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IL CINEMA A MATERA di Delio Colangelo – Numero 4 – Aprile 2016

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Matera, a partire dal secondo dopoguerra, è stata terra di cinema; più di trenta produzioni cinematografiche sono state realizzate nei Sassi. Una tendenza dominante, da Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini a Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi, ha messo in luce la condizione di miseria e arretratezza della Basilicata, influenzata da autori come Carlo Levi ed Ernesto De Martino. Negli ultimi anni, Matera è diventata teatro di opere filmiche – come The Passion di Mel Gibson – che hanno contribuito a formare l’immagine di una città quasi mistica e culturalmente attiva.

La designazione di Matera come città Capitale Europea della Cultura del 2019 sembra essere la definitiva redenzione di una cittadina che per lungo tempo ha suscitato la “vergogna nazionale”.

Tratto dal libro omonimo di Carlo Levi, racconta l’esperienza di confinato vissuta da Levi stesso durante l’epoca fascista. Durante i due anni trascorsi in esilio, Levi, medico progressista torinese, ha l’occasione di entrare in contatto con la civiltà contadina lucana che osserva con meticolosa attenzione e che lo colpisce profondamente. Pur avendo come centro il paese di Aliano, dove lo scrittore ha vissuto, vi sono descrizioni di Matera che, come abbiamo già detto, hanno prodotto grande attenzione mediatica sul destino dei Sassi.

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IL CINEMA A MATERA

 

Delio-Colangelo

Il primo film di finzione interamente girato nei Sassi è La Lupa (1953) di Alberto Lattuada, trasposizione cinematografica dell’omonima novella di Giovanni Verga.

Nonostante non manchino ritardi e sterili polemiche, la città sta attirando la creatività giovanile e rafforzando i propri eventi e manifestazioni culturali. La stagione turistica si allunga, con sempre più frequenti episodi di overbooking, ed è caratterizzata da una crescente dimensione internazionale. Tra le grida di gioia che hanno invaso la Piazza San Giovanni nell’ottobre del 2014, quando il ministro Franceschini ha comunicato la scelta di Matera come capitale europea della cultura, molti parlavano di un importante riscatto per la città. Una città che ha compiuto un lungo percorso per riabilitarsi e che, dopo il risultato dell’iscrizione dei Sassi nel patrimonio Unesco nel 1993, trova, come Capitale Europea della Cultura, il suo compimento. 
Qualcuno ha detto che Matera, prima di essere stata città dell’Unesco e città della cultura, è stata città del cinema e su questo vorrei soffermarmi un attimo. Su come il cinema è stato importante sia per la riflessione sulla condizione della città che per la sua promozione mediatica e turistica.
Dagli anni ’50 agli anni ’70, la produzione cinematografica a Matera, infatti, risente di una vasta riflessione che, da Levi a De Martino, ha posto l’attenzione sui problemi della Basilicata.

In particolare, si può citare una piccola opera di un giovane Antonioni dal titolo Superstizione e diversi lavori, tra cui Magia Lucana e La Madonna di Pierno del regista Luigi Di Gianni, uno dei più importanti rappresentanti del documentario antropologico. 
Un film di finzione, girato in parte a Matera, che raccoglie questa eredità e questo fermento, è Il Demonio (1964) di Brunello Rondi. Il film ha come obiettivo quello di offrire un ritratto autentico della Basilicata, soprattutto in riferimento a quel “mondo magico” che circondava la realtà lucana degli anni ’50 e ’60. A metà strada tra storia drammatica e documentario, il film racconta i riti contro il malocchio, gli esorcismi, le superstizioni. La protagonista, Purificata, non riuscendo a superare una delusione d’amore, cade nella “fascinazione”. La fascinazione, o la possessione, rappresenta il momento di stallo in cui si trova Purificata che non riesce ad accettare la fine di un amore; il percorso di liberazione da questo male, che però la condurrà a una fine tragica, è un susseguirsi di riti liberatori, pratiche magiche, esorcismi, lamenti funebri che il regista inserisce all’interno della narrazione con intento quasi documentale. In alcune suggestive sequenze girate nei Sassi, avviene il conflitto magico: da una parte, Purificata che cerca di minare, attraverso filtri amorosi, la solidità del matrimonio tra il suo amato e un’altra donna mentre, dall’altra, gli sposi che proteggono con alcuni rituali la loro unione dalle forze negative. 
Un “paesaggio” magico che mostra il netto divario esistente tra l’arretratezza della terra lucana e il progresso e il boom economico che veniva vissuto in altre zone d’Italia. 
Questa tendenza rappresentativa, che incomincia a tramontare a partire dagli anni ’70, ha un ultimo e forse più importante esempio nella trasposizione cinematografica del romanzo di Levi a opera di Francesco Rosi.

A metà degli anni ’60, Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini inaugura una tendenza ad ambientare nei Sassi di Matera vicende di argomento biblico. I Sassi diventano la Gerusalemme della predicazione cristiana e della via crucis

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L’operazione interessante compiuta da Lattuada consiste nell’usare i Sassi non come sfondo per rappresentare un paese siciliano (originaria ambientazione del racconto di Verga), ma come effettivo luogo in cui si svolgono le vicende raccontate. Il paesaggio mostrato, quindi, porta nel film il suo carico di drammaticità che integra l’opera verghiana. Prova ne è, ad esempio, lo spazio che nella prima parte del film è dedicato alla Festa della Bruna di Matera in cui si snoda la vicenda. L’inserimento nel film di riti e tradizioni tipicamente materani serve proprio a intessere la trama nel nuovo contesto territoriale.
Nel Dopoguerra è intensa anche la produzione documentaristica. Nel 1949 vi è l’esordio alla regia di Carlo Lizzani con il documentario dal titolo Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato (1949). L’interesse verso la realtà materana e lucana coinvolge anche altri registi che, anche sulla scia delle spedizioni etnografiche organizzate da Ernesto De Martino, raccontano i riti e le superstizioni che regnano in Basilicata.

Una ricca produzione documentaristica investe la Basilicata con l’evidente compito di mostrarne le condizioni culturali e sociali.

Il Cristo si è fermato a Eboli (1979) di Rosi è sicuramente uno dei prodotti artistici più rappresentativi dell’identità lucana e racconta con realismo un pezzo di storia della Basilicata.

mentre la Murgia materana è il luogo della crocifissione e della resurrezione del Cristo. Tuttavia, Pasolini, non sceglie Matera in quanto somigliante a Gerusalemme, ma perché è rappresentativa del contesto socioeconomico del sud d’Italia. Così se, da una parte, c’è l’intenzione autentica di sottolineare la forza rivoluzionaria del messaggio cristiano e ricollegarla a un generale senso del sacro, dall’altra, emerge il desiderio di denunciare e mettere in luce i contesti di vita inaccettabili in cui vivevano gli abitanti di questa parte del Sud. La macchina da presa mostra i paesaggi, i volti scavati, con la stessa attenzione dimostrata da Pasolini nei suoi precedenti film sulle borgate romane

Matera, quindi, trasferisce all’interno del film non solo la sua conformazione fisica ma anche la sua specificità sociale, divenendo una metafora di tutta la questione meridionale.

Il tentativo compiuto dall’autore è quello di far emergere l’immagine autentica di un territorio raccontando una storia che non le appartiene.
Dagli anni ’70 in poi, Matera verrà utilizzata per rappresentare la Spagna (L’albero di Guernica), la Sicilia (L’uomo delle Stelle); diventa, quindi, esclusivamente una location cinematografica che avrà particolare fortuna con le storie di argomento biblico. Dopo un King David girato negli anni ’80 e di scarso successo (che però porta Richard Gere tra i Sassi), si apre per Matera l’epoca delle grandi produzioni hollywoodiane. Nel 2004 esce nelle sale The Passion of the Christ (2004), storia della passione di Cristo raccontata da Mel Gibson, i cui esterni sono stati girati quasi interamente nei Sassi. La pellicola, che racconta la passione di Cristo dall’invocazione nel giardino dei Getzemani sino alla resurrezione, ha dato una grande esposizione mediatica internazionale ai Sassi di Matera. Non vi è più riflessione sul contesto sociale né riferimento all’identità culturale; tuttavia, la distribuzione mondiale e il successo del film offrono a Matera un’importante vetrina promozionale. The Passion viene spesso citato come caso di cinema che ha dato un forte impulso al turismo cittadino ed effettivamente, dati alla mano, nei due anni successivi all’uscita del film il turismo straniero è raddoppiato. Probabilmente il film ha prodotto anche maggiore consapevolezza, nei cittadini e nelle autorità, sulla dimensione internazionale di Matera e sulle potenzialità turistiche dei Sassi che, pur essendo già patrimonio Unesco, risultavano ancora inespresse. 
Dopo il film di Mel Gibson, altre grandi produzioni, a tema religioso, si sono fermate a Matera come The Nativity Story (2005), The Young Messiah (2016) o remake di peplum famosi come Ben Hur (2016).

Oggi le strette stradine dei Sassi sono un set a cielo aperto, passaggio continuo di produzioni cinematografiche e televisive, dimostrando la stretta relazione tra il cinema e la città.

 

LA VIA DELLE MEMORIE di Vincenzo Donzelli – Numero 4 – Aprile 2016

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Le cose accadono e spesso non per caso. Ricordo ancora quell’umido pomeriggio di novembre del 2013 in cui ho ricevuto la telefonata del mio amico geologo Gianluca Minin, Presidente dell’associazione culturale Borbonica Sotterranea. Aveva un’importante proposta da farmi e mi aspettava, la domenica successiva alle nove in punto, alla Galleria Borbonica in prossimità del parcheggio Morelli.

Arrivati in cima all’impalcatura, mi ritrovai in un ambiente un po’ polveroso, dove un gruppo di almeno 30 volontari stava scavando … Restai sbalordita davanti a questi ragazzi molto giovani che lavoravano affiatati, con passione e anche divertendosi. A quel punto, Gianluca mi chiese se ero pronta a conoscere la principale ragione del suo invito; mi sorrise e mi chiese di girarmi: dietro di me vidi una lunga scala con decine di gradini che erano stati appena finiti di pulire dai volontari che erano di fianco a me.

Dal 30 gennaio di quest’anno, il nuovo percorso della Galleria Borbonica è attivo e aperto al pubblico con il suggestivo nome di La Via delle Memorie.

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LA VIA DELLE MEMORIE

 

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Gianluca mi guardava divertito e, di colpo, sorridendo, mi disse: “Sei pronta a scavare?”. Ero attonita, quasi sbalordita. Lui non si scompose e sempre sorridendo mi condusse a fare un giro all’interno della Galleria per presentarmi “alcune persone speciali che avevano una sorpresa per me”.

Quella mattina, restai senza parole di fronte a tanta bellezza; ero impressionata dalle opere realizzate dai Borbone e orgogliosa dei ragazzi che avevano ripulito tutto senza alcun aiuto economico. Gianluca mi guardò e mi disse che mi avrebbe portata dove i lavori di rimozione dei detriti e dei rifiuti erano ancora in atto. Dopo l’apertura della parte iniziale della Galleria, infatti, nell’agosto del 2013, lui e il suo socio avevano iniziato a scavare all’interno di una cisterna del Seicento, alla ricerca del passaggio verso il ricovero bellico di Palazzo Serra di Cassano. Quando arrivammo alla cisterna, Gianluca si fermò di colpo e mi disse che ci trovavamo esattamente al di sotto del Palazzo, in un punto limitrofo allo spazio di mia pertinenza. Lo ascoltavo in silenzio, mentre lui mi spiegava tutto il sistema di cunicoli e attraversamenti. Alla fine della spiegazione mi indica il passaggio che cercavano da tempo e che era emerso dai detriti. Quel passaggio consentiva di entrare in una serie di ambienti di epoche diverse, su più livelli, collegati da bellissime scale. Salimmo queste scale e mentre guardavo l’altissima volta che era sopra di me, Gianluca mi rivelò che tutto ciò che vedevo risultava, in gran parte, dal riempimento di detriti derivanti dai resti degli edifici bombardati nella parte alta di Monte di Dio e versati subito dopo la guerra nei pozzi. Era incredibile e il mio stupore cresceva con i suoi racconti. A un certo punto, mi fece salire su un’impalcatura che conduceva ancora più in alto da dove arrivavano i rumori di persone che parlottavano divertite. Ero impressionata dalla quantità di materiale che era stata spostata.

Non solo la Galleria fu restituita al patrimonio culturale di Napoli, ma la scoperta di diverse cavità non censite ubicate in aree limitrofe alla Galleria, ha permesso di migliorare la conoscenza del sottosuolo dell’area di Monte Echia e di studiarne i movimenti, utili a prevenire possibili smottamenti e altre calamità.

Non avevo idea di cosa volesse propormi, il solo pensiero che mi venne è che potesse chiedermi una collaborazione tra la sua associazione e l’associazione artistico culturale Interno A 14, che, da lì a poche settimane, avrei aperto, in un locale di proprietà della mia famiglia a Palazzo Serra di Cassano. Ero davvero curiosa e quella domenica mattina mi recai all’appuntamento con un pizzico di ansia. Conoscevo quella parte di sottosuolo che partiva dal parcheggio Morelli perché ne avevo sentito molto parlare, ma non l’avevo mai visitata. Quando arrivai al cancello della Galleria Borbonica, Gianluca era lì ad accogliermi. Già all’entrata, rimasi colpita dalla maestosità delle cavità che si ramificavano da quel punto in varie direzioni e poi, entrando, dal susseguirsi di giochi di volte, scavate nel tufo, e dagli archi di grandezze diverse.

“Questo – mi disse Gianluca senza scomporsi – è il nostro piccolo miracolo napoletano”! Era la storia di decine di volontari che ogni domenica mattina andavano a lavorare alla Galleria per rimuovere a mano tutti i materiali che ingombravano gli ambienti.

Durante il tragitto mi raccontò la storia della Galleria e di come lui, e il suo socio – e collega – Enzo de Luzio, avessero trovato tutto quello che, con grande sorpresa, stavo ammirando. Mi parlò dei rilievi statici che faceva nelle cavità del sottosuolo di Napoli che, dopo alcuni mesi, lo avevano condotto all’interno della Galleria Borbonica – che era in uno stato di totale degrado e abbandono, invasa da rifiuti e detriti sversati abusivamente negli ultimi 30 anni. Gianluca, tuttavia, non si scoraggiò. Cominciò subito i rilievi e i lavori di pulizia, coinvolgendo decine di volontari. Dopo cinque anni di interventi pazienti e impegnativi, tutta la città ha potuto ammirare la bellezza di un’opera civile totalmente dimenticata. Si trattava di un piccolo miracolo napoletano, dovuto alla capacità e alla tenacia di geologici, tecnici, studiosi e al lavoro di tanti ragazzi e ragazze della città.

Mi disse che le scale terminavano proprio sotto il pavimento del mio spazio. Rimasi di sasso.

Nel periodo bellico, per consentire il ricovero degli abitanti durante i bombardamenti, qualcuno aveva ampliato la scala già esistente nel Rinascimento che collegava il Palazzo con i suoi ambienti sotterranei. Restai in silenzio, osservando tutto ciò che mi circondava. Guardavo i volti dei ragazzi e lo sguardo di Gianluca e degli altri volontari dell’associazione Borbonica Sotterranea che quella mattina erano lì e che con tanto amore e passione avevano per anni scavato per riportare alla luce una simile bellezza. Gli dissi che ero onorata di poter collaborare con loro e di ripristinare il passaggio chiuso dopo la II guerra mondiale, che univa due realtà importanti come il Palazzo Serra di Cassano e la Galleria Borbonica. Da quel giorno sono passati due anni di intensi lavori di scavo e di prolungate attese per i permessi. Finalmente, il 14 novembre 2015 abbiamo potuto eliminare l’ultimo diaframma che impediva il congiungimento tra il Palazzo e il sottosuolo, restituendo così alla città di Napoli un percorso che, senza alcuna retorica, rappresenta l’orgoglio dell’iniziativa privata e del volontariato.

Da quel giorno, chi proviene dal sottosuolo può seguire il percorso di Palazzo Serra e sbucare con sua grande sorpresa all’interno del mio spazio polivalente dedicato alle arti e alla cultura – chiamato Interno A 14. In questi spazi abbiamo allestito un’area con una mostra permanente fotografica in onore dei volontari della campagna di scavo dell’associazione Borbonica Sotterranea dove si possono ammirare anche delle teche con alcuni degli oggetti ritrovati nel sottosuolo.

 

SALENTO LE PIETREFITTE di Giusto Puri Purini – Numero 5 – Luglio 2016

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Mediterraneo

“La vita è dono degli immortali, dono della filosofia, è vivere bene. Fu la filosofia ad erigere tutti quei torreggianti casamenti, tanto rischiosi per chi vi dimora? Credimi, felice età fu quella, prima dei giorni degli architetti, prima dei giorni dei costruttori”.

Negli ultimi anni, queste strutture sono diventate prelibate ed accattivanti per tanti compratori venuti da fuori che, nei limiti delle regole restrittive che le governano, le hanno trasformate ed adattate, creando comunque un nuovo mercato edilizio, ad uso soprattutto dei mesi estivi.
Nella nostra operazione, abbiamo, con l’architetto Nicolardi, cercato di bypassare questo passaggio del “dolore”, rendendo la masseria sostenibile e fruibile oggi, con l’uso di materiali biocompatibili, con tecniche innovative per l’approvvigionamento energetico, come l’uso di infissi a taglio termico in legno, di serpentine riscaldanti sotto il coccio pesto alimentate da una pompa di calore, mantenendo gli interni con la loro configurazione, fatta di volte a botte, nicchie, sporgenze, camini inseriti nello spessore delle pareti.
Il tentativo, insomma, è stato quello di mostrare anche alla popolazione locale, alle autorità che legiferano, alle Belle Arti che pontificano, come arrivare, attraverso un restauro conservativo, a migliorare la già vasta (intellighenzia) di queste strutture, in un passaggio ambizioso che dal “dolore” portasse al “piacere”, in questa miriade di Genius Loci presenti nel territorio”, affondati tra gli Ulivi sgargianti e maestosi…i terreni coltivati e gli orti..grondanti di prodotti…e di bontà.

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SALENTO. 
LE PIETREFITTE

 

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Così scriveva Seneca in una lettera all’amico Lucilio (frase tratta da “Le Meraviglia dell’Architettura Spontanea” di Bernard Rudofsky). Evidentemente, con acuto senso del paradosso, Seneca scriveva riferendosi a quella fase pre-storica in cui le esigenze primarie e l’uso di materiali locali (pietra) spingevano l’uomo, dopo una lunga fase nomadica, a stabilizzare la propria esistenza, diventando “costruttori” casuali, espandendo le loro già acquisite capacità artigianali e manifatturiere. Era una casualità relativa, perché, invece di costruire siti legati ad una logica economica espansionista, seguivano le antiche leggi della natura, legate ai cicli delle stagioni, dalla semina ai raccolti, all’accumulo di riserve alimentari per le stagioni difficili ed improduttive.

L’uso della pietra, quasi sempre locale, trovava una simbiosi con il fluire di un arcaico rapporto “religioso-emozionale” rappresentato dai simboli astrali, appartenenti al mito, e le raffigurazioni geometriche in terra,

quali Menhir, Dolmen, cripte votive con gigantesche coperture in lastroni di pietra e Tombe dei Giganti, con preziose geometrie ricurve e piccoli archi aperti, ritagliati dove le pietre toccavano terra (pietrefitte), ad evidenziare il rapporto con il cielo dell’anima del defunto (il KA-BA ). L’Area del Mediterraneo era un gigantesco crogiolo di civiltà diverse che interagivano tra di loro come i semi delle piante trasportate dai venti. E così in Sardegna, nella Tomba dei Giganti, appare evidente l’influenza dell’antico Egitto (KA-BA), così nelle antiche mura megalitiche dei Messapi di Puglia – antichi abitanti del Salento – con i tagli delle pietre puliti e precisi, ritroviamo influenze forse pre-celtiche (Stonehenge), che dalle aree del Maelstroem, il grande gorgo nel Nord…..giù, giù…attraverso Corsica e Sardegna, scivolavano nel Mediterraneo. Cosicché, da un lontano miscuglio Mito-Storia, il racconto delle pietre, come interfaccia nel dialogo cielo-terra, si compiva.
Qui, in Salento, i prodi Messapi dall’area di Manduria, nel nord del Salento, fin giù a Leuca, occuparono stabilmente e civilizzarono quasi tutte quelle terre, così in Sardegna e Corsica le culture nuragiche progredivano, fino alla costruzione di grandi insediamenti urbani, come sa Barumini, di inni architettonici dedicati alle preziose acque, le Fonti Sacre. Un’unica visione cosmica si affacciava nel Mediterraneo. In quella Valle Messapica, a ridosso di Leuca, il detto di Seneca, con cui inizia questo articolo, diventava “Fatto”.

I Contadini-Guerrieri, su quel letto di pietra che è il Salento, realizzarono quell’architettura “pre–storica” caduta quasi nel dimenticatoio, con somma creatività, immaginazione, capacità geometriche e riferimenti geografici, assi e rapporti cosmici, in uno splendido Feng-Shui messapico.
Furono architetti eccellenti e le loro capacità progettuali ed artistiche non furono disattese dai loro eredi, fino a quasi la soglia dei giorni nostri.

Un Miracolo? Usando ancora i materiali dei loro terreni, stratificazioni di pietre che da morbide tufacee diventano dure – il capraio – realizzarono, con tecniche antiche, fascinose costruzioni (Pagliare), masserie contadine, depositi per i raccolti, complessi ed articolati muri di cinta con massi giganteschi, tagliati e levigati, in un continuo variare di tipologie, forni, muri a secco dovunque, ed osservando le architetture dei proprietari terrieri si lanciarono nelle volte a stella, a botte, architravi sagomate, archi in pietra e colonne.
In una di queste masserie contadine del basso Salento ora vi abito io con mia moglie Tamara, da circa un anno, liberatici parzialmente di quell’ingombrante peso tra la “La Grande Bellezza”… e “La Totale Inefficienza”… che oggi rappresenta Roma…(vi sono nato…è da sempre nella mia mobile vita di architetto, la base di lancio per tante avventure in molteplici direzioni).
Con l’aiuto di Vito de Giovanni (che ci ha trovato la Masseria), dell’Impresa di Stefano Russo, erede delle “conoscenze” strutturali, e soprattutto dell’architetto Luigi Nicolardi, per almeno 10 anni sindaco di Alessano, abbiamo realizzato un restauro conservativo di una di queste architetture contadine, dove le pietre stesse raccontano, una ad una, la difficoltà degli scavi, della posa in opera, della costruzione delle volte, del coccio pesto a terra e così via, testimoniando in modo didascalico e “rosselliniano”, se posso dire, il progredire del loro tempo, dei loro usi e costumi.

Erano tempi duri ed i figli dei primi costruttori e gli attuali nipoti e pronipoti le hanno chiamate le case del “dolore”.
La vita ed i raccolti erano duri e faticosi.

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Luigi Nicolardi

I “LUOGHI DELL’IDENTITÀ SALENTINA”

 

PALMIRA. LA SPOSA DEL DESERTO di Paola Pariset – Numero 5 – Luglio 2016

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Gli-Occhi

parlavano più delle parole – in un grande archeologo come lui, avvezzo alla pacata e fruttuosa ricerca degli scavi, che nei decenni resuscitarono Ebla, la sua biblioteca, i tesori fascinosi dell’antica Mesopotamia – a proposito della drammatica distruzione di resti intangibili di Nimrud e di Palmira, nell’incontro del 15 febbraio “Il Tempio distrutto. Una questione cosmopolitica”, all’Istituto Svizzero di Roma, in via Ludovisi.

Gli occhi specchio dell’anima di Paolo Matthiae tradivano l’immanità della tragedia e della barbarie di oggi, in cui le opere d’arte sono divenute – come, in tanti altri casi, il corpo brutalizzato delle spose, delle madri, delle sorelle – oggetto di ricatto e mercanzia bellica, che brucia al militare più delle proprie ferite e della propria morte.

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PALMIRA.

LA SPOSA

DEL DESERTO

 

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 E basterà ricordare (ma mai nessuno dimenticherà) la fiera resistenza dell’ottantaduenne direttore del Museo Archeologico di Palmira, Khaled Asaad, che, per non rivelare i luoghi di collocazione protetta dei reperti museali, ha subìto tortura e atroce decapitazione nell’agosto 2015, per mano dell’ISIS. Perciò, dinanzi a questo regresso della civiltà, il direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci, in occasione dell’intervista alla SIAE per la sua firma su “Unite for Heritage” e la presentazione dei Caschi Blu della Cultura, il 16 febbraio scorso affermò: “Sarò qui…

credo che ogni operazione fatta per la cultura abbia in sé una valenza pacifica, anche se i cani della guerra sono più forti di qualsiasi buona intenzione”.

Infatti nessuna costruzione a volta o a cupola qui tradisce la monumentalità dell’estetica imperiale romana: ovunque, nella rettilinea via colonnata simile a quella di Damasco, nel Teatro Romano di impianto ellenistico col favoloso proscenio a edicole, nel Tempio di Baal di tipo ionico-corinzio, trionfano la limpida geometria, il rapporto delle perpendicolari, la rettilineità ellenica. Su questo olimpico universo interferirono nel secolo III dopo Cristo il mondo partico, sassanide, iranico, coi loro simbolismi astratti e metafisici, appartenenti alla religione di Ahura Mazda: le coeve sculture funerarie palmirene, di livello artistico molto alto, palesano questo impossibile eppure realizzato connubio. Fu questo il periodo in cui prosperò il potente Regno di Palmira, retto dalla ricchissima e bellissima regina Zenobia, che osò muovere contro Roma proprio dopo la terribile disfatta dell’esercito dell’imperatore Valeriano da parte del sassanide Shapur I a Edessa, nel 270: ma solo l’imperatore Aureliano sconfisse e catturò Zenobia in fuga sull’Eufrate, conducendola a Roma per il proprio trionfo, stretta in catene d’oro, come il quadro tardoromantico di Herbest Schmalz testimonia, con immaginaria fedeltà. Sappiamo che anche Diocleziano e Giustiniano misero mano a fortificazioni della città di Palmira, che restò base militare romana e poi bizantina, prima di venire definitivamente abbandonata.

Paolo Matthiae ricordava, e dinanzi ai suoi occhi scorrevano i decenni serviti a riportare alla luce antichissime città e i pochi minuti per seppellire il Tempio di Baal e l’intero santuario di Baalshamin a Palmira, nella polvere di un’enorme e letale esplosione. Palmira, la Sposa del Deserto: il suo manto nuziale non è candido, è color sabbia, e tale è rimasto dall’origine dell’umanità, da quando essa iniziò ad accogliere le infinite carovane in sosta, lungo il viaggio tra Occidente e Oriente, per lo scambio di mercanzie, stoffe seriche, spezie.

Palmira era l’oasi fresca delle palme che le diedero il nome, fresca per la sete di centinaia di migliaia di uomini, in lento cammino.

Oggi essa vive di ricchezze archeologiche, perpetuanti fra le sue sabbie desertiche lo splendore della Grecia antica, anche se nella storia precristiana di Palmira rientrano le mitiche fortificazioni di Salomone, di cui nessuno conosce le fondamenta. Quando essa fu raggiunta dall’espansionismo romano, divenne provincia orientale di Roma, pur mantenendo l’autonomia che già possedeva nel periodo ellenistico seleucide.

All’imperatore Adriano, profondamente cólto, che dal mitico centro mediorientale rimase affascinato, risalgono quasi tutti i reperti archeologici monumentali di Palmira giunti fino a noi, che recano il segno del di lui amore per la Grecità classica ed ellenistica.

Un fascino unico promana da queste inclite mura, che ascendono come fiori dalle sabbie desertiche, del cui colore si ammantano: qui ebbe luogo la fusione culturale fra Est e Ovest, fra il mondo classico greco e quello bizantino e medievale.

Perché questo fu il ruolo storico di Palmira. Ma essa dal 2015 non è più come prima. Gli scempi perpetrati dall’Isis hanno sollevato lo sdegno mondiale, ma non hanno fermato il Califfato. Ed allora gli occhi smarriti del professor Matthiae si sono armati di nuova energia: e la sua opera si indirizza – come quella dei suoi colleghi internazionali e dell’ICCROM – a sostenere l’operato di chi vigila sui beni rimasti in situ, dai livelli direttivi all’usciere, visto che, nel frattempo, altri 15 custodi e funzionari sono rimasti uccisi per difendere il patrimonio artistico e il loro ruolo non si svolge affatto nella sicurezza. “L’ICCROM – afferma il direttore Stefano De Caro – è figlia delle distruzioni, ma si sa bene che la soluzione è il dialogo, anche coi Talebani. Intanto, teniamo corsi di preparazione alla guerra, al pronto-soccorso dell’arte, ad impacchettare i monumenti”. Matthiae, dall’alto dei suoi 76 anni, ha compreso che a ciò conduce “l’odio dell’altro”, come ai tempi di Costantino e Teodosio, ma anche della Francia di Luigi XVI (pochissime le statue di lui rimaste), e non finisce qui.

Questo, dunque, non è più il momento di nuovi scavi, della conquista di nuove conoscenze, ma quello pratico della salvaguardia, delle ricostruzioni

con criteri filologici o meno, per mettere infine i popoli – dice ancora Matthiae – “in condizione di fare da sé, di gestirsi da sé. E non sotto tirannide”.

 

I “LUOGHI DELL’IDENTITÀ SALENTINA” di Luigi Nicolardi – Numero 5 – Luglio 2016

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Se solo volessimo immaginare quale fosse l’immagine del paesaggio salentino anche solo agli inizi del secolo scorso, molto probabilmente dovremmo pensare una grande distesa di banco roccioso che costituiva la crosta terrestre. Ancora oggi, basta fare una passeggiata nella campagna, ormai abbandonata, per rendersi conto della enorme quantità di pietre che vi sono depositate. Ovunque intorno si vedono pietre. La maggior parte sotto forma di muretti a secco che delimitano le proprietà, definiscono confini, disegnano terrazzamenti; oppure sotto forma di ricoveri temporanei, fabbricati monocellulari pajare, lamie, caseddhe, furneddhi, ancora ammucchiate l’una sull’altra a costituire enormi “specchie”, o come imponenti blocchi monolitici, dolmen e menhir.

 

I “LUOGHI DELL’IDENTITÀ SALENTINA”

 

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La pietra, dunque, domina incontrastata il paesaggio salentino. Pietre mute all’apparenza, ma, per chi le sa ascoltare, parlano e raccontano storie di dolore, di sacrifici e di sofferenze di intere generazioni

impegnate a strappare alla dura crosta porzioni sempre più ampie di territorio da destinare dapprima ai coltivi e poi alla propria residenza.
Lo aveva intuito bene Maria Brandon Albini, quando nel 1959, nel suo “Viaggio nel Salento”, così si esprimeva: “la campagna svela subito la sua struttura di altopiano leggermente digradante verso il mare che lo cinge da tre lati; ossatura antica, petrosa, bianca, sulla quale è posato un sottile strato di terra, trenta centimetri circa, rossa e argillosa.

Lo scheletro della penisola salentina par quello di un mammuth pietrificato, che si scuota di dosso la terra che le piogge d’autunno o il badile del contadino tentano di buttargli addosso. La lotta millenaria del contadino contro la natura è scritta, a ogni passo…”.

Maria Brabdon Albini, prima ancora di Ernesto De Martino con la sua “Terra del Rimorso”, ci restituisce, fissandola in una sorta di grande dagherrotipo, l’ultima immagine di una civiltà contadina che non era ancora stata toccata dalla modernità; ormai ridotta allo stremo, provata e privata da lunghi secoli di soprusi e di sfruttamento; tutta arroccata su se stessa, sui suoi riti e sulle sue tradizioni, sui suoi miti e sulle sue leggende; scavata nei volti e nell’animo delle sue genti, che fondava la propria esistenza sui principi di solidarietà, di accoglienza, di tolleranza e di condivisione tra le genti. Una civiltà che fondava la propria esistenza sui principi di solidarietà, di accoglienza, di tolleranza e di condivisione tra le persone e sul mito dell’autosufficienza famigliare, incentrato sul rapporto utilitaristico con la natura, che le consentiva di non estinguersi e al tempo stesso di superare le avversità.
Lo studio dell’Antropologa rappresenta l’inizio della fine della civiltà contadina; da quel momento in poi, la storia non sarà più la stessa, il Salento viene aggredito dalla modernità. Gli anni che seguiranno saranno caratterizzati in particolar modo dal progressivo abbandono della campagna da parte dei “popliti” che, fino ad allora, l’avevano vissuta secondo due modalità: da un lato, l’emigrazione verso il nord Italia e verso il nord Europa; dall’altro, lo spostamento di quelli rimasti nei piccoli paesi, alla ricerca di maggiori comodità e di una vita più consona per sé e per i propri figli, che la campagna non era più in grado di offrire perché incapace di produrre reddito.

Sul finire degli anni ottanta, quella civiltà contadina – con i suoi riti, i suoi miti, le sue credenze, le sue superstizioni, le sue tradizioni che erano alla base dello studio della Brandon Albini – era quasi del tutto scomparsa.

Quel mondo arcaico fatto di panare, lamie, furneddhi, pozzi e pozzelle, dolmen e menhir, muretti a secco, masserie, di licurda, di cicidi e tria, di acqua e sale, di ficandò, di diavulicchi e di municeddhi, di Santi, di tarantate e di pizzicate si era completamente dissolto come neve al sole nel giro di due decenni.
La scomparsa della civiltà contadina aveva lasciato dietro di sé “innumerevoli segni”, scolpiti nella pietra, che nel corso di secoli si erano depositati sul territorio e che i nostri padri e le nostre madri avevano in fretta e furia abbandonato perché considerati “i luoghi del dolore e della sofferenza”.

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Passeggiare nella campagna salentina abbandonata vuol dire ripercorrere quella “civiltà di pietra” così tenacemente radicata in quel sottile strato di argilla, fare i conti con questo recente passato.

Dopo secoli di soprusi, di sofferenze, di delusioni, quei “luoghi del dolore” sono diventati il simbolo di una rinascita culturale dell’identità salentina. Per una sorta di nemesi storica la nuova identità salentina si fonda proprio sulla riconoscibilità di quei caratteri che per secoli hanno rappresentato la subalternità. E’ bastato scrostare appena la polvere che ricopriva quel recente passato per scoprire che sotto c’era il fuoco ardente della passione di un popolo che aveva tanta voglia di rinascere.

Il veleno della taranta, che pure aveva alimentato tante storie, tante illusioni, tante paure, tante credenze popolari custodite gelosamente dentro le mura domestiche, ritorna a scorrere ancora dentro le nostre vene e dentro le vene dei nostri padri;

solo che, questa volta, non provoca più convulsioni, ma la gioia di un popolo che – liberatosi dalle catene della storia che, per secoli, l’avevano tenuto relegato ai margini delle vie dello sviluppo – non ha più paura del proprio passato.
Tuttavia, se, da un lato, tutta questa attenzione al passato ha consentito il recupero di una memoria che rischiava di perdersi; dall’altro, ha provocato una frattura tra presente e futuro.
Oggi le condizioni sono cambiate: ai tempi di internet non è più necessario affidare alle ali di una rondine il canto d’amore per l’innamorato/a nella campagna abbandonata al suo inesorabile declino, la taranta non morde più i piedi scalzi delle contadine costringendole a lunghe ed estenuanti danze di guarigione. Di ben altri antidoti ha bisogno la società contemporanea per curare i suoi mali: non basta più ballare fino allo sfinimento per liberarsi dalle tossine. Ben altri veleni la affliggono, ma, ancora una volta, sicuramente il più mortale di tutti è quello della perdita della memoria. Questo presente, ancora una volta è incapace di prefigurare un futuro, ma sta prendendo le distanze dal suo passato. I “luoghi dell’identità salentina” stanno diventando “non luoghi”, sacrificati come sono alle regole del mercato capitalistico che li svuota dei propri significati. Oggi, la campagna, lungi dall’essere il luogo del lavoro e dell’incontro di un popolo, sta diventando sempre di più un “luogo dell’eterotopia”, sempre più avulso dal contesto sociale, dove si va solo per trascorrere brevi periodi di riposo senza più nessun rapporto con essa.

Oggi più che mai occorre impegnarsi per continuare a tenere unito quel filo rosso che lega il passato al futuro; non più solo per esorcizzare il veleno del ragno, ma per continuare a esorcizzare i nuovi veleni che la società contemporanea ci propina

quotidianamente, che sono legati alla incapacità di accoglienza nei confronti dei migranti, allo sfruttamento del lavoro nero e clandestino, alla perdita del lavoro e al progressivo impoverimento di una parte cospicua della popolazione; al nuovo senso di estraniamento che ha colpito il ceto medio della nuova società capitalistica.

La campagna deve tornare ad essere il luogo entro cui depositare i nuovi progetti della trasformazione urbana con un occhio al passato, ma con lo sguardo dritto verso il futuro.

Correlato:

Giusto Puri Purini

SALENTO. LE PIETREFITTE

 

CASTEL DEL MONTE di Roberta Lucchini – Numero 5 – Luglio 2016

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La dovizia di informazioni che liberamente circolano sulle autostrade di cavi in rame o fibra o sui corridoi aerei rappresenta, come noto, la grande opportunità di conoscenza mai offerta all’essere umano; il quale, nel percorrere corsie talvolta sconosciute, può imbattersi, per curiosità o semplicemente per caso, in notizie che, seppure singolari, accendono un qualche anelito di riflessione.

A sostegno di tale ipotesi sia l’analisi delle tecniche costruttive, del sistema di raccolta delle acque pluviali, di quello di scolo all’interno delle stanze (che, si ricorda, sono otto al pian terreno e otto al piano superiore, di forma trapezoidale, con grandi caminetti solo in alcuni ambienti), sia la presenza di veri e propri bagni in alcune delle torri ottagonali esterne e di sistemi di adduzione dell’acqua negli stessi, sia, ancor prima di tutto questo, la valutazione della geometria stessa della costruzione, cioè la base ottagonale, presente già in epoca romana nelle strutture termali (si pensi, ad esempio, all’Aula Ottagona nelle Terme di Diocleziano) e successivamente nell’architettura cristiana del Fonte Battesimale.

Vien da pensare qui, come per contrappasso con la possanza di queste mura, alla freschezza dei giovani scalpitanti, ai ragazzi in età scolare che dovrebbero venire a conoscere luoghi come questo per liberarsi da un nozionismo sterile, che non può dare conto della complessità e della ricchezza di molti scenari e personaggi.

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DEL

MONTE

 

Ora, il visitatore, trovandosi nell’abbraccio del cortile centrale, mentre osserva i tre portali di accesso al piano terra o le tre porte-finestre del piano superiore incorniciate di breccia corallina, può sentirsi libero di sposare l’una o l’altra opzione, od anche di non prendere posizione.

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Nel farlo, però, deve ammettere che le parole altisonanti utilizzate dalla Principessa Von Hohenstaufen nella sua domanda di restituzione di Castel del Monte, secondo cui quest’ultimo dovrebbe diventare “omfalos della sapienza, scienza, centro della pace e dialogo tra i popoli”, parole capaci, ad una prima lettura, di strappare un sorriso, non risultano totalmente prive di una qualche suggestione, se consideriamo che l’origine di tutto ciò è nella personalità eclettica, poliedrica, illuminata e affascinante del preteso trisavolo Federico II, colui che, fra l’altro, preferì alla guerra guerreggiata la via del dialogo col sultano Al-Malik al–Kamil. E se combiniamo il tutto con le affermazioni di De Biase, secondo il quale “i cittadini possono diventare i maggiori tutori e fruitori del patrimonio culturale”, sorge spontanea un’ulteriore riflessione, che assume caratteri più generali. Vien da pensare qui al testamento che abbiamo il dovere morale di redigere.

Senza dimenticare che il pericolo di isolamento cui i nativi digitali sono esposti, altra faccia della medaglia rispetto alla facilità di reperire notizie a basso costo sul web, potrebbe allontanarli dal desiderio di entrare “fisicamente” in contatto con la realtà, accontentandosi del mondo virtuale. Si dovrebbe approfittare in positivo, come d’altronde si sta già facendo, delle limitazioni che la cronaca recente impone alle istituzioni scolastiche circa le mete delle cosiddette uscite didattiche, orientate oggi, per esigenze di sicurezza, alla scoperta della nostra Penisola: siti pregnanti come questo devono essere stabilmente inseriti all’interno dei circuiti delle gite degli studenti che frequentano gli ultimi anni delle scuole secondarie di primo e secondo grado, e selezionati innanzitutto per familiarizzare con periodi della nostra storia che sono spesso percepiti come ostici e troppo distanti; secondariamente

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Capita così di leggere che, nel 2009, la Principessa Yasmine Aprile, che si dichiara erede unica della casa Hohenstaufen, abbia inviato un telegramma al Comune di Andria ed alla Regione Puglia per ottenere la restituzione di Castel del Monte, la celeberrima costruzione sulla Murgia voluta nel XIII secolo dal suo presunto avo Federico II di Svevia, lo Stupor mundi, adducendo a pretesto l’estremo degrado, l’incuria e l’ignominia in cui il Castello sarebbe piombato. A parte la leggerezza di una simile richiesta, erroneamente indirizzata a destinatari che non godono della proprietà del sito, avendo lo Stato italiano acquistato Castel del Monte nel 1876 dalla famiglia Carafa d’Andria per venticinquemila lire; a parte che lo stesso è entrato nel 1996 nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’ Unesco (evento di cui è stato celebrato il Ventennale lo scorso 27 maggio presso la Sala Consiliare del Comune di Andria); a parte l’aver verificato che la principessa è avvezza a rivendicare possedimenti “irrinunciabili e imprescrittibili” appartenuti ai suoi antenati, come ha fatto per la reggia di Carditello e per l’Isola di San Giulio sul lago d’Orta; tuttavia un moto di orgoglio meridionale, in cerca di redenzione per i continui e frustranti luoghi comuni sulla trascuratezza del Sud e la latitanza delle istituzioni pubbliche anche nella gestione del patrimonio culturale, innesca quel desiderio di “accertamento” dello stato dei fatti che solo può dare il reale polso della situazione.

Cosa significa recarsi oggi a Castel del Monte,

vale a dire presso uno dei trenta siti storici più visitati in Italia, il primo della Puglia, in cui nel 2015 si sono registrate circa 250.000 presenze, con un incremento di circa il 20% rispetto all’anno precedente?

Vuol dire, come testimoniano i numeri, doversi ricredere rispetto alla drammatica situazione dipinta dalla nobildonna qualche anno fa.

E’ lampante l’impegno a rendere questo sito sempre più fruibile, attraverso il tentativo di risolvere alcuni dei problemi, come la questione della viabilità e dei parcheggi a ridosso dell’area museale o quella dei servizi legati alle informazioni al turista, con i quali il Mezzogiorno d’Italia sembra destinato a confrontarsi quasi come in un atavico supplizio di Tantalo. 
Inoltre, i recenti lavori di sistemazione della zona verde subito sottostante il Castello dimostrano la volontà di intraprendere un virtuoso percorso di valorizzazione dell’intera area, in modo da aprirsi più e meglio ad un turismo di ampio respiro. Del resto, il nuovo direttore del Museo Archeologico di Castel del Monte, il foggiano Alfredo De Biase, nominato lo scorso gennaio, ha manifestato con chiarezza la propria visione della funzione museale: non più l’arte riservata ad una élite, ma un patrimonio culturale che si offre alla comunità. 
E, certamente, quello custodito fra le mura di Castel del Monte rappresenta un capitale ricco e a tutt’oggi non totalmente disgelato, un serbatoio da cui si può ancora attingere, se si considera la perdurante attenzione degli studiosi su struttura e funzioni dell’edificio, nella speranza di carpirne il significato. Si scopre infatti che, dopo averne esclusa la natura di castrum per le inesistenti caratteristiche difensive; dopo aver scartato la eventuale funzione di residenza, non essendovi traccia di cucine e quant’altro possa riportare alla possibilità di soggiornarvi; dopo aver ridimensionato il legame fra Federico II ed il maniero, avendone sicuramente il primo ordinato l’edificazione (come risulta da un atto scritto risalente al 1240) ma visitato lo stesso pochissime volte (sicuramente in occasione del matrimonio della figlia Violante con Riccardo conte di Caserta nel 1249); dopo aver avanzato ipotesi legate a misteriose finalità esoteriche, data la posizione geografica, i rapporti fra le dimensioni costruttive, l’orientamento rispetto agli astri (ipotesi in parte smentite da più accurati studi sulle reali misure e geometrie del palazzo), o aver immaginato funzioni “formative”, come luogo di incontro e discussione sulle varie discipline umanistiche e scientifiche,

spunta fuori, qualche anno fa, ad opera di due ricercatori dell’Università di Bari, una nuova teoria: il Castello sarebbe un esempio di Spa, un hammam, un luogo dove godere dei benefici dell’acqua, ritemprando lo spirito.

perché trovarsi in un monumento come Castel del Monte, ove simbologie cristiane, ebraiche e musulmane si sono fuse armonicamente significa comprendere che dal passato, quello più insospettabile, quello delle Crociate e della frammentazione di regni e dinastie, arrivano messaggi attualissimi di tolleranza e pacifica convivenza;

in terzo luogo perché favorire la domanda di cultura equivale a stimolarne l’offerta, avviando peraltro meccanismi generatori di impiego per le comunità locali; infine perché, riallacciandosi alle parole di De Biase, solo trasmettendo “sul campo” alle nuove generazioni l’importanza della conoscenza delle nostre radici, il rispetto per il passato, la curiosità di ricercare nuove chiavi di lettura attraverso l’approfondimento scientifico, possiamo auspicare di mettere insieme un asse ereditario che non potrà essere passibile di rivendicazioni perché realmente condiviso e tutelato come patrimonio comune, nella speranza di favorire il superamento di una cultura che percepisce il bene pubblico come terra di nessuno. La trappola dell’indifferenza è il pericolo maggiore. E il Mezzogiorno lo ha compreso, per non dover essere ancora, stancamente, demagogicamente, additato di disinteresse, incuria, disamore…

La volontà di riscatto da una simile etichetta è forte, sulla Murgia come in molte altre aree del nostro Meridione, dove sarebbe logico raccogliere l’eredità federiciana favorendo nel visitatore quel senso di “stupore” che contraddistinse il sovrano. Ma il patrimonio, anche quello culturale, va amministrato: nel farlo, si pensi anche, e prima, ai giovani e al loro futuro, è l’unica ancora di salvezza.

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PERCHÉ UN MUSEO? di Donatello Genovese – Numero 5 – Luglio 2016

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Ad Avigliano (comune della provincia di Potenza, sito nella parte nord-occidentale della Basilicata, a circa 800 m s.l.m.) ogni anno, nel periodo estivo, si tiene la caratteristica manifestazione dei “quadri plastici”, ossia la rappresentazione vivente d’immagini tratte da capolavori dell’arte figurativa.

La tradizione è molto antica, anche se le notizie certe disponibili, tramandate oralmente, consentono di datare le prime rappresentazioni negli anni ’20 del secolo scorso.

Gli attori, inseriti in contesti scenografici fedeli nei più minuti dettagli alle opere artistiche oggetto d’imitazione, restano immobili per qualche minuto, come statue viventi, riproducendo scene sacre, storiche, mitologiche o immaginarie, tratte dai celebri quadri pittorici.

Attualmente i quadri plastici vengono realizzati su palchi fissi, dotati di sipari, che vengono aperti più volte, per circa un minuto, al cospetto di un pubblico assai nutrito, capace di restare anche per ore in attesa del magico momento dell’esibizione.

La realizzazione delle scenografie, dei costumi, delle acconciature, degli sfondi, degli oggetti, delle luci e dei tanti dettagli esecutivi richiede un lungo ed accurato lavoro artistico preparatorio, finalizzato a rendere la scena finale perfettamente aderente al capolavoro artistico da cui è tratta.

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PERCHÉ UN MUSEO?

 

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In origine tali rappresentazioni venivano eseguite, in occasione delle festività religiose estive più importanti, su carri a traino animale, che sfilavano lungo il corso principale del paese nel corso delle processioni popolari. Su tali carri i figuranti, ad ogni sosta, assumevano le caratteristiche pose fisse delle immagini artistiche che intendevano rappresentare. Le scene, corporee e tridimensionali, davano luogo ai caratteristici quadri viventi, detti anche quadri plastici.

Per un lungo periodo la manifestazione si è svolta nel corso dei festeggiamenti della Madonna del Carmine, protettrice del paese, che si tengono ogni anno il 16 luglio. Da qualche anno, però, sotto la crescente partecipazione del pubblico, si è preferito rendere autonoma la kermesse, spostandola nel mese di agosto.
In genere, le rappresentazioni dei quadri plastici sono realizzate da due/tre gruppi di giovani artisti, prescelti dall’Associazione Pro Loco, appartenenti ad associazioni dei vari quartieri del paese, che fanno a gara nella più fedele riproduzione delle opere d’arte da essi prescelte.
Il palco, allestito nella piazza più capiente del paese, è diviso in vari box, ciascuno separato fisicamente dagli altri e dotato di un sipario, all’interno dei quali gli scenografi, i falegnami, i pittori, i truccatori, i parrucchieri, i sarti, i costumisti, i tecnici delle luci e della fotografia, ecc., nascosti alla vista del pubblico, sotto la guida di direttori artistici altamente qualificati, allestiscono le scene e preparano gli attori per l’esibizione.

La visione dei quadri plastici, resa possibile della contemporanea apertura dei sipari, più volte, per la durata di circa un minuto, avviene al buio e con suggestivi sottofondi musicali, in modo che le luci sceniche, sapientemente calibrate, restituiscano allo spettatore l’emozione di trovarsi al cospetto di meravigliosi ed imponenti quadri tridimensionali, carichi di pathos e di sublime bellezza.
Al termine della manifestazione, una giuria altamente qualificata ed imparziale proclama il gruppo vincitore, al quale viene assegnato un premio. La manifestazione ha assunto rilievo nazionale nell’aprile del 2016, quando, nel corso di un talent show mandato in onda da un importante network televisivo, un nutrito gruppo di giovani aviglianesi ha riprodotto le maestose opere del Caravaggio.

 

LUCANIA, OMBELICO DELLA POESIA, DELL’INFERNO, DELLA VITA di Alessandro Gaudio – Numero 5 – Luglio 2016

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da molti considerata la raccolta più importante dell’autore nato a Montemurro − in provincia di Potenza, in fondo alla Val d’Agri, tra Viggiano e Corleto Perticara, nei pressi dell’invaso del Pertusillo − nel 1908. Si tratta di versi ormai molto noti, e non soltanto tra i cultori di Sinisgalli, ma li ripropongo comunque per i lettori di «Myrrha».

Il più delle volte, si è preferito sottolineare il riferimento dei versi di Sinisgalli al tempo dell’infanzia e dell’adolescenza, a uno spazio povero, spoglio ed elementare, quasi folcloristico, tralasciando di notare che

La poesia, allora, è una reazione incontrollata, ma non indefinita, a quel cumulo di detriti, a quel mucchio di pietre, a quella strada senza uscita;5 essa non fa operazioni, né composizioni, ma reagisce ad esso, costruendo con niente un po’ di geometria

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1 Ne trascrivo il testo da una bella antologia, curata da Giuseppe Pontiggia: L. Sinisgalli, Lucania, in Id., L’ellisse. Poesie 1932-1972, Milano, Mondadori, 1974, pp. 55-56.
2 Cfr. G. Pontiggia, Le Muse di Sinisgalli, in L. Sinisgalli, L’ellisse cit., pp. 11-19.
3 L. Sinisgalli, Postilla, in Id., L’età della luna. 1956-1962, Milano, Mondadori, 1962, p. 137.
4 Dell’ENI, Sinisgalli, su invito di Enrico Mattei, assumerà nel 1959 la direzione dei servizi di pubblicità. Tra l’altro, il famoso cane a sei zampe, simbolo dell’Ente, fu ideato proprio dal poeta lucano. Sin dal 1937 anche altre notissime aziende del panorama nazionale si erano avvalse delle competenze di Sinisgalli: tra le altre, Olivetti e Pirelli. La foto che ritrae Sinisgalli a Milano Bicocca, tra i copertoni, è del 1951.
5 E senza uscita è la strada di una delle foto che Raffaele Luongo, in collaborazione con la Fondazione Leonardo Sinisgalli, ha dedicato alla Lucania di Sinisgalli, reinterpretando, in una mostra del 2015, la poesia qui discussa.
6 La strada interpoderale, dritta e semplice, che collega Tricarico alla piana delle Matine fu voluta già alla fine degli anni Quaranta da Scotellaro: la foto riproduce il suo aspetto odierno. In questa sezione si fa riferimento al dettato lessicale de La ricerca (ora in L. Sinisgalli, Infinitesimi, a cura di G. Tedeschi, prefazione di G. Pontiggia, Roma, Edizioni della cometa, 2001, p. 54).

 

LUCANIA, OMBELICO DELLA POESIA, DELL’INFERNO, DELLA VITA

è proprio sopra i cumuli di detriti, intatti per secoli ma sdrucciolevoli e malfermi, che nasce la poesia di Lucania. Nasce in questo spazio privo di fondamenta, con innocenza, senza che nessuna certezza le faccia da struttura.

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Al pellegrino che s’affaccia ai suoi valichi,
a chi scende per la stretta degli Alburni
o fa il cammino delle pecore lungo le coste della Serra,
al nibbio che rompe il filo dell’orizzonte
con un rettile negli artigli, all’emigrante, al soldato,
a chi torna dai santuari o dall’esilio, a chi dorme
negli ovili, al pastore, al mezzadro, al mercante,
la Lucania apre le sue lande,
le sue valli dove i fiumi scorrono lenti
come fiumi di polvere.

Lo spirito del silenzio sta nei luoghi
della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto,
sofistico e d’oro, problematico e sottile,
divora l’olio nelle chiese, mette il cappuccio
nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce
con l’erba alle soglie dei vecchi paesi franati.

Il sole sbieco sui lauri, il sole buono
con le grandi corna, l’odoroso palato,
il sole avido di bambini, eccolo per le piazze!
Ha il passo pigro del bue, e sull’erba,
sulle selci lascia le grandi chiazze
zeppe di larve.

Terra di mamme grasse, di padri scuri
e lustri come scheletri, piena di galli
e di cani, di boschi e di calcare, terra
magra dove il grano cresce a stento
(carosella, granoturco, granofino)
e il vino non è squillante (menta
dell’Agri, basilico del Basento!)
e l’uliva ha il gusto dell’oblio,
il sapore del pianto.

In un’aria vulcanica, fortemente accessibile,
gli alberi respirano con un palpito inconsueto;
le querce ingrossano i ceppi con la sostanza del cielo.
Cumuli di macerie restano intatti per secoli:
nessuno rivolta una pietra per non inorridire.
Sotto ogni pietra, dico, ha l’inferno il suo ombelico.
Solo un ragazzo può sporgersi agli orli
dell’abisso per cogliere il nettare
tra i cespi brulicanti di zanzare
e di tarantole.

Io tornerò vivo sotto le tue piogge rosse
tornerò senza colpe a battere il tamburo,
a legare il mulo alla porta,
a raccogliere lumache negli orti.
Vedrò fumare le stoppie, le sterpaie,
le fosse, udrò il merlo cantare
sotto i letti, udrò la gatta
cantare sui sepolcri?1

Quel cumulo di detriti, a ogni buon conto, è il punto verso cui tutta la poesia converge; è anzi, il polo, diceva Giuseppe Pontiggia, del medesimo esistere.2 Sinisgalli, dal canto suo, sosterrà che è situata lì la forma «introvabile»,3 il cuore della poesia (poesia che non è voluttà espressiva, perla nel pattume; è, piuttosto, quello stesso pattume): allineata, cresciuta su frammenti, ossa, escrementi, senza un disegno preventivo, un progetto: asimmetricamente, se si vuole, allo stesso modo di un paese, allo stesso modo di Montemurro.
In quel cumulo di non-poesia (oppure, ma non è poi così diverso, di antimonio) c’è lo spreco, la dissipazione, sulla quale la poesia − come lo stesso Sinisgalli ammetterà sempre nell’Età della luna − fulmineamente sorge e prospera; vita che muore cui la poesia attinge. Il poeta, dunque, non esce indenne da quell’ammasso di macerie: è lì, nella Lucania che sta per essere devastata dai vulcanici succhielli e dalle piogge rosse dell’ENI, che il poeta lascia le penne;4 è lì, all’interno dei suoi confini, che i versi di Sinisgalli ripiegano. Nelle sue viscere trova la strada difforme della poesia, abbandonando per sempre quella del formalismo (la forza, quindi, più che la sua forma), perdendo di vista, nello sforzo vano, nel pianto e nell’oblio, il soggetto, la coscienza.

(che poi non è, con ogni evidenza, che la semplice geometria della strada che Scotellaro, segnando a suo modo il percorso obbligato del progetto di cambiamento, aveva fatto costruire a Tricarico), una fedele chimica interiore.6 Il poeta di Montemurro, per non cadere, si siede su quel mucchio di detriti e tossisce e sputa e rifà i calcoli, all’infinito, nelle distanze incommensurabili di spazio e di memoria e nel tempo infinitesimale di un soffio. Non è forse, quel cumulo di scorie, il luogo stesso in cui ciascuno di noi resta sepolto? Non è forse esso il risultato dell’accumulo giornaliero di tutti i frammenti della nostra esistenza? E non è forse proprio quello che, giornalmente, continuiamo a ricercare? Risiede in questa ricerca, fatta della realtà che il poeta distrugge, di piccole aberrazioni millesimali, di nessi, congiunzioni, particole, spezzoni, tacche del linguaggio, nodi, l’esercizio, talvolta fastidioso, della poesia e, di conseguenza, della vita.

 

SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA A GALATINA di Sergio Spatola e Gianluca Anglana – Numero 5 – Luglio 2016

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A presentare “lo scrigno che gelosamente custodisce le memorie sacre e profane dell’umile terra” è Padre Adiuto Putignani1, che, già nel 1948, comprese che “chi l’ha vista una volta la vuol rivedere; chi l’ha amata non la dimenticherà più mai”.

È la Basilica di Santa Caterina d’Alessandria di cui oggi Myrrha riscrive2 perché, come ha detto Padre Putignani,

, “questo grande amore per la più bella chiesa del mezzogiorno d’Italia mi ha spinto a parlare di essa, a scrivere le sue glorie, a violare il silenzio geloso dei secoli. Perché mai? Perché altri la possano conoscere bene e meglio, e conoscendola amarla, e amandola custodirla e vegliare perché non si sfrondi la sua gloria, non si deturpi la sua bellezza”.

Quando Maria d’Enghien decise, nei primi decenni del Quattrocento, di (ri)affrescare gli interni della Basilica, certamente non poté ignorare gli esiti della rivoluzione di Giotto di Bondone, quella rivoluzione deflagrante, una sorta di big bang che generò la nascita dell’arte moderna in Occidente e che travalicò ben presto le Alpi. 
Altrettanto sicura è però anche la presenza di maestranze artistiche borgognone e fiamminghe: come alcuni studiosi sostengono, infatti, è plausibile che, al seguito dello spostamento dei popoli che in precedenza dal Nord si erano riversati verso il Sud dell’Italia, vi fossero artigiani ed artisti caratterizzati dal gusto dei Paesi di provenienza.
Si può dire, dunque, che Galatina abbia giocato, sebbene su scala limitata dal punto di vista regionale, un ruolo assai simile a quello assunto dalle scuole pittoriche di Assisi. Non per questo, però, si può escludere una sorprendente osmosi culturale europea in atto, sul finire del ‘300, nel Tacco d’Italia.
Ecco spiegato perché

la Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina costituisca un unicum nel panorama artistico meridionale: è una sintesi di culture (massimamente di quella italiana e francese), un linguaggio totalmente innovativo e sperimentale, un guanto di sfida al passato e uno sguardo su un futuro da scoprire.

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1 In P.Adiuto Putignani, Il Tempio di Santa Caterina in Galatina, Introduzione
2 Tantissimi i contributi scientifici sulla storia, l’architettura ed il ciclo pittorico all’interno della Basilica nonché sul contesto storico-socio-politico in cui fu eretta. 
3 Il nome di una via è venuto in soccorso degli storici tanto quanto i documenti scritti in senso stretto: l’onomastica stradale ha permesso a città troppo protese verso il futuro di non dimenticare il proprio glorioso passato.
4 La parola “Balzo” è l’italianizzazione del nome di un feudo provenzale: Baux.
5 Maria emanò una serie di bandi e capitoli che ancora oggi destano interesse. Era convinta che “in tutte le città bone se vuole vivere con ordine et boni statuti in tutte cause” (cfr. Can. Pietro Serio, Attraverso dieci secoli di storia patria, p. 86).

SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA A GALATINA

 

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Più si approfondisce la storia di questo splendido esempio di commistione di stili (romanico e gotico), più se ne è rapiti. Innanzitutto perché, essa stessa,

è la rappresentazione dell’unione di tre terre affacciate nel mediterraneo: la Terra Santa, la nostra Italia e la Francia.
Cosa esattamente accomuni le tre terre lo si scopre approfondendo: un mito, una terra e una donna straordinaria.

Se esistesse una psicologia del profondo applicata alle masse, essa probabilmente spiegherebbe le ragioni dell’appeal che, da qualche anno a questa parte, il Salento esercita nei confronti di un numero sempre crescente di visitatori provenienti dalla Francia e da altre aree di lingua francese del Vecchio Continente. È capitato a qualunque salentino di incrociare, soprattutto in primavera o in estate, gruppi di visitatori d’Oltralpe o di imbattersi sui social network in articoli di encomio della Terra d’Otranto, scritti nella lingua di Stendhal. 
Non sappiamo se, così come gli individui, anche i popoli dispongano di una sorta di io profondo, una qualche memoria a lungo termine che affonda le proprie radici in un’infanzia ormai lontana o scomparsa. Sta di fatto però che, a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, le province più meridionali di Puglia furono occupate da genti provenienti dal nascente Regno di Francia o dalla Vallonia: di questa invasione si trovano tuttora numerose tracce, a partire dalla toponomastica salentina3.
Nel Comune di Lecce, ad esempio, non è infrequente accorgersi di una o più vie intestate a personaggi illustri di chiara origine francese: si pensi, ad esempio, a Via Orsini del Balzo4 oppure a Via Maria d’Enghien, strada cittadina dedicata ad una sorta di “Wonder Woman ante litteram”.
Per un soffio Maria mancò l’obiettivo di conquistare la corona del ricchissimo Regno di Napoli, un reame ormai saldamente in mani francesi, ponte di collegamento tra lo Stivale e i territori dell’Anjou o della Borgogna: lei, abile amministratrice5 dotata di un notevole fiuto politico, perse il duello che la vide opporsi a Giovanna d’Angiò per la scalata al potere partenopeo.
Ed è proprio Maria il comune denominatore delle tre terre del Mediterraneo.
Enghien è il nome di una cittadina del Belgio (o, per essere più precisi, di quella Vallonia che potremmo definire le Fiandre di idioma francese). In realtà, Maria poté fregiarsi di origini più luminose di una cittadina vallone: era nipote di Isabella di Brienne nonché figlia di Giovanni d’Enghien, conte di Lecce, e di Sancia (Bianca) del Balzo.

Maria, come di consueto per quei tempi, fu data in moglie a Raimondello Orsini del Balzo – tipo tosto ed estremamente spregiudicato – dietro consiglio di Luigi I d’Angiò.
Raimondello aveva anche fama di essere un tipo alquanto macabro. Ed è qui che la leggenda unisce la Puglia alla Terra Santa:

 pare che, nel corso di un pellegrinaggio alla salma di Santa Caterina d’Alessandria sul Monte Sinai, Raimondello strappò con un morso un dito della reliquia che venne, dunque, portato in Puglia. In omaggio alla tradizione delle Cattedrali gotiche, soprattutto francesi, Raimondello si risolse a dedicare alla Santa quella Basilica che avrebbe dovuto ospitarne la falange e che, a ragione, può essere considerata la Cappella degli Scrovegni del Mezzogiorno italiano.
La Basilica (eretta tra il 1369 e il 1391), austera all’esterno, quasi una fortezza, colpisce, all’interno, per il mirabile ciclo di affreschi: questi ultimi non sono soltanto opere pittoriche di eccezionale fattura, ma una testimonianza rarissima di un inedito intreccio di culture. Sì, perché il Salento era stato, anche dal punto di vista artistico, saldamente in pugno dei Bizantini, cioè di quella élite greca che era presente da secoli in Apulia e che era arroccata su un modo di intendere l’arte ormai in fase di definitivo superamento.
La Puglia meridionale è, soprattutto, ricca di preziosissimi monumenti di radice orientale: si pensi ad esempio, alle chiese di impronta basilica in terra di Brindisi o a taluni edifici di memoria greca sparsi sul territorio della provincia leccese. Questo passato, glorioso e ingombrante, è stato raramente scalfito nella sua granitica esistenza.

Santa Caterina d’Alessandria a Galatina segna, dunque, un improvviso cambio di passo, perché importa in Terra d’Otranto un linguaggio artistico inedito, una summa di stili interpretativi che attingono ispirazione alla cultura francese e fiamminga oltre che alla ormai inarrestabile lezione di Giotto.

 

QUANDO GOETHE INCONTRÒ LA MOZZARELLA di Francesco Festuccia – Numero 5 – Luglio 2016

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questo “cibo” assolutamente unico che sembra caduto sulla terra da un altro mondo e da un altro tempo. Forse è proprio così se pensiamo a quell’animale che è alla base di tutta la vera mozzarella di bufala. Perché è una storia che ha radici lontanissime guardando questa specie di sopravvissuto al mammut, bovino dal profilo ingobbito, ma assai meno fesso della mucca, un po’ spaventevole per quella sua vaga aria preistorica, sfortunato anche nel nome visto che l’appellativo di “bufala” è chissà perché sinonimo di cosa inventata.

QUANDO GOETHE INCONTRÒ LA MOZZARELLA.

 

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Per raccontare la storia della mozzarella si deve andare indietro fino al Settecento. Da qui partono le tracce sicure della presenza del bufalo (e della bufala…) in alcune zone italiane e, quindi, delle mozzarelle

nei primi diari di viaggio di chi – da tutta Europa – veniva per il Grand tour in Italia, addentrandosi con grande coraggio e spirito d’avventura alla ricerca delle rovine della Magna Grecia dalle parti di Battipaglia.

Ai lati di queste, nient’affatto agevoli, strade si rischiava pure di trovare agguerriti briganti, ma, soprattutto, poveri e macilenti bufalari che tenevano sotto controllo le loro bestie cercando di vendere al viaggiatore la “provatura” del formaggio di bufala e sbarcare faticosamente il lunario.

Due singolari circostanze, come suggerito da uno studio di Oreste Mottola – uno dei pochi circostanziati – favoriranno la conoscenza della mozzarella in quel periodo, della passione venatoria di Carlo III di Borbone e di suo figlio Ferdinando IV e poi del “pellegrinaggio culturale” a Paestum.

E qui, l’orografia e le strade del tempo cambiarono il senso della storia di questo particolare tipo di alimento. Fu così che tante persone delle più diverse condizioni di tutta Europa assaggiarono, innamorandosene, questo prodotto mai assaporato prima, dalle caratteristiche peculiari perché il latte proveniva da un animale che non suda e, per questo, il suo sapore è leggermente acidulo con un vago accenno di muschio. Insomma, la chiave di tutto erano le bufale e le zone dove erano diffuse. 
Una parte, dove era alta la presenza di bufala, veniva evitata dai viaggiatori, perché c’era forse qualcosa di inquietante nei territori capuano e mondragronese. La strada proveniente da Roma passava solo da/per Sessa, Cascano, Speranise, Capua: chi voleva spingersi fino a Paestum doveva obbligatoriamente percorrere la piana ebolitana e pestana, con avventure leggermente orrorifiche, come ha descritto Goethe che arrivò lì nel 1787 “attraversando canali e ruscelli e incontrando bufali dall’aspetto di ippopotami e dagli occhi iniettati di sangue…”

Il sapore affascinante della mozzarella di bufala si scontrava con il luogo impervio e l’aspetto stesso dell’animale.

Stavo facendo proprio questa considerazione vedendo un gruppo di bufale allo stato brado, in una tenuta nel basso Lazio, ancor oggi spesso ricoperte di fango e dal caracollare diverso da qualsiasi altro animale. Mi chiedevo quale tipo di impressione o quale tipo di paura devono aver fatto a un viaggiatore, anche se erudito, come Goethe, nel Settecento. 
Il bufalo della mozzarella, bubalus bubalis, è infatti un bovino di origine asiatica abituato, proprio per difendersi dal caldo e dal sole, a rotolarsi nel fango delle zone paludose.
Ma torniamo proprio al prodotto del latte di quell’animale: la mozzarella.

Il termine nella storiografia sembra posizionarsi addirittura prima di questi eruditi del Grand Tour settecentesco, citato, per la prima volta, in un libro di cucina pubblicato nel 1570 da Bartolomeo Scappi,

che, come cuoco della corte papale, era abituato a una cucina che oggi si potrebbe definire da cuoco stellato e dove giungevano specialità da ogni parte dell’Italia e dell’Europa. E allora scrive: “…capo di latte butirro fresco, ricotte fiorite, mozzarelle fresche et neve di latte” e poi parla di “mozzarelle fresche” (incomprensibile oggi perché le mozzarelle sono per forza fresche…). 
Quindi, la parola mozzarella è collegata, nell’origine del termine, alla mozza che altro non è se non la provata, ovvero la provola. Negli annuali contratti per l’appalto del prodotto della Reale industria della Pagliara delle bufale a Carditello si stabiliva che la mozzarella doveva restare nella salsa 24 ore, mentre la provola 48; la successiva affumicazione, cui generalmente era sottoposta, era un espediente per una più lunga conservazione in vista del trasporto che, certo visti i mezzi e le strade del periodo, non erano veloci. I documenti d’archivio ci dicono che la pratica dell’affumicazione era stata in precedenza uno strumento molto utilizzato per cercare di conservare il più a lungo possibile dei prodotti che andavano velocemente a male.

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E nel XVII secolo, nel mercato capuano, arrivano, accanto alle mozzarelle fresche, provole e mozzarelle affumicate.

Se tutte le fonti sono concordi a far risalire al grande cuoco Scappi la primogenitura della parola mozzarella, ci sono tracce incerte o quasi certe anche prima. Tracce di una storia vaga che spesso si autoalimentano in curiosi e incrociati rimandi.
Anche un altro indizio ci deve far pensare che il prodotto mozzarella fosse all’epoca poco conosciuto, perché sembra totalmente assente nell’iconografia, anche in quella così particolare del presepe napoletano, che è spesso una interessante spia degli usi e costumi popolari. Nel presepe, casomai, si vede la provola. Ricordate? C’è spesso il classico contadino a cui pendono due provole dal collo legate da una corda. Certo con la provola, la mozzarella è strettamente collegata: non solo perché fatta con lo stesso latte di bufala (la provola rispetto alla mozzarella rappresenta un’ulteriore fase della lavorazione) ma perché il nome stesso della mozzarella deriva da quello della provola; anzi, da una denominazione di questa caduta in disuso e mettendo in campo anche il fatto che, all’inizio, proprio per la sua poca conservabilità, la mozzarella era fatta con gli avanzi del latte. Quello che non era potuto diventare altro, alla fine diventava mozzarella.

Ed è una storia tutta da scoprire, per uno dei simboli del cibo italiano, così amato e imitato nel mondo, così misconosciuto nelle sue origini.