IL SAPORE DELL’INCOSTITUITO, OVVERO LA SULFARA TULUMELLO di Alessandro Gaudio – Numero 2 – Ottobre 2015

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È mediante uno strumento naturale di osservazione che si può connettere l’opera di un pittore, di un poeta, di un romanziere o anche di un filosofo, di un fotografo, di un musicista o di un artigiano a un luogo geografico, sempre che sia individuato con la massima precisione storica, oltre che geografica. Tale spazio particolare non è necessariamente quello in cui l’artista in questione è nato o nel quale svolge la propria attività, ma è a questa che si riannoda per un qualche rispetto ed è, ovviamente, situato a Sud. Muovendosi lungo il nesso tra arte e realtà a essa contingente, impugnando la storia, la geografia e la scienza della cultura occidentale e dei suoi limiti più estremi (quelle meridionali),

IL SAPORE DELL’INCOSTITUITO, OVVERO LA SULFARA TULUMELLO

 

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partecipa alla costruzione della realtà, anticipando gli approdi delle scienze umane o, magari, contribuendo a un loro assetto più funzionale.

È questa la via difficile di un moderno umanesimo che si snoda oltre i margini d’espansione della civiltà tardocapitalistica e che consente, al contempo, di sviluppare la coscienza di una nuova dimensione mediterranea; ovvero, di delineare una nuova mappa del Meridione che serva a guidare i lettori di «Myrrha» lungo un itinerario (intellettuale, ma non soltanto d’arte) mai percorso prima, un nuovissimo compendio dell’inattualità meridiana, nel cuore della cultura europea. Per far ciò, si riproduce un lavoro dell’artista scelto, accompagnato da una ricognizione critica che ne delinei sinteticamente le peculiarità ed, eventualmente, le connessioni con il luogo corrispondente.
Inizio con Agostino Tulumello, un artista nato nel 1959 a Montedoro, borgo situato a circa venti chilometri a ovest di Caltanissetta, vicino a Racalmuto, a Canicattì, a Serradifalco, in Sicilia.

I fili dell’opera intessuta da Tulumello − allo stesso modo − restituiscono l’estensione singhiozzante della realtà e del modo in cui essa viene percepita, avviluppata dai sensi come tra le spire brulicanti e ammaliatrici di un serpente d’acqua

Nelle sue opere egli è solito individuare un elemento visuale primigenio che, scelto per la sua elementarità, possa rinviare al processo (anche psicologico) della creazione, all’interno del quale si preparano le relazioni tra gli elementi, le gradazioni pittoriche e la prospettiva.

 

1 A. Pizarnik, Árbol de Diana [L’albero di Diana, 1962], in Ead., La figlia dell’insonnia, Milano, Crocetti, 2015, p. 38. Si riporta la traduzione di Claudio Cinti, curatore dell’unica raccolta antologica della poetessa argentina pubblicata in Italia: «Questi fili imprigionano le ombre / e le obbligano a render conto del silenzio / questi fili uniscono lo sguardo al singhiozzo» (ivi, p. 39). 
2 Sulla dimensione frattale esibita nell’opera di Agostino Tulumello e sullo schema iterativo e omotetico tipico del suo tratto si rimanda a A. Gaudio, Consistenza e caso. Idea e confini del neodadaismo da Cage a Pleynet e oltre, «Diacritica», a. I, fasc. 1, 25 febbraio 2015, pp. 49-60, in particolare pp. 52-54; ma si veda anche Id., Al di qua del linguaggio. La concezione scritturale dell’opera di Agostino Tulumello, «Rivista di Studi Italiani», a. XXXIII, n. 1, giugno 2015, pp. 793-796.

 

Nelle tele della serie di cui fa parte l’opera qui riprodotta, denominata Scrittura come cibo, egli tenta − come è sua consuetudine − di congelare alcuni degli elementi che poi precipiteranno nella figurazione e, pertanto, nella determinazione del gusto. Cosa accade nel processo di figurazione di un’opera d’arte prima che il gusto si orienti? Sembra che l’interesse di Tulumello verta intorno a tale questione; tuttavia, ci troviamo ben al di qua rispetto alla poesia gastronomica di Franco Verdi, esperimento ironico e irriverente nei confronti dell’atto creativo disimpegnato, precostituito e inscatolato; eppure, si può guardare a quell’operazione portata avanti dal poeta visivo veneto nel 1969 per comprendere meglio il valore del godimento per l’incostituito, proposto dal pittore siciliano. A questo stadio (quando ancora non ha fame), il processo sensoriale non va alla ricerca delle sottigliezze della modulazione del gusto, del sapore; mira, invece, a un concentrato di senso, inodore e insapore appunto, a un’immagine persistente o consecutiva che non segni il verso di una definizione; ricompone una totalità integrale, una grandezza sensoriale intera, colta nella sua indivisibilità non ancora orientata.
Guardando i segni grafici di Tulumello e facendo un ulteriore passo all’indietro, torna alla mente ciò che, nel 1962, sosteneva la poetessa di Buenos Aires Alejandra Pizarnik a proposito di un disegno di Wols, pseudonimo di Alfred Otto Wolfgang Schulze, pittore informale berlinese: «Estos silos aprisionan a las sombras / y las obligan a rendir cuenta del silenzio / estos silos unen la mirada al sollazzo».1

(della biddrina, magari, l’animale mitologico ferocissimo che vive nelle campagne di Caltanissetta), allorché il significato di quella realtà non ha ancora raggiunto un’estensione riconosciuta, un spazio di quiete. Lo spazio dell’opera di Tulumello coincide con l’inferno fisico fatto del dedaleo e folto andirivieni delle volute e dei nodi del serpente o, anche, delle esalazioni dello zolfo di Sicilia: esso è ridondante come l’eco dei colpi di piccone che, sino alla fine degli anni Cinquanta, risuonavano nelle miniere di Montedoro, nel cuore dell’altopiano gessoso-solfifero dell’isola; esso è opprimente così come l’alternarsi dei pieni e dei vuoti nell’attesa che il linguaggio dia forma ai versi della Pizarnik.
Il senso del progetto artistico di Tulumello è da includere, così, nella tradizione non figurativa e neodadaista che, muovendo dalle scritture bianche del pittore americano Mark Tobey, passa dai lavori poetico-visuali dell’artista belga Paul De Vree e, magari, arriva alle figure, geometriche o no, e agli ideogrammi dell’uruguaiano Clemente Padin e ad alcune espressioni della transavanguardia italiana (quella del già citato Verdi, ad esempio); esso non deve essere ricercato al di fuori di questa significazione originaria perché è proprio a partire da essa che ogni pensiero razionalizzato si dispiega: mostrando lo stato nascente dell’idea, l’artista di Montedoro riflette sulla funzione dell’immaginazione, sulla facoltà del possibile e, dunque, sull’efficacia stessa dell’immaginario. È in questo luogo che il tratto significante della scrittura si coniuga strutturalmente con il suo elemento figurativo, pur non essendo ancora decifrabile.2

 

LA CASA DELLE MUSE di Antonio Genovese – Numero 2 – Ottobre 2015

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Sulla collina
Io certo vidi le Muse
Appollaiate tra le foglie,
Io vidi allora le Muse
Tra le foglie larghe delle querce
Mangiare ghiande e coccole.
Vidi le muse su una quercia
Secolare che gracchiavano.
Meravigliato il mio cuore
Chiesi al mio cuore meravigliato
Io dissi al mio cuore la meraviglia.

Ma io che da anni leggo i suoi versi e le sue prose (e li cerco nelle varie edizioni che gli uni e le altre hanno diffuso), sono finalmente lieto di vedere lo sforzo che questo piccolo Comune della Basilicata ha saputo compiere per richiamare, in quella modesta abitazione, in un luogo non comodo dello Stivale, gente di ogni luogo: perché la Poesia di Sinisgalli ha saputo varcare il tempo della sua vita e le aree della sua pratica.

E’ da credere che le Scuole sapranno farvi momento di visita e di studio, ma l’iniziativa degli enti territoriali di Basilicata meritano la sosta di lettori e curiosi di tutte le età.

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LA CASA DELLE MUSE

 

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      Questa estate, ho approfittato dell’ozio da vacanza per fare un’incursione a Montemurro, un centro della (sempre più nota, per i suoi giacimenti petroliferi, che tanto stanno facendo discutere) Valle dell’Agri, in Basilicata. Una valle in cui il fiume (che sbocca sul litorale ionico) trasporta con sé, assieme ad un rilevante carico di acqua (è il fiume più ricco, anche se non il più lungo, della Basilicata), memorie millenarie.

La Valle, che soprattutto nella sua prima parte, è aspra e costellata di monti coperti di boschi (i Belliboschi, a cui Sinisgalli ha intitolato una raccolta di suoi scritti autobiografici e no, che uniti a Fiori pari fiori dispari formano quelle «prose di memoria e d’invenzione», tanto care ai suoi lettori), è cosparsa di piccoli centri di remota civiltà, più o meno arroccati sulle alture, che tendono a fare sistema ed a formare una sorta di Città della Valle (un po’ sul modello della Città del Vallo di Diana, invero da essa non molto distante ed anzi collegata a diverse altezze), con servizi distribuiti e strutture comuni, attività culturali messe a rotazione, santuari religiosi accomunanti le genti valligiane, ecc. (la Moliterno di Petruccelli della Gattina e Giacomo Racioppi, la Montemurro di Giacinto Albini, Marsico Nuovo e Marsico Vetere, la Viggiano di Vito Reale, Sarconi, la Spinoso di Biagio Petrocelli, Tramutola, ecc.) 
Accanto ai monti coperti di boschi ve ne sono altri (ad es. il Vulturino) quasi del tutto nudi, e però assai belli e suggestivi, che fanno da riferimento e da contrasto selvaggio con quelli altri, interamente verdi e ricchi di biodiversità.

Non c’è dubbio che anch’essi facciano parte di quella vera e propria identità comune delle genti della Val d’Agri, che oggi si arricchisce di sempre nuovi tasselli: un richiamo anche per le generazioni che più hanno dato con la loro emigrazione, ed i loro discendenti d’ogni parte d’Italia e del Mondo.

E davvero di Muse (al plurale) si tratta, giacché il Nostro non incarnò solo un’anima ma tante assieme, quelle di: scrittore, poeta, ingegnere, disegnatore, editor, curatore di prodotti culturali, perfino cineasta (autore o coautore di fortunati cortometraggi premiati alla Biennale di Venezia nel 1948 e nel 1950) e sceneggiatore.

Una casa semplice, come quelle di cui il Poeta ha detto nei suoi versi e negli altri scritti, ancora del tutto dispersi, perché affidati alle vecchie preziose edizioni d’epoca, ma ormai necessitanti la formazione di una raccolta completa (ad esempio, un Meridiano, edito da quello che fu il suo editore principale), per il lettore d’oggi. 

Una casa che non ha mai ospitato quel mobilio e quei libri, che il Poeta-Ingegnere ha portato con sé nel suo girovagare (cominciò a farlo a dieci anni) e, soprattutto, nei suoi spostamenti tra Roma e Milano, dove si è svolta – pressoché interamente – la sua vita professionale, non solo di artista (anche visivo) ma anche di direttore di belle riviste, alcune legate al mondo aziendale (dalla rivista Pirelli, alla più fortunata Civilità delle Macchine), di curatore di collane (come «Scienza e poesia»), di collaboratore con l’industria italiana (Olivetti, Finmeccanica, Alfaromeo, ecc.). 

Il museo (che è stato denominato, in maniera suggestiva: la Casa delle Muse) è stato affidato alle cure della Fondazione Sinisgalli (creata dagli enti territoriali di Basilicata, essenzialmente), che organizza mostre, eventi, convegni, incontri di studio (se ne veda l’elenco di quelli tenuti, ad oggi, nel bel catalogo intitolato Leonardo Sinisgalli, la Casa delle Muse e la Fondazione, Villa d’Agri, 2014, pp. 30).

In questo rinnovato interesse per la Valle, s’inserisce la bella novità di Montemurro: la creazione di un museo Sinisgalli, nella casa di famiglia, acquistata e recuperata alla bisogna.

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 In particolare, oggi la sua collaborazione a edizioni editoriali di pregio, con artisti contemporanei (Lucio Fontana, Orfeo Tamburi, Franco Gentilini, Domenico Cantatore, ecc.), ha reso spesso difficili da reperirle persino sul mercato del libro raro e di pregio.

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          La visita della casa di Sinisgalli, consente di ammirare – tra i riquadri della sua Biblioteca (quasi interamente recuperata) e composta di edizioni consultabili – anche una bella tela, acquistata dalla Fondazione Carlo Levi: un suo ritratto (del 1944), a olio, della sua concittadina Maria Padula, un’artista che merita ogni considerazione (anche la sua opera è in corso di catalogazione, grazie all’impegno della curatrice e figlia, la d.ssa Rosellina Leone, che ho avuto il piacere di ritrovare dopo anni). 

Tra libri e mobili del Poeta, è possibile ammirare tanti altri cimeli: abiti, foto, lettere, numeri di riviste, libri, ecc.

Le stanze sono coperte di didascalie, quadri che riportano i suoi principali versi, così che anche chi non ha mai praticato la sua Poesia possa essere in grado di comprendere la misura e la cifra dell’artista.

 

LE ARCHITETTURE MEDITERRANEE DIVENTANO ORDITO di Venera Coco – Numero 2 – Ottobre 2015

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Scostare il tessuto e scoprire la carnagione del Sud che ha assorbito, nella pelle e nella sabbia, tutta l’arsura di un sole indifferente al dolore, è la scoperta che alcuni stilisti hanno provato a raccontare. Stilisti che, attingendo dallo stupore dei loro sguardi, per creare invenzioni stilistiche, reinterpretano gli antichi fasti e gli intarsi che abili maestranze avevano creato per le chiese, le moschee e i palazzi.

Un vero e proprio eden, fatto di centinaia di piante provenienti da cinque continenti, piccoli ruscelli e costruzioni in stile moresco e Art Déco. Sedotto da “quest’oasi in cui i colori di Matisse si mescolano a quelli della natura”, lo stilista algerino trova la fonte d’ispirazione per i suoi preziosi caftani, come la djellaba, la tunica lunga con il cappuccio a punta, il jabador e il mantello burnus. Anche il designer franco-tunisino Azzedine Alaïa con la sua cosiddetta “soft sculpture”, fa rivivere sui suoi abiti la scultura soffice della stoffa da domare. L’architettura “arabisance” non viene rispettata alla lettera da Azzedine ma ciò che si capta immediatamente è quello speciale attaccamento all’essenzialità delle strutture berbere e al bianco, simbolo di rigore e purezza. I suoi abiti si avvicinano silenziosamente all’ambiente che li circonda, amalgamandosi ad esso. Le pieghe scolpite da Alaïa sono le stesse che il vento del deserto scava nella roccia, diventando anse nel corpo delle donne.

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LE ARCHITETTURE MEDITERRANEE DIVENTANO ORDITO

 

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Si tratta di creazioni nelle quali i colori riescono a riprodurre i toni della natura, gli accostamenti caldi e prorompenti che riportano alla memoria le luci abbaglianti di un territorio dalle stanche membra, che cede sia alla calura che all’incanto.

Svolazzi che diventano geometrie e che, pur mantenendo il rigore delle forme, si ritrovano intrappolati in un gioco di armonia.

Ed ecco che Yves Saint Laurent è riuscito a contaminare i suoi capi con i vividi colori del suo Giardino Majorelle a Marrakech.

A Cristóbal Balenciaga, invece, piaceva reinterpretare stili appartenenti ad epoche passate della storia spagnola

per poi arricchire le proprie collezioni, non a caso l’“Infanta”, s’ispira agli abiti ritratti da Diego Velázquez nei dipinti della principessa Margherita, e nella “Jacket of light”, si ritrovano i bolero dei toreri spagnoli. Nato a Getaria, ha interiorizzato la sua Spagna estrapolando elementi caratteristici del suo paese come il pizzo, il bolero e il contrasto tra rosso e nero. “The queen of textures”, così viene definita la stilista greca Mary Katrantzou, ha reso i suoi abiti strutturati una tela per stampe visionarie e dall’effetto trompe l’œil. La sua Atene rivive nella tridimensionalità e nelle forme geometriche, ma anche nei collage digitali che ripropongono i colori vivaci e i fregi mitologici che un tempo adornavano le sale dei templi greci. Appassionati di una delle tre Gorgoni, Medusa, e amanti del culto ellenico,

i reggini Gianni e Donatella Versace, dal 1978 ad oggi, danno vita a una libera commistione di elementi decorativi che vanno dalla Magna Grecia, al Barocco, fino alla Pop Art.

Il past forward diventa per loro una forma di sperimentazione, mescolando elementi couture a drappi da vestali, ma anche nuovi materiali, come pelle, maglia e minuteria metallica rigorosamente color oro e coloratissime sete stampate su cui sono impresse greche d’ordine corinzio e riccioli rococò. Il libanese Elie Saab, infine, ricrea su stoffe ricercate come pizzo, seta e chiffon, ricami con perline, paillettes e cristalli, talvolta solo per impreziosire determinate parti, altre volte i tessuti utilizzati ne sono completamente ricoperti. Elie risente dell’arte del ricamo, sfoggiata per impreziosire i costumi tradizionali durante le danze popolari dabke e raqs sharki, per costruire ogni suo dettaglio prezioso, seguendo però un mood incredibilmente femminile, sensuale e mai eccessivo. Gli abiti d’haute couture di Saab nascondono

bagliori lucenti color oro simili a quelli che rendono le danzatrici del ventre terre voluttuose di conquista.

I designer accostano quei pigmenti che ritrovano lo splendore di antichi popoli che lottavano per affermare la bellezza delle loro terre, abbellendole con pregiati intarsi, con maioliche, arabeschi e architetture simili ai luoghi del Corano. I tessuti si colorano dei toni del beige, dei marroni chiari, dei blu cobalto, dei silenzi, delle dune attraversate solo da un vento che scuote, con il proprio tormento, le vesti fascianti dei nomadi. Le collezioni nascono da queste terre e a questi luoghi ritornano per rendere uniche e pregevoli le movenze di chi si lascia catturare da uno stile che non teme confronti, perché sa che il Sud non è stato creato come un semplice luogo ma come archè divino.

 

HERCULANUM DECOLLE ENFIN GRÂCE À UN PARTENARIAT PUBLIC-PRIVE di Giorgio Salvatori – Numero 3 – Gennaio 2016

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Herculanum recommence à vivre. Voici une autre réussite du Sud ignorée, ou presque, par les grands médias nationaux.
A partir de cette année, l’extraordinaire site archéologique de la Campanie offre au public quarante pour cent de plus de zones à visiter, soit une augmentation de près de 150.000 unités par rapport à 2000. Pour être précis, 384.000 contre 247.000 recensées au début du troisième millénaire. Un résultat exceptionnel. Résultat la « thérapie Packard ” et de la synergie public-privé qui donne d’excellents résultats.

Pourquoi le riche mécène américain a-t-il choisi Herculanum et non pas Pompéi, pour tester une collaboration internationale jamais tentée auparavant, et, apparemment, si difficile et délicate?

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HERCULANUM DECOLLE ENFIN GRÂCE À UN PARTENARIAT PUBLIC-PRIVE

 

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Tout a commencé en 2001, lorsque David W. Packard, le philanthrope américain bien connu, a fondé le Projet de Conservation Herculanum. Objectif: soutenir l’Etat italien à travers la Direction pour le Patrimoine Culturel de Naples et Pompéi dans son travail de protection et de valorisation du site d’Herculanum. Le projet repose sur la collaboration d’une équipe d’archéologues italiens et étrangers avec le soutien de la l’Ecole Britannique de Rome.

Pour au moins deux bonnes raisons: la première est que la zone de Pompéi est dix fois plus grande que celle de Herculanum. Par conséquent, elle se prêtait et se prête mieux à une action de soutien qui montre rapidement des résultats visibles. La seconde est que, mise à part sa taille, Herculanum, n’est pas moins importante que Pompéi et présente des caractéristiques uniques et précieuses, plus précieuses, même que celles de Pompéi. Lesquelles? Par exemple, le fait que Herculanum, à la différence de Pompéi, permet d’étudier la composition de la population grâce aux squelettes bien conservés de ses habitants surpris par le nuage de cendres et de gaz chauds qui les ont frappés lors de l’éruption du Vésuve en 79 après JC (le même qui a submergé les habitants de Pompéi). En outre, il convient de noter

Il s’agit d’un franc succès, résultat de la volonté de tous les participants à l’accord – Ministère de la Culture, Direction pour le Patrimoine, Fondation Packard – de travailler ensemble, sans a priori ni publicité inutiles.

Une caractéristique unique par rapport non seulement à Pompéi, mais aussi à tout autre site archéologique dans le monde.
Massimo Osanna, délégué spécial pour Pompéi, Herculanum et Stabia ne cache pas Sto arrivando! satisfaction.

L’enjeu est la préservation d’un bien commun inestimable, source de découvertes continues et laboratoire archéologique et didactique sans précédent.
L’espoir de Myrrha est que l’exemple du projet Herculanum puisse être suivi ailleurs en Italie. Afin de ne pas laisser à l’abandon, de manière irresponsable, des vestiges et la mémoire historique de notre prestigieux passé.

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que c’est seulement à Herculanum que la nuée ardente a enveloppé, mais pas détruit, le mobilier et les aménagements de la ville. Ceux-ci, de fait, sont restés en grande partie intacts, dans leur forme originale, dans des maisons privées et dans les lieux publics.

 

ERCOLANO FINALMENTE DECOLLA CON LA FORMULA PUBBLICO-PRIVATO di Giorgio Salvatori – Numero 3 – Gennaio 2016

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Ercolano torna a vivere. Ecco un’altra eccellenza del Sud ignorata, o quasi, dai grandi media nazionali.
Da quest’anno lo straordinario sito archeologico campano si offre al pubblico con un significativo 40 per cento in più di aree aperte ai visitatori che, rispetto al 2000, sono aumentati di circa 150mila unità. Per l’esattezza, 384mila contro i 247 mila conteggiati all’inizio del terzo millennio. Un risultato eccezionale. Effetto della ”cura Packard” e della sinergia pubblico privato che sta dando ottimi risultati.

Perchè proprio Ercolano, e non Pompei, è stata scelta dal facoltoso mecenate americano per sperimentare una collaborazione internazionale mai tentata prima e, apparentemente, così difficile e delicata?

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ERCOLANO FINALMENTE DECOLLA CON LA FORMULA PUBBLICO-PRIVATO

 

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Tutto è cominciato nel 2001 quando David W. Packard, noto filantropo statunitense, fondò l’Herculaneum Conservation Project. Obiettivo: sostenere lo Stato Italiano attraverso la soprintendenza speciale per i beni archeologici di Napoli e Pompei, nell’opera di tutela e di valorizzazione del sito di Ercolano. Il progetto si avvale della collaborazione di un team di archeologi italiani e stranieri ed ha il supporto della British School di Roma.

Almeno per due buone ragioni: la prima è che l’area di Pompei è vasta 10 volte quella dello scavo di Ercolano: quindi, quest’ultimo si prestava e si presta meglio ad un’azione di sostegno, con risultati visibili, in tempi rapidi. La seconda è che Ercolano, dimensioni a parte, non è meno importante di Pompei e, anzi, presenta caratteristiche uniche e preziose, più preziose ancora di quelle riscontrabili a Pompei. Quali? Ad esempio il fatto che a Ercolano, a differenza di Pompei, è possibile studiare la composizione della popolazione attraverso gli scheletri ben conservati delle persone sorprese dalla nube di ceneri e gas roventi che li investì durante l’eruzione del Vesuvio del 79 avanti Cristo (la stessa che sommerse la popolazione di Pompei). In più c’è da notare che

Si tratta di un successo incontestabile, frutto della volontà di tutti gli artefici dell’accordo – Ministero dei Beni Culturali, Soprintendenza, Fondazione Packard – di lavorare insieme, senza riserve e inutili protagonismi.

Una condizione unica rispetto non soltanto a Pompei, ma anche a qualsiasi altra area archeologica del mondo. Non nasconde la sua soddisfazione Massimo Osanna, Soprintendente Speciale per Pompei Ercolano e Stabia.

In gioco c’è la salvaguardia di un bene comune dal valore inestimabile, fonte di scoperte continue e laboratorio archeologico-didattico senza precedenti.
L’auspicio di Myrrha è che l’esempio del progetto di Ercolano possa essere seguito anche altrove, in Italia. Per non far deperire, irresponsabilmente, vestigia e memoria storica del nostro prodigioso passato.

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solo a Ercolano la stessa nube ardente avvolse, ma non distrusse mobili e arredi. Questi ultimi, anzi, restarono sostanzialmente intatti, nelle loro forme originarie, nelle case private e nei luoghi pubblici della città.

 

“UN DOPPIO MOVIMENTO” di Giusto Puri Purini – Numero 3 – Gennaio 2016

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La prima, racconta con il fluire del tempo, la mutazione dal Classicismo all’Astrattismo, la materia “sottile” che esplode e si decompone, fino a diventare essa stessa “movimento”… (vedi tra gli altri il “Futurismo”).
La seconda, il Cinema, Arte più giovane, fotogramma per fotogramma, racconta il mondo per inquadrarne il procedere e sottolinearne il fantastico. Un Cocktail per diventare architetti?
Ora che lo sono da tanti anni, percepisco l’importanza delle due componenti ed il valore del loro intrecciarsi. Unite alla Cultura formativa, possono far nascere la “quadridimensionalità”, ovvero, la dimensione dello “spazio profondo”.

“UN DOPPIO MOVIMENTO”

 

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Enrico Prampolini diceva di Mino Delle Site: “Il colore è il suo naturale mezzo d’espressione ed egli lo usa per realizzare la quarta dimensione, scoperta entusiasmante e vitale del Futurismo”.

Lui, Delle Site da Lecce è salito a scoprire il mondo, io sono sceso verso sud, dopo averlo scoperto, e qui in un doppio movimento ci siamo incontrati.

Scriveva Bodini: “Delle Site presenta brani della sua anima che si manifesta.”

Il colore, quindi, per Mino Delle Site, che da Lecce, meravigliosa, dorata e barocca, terra dai toni caldi ai mezzitoni, ne fa un artista globale. Saturo d’interessi molteplici, dai paesaggi, alla moda, al design, alla pubblicità e poi all’aeropittura, lo portano negli anni 30 a Roma e poi in giro per il mondo, con quell’arioso e scientifico passato della sua terra.
Lo incontro, attraverso le sue belle opere, grazie alla figlia Chiara Letizia, in occasione dell’allestimento di un Salone di Rappresentanza al Circolo del Ministero Affari Esteri, che inevitabilmente diventa “la Sala Delle Site“, grazie naturalmente all’attiva partecipazione dei fratelli Vattani, Ambasciatori.

Lì percepisco le evoluzioni felici dell’aeropittura, i ghiribizzi cosmici, come li definisce Lorenzo Canova nella sua presentazione e quella delicatezza, tipica della terra salentina, dove ogni cosa è mutevole tra continue luci ed ombre.

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Ora ne parlo con cognizione di causa, essendomi in parte, dopo tanto girare, trasferito in un’antica masseria contadina, vicino a S.Maria di Leuca (Lecce), ristrutturata ed oggi, ecosostenibile, nel centro di quei vortici naturali, che caratterizzano gli ultimi 20 km del tacco d’Italia, tra due mari, lo Ionio e l’Adriatico.
Ecco, percepisco i luoghi dell’Arte e della formazione scientifica dell’artista, la sua appartenenza agli archetipi di quelle terre. Aleggiano come monadi nello spazio e sono messapiche, daune e peucezie, dall’Epiro veniva la madre di Alessandro il Grande, ad un tiro di schioppo da Otranto, andando a iniziare con il fiorire dell’architettura della pietra, dolmen, menhir, mura megalitiche, il grande ciclo formativo della cultura mediterranea.

 

AL LIMITE DI UN TEMPO SENZA STORIA di Alessandro Gaudio – Numero 3 – Gennaio 2016

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A proposito dei suoi versi si è spesso parlato di «itinerario fenomenologico e psicolinguistico nell’autobiografia»1 e lei stessa era solita definire la sua scrittura «psicanalitica e subconscia»2, creando poi per essa la categoria della bio-parola, ovvero della bio-poesia. Sono tante le poesie che si rifanno a questo principio − ad esempio, quelle incluse in Mediazioni e ipotesi per maschere (Firenze, Vallecchi, 1985) − ma preferisco trascrivere una di quelle contenute nel terzo volume delle Proporzioni poetiche, antologia curata da Domenico Cara nel 1987 (Milano, Laboratorio delle Arti, 1987, pp. 137-138). Si intitola E non rinasceremo e la riporto qui di seguito, prima di ridiscuterne brevemente la disposizione all’indagine esistenziale per i lettori di «Myrrha».

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AL LIMITE DI UN TEMPO SENZA STORIA

 

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Nella noia di un ritmico esistere, per il tramite della sua operazione poetica, la Verbaro porta avanti il viaggio inquieto che parte dal suo Sud («Quella terra fantastica / persa tra tempi lunghi e spiagge aperte»)

In questa località psichica, che ha una propria spazialità, ma che è priva di una topografia rigorosa, si forma uno degli stadi preliminari delle immagini che prendono parte alla poesia di Giusi Verbaro.

Quella terra fantastica
persa tra tempi lunghi e spiagge aperte
su cui scrivemmo antiche profezie
io l’ho veduta crescere nel sangue
e tingersi di rosso
e poi impazzire al grido degli uccelli
al commiato dolente dell’estate

Questa morte che un vento sterminato
mi colma di occhi bianchi
e mani accese
si consuma straziata
lungo tracce di passi innumerabili
e angeli addormentati nell’attesa

(Senza memoria arrendersi
nei giardini di Tebe
aspettando le piogge)

e mai come stasera − sfiancata dalle nebbie −
poserò le mie fughe
al limite di un tempo senza storia

Non abbiamo proposto che saggezze
al vento secco che straziato incalza
da millenni a millenni
e il torpore ha spianato faglia a faglia
il miracolo inquieto dell’amore
che schiantasse radici
gonfie di linfa viva
sulla soglia di un giorno rinviato
ad altro giorno ancora
ad altro, ad altro…

e non rinasceremo
alla grazia solare dell’estate

e, passando di strato in strato, da «da millenni a millenni / […] faglia a faglia», conduce a un tempo-luogo «su cui il mito affiora a codificare nel simbolo l’implicito, l’inconscio, il non codificabile».3 La poesia, dunque, si configura come rappresentazione che, essendo legata alla parola, al linguaggio verbale, più che subconscia è, per meglio dire, preconscia. Ma in che modo la parola consentirebbe alla Verbaro di pervenire a ciò che è implicitamente presente nell’attività mentale? Si conoscono bene, del resto, le difficoltà che Freud stesso aveva dovuto affrontare nel definire lo spazio del subconscio e che lo avevano indotto ad abbandonare tale categoria, preferendole quella di preconscio ed è quest’ultima che qui si sceglie per definire lo spazio virtuale all’interno del quale si muovono i versi della Verbaro.

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Cos’è, d’altra parte, il subconscio? Ciò che è debolmente conscio? Oppure ciò che si trova nella psiche al di sotto della soglia della coscienza? Oppure ciò che ad essa è precluso?

Si potrebbe dire che lo spazio preconscio, restando implicito, qualifichi ciò che sfugge alla coscienza; ed effettivamente lo fa, mediante il vaglio di una censura che, a un estremo, evita che i contenuti inconsci trovino la via per il preconscio e la coscienza, facendoli passare come in una strettoia; all’altro, controlla l’accesso alla coscienza, essendo in grado di selezionare i contenuti sui quali esercitare la propria attenzione. La bio-parola della Verbaro individua e descrive il residuo cosciente delle preoccupazioni perturbanti presenti nella sua esistenza; il soggetto, così, è perfettamente in grado di rievocare i propri ricordi lungo un viaggio poetico − tra memoria e mito, al limite di un tempo senza storia − che adegua una località psichica (psychische Lokalität, diceva Freud) a un sapere cosciente ma che, cionondimeno, non è dotato di una scansione predeterminata ed esatta.

Ciò avviene perché la poetessa, nei versi qui trascritti così come in altre occasioni, brandisce l’estraneità di ciò che le è familiare, situandosi in un altrove privo di ordinamento − dove il vento diviene sterminato e straziato e straziata è anche la morte, dove i passi sono innumerabili e il miracolo dell’amore è inquieto − la cui idea non può essere immediatamente analogica, ma che, nondimeno, le consente di instaurare un rapporto produttivo con il suo Io e con l’ambiente che lo circonda. Ciò, peraltro, chiarisce la funzione che − a detta della stessa Verbaro − ha avuto la poesia nel corso della sua esistenza: vale a dire, come preannunciato all’inizio, mappa, bussola, rotta, ragione e mezzo d’indagine di un’intera esistenza.

 1 S. Lanuzza, Lo sparviero sul pugno. Guida ai poeti italiani degli anni ottanta, Milano, Spirali, 1987, p. 256.
2G. Verbaro Cipollina, Le alchimie dello stregone. Appunti e riflessioni sulla poesia italiana degli anni ’80, Soveria Mannelli, Catanzaro, 1984, p. 60. Il saggio dal quale si trae la definizione riportata introduceva già la bella antologia intitolata Poeti della Calabria e curata dalla stessa poetessa nel 1982 per i tipi di Forum / Quinta Generazione; la citazione figura a p. 20.
3È quanto sostiene la stessa Verbaro Cipollina nella nota introduttiva a Mediazioni e ipotesi di maschere, silloge del 1985 già citata più in alto (p. 9).

 

TAMBURO, IL RITMO DEL CUORE di Titta Mancini – Numero 3 – Gennaio 2016

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Infatti, è essenzialmente poverissimo nella fattura, costruito con materiali facilmente offerti all’uomo dalla natura – pelle animale (di capra o capretto), legno e, a volte ma non sempre, pezzetti di latta o altro metallo di poco valore per i piattini (o cimbali) di accompagnamento lungo il bordo. 
Il nostro tamburello italiano o tamburo – ce ne sono di diverse circonferenze – è detto ‘a cornice’ proprio per la cornice di legno che contorna la pelle animale sulla quale il percussionista batte il tempo, dando origine alla vibrazione sonora, che costituisce la musica del tamburo, o se vogliamo, la sua voce.

TAMBURO, IL RITMO DEL CUORE

 

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Il tamburo è l’unico strumento musicale presente in tutte le culture del mondo, dagli indiani d’America all’estremo Oriente, dal nord Europa all’Africa, e il Mediterraneo dall’Italia al mondo arabo. Questo, in ogni epoca della storia. Ci sono testimonianze primitive dell’uso di strumenti a percussione di forma circolare. A noi vicine, le immagini dell’epoca fenicia o romana:

Una danza continua, le cui movenze ricordano i nostri antenati, il viaggio che dalla semina conduce al raccolto. Che lo si eserciti come ballo o che soltanto lo si apprezzi per il valore simbolico.

Sono soltanto esempi. L’iconografia ne è ricca, sia popolare laica, sia cattolica cristiana.
Dalle origini mitologiche all’uso nei campi, più di recente. La storia del nostro paese e, in particolare, del Sud, ci consegna la musica popolare come madre di ogni ritmo. Non a caso l’universalità dello strumento descritto, come si diceva, presente in ogni continente, nasce proprio dalla sua peculiarità:

le sacerdotesse fenice usavano suonare il tamburello nei riti propiziatori per la fertilità; i romani lo utilizzavano ad accompagnare le feste dionisiache, vino, canti e musica nelle ville di Pompei, e lo raccontano gli stessi affreschi salvati dalla distruzione della città antica.

Ci sono anche uomini e donne, per lo più anziani oggi, che hanno creato maniere di suonare, stili, che portano quindi il loro nome, alla maniera di…
Si accennava al mondo dei campi. Dal medioevo ad oggi la musica popolare, con il suono del tamburo, semplice, potente, evocativo, profondo o acuto, è servita a più scopi. Sul ritmo nascono rime e invocazioni, proteste e incoraggiamenti, riti propiziatori di derivazione pagana in favore della fertilità in senso lato, dell’amore come forma di corteggiamento, provocazione, sfida. Il lavoro nei campi e la fatica di guadagnarsi il pane, la necessaria ricompensa e la protesta in caso contrario, in nome di una sociale giustizia. Sono tutti temi che hanno attraversato il canto popolare dando corpo, voce e musica proprio a questi sentimenti di comunanza.

Il culto mariano, soprattutto nella regione Campania, ha riadattato la musica popolare in chiave religiosa, sacra; il popolo con le cosiddette ‘tammurriate’ (e qui il tamburo usato è di dimensioni più grandi, la tammorra) si rivolge direttamente alla Madonna

Il tamburo non è l’unico strumento del mondo popolare – spesso ad esempio è accompagnato da piccole nacchere o castagnette (così dette nel vesuviano), indossate e suonate dai danzatori sul ritmo della percussione – ma è certamente, il tamburo, l’oggetto musicale che meglio rappresenta nella sua stessa struttura la filosofia della musica nata dal popolo: una musica ancora viva nel nostro Sud e che continua a garantire il legame profondo che unisce l’uomo meridionale alla sua storia. E’ una musica circolare. Come il sole, come la luna, come il ciclo intero della vita.

il tempo sul tamburo rievoca, o addirittura imita, il ritmo del cuore. Il primo e più antico suono che l’orecchio umano abbia mai percepito, addirittura in se stesso.

(sette Madonne, secondo la tradizione quasi leggendaria, sette Sorelle, sei belle ed una nera), per una grazia che si chiede cantando e suonando. 
Il suonatore e i danzatori: nella cultura salentina, leccese, il tamburo accompagna invece il violino perché la musica ripetuta e ipnotica risvegli nella tarantata, quasi sempre donna, le capacità innate di guarigione, contro il veleno del ragno. E qui parliamo di pizzica: il morso vero o presunto, reale o immaginato, sempre certamente simbolico, l’espiazione del male e la liberazione attraverso la musica. 
Difficile sintetizzare in poche righe la sacralità che accompagna l’uso del tamburo anche laddove il rito o l’iniziativa musicale prende forma da una semplice necessità di aggregazione, come la festa, una tarantella via l’altra; c’è sempre nel sottofondo del ritmo il passo antico di una sonorità che ci appartiene, nel profondo. Quasi magica. Come la terra, la nascita, il cuore che batte.

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E forse ancor prima di nascere. Ecco il battere sulla pelle animale. E non c’è niente di scritto in questa musica che si tramanda di generazione in generazione, di padre in figlio, di nonno in nipote. E’ a trasmissione orale e manuale: il movimento delle mani, quella che regge lo strumento e quella che lo percuote, dall’impugnatura alla riproduzione del suono in tempo binario o terzinato, si impara osservando e provando assieme al maestro della tradizione, in genere un riconosciuto ‘grande vecchio’ del paese,

così al Sud, dove ancora è molto forte la cultura della musica sul tamburo e altrettanto forte la gelosia che accompagna la sapienza. Tecniche conosciute da centinaia di anni, ma riposte nelle mani di pochi.

Per accordare un tamburo servono acqua e fuoco, acqua per allentare la pelle, fuoco per renderla più tesa. Umidità e calore. E torniamo alle origini, per fare musica.

 

BRODERIES ET DENTELLES. “DERRIERE LA FENETRE D’UNE VIEILLE MAISON” di Venera Coco – Numero 3 – Gennaio 2016

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étaient les outils les plus courants dans les mains des jeunes Siciliennes qui préparaient anxieusement leurs trousseaux, en espérant pouvoir un jour exhiber leurs travaux avec l’audace propre aux maîtresses de maison. Pendant longtemps, les villes de cette île, complexe et mystérieuse, furent décorées de la beauté et de la finesse des broderies et des dentelles qui parvenaient à rendre précieux chaque recoin des maisons, chaque bannière des autels des églises, même ce qui se portait mais devait rester secret.

De la dentelle sicilienne, du macramé, du crochet et de la broderie, Domenico Dolce et Stefano Gabbana, ont fait un « must »: ce n’est pas un hasard si le mot dentelle fait immédiatement penser à la dentelle noire qui les a rendu célèbres.

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BRODERIES ET DENTELLES. “DERRIERE LA FENETRE D’UNE VIEILLE MAISON”

 

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Ces arabesques rappellent la créativité des artisans capables de travailler la céramique, le bois et l’argile. Au fond, il s’agit de transformer le fil en sculpture, un y appliquant une maîtrise patiente, que ces femmes mettent en oeuvre en répétant toujours les mêmes gestes, comme si elles chantaient une berceuse dont elles connaissent les paroles par cœur.
Ces oeuvres réalisées, point après point, dans une alternance harmonieuse de pleins et de vides, rendent les nappes et les draps précieuxCes arabesques rappellent la créativité des artisans capables de travailler la céramique, le bois et l’argile. Au fond, il s’agit de transformer le fil en sculpture, un y appliquant une maîtrise patiente, que ces femmes mettent en oeuvre en répétant toujours les mêmes gestes, comme si elles chantaient une berceuse dont elles connaissent les paroles par cœur.
Ces oeuvres réalisées, point après point, dans une alternance harmonieuse de pleins et de vides, rendent les nappes et les draps précieux

Les mains nerveuses tissent depuis des siècles dans les cours des maisons ce simple fil qui, par ses tours et ses acrobaties, tisse miraculeusement les arabesques à ajuster aux tissus pour les rendre précieux.

Ces broderies et ces dentelles rappellent la lave volcanique qui, en se refroidissant garde en elle l’air bleu et le parfum des genêts.

Les créations de Marras respirent l’excentricité et tournent autour de couches et d’incrustations de tissus et de broderies, qui racontent l’histoire mouvementée de sa terre, dans une succession d’influences et de cultures, et les rendent similaires à une roche sédimentaire.

En Sicile la dentelle se travaille toujours et la tâche est confiée aux femmes plus âgées, pliées sur leurs petits cadres ronds.
Les après-midi d’été, les cours des maisons anciennes deviennent leur refuge préféré loin de la chaleur de l’été. De « derrière la fenêtre d’une vieille maison», comme le chante Battiato dans «Mal d’Afrique», aux grandes multinationales du luxe, le chemin est court: les styles du passé se modernisent pour faire place à des versions plus contemporaines.

Fluide, magmatique et inoubliable, comme le feu qui jaillit de l’Etna, tel fut le défilé des modèles (à la fin du défilé automne / hiver 2013-2014) qui portaient sur leurs corps l’arrogance de la lave incandescente sur laquelle le jais jet le strass brillaient comme des joyaux . Le travail des brodeuses expertes enchante aussi la designer milanaise Luisa Beccaria qui a hérité de son mari, le noble Bonaccorsi de Reburdone, cette attitude typiquement sicilienne, et réalise des vêtements néo-romantiques de style préraphaélite, en broderie anglaise et macramé, mais aussi des jupes évasées qui incluent des pièces en dentelle.

Gonflées de crinolines, les robes de soirée en taffetas sont de véritables œuvres d’art de la Renaissance, légères et transparentes et savent comment mettre en valeur le travail laborieux qui produit les dentelles aériennes.

A Alghero également, dans la Sardaigne de Antonio Marras, les dentelles sont un élément essentiel de la culture de l’île. Dans la signature stylistique de la créatrice il y a a eu il y aura probablement toujours de la place pour la broderie, la dentelle de Bosa et les autres productions manuelles qui sont au coeur de l’artisanat sarde.

Si pendant longtemps on a essayé de donner de la légèreté aux vêtements, de les rendre aussi impalpables que des cristaux de sucre grâce aux dentelles et aux broderies, il ne faut pas oublier que cet effet est le résultat d’un travail savant et minutieux, qui cache les idées et les géométries de ceux qui réussissent à créer avec très peu, des nuages d’une telle beauté.

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LIBRERIA MARESCRITTO di Matteo Eremo – Numero 3 – Gennaio 2016

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“Il seguente articolo – estratto da un racconto più ampio contenuto nel volume: La voce dei libri II. Storie di libraie coraggiose raccolte e raccontate da Matteo Eremo – è qui pubblicato per gentile concessione dell’editore Marcos y Marcos e dell’autore”.

Immaginate una libreria vicino al mare, in Salento, in uno dei punti più estremi della nostra penisola, a due passi dalle coste dell’Albania e della Grecia. Immaginate un luogo minuscolo ma coloratissimo, dove è possibile sfogliare le pagine di un libro con in sottofondo le note celestiali di un capolavoro come Kind of Blue di Miles Davis.

a Tricase, fino a quel momento, non c’era stata richiesta di libri perché era mancata l’offerta, non il contrario. Il problema non era aprire una libreria al Sud ma, semmai, superare i pregiudizi. Perché la gente desiderosa di leggere c’è, eccome: bisogna solo offrire un servizio e un luogo adatti alle loro esigenze.

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LIBRERIA MARESCRITTO

 

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Un tempietto consacrato all’olimpo dei libri da una giovane donna che, dopo essere emigrata al Nord come tanti suoi conterranei del Sud, ha deciso di tornare nella propria città di origine per aprire una libreria. Sì, avete capito bene. Vendere libri nella più periferica delle periferie, dove nemmeno le librerie di catena osano andare, in una piccola cittadina del Capo di Leuca, al confine tra due mari: l’Adriatico e lo Ionio.

Letture contro i pregiudizi

 

“A vent’anni” racconta Isabella “ho sentito una forte esigenza di compensare le mie lacune culturali. Si trattava di un’autentica necessità di emancipazione da certi limiti del pensiero, di liberarmi da quelle che Henry Miller chiama ‘pastoie della propria natura’. Cercavo letture in grado di farmi vedere le cose da un punto di vista alternativo. 
“È così che è avvenuto l’incontro con gli autori che più amo e da cui mi sono lasciata influenzare: Marguerite Duras, Céline, Kafka, Simone de Beauvoir, la Beat Generation, Musil, Pasolini, Boris Vian, John Fante… Lo definirei un vero e proprio punto di non ritorno. Già mentre mi immergevo per la prima volta in quelle letture scoprivo nuovi orizzonti di senso. I miei libri erano tutti sottolineati, annotati, con le pagine usurate e ingiallite per il mio continuo soffermarmi su passaggi che ritenevo illuminanti.
“Mentre studiavo e lavoravo saltuariamente, ho cominciato a chiedermi cosa volessi fare nella vita, finché non ho raggiunto i miei fratelli a Bologna. Lì, all’ombra delle due torri, mentre mi reinventavo in diversi ruoli, mi sono posta la fatidica domanda: perché non aprire una libreria a Tricase, dove sono nata e cresciuta? 
“Gli aspetti positivi che potevano decretare la buona riuscita dell’impresa non mancavano di certo in quel periodo, alla fine degli anni Novanta. Pur essendo il centro più grande del Capo di Leuca, innanzitutto, Tricase aveva qualche piccola cartoleria rifornita di scolastica, ma nemmeno una vera libreria. Poi si trovava a soli tre chilometri dal mare, in una posizione privilegiata. 
“All’epoca, inoltre, stava per esplodere il fenomeno del Salento, con la riscoperta di forme musicali come la pizzica e la taranta. Eravamo ancora lontani dal successo turistico di oggi, ma già in quel momento si poteva intuire che ci sarebbe stato un grande rilancio della mia terra. Avevo però un dubbio: perché nessuno aveva aperto una libreria a Tricase? 
“All’epoca, purtroppo, ero ancora vittima del preconcetto secondo il quale al Sud è tutto più difficile. Per tanti anni, d’altronde, i nostri giovani sono emigrati al Nord o all’estero rafforzando una paura e un complesso di inferiorità con il quale chi nasce nel meridione prima o poi deve fare i conti. 
“La situazione, in realtà, è diversa:

Isabella Litti, l’intraprendente e coraggiosa libraia di Marescritto, è un perfetto testimonial della forza e della portata, troppo spesso sottovalutate, dei libri. 
La sua vita è infatti segnata da un netto spartiacque: c’è un prima e un dopo aver cominciato a leggere. E il dopo, ça va sans dire, è tutta un’altra storia.

“Un contesto in cui rientra anche la riscoperta della lentezza, una virtù messa in cattiva luce da una società frenetica, iperproduttiva e isterica. Del resto, chi l’ha detto che la velocità è tutto? Al contrario, come ci insegna Franco Cassano con una bellissima metafora, dovremmo ‘essere lenti come un vecchio treno di campagna, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro e invece correre è guardarne soltanto la copertina’. 
“Il futuro dei libri, non solo quello del Sud, passa anche da concetti come questo”.

basta leggere un libro come Il pensiero meridiano di Franco Cassano per assumere tutta un’altra prospettiva e capire che occorre restituire al Sud la sua antica dignità di soggetto del pensiero, riformulando l’immagine che esso stesso ha di sé. Non più ‘periferia degradata dell’impero’, ma centro di un’identità ricca e molteplice, autenticamente mediterranea.

“Non era un problema di domanda, ma di offerta”

 

L’avventura di Isabella Litti parte ufficialmente nel giugno del 2004, in un piccolissimo locale di appena trenta metri quadrati nel cuore del centro storico di Tricase. 
Il nome, così evocativo e sinestesico, è un omaggio a un ricercato libretto fotografico dell’amata Marguerite Duras: Il mare scritto, appunto. 
L’avvio è tutto in salita. Il budget limitato costringe Isabella a partire con grande cautela, con un catalogo di soli duemila titoli, e a passare attraverso i grossisti.
“Già nel corso del primo anno” ricorda Isabella Litti “ho però iniziato ad avere diversi riscontri positivi e ho capito una cosa fondamentale:

“Rinfrancata da queste considerazioni, ho speso tutte le mie energie per crescere in maniera costante, reinvestendo tutti i guadagni nella libreria: in pochi anni il catalogo è così passato da due a quattordicimila titoli, grazie anche ai rapporti di fiducia sviluppati nel tempo con gli editori”.
Marescritto è un piccolo mondo senza tempo a due passi dalla piazza principale di Tricase, dove svettano le sagome severe di due chiese e il profilo fiabesco del castello, nella cui Sala del trono Isabella organizza spesso le presentazioni. Il locale che ospita la libreria, d’altronde, è troppo piccolo per gli eventi.

La limitatezza degli spazi, però, non è vista dai clienti come un aspetto negativo, anzi. Isabella è infatti riuscita a creare un ambiente estremamente bello, intimo e di qualità. Un luogo vivace, ricco di spunti e di contaminazioni sotto le solide volte a botte del soffitto.

Qual è, dunque, il segreto di questo minuscolo scrigno? “Innanzitutto” spiega la libraia “contano molto il catalogo e la piacevolezza del luogo, entrambi studiati accuratamente. Marescritto si è formata attorno alle esigenze dei lettori, ma tenendo conto dei miei gusti e delle accortezze che studio stando qui, mentre osservo quello che accade in libreria.
“Il secondo segreto è invece la terra su cui sorge. Tricase è una cittadina vivace, con ben tre cinema, e si trova a due passi dal mare, la cui vista opera un vero e proprio sfondamento nel modo di pensare”.

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Nonostante la sua lontananza rispetto ai grandi centri produttivi del paese, Tricase si è dunque rivelato da diversi punti di vista un luogo privilegiato in cui aprire una libreria. Tanto che Isabella Litti, dopo aver confutato molti stereotipi, ora guarda con estrema fiducia al futuro del libro e del proprio mestiere. 
“Il turismo” spiega la libraia “garantisce un grande volume di vendite da maggio a settembre, ma anche durante tutto il resto dell’anno non ci possiamo lamentare, anzi.

Siamo infatti troppo periferici per subire la concorrenza delle librerie di catena, che non ci pensano proprio ad aprire da noi. E la base di clienti su cui possiamo contare è molto solida, anche perché il Salento, in controtendenza con molte zone del Sud e persino del Nord, subisce sempre meno il problema dell’esodo dei propri giovani.

Molti, anzi, stanno rientrando negli ultimi anni. 
“Col tempo siamo diventati un punto di riferimento per il tessuto sociale del luogo e abbiamo contribuito a rivitalizzare il centro storico. Ora ci sono numerosi ragazzi che vengono qui a chiacchierare e a confrontarsi, comprando tanti libri. Siamo diventati un luogo di aggregazione e confronto”.

Circondato dalle acque del Mediterraneo, a più di mille chilometri dalla frenesia della grande capitale italiana dell’editoria e dell’industria, c’è un Sud che, riscoprendo la propria identità e i benefici della lentezza, va decisamente più forte di tante realtà del Nord.