AVEZZANO L’AIA DEI MUSEI di Ilse Beretta Covacivich – Numero 22 – Settembre ottobre 2021 – Ed. Maurizio Conte

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AVEZZANO L’AIA DEI MUSEI

 

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tra l’antico ed il contemporaneo, un’operazione culturale riuscita ed il mecenatismo degno di questo nome rendono l’Aia dei Musei un imperdibile luogo dove approdare. 

Il tutto deve essere condito da impegno, straordinaria forza di volontà e amore per quello che è intorno a noi, che spesso vediamo senza guardare.   

 

Quando cultura e comunicazione rendono con efficacia le correlazioni tra territorio, tradizione, innovazione ed informazione, ecco allora

l’Aia, nome evocativo di un luogo di incontro e di lavoro, di tradizioni custodite 

e storie raccontate, dello stretto rapporto tra uomo e ambiente, oltre che 

della particolare ricchezza dell’Abruzzo in questi ambiti.


Nel caso dell’Aia dei Musei, polo museale di recente impianto, ecco come una struttura culturale degna di questo nome interconnette storia ed attualità. L’occasione per guardare con attenzione all’impresa così brevemente accennata viene da una mostra temporanea, “Sculture a colori”. L’esposizione porta ad Avezzano il movimento artistico chiamato “Cracking Art”, che connette un ‘prima’ così lontano ed un ‘oggi’ grazie alla relazione tra l’ambiente e l’artefice delle sue trasformazioni, utilizzando, per l’opera di creazione, il riciclo di materiali inquinanti.

La contingenza di una mostra d’arte contemporanea, degno tributo di un mecenate che non delude mai, rende evidente una storia durata quasi duemila anni: 

quella del Lago del Fucino.


Terzo bacino per grandezza in Italia, al centro, nel corso della storia, di importanti progetti di ingegneria idraulica, da quello di Giulio Cesare fino a quello del banchiere Alessandro Torlonia (divenuto principe grazie al completamento dell’opera cui si accennerà), il bacino era destinato ad essere prosciugato per farne risaltare le potenzialità agricole. 

Esso, infatti, per le caratteristiche geofisiche – prime fra tutte la mancanza di un emissario che potesse farne defluire le acque – era soggetto ad eccessivi sbalzi volumetrici che non permettevano di creare stanziamenti agricoli in una terra conosciuta per la fertilità.

Il progetto pensato da Giulio Cesare, assassinato prima di poter iniziare i lavori, 

fu portato ad un primo completamento dall’Imperatore Claudio


che creò un emissario artificiale sotterraneo per salvare gli abitanti dalla risalita di quasi 12 metri del livello delle acque. Le manutenzioni, necessarie per il tipo di pietra impiegato, erano tante e tali che, alla caduta dell’impero per l’avvento delle orde barbariche, il sito venne lasciato in stato di abbandono, riconsegnando il livello delle acque all’imprevedibilità delle condizioni atmosferiche.

Fu nella metà dell’Ottocento che venne data la concessione di ripristinare 

le opere claudiane ad Alessandro Torlonia


il quale, per essere riuscito nell’impresa di bonifica, non solo ottenne le terre strappate alle acque, ma venne titolato principe da Vittorio Emanuele dopo la dichiarazione di avvenuta bonifica del 1878. Le parole di Alexandre Dumas del 1863 rendono più di ogni racconto: “Il principe Alessandro Torlonia portò a termine un’opera ideata da Cesare, ritenuta impossibile da Augusto, tentata da Claudio, rilanciata invano da Adriano e Traiano e che, nel corso di diciassette secoli, aveva vanificato gli sforzi di Federico di Svevia, Alfonso I d’Aragona, i dubbi Colonna e Ferdinando IV, che valeva la pena fare una deviazione di qualche chilometro per ammirare quel lavoro dell’antichità, che, se avesse saputo come farlo, l’avrebbe chiamato l’ottava meraviglia del mondo”. 

Questa la storia raccontata oggi in uno dei due musei dell’Aia, chiamato, per l’appunto, “Il Filo dell’Acqua”.

Con la mostra “Cracking Art”, l’Aia dei Musei, luogo ricco di storia e tradizioni, 

si trasforma in una variopinta e contemporanea Arca di Noè, con sculture 

di conigli, orsi, lupi, elefanti, tartarughe e chiocce come simbolo 

di rappresentazione di tutte le specie e del potere che viene loro attribuito. 

Il messaggio che arriva allo spettatore è di un’impellente 

necessità di rigenerazione della natura stessa.


Come il luogo in cui è realizzata è stato trasformato dall’uomo per il miglioramento della vita di chi vi abitava, così questa mostra innovativa sottolinea come l’utilizzo di materiali considerati deleteri per la flora e per la fauna possa essere destinato alla creazione di opere d’arte. Le “sculture a colori”, realizzate da un gruppo di artisti che si definiscono crackers, fanno entrare il pubblico in un mondo surreale composto da forme e colori diversi.

Il messaggio del ‘prima’ e del ‘dopo’ è quello secondo cui l’attività umana plasma oggetti e materiali, trasformandoli in capolavori portatori 

di un profondo messaggio di rinnovamento.


Il coronamento di tanta forza evocativa si deve, ancora una volta, alla Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, presieduta dall’illuminato Emmanuele Emanuele, che ha avuto modo di affermare come “la sede espositiva ancora poco nota rispetto alla sua bellezza […] merita sicuramente di essere conosciuta, e che la Fondazione intende contribuire a farla diventare un nuovo polo di eccellenza per l’arte contemporanea”.

 

 

 

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IL MUSEO DEL CARRETTO SICILIANO Gemme del Sud Numero 22 Settembre ottobre 2021 Ed. Maurizio Conte

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IL MUSEO  DEL CARRETTO SICILIANO

 

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            Aci Sant’Antonio

 

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Ad Aci Sant’Antonio, in provincia di Catania, si trova il Museo del carretto siciliano, una realtà locale in cui si conserva la memoria di un antico e fiorente artigianato di maestri carrettieri legato alla tradizione agricola della Sicilia. In una struttura destinata a stalle e magazzini sono esposti pezzi provenienti da tutta la Sicilia, oltre a fotografie d’epoca. 

A far diventare Aci la patria del carretto siciliano è stato Domenico di Mauro, classe 1913, che, nel suo laboratorio, con la sua abilità pittorica, è riuscito a far conoscere questo simbolo siciliano per eccellenza in tutto il mondo, tanto che uno dei suoi carretti è esposto nel prestigioso museo etnologico Musée de l’Homme di Parigi.

L’uso di decorare questi oggetti con colori sgargianti – in cui predominano 

il giallo, il rosso, l’azzurro e il verde – è nato in Sicilia nel 1800, 

quando gli agricoltori iniziarono a far dipingere 

i propri semplici carretti da lavoro,


trainati da equini ed utilizzati per il trasporto di vino, olio e grano, dapprima con scene di carattere religioso, per poi passare a soggetti mitologici, favolistici e della tradizione cavalleresca. 
 

Da semplice mezzo di trasporto divenne una vera e propria opera d’arte ambulante, tanto da essere definito dallo scrittore francese Guy de Maupassant, che li poté ammirare dal vivo, “un rebus che cammina”.

Del carretto veniva dipinta ogni singola parte, comprese le alte ruote 

ed anche gli animali da traino venivano bardati con ornamenti 

e pennacchi dai colori sgargianti.


Questa ricca e vivace tradizione pittorica del territorio sant’antonese viene ancora oggi mantenuta viva da giovani artisti locali che, all’interno del Museo, gestiscono una bottega d’arte dove vengono organizzati laboratori di pittura rivolti a tutti coloro che vogliano imparate questa antica arte.

 

 

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 Foto Catalogo Beni Culturali – 04-05-2021 – Paola Ceretta – Sicilia

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IL SANTUARIO DI CASTELPETROSO Gemme del Sud Numero 22 Settembre ottobre 2021 ed. Maurizio Conte

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IL SANTUARIO di CASTELPETROSO

 

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         Castelpetroso (IS)

 

Nel piccolo comune molisano di Castelpetroso, in provincia di Isernia, a pochi metri da un antico tratturo un tempo percorso dai pastori, incastonato tra il verde dei boschi, sorge il maestoso Santuario di Maria SS. Addolorata.

 

La storia di questo santuario ha inizio il 22 marzo 1888, 

giorno in cui la Vergine apparve per la prima volta:  

 

due contadine del luogo erano alla ricerca di una pecorella smarrita, quando una delle due si trovò di fronte ad un bagliore di luce nel quale vide l’immagine della Madonna genuflessa, con ai piedi il Cristo morto, lo sguardo rivolto verso il cielo e le braccia allargate in atto di offerta. Il 1° aprile 1888, giorno di Pasqua, la Vergine apparve anche all’altra contadina. Le voci sulle apparizioni si diffusero velocemente ed in tanti si recarono in pellegrinaggio in quel luogo. Anche Monsignor Francesco Macarone Palmieri, vescovo di Bojano, volle recarsi sul posto per indagare sulle presunte apparizioni ed anch’egli ebbe la grazia di vedere la Madonna Addolorata. Nel luogo delle apparizioni sgorgò una sorgente, la cui acqua miracolosa guarì un ragazzo affetto da tubercolosi. Così, il 28 settembre 1890, venne posta la prima pietra del Santuario di Maria SS. Addolorata di Castelpetroso e lo stesso Monsignor Palmieri diede ufficialmente il via ai lavori. 

Il Santuario di Castelpetroso,

 

definito da alcuni la “Piccola Lourdes italiana”, non è soltanto un importante luogo 

di pellegrinaggio per i fedeli, ma una vera e propria meraviglia 

per gli occhi di chiunque abbia la fortuna di visitarlo, 

 

specialmente per chi vi si reca d’inverno, quando, coperto dalla coltre nevosa, assume un aspetto quasi fiabesco.  Progettato in stile neogotico da Francesco Gualandi di Bologna, è stato interamente costruito in pietra locale, scolpita da artisti molisani, che nei loro intarsi sui rosoni della facciata principale sembrano rendere omaggio all’antica arte della tessitura del tombolo. Straordinaria anche la pianta: di tipo radiale, essa presenta sette bracci a simboleggiare il cuore di Maria trafitto da sette spade, i Sette Dolori, a ciascuno dei quali è dedicata una delle sette cappelle laterali.

 

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LA FONTANA DELLA FRATERNA Gemme del Sud Numero 22 Settembre ottobre 2021 ed. Maurizio Conte

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LA FONTANA DELLA FRATERNA

 

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              Isernia

Per la sua misteriosa e travagliata storia e l’assoluta incertezza riguardo alle sue origini, la Fontana della Fraterna, ad Isernia, è un monumento molto affascinante. 

Oggi la fontana si trova in piazza Giosuè Carducci, ma nel passato subì diversi trasferimenti di sede prima di trovare una definitiva collocazione.

Edificata nel XIII secolo, periodo in cui l’Italia è interessata 

da un forte rilancio per le architetture civili,

 

prende il nome dalla sua originaria collocazione a Piazza Fraterna, di fronte alla Chiesa della Concezione, dove aveva sede l’antichissima confraternita fondata da Pietro Angelario nel 1289, futuro papa Celestino V. Nel 1835 la nobile famiglia isernina Rampini trasferì la fontana in Largo della Concezione e la fece agglomerare con un’altra già esistente, conferendole l’aspetto attuale. 

Più tardi, nel 1889, secondo l’archivio storico comunale, il monumento venne nuovamente spostato, questa volta in via Marcelli e sempre vicino alla Chiesa della Concezione. Danneggiata dai bombardamenti il 10 settembre 1943, il monumento fu poi ricostruito per anastilosi, usando cioè le parti recuperate e di nuovo trasferita nell’attuale sito, Piazza Giosuè Carducci. 

La fontana è costituita da sei archi a tutto tondo disposti a loggiato, con sei getti d’acqua. Osservandola attentamente, si nota che la forma delle colonnine e dei capitelli sono diverse fra loro. Ciò è molto comune per le opere medievali, poiché i materiali usati – blocchi in pietra locale ed in travertino – erano di “spolio”, vale a dire reimpiegati, prelevati da strutture edificate in vari periodi, principalmente in epoca romana, di cui Isernia è ricca. Per questo motivo, 

la fontana presenta anche alcune epigrafi di ardua decifrazione. Le lettere D ed M visibili su di essa sono una dedica agli “dei Mani” (anime dei defunti).

 

Al centro vi è una lastra in marmo decorata da due delfini e motivi vegetali, proveniente sicuramente da un edificio sepolcrale datato tra 99 a.C. e 50 a.C. 

Un’altra lastra reca l’epigrafe AE PONT ed una legenda vuole che sia appartenuta al sepolcro di Ponzio Pilato, originario di queste zone.

 

 

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LA CHIESA DELL’IMMACOLATA A NOVOLI Gemme del sud – Numero 22 – Settembre ottobre 2021 Ed. Maurizio Conte

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LA CHIESA DELL’IMMACOLATA A NOVOLI

 

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             Novoli

A Novoli, in provincia di Lecce, la chiesa dell’Immacolata (precedentemente detta della Mater Dei), dalla semplice facciata,

custodisce al suo interno un’importante testimonianza 

dell’arte bizantina nel nostro Meridione.


L’interno è ad un’unica navata con volta a crociera, nella cui abside semicircolare con due nicchie ospitanti statue si trova un notevole affresco bizantineggiante, rinvenuto nel 1865 e risalente ai primi decenni del XIV secolo, che raffigura una rarissima immagine della Madonna Odigitria. Il culto di tale Vergine in Puglia ha origini antiche ed è praticato nel Salento e nella Valle d’Itria (nome, quest’ultimo, probabilmente derivante proprio dal termine “odigitria”).

La Madonna Odigitria è un tipo di iconografia cristiana – proveniente dall’omonima icona venerata a Costantinopoli dal V secolo fino alla caduta della città ad opera 

degli Ottomani nel 1453, quando l’icona andò persa – diffusa specialmente 

nell’arte bizantina e russa del Medioevo.


Tale iconografia presenta l’immagine della Vergine che tiene in braccio il Bambino Gesù (seduto nell’atto di benedire e con una pergamena in mano) e lo indica con la mano destra, gesto da cui deriva l’appellativo “odigitria”, dal greco bizantino “colei che conduce, indicando la direzione”. 

 

Nell’affresco della chiesa dell’Immacolata, ai lati del volto della Madonna e a destra del Bambino sono presenti monogrammi in greco. 

 

Nel medesimo edificio vi sono anche i resti di un altro affresco bizantino nei quali sono visibili la Vergine ed un angelo, che farebbero pensare alla rappresentazione di un’Annunciazione o, seguendo invece altri studi più recenti, della “Madonna del Risorto” (in dialetto locale “della Cutùra”, cioè “del Pane”), poiché tale Madonna è venerata in altri luoghi del Salento dove era professato il culto greco-bizantino. Per il particolare tipo di iconografia, questo affresco è unico nella sua specie nella storia dell’arte bizantina dell’Italia meridionale.

 

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GARGANO IL MONTE DEL SOLE di Santa Picazio – Numero 22 – Settembre ottobre 2021 – Ed. Maurizio Conte

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GARGANO IL MONTE DEL SOLE

 

come di un luogo di estremo interesse, ma erano mancate le occasioni per verificarlo, mi era mancato il tempo, avendone trascorso molto fuori per motivi di studio, e mi era mancata un’auto personale per poter decidere un percorso in piena autonomia.

Poi capita che all’improvviso, quando non ci pensi più, ti ritrovi ad avere una macchina tua, ed un figlio di tre anni con una tosse che potrebbe giovarsi di aria buona, proprio di quella del nostro Gargano, bisognava solo decidere dove andare per poterla respirare a pieni polmoni. Interpellato mio marito, che da un po’ di tempo, sollecitato dai miei racconti, ha scoperto il piacere di fare delle escursioni sul territorio, azzardo la mia proposta. Dopo un attimo di esitazione per il fatto che si trattava di un percorso poco noto, decidiamo di andare.

 

Partiamo nascondendo una certa ansia per la viabilità irregolare ed approssimativa. L’ansia, però, si spegne all’improvviso; si spegne quando si apre di fronte a noi 

uno spettacolo naturale di rara bellezza!

 

Scendiamo dalla macchina quasi intimiditi; il paesaggio è fantastico. Il Gargano, infatti, anche per chi ci è nato, si rivela all’improvviso. Il Gargano si cela come in uno scrigno, e quando credi di aver pescato anche l’ultima gemma, ne scopri un’altra. Poi scopri che esiste addirittura un doppio fondo, e che le cose più preziose sono ancora tutte da scoprire. Il casale di Devia è una di queste! Lo spettacolo che si apre davanti ai nostri occhi ci toglie il fiato.

Restiamo muti ad osservare il mare, un mare di un incredibile colore, a cui le Tremiti movimentano l’orizzonte. Restiamo a lungo accovacciati sul limite dell’altopiano.


Sotto di noi la collina degrada per 250 metri, e si incunea dividendo i due laghi costieri di Varano e di Lesina. Penso alle tante spiegazioni che si danno ai toponimi; ma, per me, Devia può significare solo separa”! II Monte d’Elio, infatti, si protrae verso il mare separando i due laghi che, come due languidi occhi, sembrano destinati ad osservare l’infinito cielo!   

 

Decidiamo che il posto merita una esplorazione più approfondita, ed

 

Iniziamo con la visita agli importanti ruderi che ci siamo lasciati alle spalle 

per l’ansia di affacciarci sul panorama.

 

È difficile definire come chiesa quei ruderi, ma la struttura è chiara. Proviamo ad entrarci. Il tetto è praticamente scomparso; un paio di falchi danno segno di inquietudine ed abbandonano la trave su cui erano appollaiati. Una mucca, forse stanca per aver brucato l’erba non più tanto tenera, riposa ai piedi di un affresco coperto dalle ragnatele. C’è anche un asino che, come tutti gli asini, non mostra alcun interesse per le novità; sembra crogiolarsi nella sua solitudine. I nostri passi, seppure attenti, mettono in fuga una lucertola. Senza muoverci dal punto in cui ci troviamo, diamo uno sguardo in giro.

 

Sulle pareti notiamo degli affreschi che si sforzano di resistere al tempo 

e alle intemperie! Quel luogo, di cui pure avevo sentito parlare con interesse, 

sembra lontano anni luce dall’interesse degli uomini

 

che, solo un po’ più a valle, cominciano anche a parlare di turismo! Continuiamo l’esplorazione, inerpicandoci per quanto possibile con un bimbo al seguito.   

 

Scopriamo altri ruderi, mentre avanza il desiderio di saperne di più; bisognerà avviare una vera ricerca, e mi riprometto anche di interrogare gli amici di San Nicandro per capire i motivi di tanto abbandono. Da quel giorno, dal giorno di questa nostra prima esplorazione, sono passati tempo e storia.

Sono passati anni durante i quali, fra alti e bassi, abbiamo assistito anche da vicino 

ad un felice recupero del sito. La chiesa restaurata si è rivelata un vero gioiello. 

Gli scavi archeologici lungo i fianchi della montagna hanno messo in luce 

i ruderi del borgo di Devia.

 

Ora sono solo dei ruderi, dei quali solo alcuni sembrano degni di attenzione. Peccato, perché Devia deve aver avuto un passato importante. Già dal VII secolo erano iniziate le escursioni dalmate sui nostri litorali, governate da uno Juppano, una particolare figura di capo villaggio. ln seguito, secondo alcuni documenti risalenti all’Xl secolo, ritrovati nell’ abbazia delle Tremiti, Devia fu sede fortificata di una colonia slava. Ricordata nei documenti come civitas, pare sia stata fondata per volere dei Bizantini proprio a tutela delle coste perennemente soggette agli sbarchi di popolazioni poco gradite. Con il tempo, forse per l’arrivo dei Normanni, Devia viene abbandonata a vantaggio della piana Sannicandrese.

Di tutto il villaggio resta la chiesa. Una fortuna perché si tratta di un vero gioiello, 

con un importante ciclo di affreschi.

Ceduta nel 1032 all’abbazia di Tremiti dal Vescovo Giovanni da Lucera. Santa Maria iuxta mare, per la sua particolarissima posizione fronte mare, mostra all’esterno tre absidi semi circolari. ln quella centrale esiste, e resiste, un affresco del Cristo Pantocratore. Alcune monofore contribuiscono, filtrando la luce, a focalizzare gli affreschi lungo le pareti. Gli affreschi tutti molto interessanti, meriterebbero una trattazione a parte per il loro richiamo allo stile cavalleresco e crociato, una trattazione troppo lunga per iniziarla ora. L’abbazia delle Tremiti, e quasi tutte le chiese garganiche, che si avvalevano del mare come via di transito, erano importanti proprio in considerazione delle scarse ed impraticabili strade interne di quei tempi. Ai lunghi periodi di culto seguirono crisi e desolazione, e poi ancora una felice ripresa nel XVI secolo che durò fino al 1744. Da quel momento in poi inizia un nuovo abbandono, che la trasforma nella stalla sfondata che noi ritrovammo negli anni 60.

 

L’interesse per il sito riprese vigore, anche grazie alle mie convincenti chiacchierate, solo nel 1970 quando iniziarono finalmente i dovuti restauri!

 

Ora c’è un nuovo black-out! Ancora una volta si è spento l’interruttore culturale su Devia. Ne attendiamo le motivazioni che sembrano esclusivamente politiche. Quindi, lontane dalla soluzione. Quest’anno ci sono tornata, presa dalla nostalgia, accompagnata da quel bimbo di tre anni che oggi ne ha cinquanta, ma non più con lo stupore di allora. Sono scesa dalla macchina con l’amarezza di chi sa già, di chi conosce lo scarso valore che si riserva oggi, più che mai, ai nostri Beni culturali.

 

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 © Foto di Ivan Galavotti

 

LA CATTOLICA DI STILO Gemme del Sud Numero 21 giugno luglio 2021 Ed. Maurizio Conte

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LA CATTOLICA DI STILO

 

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Stilo

 

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Di origine greca, passata poi sotto il dominio dei Bizantini nel X secolo, Stilo (RC) è stato il più importante centro bizantino della Calabria meridionale.

 

Conosciuta per aver dato i natali al filosofo Tommaso Campanella, celebre autore 

de La Città del Sole, Stilo custodisce un piccolo gioiello architettonico: la Cattolica. 

 

In Calabria, dei monaci orientali avevano trovato rifugio dalle persecuzioni e si erano insediati alle pendici del Monte Consolino in agglomerati di grotte dette laure, ancora visibili sul territorio, dove perseguivano il loro ideale di povertà e distacco dal mondo. Furono proprio questi monaci a fondare, tra la fine del X e gli inizi dell’XI secolo, la Cattolica di Stilo.

La Cattolica è un edificio di piccole dimensioni che si distingue per la ricchezza cromatica e le forme geometriche tipiche delle chiese orientali.

 

E’ formata da un cubo sormontato da quattro cupolette poste in corrispondenza degli angoli delle facciate ed una centrale in posizione elevata rispetto alle altre. L’interno della chiesa, a croce greca, è composto da uno spazio quadrato, diviso in nove parti uguali dalle quattro colonne che ne segnano gli angoli. Ciò che colpisce è soprattutto l’uso sapiente della luce, quasi abbagliante nella parte superiore e tenue nella parte bassa, così da favorire il raccoglimento.

 

La decorazione interna mostra ancora l’intensità dei colori degli affreschi, realizzati 

in epoche differenti, di cui i muri della chiesa erano interamente ricoperti.

 

Tra questi è possibile ammirare ancora oggi una serie di figure che spiccano per la loro vivacità cromatica, come l’immagine della Dormizione della Vergine, l’Annunciazione e l’Ascensione.   

 

Il recupero della Cattolica di Stilo si deve all’archeologo Paolo Orsi, soprintendente per le Antichità della Calabria, che la individuò nel 1911 e la sottopose ad un lungo restauro

 

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LA CHIESA DI SANT’ANTIOCO DI BISARCIO Gemme del Sud – Numero 21 Giugno Luglio 2021 Ed. Maurizio Conte

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LA CHIESA DI SANT’ANTIOCO DI BISARCIO

 

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Ozieri

 

Domina la piana di Chilivani, nel comune di Ozieri, la chiesa di Sant’Antioco di Bisarcio. Posta su di uno scenografico sperone roccioso di origine vulcanica,

 

la chiesa è un raro esemplare dell’architettura romanica sarda anche 

per grandezza e stato di conservazione, 

 

realizzata con la trachite, tipica pietra locale. Ex Cattedrale della diocesi di Bisarchium/Guisarchum tra l’XI e il XVI secolo, la chiesa è frutto di tre interventi costruttivi distinti.   

 

La data della posa della prima pietra è incerta poiché un incendio avvenuto tra il 1082 e il 1127 danneggiò la chiesa in parte, e tutto l’archivio nel quale era custodita la notizia. La prima costruzione risale alla seconda metà dell’XI secolo, mentre avvenne entro il 1153 la ricostruzione post-incendio, nella quale fu riedificata l’aula a tre navate, l’abside ed il campanile. Infine, una terza fase antecedente il 1174 durante la quale fu aggiunto il bellissimo portico decorato con il fregio della caccia. 

Nota è invece

la consacrazione della Cattedrale di Bisarcio, celebrata sotto l’episcopato 

di Giovanni Thelle l’1 settembre 1164, 

 

giacché se ne conserva memoria in una trascrizione apocrifa di una fonte manoscritta. La conferma proviene dall’individuazione di un’epigrafe graffita in un concio del prospetto absidale presente all’interno della chiesa, in caratteri onciali, che riporta l’anno 1164 ed il nome del vescovo Giovanni Thelle.   

 

La chiesa ha pianta longitudinale a tre navate, con abside semicircolare, affiancata da un campanile. Addossato alla facciata c’è un ampio atrio realizzato su due piani. 

 

La sala che un tempo era adibita alle riunioni del clero con il vescovo, 

situata al secondo piano della facciata, conserva un camino 

che ha la cappa a forma di mitria vescovile, 

un unicum nel suo genere!

 

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VILLA JOVIS A CAPRI di Fabio de Paolis – Numero 21 – Giugno Luglio 2021 – Ed. Maurizio Conte

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VILLA JOVIS A CAPRI

 

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a bordo di una veloce esareme, probabilmente la “Ops”, l’Imperatore Tiberio Giulio Cesare Augusto giunse nell’isola di Capri per rimanervi fino alla fine dei suoi giorni

 

Capri era allora una montagna in mezzo al mare, abitata da gente greca longeva, ricoperta di lauri, mirti, aranceti, alti pini.

 

Un’isola odorosa di resine, ricca di boschi e di grotte con cinghiali e capre. Un’isola che rendeva difficili eventuali attacchi via mare, che non aveva porti, ma solo approdi naturali e sorvegliati come quello di Tragara (tra i faraglioni e lo scoglio del Monacone). Un luogo ideale per quel monarca che, non sentendosi più al sicuro, voleva allontanarsi da Roma e dai suoi complotti. Andar via per sentirsi lontano e protetto dalle continue ostilità che serpeggiavano nei “palazzi” romani. La figura dell’Imperatore Tiberio ha sempre diviso il giudizio degli storici. Furono soprattutto Tacito e Svetonio a riportare fatti presunti e pettegolezzi dei nemici politici e del popolino romano. Pensiamo agli ultimi anni di vita trascorsi a Capri: Tiberio viene descritto come un mostro feroce in preda alla follia, un despota dalla personalità crudele e senza scrupoli, un sadico avvezzo ai vizi ed alla lussuria, nonché preda di continui peccati di gola. Si narrava che fosse stato tanto libero in fatto di lascivia che fosse soprannominato anche “Liberius”. 

Dall’altra parte, invece, autorevoli scrittori e storici quali Plinio il Vecchio, Valerio Massimo, Seneca e Velleio Patercolo non accennarono minimamente a suoi possibili malcostumi, ma, al contrario, diedero di Tiberio un giudizio sostanzialmente positivo: quello di persona proba, distaccata, con un carattere chiuso, un uomo riservato e tormentato, che ovunque vedeva traditori e spie, ma al contempo generoso e con un alto senso dello Stato, attento ai bisogni del popolo romano e delle sue Province. Questo perché Tiberio, sotto Augusto, era stato anche un valente generale (c’è chi sostiene il migliore della sua epoca), capace di pacificare la Germania e tenere sotto controllo la situazione in Pannonia e Dalmazia. Un Imperatore che, successivamente, decise di seguire scrupolosamente i dettami augustei, che accentuò il potere imperiale nei rapporti con il Senato e soprattutto che mantenne la pace ai confini, chiudendo per lungo tempo il tempio di Giano. Sta di fatto che l’Imperatore, giunto a 68 anni, si trasferì a Capri, dedicandosi a trasformarla in un impenetrabile rifugio dorato e profondendo nell’isola ricchezze e tesori. Si dedicò da subito alla costruzione di strade, ville e palazzi destinati ad accogliere i suoi uffici, e di un nuovo porto, costruito a Marina Grande. Sui punti più elevati e strategici face costruire 12 grandi ville dedicate a divinità, ma quella di Giove,

 

“Villa Jovis”, sul promontorio orientale dell’isola, a 334 metri sul livello del mare, 

fu il suo capolavoro, e per 10 anni il principale palazzo del governo di Roma. 

 

Collocata su una rupe nel luogo più inaccessibile dell’isola, altissima sul mare, Villa Jovis era una costruzione che fungeva da palazzo imperiale, da imprendibile fortezza e da pretorio. Con lo stile tipico delle abitazioni signorili romane, arredata con mosaici, statue, marmi e decorazioni, la dimora si estendeva per 7.000 metri quadri ed era formata da enormi terrazze, giardini e ninfei che si allungavano sulle pendici del Monte Tiberio. Una residenza accessibile solo via terra mediante un angusto passaggio sempre ben controllato da numerosi soldati. Attraverso le comunicazioni del Senato, i rapporti di polizia e le relazioni dei suoi ministri, ma anche grazie alla sua rete di spie, alle lettere provenienti da amici e parenti e ad un faro utilizzato per le comunicazioni con la terraferma, da Villa Jovis l’Imperatore controllava ogni cosa. Così lo storico Gregorovius: “Da qui Tiberio vedeva tutto ciò che si svolgeva sull’isola e scorgeva anche le navi che venivano dall’Ellade, dall’Asia, dall’Africa, oppure giungevano da Roma”. 

Il servizio delle comunicazioni ottiche, che si attuava altresì mediante un codice segreto con fumate di giorno e coi fuochi delle torce di notte, era affidato ad uno speciale corpo di vedette. Sulla costa del golfo di Napoli operava poi un sistema di torri costiere per le comunicazioni ottiche e di veloci liburne che consentivano all’Imperatore di ricevere rapidamente messaggi ed impartire ordini. Le giornate che Tiberio trascorreva a Capri erano laboriose. Verificava con cura le nuove leggi per Roma e dal suo studio ogni giorno risolveva i problemi provenienti dalle numerose Province dell’Impero. Appassionato cultore di letteratura e di filosofia, era circondato di grammatici, bibliofili e calligrafi con cui spesso discorreva ed a cui affidò la cura della biblioteca privata ospitata nel proprio palazzo. L’edificio era circondato di ninfei ed esedre, seguiva l’andamento del terreno, con forti dislivelli superati da numerosi piani e scalinate che consentivano di salire di roccia in roccia fino al punto più alto, ove era collocata la monumentale loggia imperiale.

Un’enorme terrazza con la sala del triclinio ed un belvedere che dominavano 

tutta l’isola ma, soprattutto, dai quali si ammirava 

lo spettacolo del Golfo di Napoli, 


una curva che va da capo Miseno, con le isole di Ischia e Procida, fino alla costiera sorrentina, a quella amalfitana ed al Cilento. Era lì che Tiberio trascorreva intere giornate in profonda solitudine, rinunciando addirittura alla presenza della sua scorta, della sua servitù e del segretariato imperiale, dedicandosi, invece, a passeggiate solitarie lungo il belvedere della sua villa. Sul suo terrazzo aveva fatto piantare alberi di lauro, perché riteneva che durante i temporali le folgori non avrebbero colpito le piante di alloro. 

Nella loggia imperiale Tiberio aveva l’abitudine, prima di sedersi a tavola, di bere a digiuno del vino per stimolare l’appetito, una sorta di aperitivo ante litteram. Sulla sua tavola erano presenti frutta e ortaggi, pere, uva passa, cavoli e cetrioli. Di questi aveva una vera passione, li mangiava con frequenza quotidiana e, per questo, si era fatto costruire speciali cassette munite di ruote in cui li coltivava, cosicché in inverno potesse spostare le piante per esporle al sole.

 

Non lontano dalla loggia imperiale, quasi all’improvviso, il baratro, 

una rupe di 300 metri a picco sul mare, chiamata poi 

la “Carneficina del Mostro”, o “il Salto di Tiberio”, 

ove si narrava che l’Imperatore 

vi facesse precipitare 

le proprie vittime.

 

Gli eventuali sopravvissuti sarebbero stati poi finiti in mare da marinai armati di arpioni e bastoni. Si raccontava anche che a Villa Jovis Tiberio disponesse di numerose camere da letto, tutte adorne di statue e di libri con le posizioni amorose, come i molles libros scritti dalla poetessa greca Elefantide. Numerosi anche i dipinti lascivi come quelli di Pausia. Svetonio addirittura narra che Tiberio, in una divisione ereditaria, davanti alla scelta tra un quadro rappresentante una scena erotica della ninfa Atlanta con il re Meleagro ed un milione di sesterzi, senza indugio avesse scelto subito la pittura, mettendola nella camera da letto. 

Al centro della villa c’erano le cisterne dedicate alla raccolta dell’acqua piovana, usate sia come acqua potabile, sia come riserva destinata alle terme. L’impianto idrico si estendeva lungo tutto il lato del palazzo e quello destinato a bagno era composto da una serie di cinque ambienti paralleli al corridoio; nel calidarium vi erano due absidi, una con la vasca, un’altra con il bacino di bronzo per le abluzioni. Secondo Svetonio, in alcune grotte Tiberio si intratteneva, come ben noto nei costumi della Roma antica, anche con giovani fanciulli. Ma come altre dicerie, anche questa non è supportata da ulteriori fonti, se non il solito Svetonio. Invece 

 

è certo che l’Imperatore amasse fare le abluzioni, soprattutto nella Grotta Azzurra, dove teneva colte conversazioni ed organizzava raffinati conviti. 


Ne era affascinato. Trasformata in un grandioso e silenzioso ninfeo sorto nel mare, fra giochi di luci e raffinati effetti solari filtrati dall’azzurro del mare, aveva fatto ornare la grotta di molte statue rappresentanti sirene, tritoni, ninfe e divinità. Opere d’arte ispirate al mondo classico, che applicate alla parete rocciosa, all’altezza del livello marino, apparivano uscite spontaneamente dalle acque. Abbandonata per decine di secoli, la villa venne riscoperta nel XVIII secolo, sotto il regno di Carlo di Borbone, e subì dei devastanti scavi durante i quali vennero asportati molti preziosi pavimenti in marmo. Villa Jovis fu poi oggetto, nel 1932, di un intervento di recupero, diretto dall’archeologo Amedeo Maiuri. Furono rimosse le macerie che si erano nuovamente accumulate sulle rovine della villa, che ne risultarono rivalorizzate. Ad Amedeo Maiuri è stata intitolata la strada che, partendo dal centro della contrada di Tiberio, conduce alle rovine.

 

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FRANCA FLORIO REGINA DI SICILIA di Gaia Bay Rossi – Numero 21 – giugno lugio 2021 – Ed Maurizio Conte

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FRANCA FLORIO REGINA DI SICILIA

 

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Queste le parole di Gabriele D’Annunzio, uno dei numerosi ammiratori di Franca Florio, come anche il Kaiser Guglielmo II di Germania che la soprannominò «Stella d’Italia».

 

 

 

Definizioni perfettamente rappresentate dal ritratto che le fece Giovanni Boldini nel 1901, poi costretto a modificarlo perché giudicato troppo audace dal committente, Ignazio Florio jr, marito di Franca. Nella versione definitiva, 

Boldini ritrae donna Franca in tutto il suo fascino e femminilità, 

avvolta da un elegante abito di velluto nero, con al collo 

la famosa collana di perle regalatale dal marito


– che si narra le fosse stata donata per farsi perdonare i numerosi tradimenti. La collana era lunga 1 metro e 40, con trecentosessantacinque perle di Cartier di grosso calibro. Si racconta che mise in imbarazzo persino la Regina d’Italia, Elena di Savoia, che possedeva una collana di perle simile, ma non così bella e preziosa.   

 

La favola della collana (una perla per ogni tradimento) è stata smentita più volte dai familiari, ma si è consolidata nel tempo per la fama di tombeur de femmes di Ignazio jr. Reputazione che, all’inizio della loro relazione, aveva causato un ostico diniego ad un possibile matrimonio da parte della famiglia di lei, gli aristocratici siciliani Jacona della Motta di San Giuliano. 

Per sottrarre la giovane all’influenza del rampollo della famiglia Florio, 

si trasferirono con la ragazza a Livorno, nonostante lui fosse 

uno dei migliori “partiti” d’Europa, oltre che 

intelligente e molto innamorato.


I due giovani, però, continuarono a scriversi tante e tali lettere d’amore fino a far capitolare il padre di lei e, nel 1893, a meno di vent’anni, Franca entrò a pieno titolo nella famiglia Florio. In quel periodo si trovava a Palermo il compositore e musicista Johannes Brahms, che dopo essersi esibito per un gruppo ristretto di partecipanti durante un ricevimento dai Florio, decise di regalare alla famiglia il suo pianoforte. Lo strumento venne messo all’Arenella, nella sala centrale della palazzina liberty “I Quattro Pizzi” (così chiamata per le quattro guglie che la sovrastano), dove lo si può ammirare tutt’oggi.   

 

Donna Franca era

la protagonista indiscussa della vita del bel mondo palermitano, 

parlava tre lingue straniere e, con il suo fascino e la sua eleganza spontanea, 

divenne in breve tempo la “regina di Sicilia”, 


aumentando il prestigio della famiglia Florio in tutta Europa. Oltre al carisma personale, era un’abile imprenditrice e aiutò il marito Ignazio, uno dei più importanti capitalisti dell’inizio del XX secolo, nella gestione dell’economia della famiglia che possedeva banche, industrie, cantieri navali, fonderie, tonnare, saline, cantine vinicole (il famoso Marsala) e, soprattutto, una delle più grandi flotte europee, la Società di Navigazione Italiana, prima a collegare la Sicilia con il continente e ad attivare rotte transatlantiche regolari tra la penisola italiana e il nord America.   

 

Ignazio e Franca Florio erano una coppia perfetta: giovani, belli, ricchi e generosi, sostennero la maggior parte delle più grandi attività culturali e imprenditoriali della città, consolidando il loro immenso impero economico

Donna Franca si dedicava alle opere umanitarie ed al sostegno 

delle classi sociali disagiate: era una visionaria coraggiosa

 

e decise di realizzare i primi asili nido all’interno degli stabilimenti, tra cui quelli della tonnara di Favignana, per aiutare le donne lavoratrici in difficoltà. 

I coniugi crearono poi una scuola per le giovani lavoratrici analfabete 

della società tessile, un fondo per gli operai bisognosi e l’Istituto dei ciechi 

a Villa del Pigno, il primo del genere ad essere aperto in Italia. 


Si dedicarono anche ad attività culturali come il completamento del Teatro Massimo, dopo oltre venti anni di battaglie burocratiche e accadimenti d’ogni genere: con i suoi 7.730 metri quadrati, è ancora oggi il più grande teatro lirico italiano e il terzo in Europa, dopo l’Opéra di Parigi e lo Staatsoper di Vienna.

Franca aveva un ruolo fondamentale accanto al marito nei salotti mondani 

delle grandi capitali europee, e all’epoca anche Palermo lo era, felice meta 

di regnanti, capi di Stato, artisti, poeti, musicisti e scrittori. 

 

Alta nobiltà e teste coronate furono ospiti dei Florio nella grande villa della vasta proprietà terriera dell’Olivuzza, tra cui i sovrani inglesi, Edoardo VII con la moglie Alessandra, l’arciduca ereditario d’Austria Francesco Ferdinando e lo zar Nicola II, ospite a Villa Florio all’Arenella. Banchieri come Morgan, Vanderbilt e Rothschild arrivavano a Palermo per affari, ma anche per potersi deliziare dell’ospitalità e del grande fascino di donna Franca, e così molti artisti come Pietro Canonica, che ne eseguì una scultura del busto a grandezza naturale, i pittori Boldini e Michetti, letterati come Maupassant, Oscar Wilde e Montesquieu (che le dedicò un’ode), D’Annunzio e Matilde Serao che la definì “divina immagine muliebre”, musicisti da Leoncavallo a Mascagni, Puccini e Wagner, e il tenore Enrico Caruso. Tutti soggiogati dal suo fascino. L’anziano Imperatore Francesco Giuseppe le regalò una tromba identica a quella della sua auto, cosicché lei potesse girare per le strade di Vienna assaporando il rispetto e gli stessi privilegi riservati alla vettura dell’Imperatore.

Si narra anche che una sera, alla Scala di Milano, Arturo Toscanini girò per un attimo le spalle all’orchestra mentre era in corso un applauso, per dirigere il suo inchino verso un palco tra i tanti: era entrata Franca Florio.

 

La sera del 16 maggio 1897, all’inaugurazione del Teatro Massimo a Palermo, si rappresentava il Falstaff di Verdi, ma gli occhi di tutti erano calamitati dal fascino di donna Franca. Il teatro era splendido e immenso, la gente lo ammirava come se fosse un monumento. Eppure la vera attrazione quella sera era lei, avvolta da una stola di zibellino a coprirle parte del bellissimo abito lungo di seta color albicocca che amplificava le luci brillanti emesse dai diamanti della sua parure.   

 

Come ricorda Nello Ajello: “Franca Florio viveva fra cronaca e leggenda. Leggenda erano le sue toilette, la sua servitù, le sue villeggiature, da Saint-Moritz a Beaulieu-sur-mer, i teatri che frequentava e che finanziava, gli yacht su cui navigava, le case che abitava, dalla villa dell’Olivuzza all’appartamento in Villa Igiea alla dimora di Favignana”.

Sono gli anni di massimo splendore, della sfavillante Belle Époque,

 

vissuti senza badare a contenere le enormi spese per gioielli e abbigliamento (donna Franca indossava esclusivamente abiti tagliati per lei dal sarto parigino di origine britannica Charles F. Worth), o a quelle di rappresentanza per ville, servitù e manutenzione di sei panfili, tra cui i lussuosissimi yacht “Sultana” ed “Aegusa”, o per i costosissimi ricevimenti e gli innumerevoli viaggi.   

 

Dopo varie vicende tristi, legate soprattutto alla perdita di tre bambini, fra cui l’unico figlio maschio, il piccolo erede “Baby Boy” sul quale Ignazio aveva riposto tutte le sue aspettative, cala il sipario sulla storia della famiglia: tra la fine degli anni Venti e la metà degli anni Trenta, per la famiglia Florio ci fu il crollo economico. Un destino segnato in parte da scelte sbagliate, forse anche da un tenore di vita esagerato rispetto ai cambiamenti storici e sociali, ma soprattutto da uno sviluppo economico che ha visto favorire l’espansione industriale delle regioni settentrionali rispetto al Meridione d’Italia.   

 

Nel centenario della nascita di Leonardo Sciascia, ecco le sue parole sulla vicenda di Franca Florio:

 

“Una storia proustiana, di splendida decadenza, di dolcezza del vivere, 

di affabile ed ineffabile fatalità”.

 

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