia. Ne attendiamo le motivazioni che sembrano esclusivamente politiche. Quindi, lontane dalla soluzione. Quest’anno ci sono tornata, presa dalla nostalgia, accompagnata da quel bimbo di tre anni che oggi ne ha cinquanta, ma non più con lo stupore di allora. Sono scesa dalla macchina con l’amarezza di chi sa già, di chi conosce lo scarso valore che si riserva oggi, più che mai, ai nostri Beni culturali.

 

FOTO-PICAZZI
ne_vevo_sentito_parlare
ghirigoro_ambiente
santa_picazio

 © Foto di Ivan Galavotti

 

LA CATTOLICA DI STILO Gemme del Sud Numero 21 giugno luglio 2021 Ed. Maurizio Conte

cat-storia
cat-arte

LA CATTOLICA DI STILO

 

Gemme del Sud

Stilo

 

gemme

Di origine greca, passata poi sotto il dominio dei Bizantini nel X secolo, Stilo (RC) è stato il più importante centro bizantino della Calabria meridionale.

 

Conosciuta per aver dato i natali al filosofo Tommaso Campanella, celebre autore 

de La Città del Sole, Stilo custodisce un piccolo gioiello architettonico: la Cattolica. 

 

In Calabria, dei monaci orientali avevano trovato rifugio dalle persecuzioni e si erano insediati alle pendici del Monte Consolino in agglomerati di grotte dette laure, ancora visibili sul territorio, dove perseguivano il loro ideale di povertà e distacco dal mondo. Furono proprio questi monaci a fondare, tra la fine del X e gli inizi dell’XI secolo, la Cattolica di Stilo.

La Cattolica è un edificio di piccole dimensioni che si distingue per la ricchezza cromatica e le forme geometriche tipiche delle chiese orientali.

 

E’ formata da un cubo sormontato da quattro cupolette poste in corrispondenza degli angoli delle facciate ed una centrale in posizione elevata rispetto alle altre. L’interno della chiesa, a croce greca, è composto da uno spazio quadrato, diviso in nove parti uguali dalle quattro colonne che ne segnano gli angoli. Ciò che colpisce è soprattutto l’uso sapiente della luce, quasi abbagliante nella parte superiore e tenue nella parte bassa, così da favorire il raccoglimento.

 

La decorazione interna mostra ancora l’intensità dei colori degli affreschi, realizzati 

in epoche differenti, di cui i muri della chiesa erano interamente ricoperti.

 

Tra questi è possibile ammirare ancora oggi una serie di figure che spiccano per la loro vivacità cromatica, come l’immagine della Dormizione della Vergine, l’Annunciazione e l’Ascensione.   

 

Il recupero della Cattolica di Stilo si deve all’archeologo Paolo Orsi, soprintendente per le Antichità della Calabria, che la individuò nel 1911 e la sottopose ad un lungo restauro

 

cattolaonmao
fine-t-storia

 

LA CHIESA DI SANT’ANTIOCO DI BISARCIO Gemme del Sud – Numero 21 Giugno Luglio 2021 Ed. Maurizio Conte

cat-storia
cat-arte

LA CHIESA DI SANT’ANTIOCO DI BISARCIO

 

gemme

Gemme del Sud

Ozieri

 

Domina la piana di Chilivani, nel comune di Ozieri, la chiesa di Sant’Antioco di Bisarcio. Posta su di uno scenografico sperone roccioso di origine vulcanica,

 

la chiesa è un raro esemplare dell’architettura romanica sarda anche 

per grandezza e stato di conservazione, 

 

realizzata con la trachite, tipica pietra locale. Ex Cattedrale della diocesi di Bisarchium/Guisarchum tra l’XI e il XVI secolo, la chiesa è frutto di tre interventi costruttivi distinti.   

 

La data della posa della prima pietra è incerta poiché un incendio avvenuto tra il 1082 e il 1127 danneggiò la chiesa in parte, e tutto l’archivio nel quale era custodita la notizia. La prima costruzione risale alla seconda metà dell’XI secolo, mentre avvenne entro il 1153 la ricostruzione post-incendio, nella quale fu riedificata l’aula a tre navate, l’abside ed il campanile. Infine, una terza fase antecedente il 1174 durante la quale fu aggiunto il bellissimo portico decorato con il fregio della caccia. 

Nota è invece

la consacrazione della Cattedrale di Bisarcio, celebrata sotto l’episcopato 

di Giovanni Thelle l’1 settembre 1164, 

 

giacché se ne conserva memoria in una trascrizione apocrifa di una fonte manoscritta. La conferma proviene dall’individuazione di un’epigrafe graffita in un concio del prospetto absidale presente all’interno della chiesa, in caratteri onciali, che riporta l’anno 1164 ed il nome del vescovo Giovanni Thelle.   

 

La chiesa ha pianta longitudinale a tre navate, con abside semicircolare, affiancata da un campanile. Addossato alla facciata c’è un ampio atrio realizzato su due piani. 

 

La sala che un tempo era adibita alle riunioni del clero con il vescovo, 

situata al secondo piano della facciata, conserva un camino 

che ha la cappa a forma di mitria vescovile, 

un unicum nel suo genere!

 

biasracaioajkapo
fine-t-storia

 

VILLA JOVIS A CAPRI di Fabio de Paolis – Numero 21 – Giugno Luglio 2021 – Ed. Maurizio Conte

cat-arte
cat-storia
 

VILLA JOVIS A CAPRI

 

fabio-de-paolis_storia

a bordo di una veloce esareme, probabilmente la “Ops”, l’Imperatore Tiberio Giulio Cesare Augusto giunse nell’isola di Capri per rimanervi fino alla fine dei suoi giorni

 

Capri era allora una montagna in mezzo al mare, abitata da gente greca longeva, ricoperta di lauri, mirti, aranceti, alti pini.

 

Un’isola odorosa di resine, ricca di boschi e di grotte con cinghiali e capre. Un’isola che rendeva difficili eventuali attacchi via mare, che non aveva porti, ma solo approdi naturali e sorvegliati come quello di Tragara (tra i faraglioni e lo scoglio del Monacone). Un luogo ideale per quel monarca che, non sentendosi più al sicuro, voleva allontanarsi da Roma e dai suoi complotti. Andar via per sentirsi lontano e protetto dalle continue ostilità che serpeggiavano nei “palazzi” romani. La figura dell’Imperatore Tiberio ha sempre diviso il giudizio degli storici. Furono soprattutto Tacito e Svetonio a riportare fatti presunti e pettegolezzi dei nemici politici e del popolino romano. Pensiamo agli ultimi anni di vita trascorsi a Capri: Tiberio viene descritto come un mostro feroce in preda alla follia, un despota dalla personalità crudele e senza scrupoli, un sadico avvezzo ai vizi ed alla lussuria, nonché preda di continui peccati di gola. Si narrava che fosse stato tanto libero in fatto di lascivia che fosse soprannominato anche “Liberius”. 

Dall’altra parte, invece, autorevoli scrittori e storici quali Plinio il Vecchio, Valerio Massimo, Seneca e Velleio Patercolo non accennarono minimamente a suoi possibili malcostumi, ma, al contrario, diedero di Tiberio un giudizio sostanzialmente positivo: quello di persona proba, distaccata, con un carattere chiuso, un uomo riservato e tormentato, che ovunque vedeva traditori e spie, ma al contempo generoso e con un alto senso dello Stato, attento ai bisogni del popolo romano e delle sue Province. Questo perché Tiberio, sotto Augusto, era stato anche un valente generale (c’è chi sostiene il migliore della sua epoca), capace di pacificare la Germania e tenere sotto controllo la situazione in Pannonia e Dalmazia. Un Imperatore che, successivamente, decise di seguire scrupolosamente i dettami augustei, che accentuò il potere imperiale nei rapporti con il Senato e soprattutto che mantenne la pace ai confini, chiudendo per lungo tempo il tempio di Giano. Sta di fatto che l’Imperatore, giunto a 68 anni, si trasferì a Capri, dedicandosi a trasformarla in un impenetrabile rifugio dorato e profondendo nell’isola ricchezze e tesori. Si dedicò da subito alla costruzione di strade, ville e palazzi destinati ad accogliere i suoi uffici, e di un nuovo porto, costruito a Marina Grande. Sui punti più elevati e strategici face costruire 12 grandi ville dedicate a divinità, ma quella di Giove,

 

“Villa Jovis”, sul promontorio orientale dell’isola, a 334 metri sul livello del mare, 

fu il suo capolavoro, e per 10 anni il principale palazzo del governo di Roma. 

 

Collocata su una rupe nel luogo più inaccessibile dell’isola, altissima sul mare, Villa Jovis era una costruzione che fungeva da palazzo imperiale, da imprendibile fortezza e da pretorio. Con lo stile tipico delle abitazioni signorili romane, arredata con mosaici, statue, marmi e decorazioni, la dimora si estendeva per 7.000 metri quadri ed era formata da enormi terrazze, giardini e ninfei che si allungavano sulle pendici del Monte Tiberio. Una residenza accessibile solo via terra mediante un angusto passaggio sempre ben controllato da numerosi soldati. Attraverso le comunicazioni del Senato, i rapporti di polizia e le relazioni dei suoi ministri, ma anche grazie alla sua rete di spie, alle lettere provenienti da amici e parenti e ad un faro utilizzato per le comunicazioni con la terraferma, da Villa Jovis l’Imperatore controllava ogni cosa. Così lo storico Gregorovius: “Da qui Tiberio vedeva tutto ciò che si svolgeva sull’isola e scorgeva anche le navi che venivano dall’Ellade, dall’Asia, dall’Africa, oppure giungevano da Roma”. 

Il servizio delle comunicazioni ottiche, che si attuava altresì mediante un codice segreto con fumate di giorno e coi fuochi delle torce di notte, era affidato ad uno speciale corpo di vedette. Sulla costa del golfo di Napoli operava poi un sistema di torri costiere per le comunicazioni ottiche e di veloci liburne che consentivano all’Imperatore di ricevere rapidamente messaggi ed impartire ordini. Le giornate che Tiberio trascorreva a Capri erano laboriose. Verificava con cura le nuove leggi per Roma e dal suo studio ogni giorno risolveva i problemi provenienti dalle numerose Province dell’Impero. Appassionato cultore di letteratura e di filosofia, era circondato di grammatici, bibliofili e calligrafi con cui spesso discorreva ed a cui affidò la cura della biblioteca privata ospitata nel proprio palazzo. L’edificio era circondato di ninfei ed esedre, seguiva l’andamento del terreno, con forti dislivelli superati da numerosi piani e scalinate che consentivano di salire di roccia in roccia fino al punto più alto, ove era collocata la monumentale loggia imperiale.

Un’enorme terrazza con la sala del triclinio ed un belvedere che dominavano 

tutta l’isola ma, soprattutto, dai quali si ammirava 

lo spettacolo del Golfo di Napoli, 


una curva che va da capo Miseno, con le isole di Ischia e Procida, fino alla costiera sorrentina, a quella amalfitana ed al Cilento. Era lì che Tiberio trascorreva intere giornate in profonda solitudine, rinunciando addirittura alla presenza della sua scorta, della sua servitù e del segretariato imperiale, dedicandosi, invece, a passeggiate solitarie lungo il belvedere della sua villa. Sul suo terrazzo aveva fatto piantare alberi di lauro, perché riteneva che durante i temporali le folgori non avrebbero colpito le piante di alloro. 

Nella loggia imperiale Tiberio aveva l’abitudine, prima di sedersi a tavola, di bere a digiuno del vino per stimolare l’appetito, una sorta di aperitivo ante litteram. Sulla sua tavola erano presenti frutta e ortaggi, pere, uva passa, cavoli e cetrioli. Di questi aveva una vera passione, li mangiava con frequenza quotidiana e, per questo, si era fatto costruire speciali cassette munite di ruote in cui li coltivava, cosicché in inverno potesse spostare le piante per esporle al sole.

 

Non lontano dalla loggia imperiale, quasi all’improvviso, il baratro, 

una rupe di 300 metri a picco sul mare, chiamata poi 

la “Carneficina del Mostro”, o “il Salto di Tiberio”, 

ove si narrava che l’Imperatore 

vi facesse precipitare 

le proprie vittime.

 

Gli eventuali sopravvissuti sarebbero stati poi finiti in mare da marinai armati di arpioni e bastoni. Si raccontava anche che a Villa Jovis Tiberio disponesse di numerose camere da letto, tutte adorne di statue e di libri con le posizioni amorose, come i molles libros scritti dalla poetessa greca Elefantide. Numerosi anche i dipinti lascivi come quelli di Pausia. Svetonio addirittura narra che Tiberio, in una divisione ereditaria, davanti alla scelta tra un quadro rappresentante una scena erotica della ninfa Atlanta con il re Meleagro ed un milione di sesterzi, senza indugio avesse scelto subito la pittura, mettendola nella camera da letto. 

Al centro della villa c’erano le cisterne dedicate alla raccolta dell’acqua piovana, usate sia come acqua potabile, sia come riserva destinata alle terme. L’impianto idrico si estendeva lungo tutto il lato del palazzo e quello destinato a bagno era composto da una serie di cinque ambienti paralleli al corridoio; nel calidarium vi erano due absidi, una con la vasca, un’altra con il bacino di bronzo per le abluzioni. Secondo Svetonio, in alcune grotte Tiberio si intratteneva, come ben noto nei costumi della Roma antica, anche con giovani fanciulli. Ma come altre dicerie, anche questa non è supportata da ulteriori fonti, se non il solito Svetonio. Invece 

 

è certo che l’Imperatore amasse fare le abluzioni, soprattutto nella Grotta Azzurra, dove teneva colte conversazioni ed organizzava raffinati conviti. 


Ne era affascinato. Trasformata in un grandioso e silenzioso ninfeo sorto nel mare, fra giochi di luci e raffinati effetti solari filtrati dall’azzurro del mare, aveva fatto ornare la grotta di molte statue rappresentanti sirene, tritoni, ninfe e divinità. Opere d’arte ispirate al mondo classico, che applicate alla parete rocciosa, all’altezza del livello marino, apparivano uscite spontaneamente dalle acque. Abbandonata per decine di secoli, la villa venne riscoperta nel XVIII secolo, sotto il regno di Carlo di Borbone, e subì dei devastanti scavi durante i quali vennero asportati molti preziosi pavimenti in marmo. Villa Jovis fu poi oggetto, nel 1932, di un intervento di recupero, diretto dall’archeologo Amedeo Maiuri. Furono rimosse le macerie che si erano nuovamente accumulate sulle rovine della villa, che ne risultarono rivalorizzate. Ad Amedeo Maiuri è stata intitolata la strada che, partendo dal centro della contrada di Tiberio, conduce alle rovine.

 

villa_jovis
fine-t-storia
era_la_primavera

 

FRANCA FLORIO REGINA DI SICILIA di Gaia Bay Rossi – Numero 21 – giugno lugio 2021 – Ed Maurizio Conte

cat-stile
cat-arte
cat-storia

FRANCA FLORIO REGINA DI SICILIA

 

gaia_bay_rossi_stile
 

Queste le parole di Gabriele D’Annunzio, uno dei numerosi ammiratori di Franca Florio, come anche il Kaiser Guglielmo II di Germania che la soprannominò «Stella d’Italia».

 

 

 

Definizioni perfettamente rappresentate dal ritratto che le fece Giovanni Boldini nel 1901, poi costretto a modificarlo perché giudicato troppo audace dal committente, Ignazio Florio jr, marito di Franca. Nella versione definitiva, 

Boldini ritrae donna Franca in tutto il suo fascino e femminilità, 

avvolta da un elegante abito di velluto nero, con al collo 

la famosa collana di perle regalatale dal marito


– che si narra le fosse stata donata per farsi perdonare i numerosi tradimenti. La collana era lunga 1 metro e 40, con trecentosessantacinque perle di Cartier di grosso calibro. Si racconta che mise in imbarazzo persino la Regina d’Italia, Elena di Savoia, che possedeva una collana di perle simile, ma non così bella e preziosa.   

 

La favola della collana (una perla per ogni tradimento) è stata smentita più volte dai familiari, ma si è consolidata nel tempo per la fama di tombeur de femmes di Ignazio jr. Reputazione che, all’inizio della loro relazione, aveva causato un ostico diniego ad un possibile matrimonio da parte della famiglia di lei, gli aristocratici siciliani Jacona della Motta di San Giuliano. 

Per sottrarre la giovane all’influenza del rampollo della famiglia Florio, 

si trasferirono con la ragazza a Livorno, nonostante lui fosse 

uno dei migliori “partiti” d’Europa, oltre che 

intelligente e molto innamorato.


I due giovani, però, continuarono a scriversi tante e tali lettere d’amore fino a far capitolare il padre di lei e, nel 1893, a meno di vent’anni, Franca entrò a pieno titolo nella famiglia Florio. In quel periodo si trovava a Palermo il compositore e musicista Johannes Brahms, che dopo essersi esibito per un gruppo ristretto di partecipanti durante un ricevimento dai Florio, decise di regalare alla famiglia il suo pianoforte. Lo strumento venne messo all’Arenella, nella sala centrale della palazzina liberty “I Quattro Pizzi” (così chiamata per le quattro guglie che la sovrastano), dove lo si può ammirare tutt’oggi.   

 

Donna Franca era

la protagonista indiscussa della vita del bel mondo palermitano, 

parlava tre lingue straniere e, con il suo fascino e la sua eleganza spontanea, 

divenne in breve tempo la “regina di Sicilia”, 


aumentando il prestigio della famiglia Florio in tutta Europa. Oltre al carisma personale, era un’abile imprenditrice e aiutò il marito Ignazio, uno dei più importanti capitalisti dell’inizio del XX secolo, nella gestione dell’economia della famiglia che possedeva banche, industrie, cantieri navali, fonderie, tonnare, saline, cantine vinicole (il famoso Marsala) e, soprattutto, una delle più grandi flotte europee, la Società di Navigazione Italiana, prima a collegare la Sicilia con il continente e ad attivare rotte transatlantiche regolari tra la penisola italiana e il nord America.   

 

Ignazio e Franca Florio erano una coppia perfetta: giovani, belli, ricchi e generosi, sostennero la maggior parte delle più grandi attività culturali e imprenditoriali della città, consolidando il loro immenso impero economico

Donna Franca si dedicava alle opere umanitarie ed al sostegno 

delle classi sociali disagiate: era una visionaria coraggiosa

 

e decise di realizzare i primi asili nido all’interno degli stabilimenti, tra cui quelli della tonnara di Favignana, per aiutare le donne lavoratrici in difficoltà. 

I coniugi crearono poi una scuola per le giovani lavoratrici analfabete 

della società tessile, un fondo per gli operai bisognosi e l’Istituto dei ciechi 

a Villa del Pigno, il primo del genere ad essere aperto in Italia. 


Si dedicarono anche ad attività culturali come il completamento del Teatro Massimo, dopo oltre venti anni di battaglie burocratiche e accadimenti d’ogni genere: con i suoi 7.730 metri quadrati, è ancora oggi il più grande teatro lirico italiano e il terzo in Europa, dopo l’Opéra di Parigi e lo Staatsoper di Vienna.

Franca aveva un ruolo fondamentale accanto al marito nei salotti mondani 

delle grandi capitali europee, e all’epoca anche Palermo lo era, felice meta 

di regnanti, capi di Stato, artisti, poeti, musicisti e scrittori. 

 

Alta nobiltà e teste coronate furono ospiti dei Florio nella grande villa della vasta proprietà terriera dell’Olivuzza, tra cui i sovrani inglesi, Edoardo VII con la moglie Alessandra, l’arciduca ereditario d’Austria Francesco Ferdinando e lo zar Nicola II, ospite a Villa Florio all’Arenella. Banchieri come Morgan, Vanderbilt e Rothschild arrivavano a Palermo per affari, ma anche per potersi deliziare dell’ospitalità e del grande fascino di donna Franca, e così molti artisti come Pietro Canonica, che ne eseguì una scultura del busto a grandezza naturale, i pittori Boldini e Michetti, letterati come Maupassant, Oscar Wilde e Montesquieu (che le dedicò un’ode), D’Annunzio e Matilde Serao che la definì “divina immagine muliebre”, musicisti da Leoncavallo a Mascagni, Puccini e Wagner, e il tenore Enrico Caruso. Tutti soggiogati dal suo fascino. L’anziano Imperatore Francesco Giuseppe le regalò una tromba identica a quella della sua auto, cosicché lei potesse girare per le strade di Vienna assaporando il rispetto e gli stessi privilegi riservati alla vettura dell’Imperatore.

Si narra anche che una sera, alla Scala di Milano, Arturo Toscanini girò per un attimo le spalle all’orchestra mentre era in corso un applauso, per dirigere il suo inchino verso un palco tra i tanti: era entrata Franca Florio.

 

La sera del 16 maggio 1897, all’inaugurazione del Teatro Massimo a Palermo, si rappresentava il Falstaff di Verdi, ma gli occhi di tutti erano calamitati dal fascino di donna Franca. Il teatro era splendido e immenso, la gente lo ammirava come se fosse un monumento. Eppure la vera attrazione quella sera era lei, avvolta da una stola di zibellino a coprirle parte del bellissimo abito lungo di seta color albicocca che amplificava le luci brillanti emesse dai diamanti della sua parure.   

 

Come ricorda Nello Ajello: “Franca Florio viveva fra cronaca e leggenda. Leggenda erano le sue toilette, la sua servitù, le sue villeggiature, da Saint-Moritz a Beaulieu-sur-mer, i teatri che frequentava e che finanziava, gli yacht su cui navigava, le case che abitava, dalla villa dell’Olivuzza all’appartamento in Villa Igiea alla dimora di Favignana”.

Sono gli anni di massimo splendore, della sfavillante Belle Époque,

 

vissuti senza badare a contenere le enormi spese per gioielli e abbigliamento (donna Franca indossava esclusivamente abiti tagliati per lei dal sarto parigino di origine britannica Charles F. Worth), o a quelle di rappresentanza per ville, servitù e manutenzione di sei panfili, tra cui i lussuosissimi yacht “Sultana” ed “Aegusa”, o per i costosissimi ricevimenti e gli innumerevoli viaggi.   

 

Dopo varie vicende tristi, legate soprattutto alla perdita di tre bambini, fra cui l’unico figlio maschio, il piccolo erede “Baby Boy” sul quale Ignazio aveva riposto tutte le sue aspettative, cala il sipario sulla storia della famiglia: tra la fine degli anni Venti e la metà degli anni Trenta, per la famiglia Florio ci fu il crollo economico. Un destino segnato in parte da scelte sbagliate, forse anche da un tenore di vita esagerato rispetto ai cambiamenti storici e sociali, ma soprattutto da uno sviluppo economico che ha visto favorire l’espansione industriale delle regioni settentrionali rispetto al Meridione d’Italia.   

 

Nel centenario della nascita di Leonardo Sciascia, ecco le sue parole sulla vicenda di Franca Florio:

 

“Una storia proustiana, di splendida decadenza, di dolcezza del vivere, 

di affabile ed ineffabile fatalità”.

 

franca_Florio
ghirigo_stile
unica_svela_ritmo_divino

 

VILLA MALAPARTE A CAPRI di Aurora Adorno – Numero 21 – Giugno Luglio 2021 Ed. Maurizio conte

cat-stile
cat-arte

VILLA MALAPARTE A CAPRI

 

aurora_adorno_stile

la villa dove Brigitte Bardot amava prendere il sole.

“Il giorno che mi sono messo a costruire una casa non credevo che avrei disegnato me stesso” ammette Curzio Malaparte e ribattezza la villa Casa come Me

Nome d’arte di Kurt Erich Suckert, nato a Prato nel 1898, Malaparte è espressione pura dell’artista poliedrico dai mille volti: il poeta, l’agente segreto, il religioso e il regista – sceneggiatore voce del Neorealismo italiano. Le sue tante facce sono impresse in quella lingua di roccia a strapiombo sul mare acquistata nel 1936 per dodicimila lire e su cui sorgerà Villa Malaparte.

La casa diventerà uno dei gioielli dell’architettura razionalista italiana attribuita all’architetto Alberto Libera, col quale Curzio Malaparte litiga 

e al quale rinnega totalmente l’idea originale che ritiene invece 

il frutto della propria immaginazione:


“E poiché a un certo punto, dove la roccia si innesta al monte, la rupe si incurva, si abbandona, formando come una specie di collo esile, io qui gettai la scalinata, che dell’orlo superiore della terrazza scende a triangolo”. 

Egli si innamora subito di quella terra durante la visita a un amico e nel suo celebre romanzo La pelle scrive: “Lungo i fianchi del Vesuvio, fiumi di lava scendevano verso i villaggi sparsi nel verde dei vigneti. Il bagliore sanguigno della lava incandescente era così vivo, che per un immenso spazio intorno i monti e la pianura n’erano percorsi con incredibile violenza”. Così, pieno di passione per Napoli, per Capri e per quella natura rigogliosa che rende incantevole il paesaggio e grazie all’amicizia con l’allora Ministro degli Affari Esteri Galeazzo Ciano, riesce a ottenere il permesso per costruire una villa sull’estremità di Punta Masullo, a Est dell’isola di Capri. 

Malaparte progetta la sua casa con il tetto rosso composto da scale che ascendono al cielo e culminano in un terrazzo aperto.

Nella villa l’artista imprime tutte le sfaccettature del suo carattere, 

proteso alla ricerca di una vita appassionata, originale, 

lontana dalla monotonia borghese:

 

il rosso richiama la falce e il martello del comunismo russo, mentre gli affacci poetici e gli interni minimalisti raccontano il suo lato spirituale e rimandano a una necessità interiore di spartana semplicità, in cui una sorta di ascetismo aleggia nelle stanze e nelle pareti spoglie che circondano la villa come in un mistero.   

 

E che cos’è l’arte se non il tentativo dell’artista di coltivare nel buio e nel silenzio quella creatura che si dibatte nelle sue viscere, e che proprio di quel mistero si nutre e che in seno a questo nasce? 

L’arte di Curzio Malaparte è figlia della solitudine, della natura che abbraccia la villa, dei segreti che il vento sussurra alle rocce e delle verità che le onde che si infrangono sugli scogli raccontano durante le lunghe meditazioni a picco sul mare. Come disse Luigi Martellini, lo studioso che più di tutti conosceva l’opera del Malaparte: la letteratura era per Curzio una sperimentazione, la verifica dei suoi stessi limiti, un’assurda ricerca della verità. 

Il poeta indaga infatti Dio e lo cerca in se stesso, tra le mille pieghe dell’anima fino all’epifania sconvolgente, liberatoria, rappresentata nelle sue opere e infine donata al mondo.

Il camaleontico Malaparte curò gli interni della villa come opere d’arte:


all’ingresso progettò un grande salone col pavimento in basolato al centro del quale un camino dal fondo di cristallo impreziosiva la stanza, mentre le finestre in legno di noce catturavano il cielo e il mare, incorniciandone l’essenza alla stregua di colorati dipinti; in fondo alla casa creò quello che chiamava “il pensatoio”, lo studio in cui si rifugiava per ore a leggere e a scrivere.

Le case le vorrei tutte di pietra, ben squadrate, con le altane aperte 

sui golfi del cielo» diceva ancor prima di aver realizzato la villa.


Anche il pavimento è curato in ogni minimo dettaglio e su ciascuna maiolica è rappresentata una lira, omaggio al manoscritto del Viaggio in Italia di Goethe. “La favorita” era la stanza data in uso alla compagna del momento, mentre quella per gli amici veniva chiamata “Ospizio”.

Elsa Morante, Picasso, Albert Camus e Alberto Moravia che descriveva Curzio 

come “un individualista a servizio di se stesso”, sono alcuni degli ospiti della villa 

che tra mito e bellezza, cinema e poesia,


era palcoscenico di belle storie, vere e finte, e che divenne anche il set del famoso film di Godard Il disprezzo, tratto dal celebre romanzo di Moravia e girato nel 1963. 

Il disprezzo è la storia di uno sceneggiatore che non riesce a difendere la moglie (interpretata da Brigitte Bardot) dalle avances di un produttore e dalla conseguente crisi del loro rapporto. 

Il regista, simbolo della Nouvelle Vague, si aggira con la sua telecamera come uno spirito inquieto mentre insegue i protagonisti tra le stanze della villa e fuori; la divina Brigitte, infuriata, sale le scale fino al tetto per prendere il sole e poi le riscende inseguita dal marito (interpretato da Paolo Javal). «Perché non mi ami più» dice lui. 

«É la vita» risponde lei capricciosa, mentre cammina avanti e indietro con indosso solamente un costume da bagno e un accappatoio giallo canarino. «Ma perché mi disprezzi?» fa il marito. 

«Questo non te lo dirò mai, neanche dovessi morire» ribatte lei prima di scendere la scalinata, perdersi tra gli scogli e tuffarsi nelle acque blu cobalto, lasciando dietro di sé le battute tipiche di un litigio tra innamorati.

Un incontro speciale quello tra Capri e la diva nata a Parigi ma vissuta in Italia, 

icona degli anni ‘60, modella, ballerina e attrice di una bellezza raffinata 

e magnetica impressa in due occhi smeraldini.


Godard sceglie la location con cura, per inserire nella storia un seconda protagonista: la bellezza dei paesaggi del Mediterraneo, con il mare che si confonde con l’orizzonte.   

 

Nel documentario Paparazzi del regista francese Jacques Rozier, sono raccolte le riprese dei giorni in cui Brigitte Bardot ha soggiornato a Capri, i suoi incontri con il pubblico, gli autografi e le sue passeggiate sull’isola a piedi nudi, proprio come amava fare a Saint Tropez. 

Un amore corrisposto quello tra la diva e Capri che nel 2015 le dedicò la ventesima edizione del Festival del Cinema.

Ma cosa ne è oggi di questa strana costruzione, che ha visto tra le sue pareti 

la storia del cinema e della letteratura italiana?


Prima di morire Curzio Malaparte sorprende il mondo ancora una volta, lui che è stato un mistificatore, un idealista, tutto e anche niente, che di se stesso scrive: “Si ignora tutto di me, e però si dicono e si scrivono le cose più inverosimili. Non sono né un eroe né un martire. Sono stato in prigione per ragioni letterarie, non politiche. Non si vuole capire che io sono verso gli antifascisti ciò che sono stato verso i fascisti, che ho il più alto disprezzo per i politicanti, di non mi importa quale partito, che non mi interesso che alle idee, alla letteratura, all’arte. Che sono un uomo libero, un uomo al di là di tutto ciò che agita questa povera massa di uomini”; fa arrabbiare la famiglia donando la villa alla Repubblica Popolare Cinese allo scopo di creare una centro per artisti cinesi residenti in Italia. Difatti, nel 1956 lo scrittore aveva raggiunto la Cina via Urss, chiedendo il visto come inviato speciale del settimanale comunista “Noi donne”.

Una vita vissuta dunque in maniera intensa, fuori dagli schemi, che Malaparte  racconta nelle sue opere e attraverso la sua villa che oggi è chiusa al pubblico 

e si trova sotto la supervisione della Fondazione Ronchi.


Coloro che desiderano avventurarsi per Pizzolungo, tra i sentieri nascosti di Capri che si stagliano a picco sul mare, potranno scorgere Villa Malaparte in lontananza e la costruzione apparirà davanti a loro come un’oasi rossa che primeggia nel verde e sorge dall’acqua raccontando di un’epoca; dei divi e delle dive che sui suoi scogli si sono fermati a osservare l’orizzonte per imprimere in esso le loro storie.

 

malamopalaop
ghirigoro_stile
incastonata_tra_le_rocce

 Stelle al Sud

 

FONDAZIONE BANCO DI NAPOLI L’ARCHIVIO STORICO di Orazio Abbamonte – Numero 21 – Giugno-Luglio 2021 – Ed. Maurizio Conte

cat-storia
cat-arte
cat-sud

FONDAZIONE BANCO DI NAPOLI L’ARCHIVIO STORICO

 

Top_abbamonte

Presso la sede della Fondazione Banco di Napoli, alla via Tribunali 212, è conservato l’Archivio Storico, giacimento documentario dalla straordinaria importanza. Si tratta d’una tra le raccolte più rilevanti al mondo – poco meno di 100 km lineari di carte – di documentazione relativa ad attività di imprese bancarie d’età moderna. Il più antico atto lì conservato risale all’inizio del secolo XVI; la parte più cospicua della raccolta va dalla fine di quel secolo sino all’Unità d’Italia.

 

Il corpo di maggior pregio della raccolta è costituito dal materiale attestante l’attività creditizia degli otto banchi pubblici napoletani – presso la sede della Fondazione 

era il Monte dei Poveri – istituzioni per lo più formatesi su un nucleo di finalità caritative, all’epoca affidate a congregazioni di aristocratici e religiosi. 

 

Erano principalmente questi i soggetti impegnati a svolgere la funzione solidaristica nei confronti delle fasce più deboli della popolazione, in un contesto istituzionale pubblico che all’epoca si disinteressava quasi del tutto di ciò che oggi verrebbe definita attività di sostegno alla povertà. Anche al fine di procurare la provvista di danaro necessario allo svolgimento dell’assistenza ai deboli e diseredati – ma ovviamente non solo per questo scopo – le congregazioni s’organizzarono ben presto in banchi ed avviarono una fiorente attività nel settore del credito, ideando anche le forme giuridiche e tecniche più appropriate alla circolazione della ricchezza ed al prestito di danaro.

Centrale strumento per rispondere alle necessità della nascente attività bancaria 

fu la cosiddetta ‘polizza’. 

 

Questa, altro non era che il documento con il quale il cliente del banco – colui che aveva cioè depositate a suo nome somme presso di esso, divenendone creditore – poteva disporre del danaro a lui intestato, effettuando così pagamenti e transazioni d’ogni sorta, senza che fosse necessario maneggiare direttamente moneta ed evitando così i rischi e le difficoltà connesse alla diretta gestione del numerario.

Detto in questi termini, però, non s’intenderebbe l’importanza straordinaria dell’archivio dei banchi pubblici napoletani, miniere di conoscenze d’ogni sorta 

circa la storia della Città e del Mezzogiorno in età moderna.


Bisogna anche sapere che, all’epoca, ancora non era invalso il regime di ‘astrattezza’ del titolo di credito. Ciò significava che all’interno della polizza erano indicate, spesso anche con dovizia di particolari, tutte le ragioni della transazione che davano luogo al pagamento. Cosicché leggendo quei documenti, si ottengono informazioni le più varie, sulla vita di singoli e comunità, su storie di artisti, come su vicende matrimoniali, su momenti grandi e piccoli di famiglie aristocratiche come dell’alta borghesia o di semplici artigiani, commercianti, professionisti.

 

Enormi flussi informativi sono a disposizione su atti pubblici, di politica economica, 

di alleanze, guerre, corruzioni, furti, sulla storia sociale e culturale.

 

L’elenco è pressoché sterminato, quanto sterminato è evidentemente l’ambito d’attività d’una banca – in questo caso di otto banche –  la quale costituisce cuore pulsante in qualsiasi comunità, crocevia dove s’incontrano, si scontrano e si compongono gli interessi più vari. Accanto ai grandi temi, ci sono poi anche le notizie minute, di persone e personaggi, della loro vita privata come di quella pubblica, dall’acquisto di un’abitazione, alla costituzione d’una dote, al pagamento delle spese d’un banchetto, al mercanteggiamento di stoffe e vestiti.

Insomma, attraverso le carte di quell’archivio, è possibile ricostruire storie 

non altrimenti conoscibili e soprattutto avere esperienze di vite d’altri tempi,

con le loro caratteristiche, i loro sfondi originali, le loro esigenze in parte distanti dalle nostre, in parte invece espressione di quella continuità ininterrotta che è la vicenda umana, con le sue altezze e le sue bassezze, i suoi balzi, le sue rovinose cadute. 

 

Da alcuni anni, al fine di rendere i contenuti dell’Archivio sempre più ampiamente 

e variamente fruibili, sono in corso due progetti. Da una parte, attraverso l’adesione 

al programma Transkribus è in atto la digitalizzazione del materiale documentario 

e la successiva sua trasformazione in caratteri a stampa, d’agevole lettura.

 

È un processo di ‘traduzione’ che si serve di tecnologie particolarmente sofisticate ed avanzate, grazie al quale, anche eventualmente su specifica richiesta, è possibile avere un accesso enormemente semplificato a quanto si custodisce nell’Archivio: un accesso cioè consentito anche ad utenti non particolarmente edotti di diplomatica e paleografia.

Dall’altra, è attivo ormai da circa otto anni, presso la sede della Fondazione, 

un Museo della documentazione archivistica. Un museo dotato 

di ricco materiale multimediale

 

che permette al visitatore d’entrare in contatto diretto con il contenuto dei documenti, eventualmente interagendo con esso, e di rendersi conto del funzionamento dell’attività bancaria, nonché d’essere introdotto a racconti di vario contenuto ispirati dalle carte conservate nell’Archivio: e d’avere così diretta esperienza d’una varia ed estremamente suggestiva immersione nel passato, del quale potrà letteralmente avvertire il sapore, anche se in precedenza non ne aveva nemmeno il sentore.

 

In sintesi, l’obiettivo che la Fondazione Banco di Napoli s’è prefissa è stato duplice: per un verso, assicurare la conservazione e la più completa fruizione del patrimonio archivistico al novero, relativamente ristretto, degli studiosi professionali; 

per un altro, avvicinare quello stesso patrimonio 

ad un più vasto pubblico d’interessati,

 

in modo da far apprezzare il valore d’una lunga e coinvolgente storia, la storia del Mezzogiorno d’Italia, in ciò aspirando anche a diffondere sensibilità ed avvertenza per il contesto in cui si vive, condizioni non ultime per l’avanzamento della socialità e così della stessa civiltà.   

 

Di recente la Fondazione sta anche sollecitando, insieme ad altri soggetti pubblici e privati, l’intervento della Regione Campania, perché eserciti il potere di prelazione per l’acquisizione del non lontano edificio, un tempo sede del Monte di Pietà, uno degli otto banchi pubblici la cui documentazione è presente nell’Archivio. Ove l’operazione riuscisse, quella sede potrebbe andare a costituire uno dei siti di conservazione della memoria storica napoletana e del Mezzogiorno d’Italia, potenziando la vocazione del quartiere, già sede, oltre che dell’Archivio Storico, dell’Archivio di Stato, del Pio Monte della Misericordia e di vari altri luoghi culturali d’elezione.

 

una_straordinaria_testimonianza
ABBAMONTE
fine-t-storia
orazio-abbamonte