APULIA LANGOBARDURUM di Gianluca Anglana – Numero 7 – Aprile 2017

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L’epoca delle grandi migrazioni in Europa colmò un ampio arco di tempo, divaricatosi tra il III e il IX secolo. Fu come una slavina, appena annunciata da pochi grani di neve: dapprima si trattò di semplici razzie e scorribande, successivamente di vere e proprie trasmigrazioni di popoli. Con il progressivo indebolimento dell’Impero Romano in Occidente, queste ondate di oceani umani divennero sempre più frequenti e massicce fino a cristallizzarsi in apparati amministrativi e addirittura in regni associati1.

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APULIA LANGOBARDURUM

 

Dal caos liquido del Medioevo emerse una civiltà tuttora avvolta in una foschia di mistero e per questo affascinante: la civiltà dei Longobardi.

Nella sua Historia Langobardorum Paolo Diacono, monaco longobardo cui fu affidato il compito di narrare l’epopea della propria gente, ne dipinge in maniera plastica e protoromantica il momento del primo ingresso in Italia: “Quando dunque re Alboino giunse ai confini dell’Italia con tutto il suo esercito e con una moltitudine di popolo promiscuo, ascese un monte che si innalza in quei luoghi e lì contemplò quella parte d’Italia fin dove poté spingere lo sguardo”2.

Di certo, essi avvertirono il magnetismo esercitato sulla periferia europea dai fasti e dalla grandezza dei gangli centrali dell’Impero. Nel contempo, essi erano però divorati dall’ansia di distinguersi rispetto alle massime autorità del tempo, cioè rispetto al Papa di Roma e all’Imperatore di Costantinopoli4: lo fecero rivendicando a lungo il loro credo ariano e issando i vessilli del proprio indomito orgoglio germanico. Tra le loro icone più rappresentative scelsero San Michele, il milite per eccellenza, il vendicatore incaricato di punire il Diavolo che osò paragonarsi a Dio. La smania di tutelare il Simbolo e di aggiudicarsi il prestigio di uno dei più noti luoghi micaelici del mondo cristiano spinse il Duca longobardo Romualdo, nella seconda metà del settimo secolo, a muovere da Benevento verso il Gargano, per mettere il Santuario dell’Arcangelo al riparo dai frequenti saccheggi di profanatori provenienti da Est: fu allora che quei luoghi sacri volsero le spalle a Levante ed entrarono nella sfera di influenza germanica.

creature entrambe di natura divina e dal caratteristico equipaggiamento militare (la prima munita di una spada, la seconda di una lancia denominata Gungnir).Galvanizzati dai loro stessi successi militari, i nuovi conquistatori si avventurarono più a Sud, quasi seguendo la Linea di San Michele, quella retta immaginaria che l’Europa tatua su di sé tra punti talvolta equidistanti e sempre corrispondenti a Santuari dedicati al Monarca degli Angeli.

A testimonianza della presenza longobardica a Trani si citano oggi alcuni ritrovamenti funerari in pieno centro storico e l’antichissima Chiesetta di San Martino. La rapacità dei Duchi di Benevento ispirò, negli anni settanta del settimo secolo, un’altra difficile spedizione, destinata a culminare nella conquista del Salento settentrionale. Di queste turbolenze si trova cenno, ancora una volta, nell’Historia Langobardorum: “Romualdo, duca di Benevento, messo insieme un grande esercito, espugnò Taranto, e nello stesso modo conquistò Brindisi, sottomettendo al suo potere tutta la vastissima regione circostante”9. Si direbbe quasi che, col tempo, i Salentini abbiano rimosso il ricordo di Signori germanici e delle loro insaziabili truppe (forse perché la fede di costoro era in definitiva un’eresia e quindi una devianza rispetto all’ortodossia romana).

Il loro territorio fatica invece a scrollarsi di dosso il proprio passato.

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Ai Longobardi, figli bellicosi delle gelide lande del Nord, la Penisola, fertile e ricca di auree città, dovette forse apparire una sorta di Terra Promessa3.

Monte Sant’Angelo è un sito di notevolissima rilevanza di ordine storico-artistico, tanto da essere annoverato nella lista dell’Unesco.

La sua struttura colpisce per una peculiarità: nelle viscere del Santuario vero e proprio si apre una cavità rupestre, dove la fede attesta un’Apparitio dell’Arcangelo. È questo il dettaglio che desta maggiore interesse e che potrebbe avere agganciato la memoria genetica dei guerrieri dalle lunghe barbe; il tema della “grotta”, come luogo sacro, infatti, rinvia al prodigio di cui parla ilDiacono: “Negli estremi territori della Germania, verso nord-est, sulle rive dell’Oceano, sotto un’alta rupe si scorge un antro nel quale sette uomini, non si sa da quanto tempo, riposano assopiti in un lungo sonno, così integri non solo nei corpi ma anche nelle vesti, che (…) sono oggetto di venerazione per quelle genti incolte e barbare (…)”5.

Insomma, Monte Sant’Angelo era, in Italia, ildove in cui replicare l’ancestrale immaginario norreno6, sia per la sua morfologia sia per le analogie iconografiche tra l’Arcangelo Michele e il Dio germanico Wotan7,

L’antica Tarenum, il municipio romano oggi noto come Trani, fu strappata a Bisanzio dai Longobardi, che ne rinforzarono le strutture difensive e ne ampliarono il perimetro8.

Muovendosi ancora più in giù, lungo la Linea di San Michele, si arriva a Crepacòre, nel brindisino. Una terra la cui avvenenza si apprezza anche quando il sole latita e grossi nembi fluttuano bassi,

quando le nubi sembrano un battaglione lanciato all’attacco contro un nemico invisibile e si muovono minacciose, di quella rapidità con cui si compone e si disfa il mutevole cielo invernale di Puglia. Rotolano, rimbalzano, si avvinghiano l’una all’altra e si accalcano vorticosamente, gettando di quando in quando occhiate violente sull’erba e sulla terra bagnata. In simili giornate, bave di luce trafiggono le masse d’aria come lunghe spade, al punto da quasi poter vedere il braccio dell’Arcangelo fendere le nuvole come un missile, allungarsi sul mondo degli umani e puntargli contro lame incandescenti. Crepacòre ha già solo nel nome l’evocazione di una bellezza tagliente. Quella che un tempo fu la Messapia ha, qui, conservato il suo aspetto più selvaggio e autentico. Qui, la monotonia della sonnolenta pianura salentina si perde, il terreno si arriccia in declivi e si solleva in alture inaspettate, le coltivazioni fanno posto a piccole selve.

Nel notoriamente assetato Salento fa un certo effetto scorgere un rio, il cui timido serpeggiare tra le campagne è tradito dal nastro verde della vegetazione e dall’ondeggiare dei canneti. É il canale di Galesano.

Volendo prestare fede ad alcune teorie, questo rigagnolo, assieme ai terrazzamenti circostanti, potrebbe essere una delle prove dell’esistenza del Limitone dei Greci, ovvero il mitico Limes tra i territori bizantini e i possedimenti longobardi. L’ipotesi ottocentesca di un confine fisico tra i due domini in perenne e cangiante frizione tra loro è in verità di recente avversata, soprattutto a causa di un’endemica mancanza di riscontri oggettivi. Da più parti si sostiene ormai che il Limitone dei Greci, come enorme muro di confine, non sia mai realmente esistito: in caso contrario, esso avrebbe avuto la stessa imponenza del Vallo di Adriano. Non pare plausibile che il cosiddetto Paretone fosse un mastodontico sistema di muraglie. Per spiegarne la natura è forse opportuno ricorrere al concetto che i Romani avevano di Limes: un complesso sistema di mura e palizzate con scopi dichiaratamente difensivi. Si pensi ad esempio al Limes Germanico-Retico che era nulla più che una palizzata alta circa tre metri e che, con fortificazioni e torri, correva lungo un fossato per oltre cinquecento chilometri. Di questa struttura, in Germania, non resta quasi più nulla, ma nessuno si arrischia per questo a giurare che essa non sia mai esistita. A sostegno di questa tesi, taluni segnalano in particolare che“a proposito dei fondi militari romano-bizantini, si è studiato di dimostrare che nelle provincie greche dell’Italia meridionale persistette il sistema adottato dai primi tempi dell’Impero romano a difesa dei paesi di confine, ponendo fra l’altro in risalto che dove mancavano ripari naturali (fiumi, monti, clusurae), se ne costruivano di artificiali, indicati a preferenza con la parola limes”10. Altri propugnano che“in conclusione, la frontiera bizantino-longobarda pugliese appare come una zona di fluttuazione, di integrazione o di contiguità di influenze, che non sembrano arginate da frontiere stabili e durature”11.

Questa reciproca compenetrazione culturale ha dato i suoi frutti, come la splendida Chiesetta di San Pietro in Crepacòre, rarissimo punto di sintesi tra le due culture antagoniste: quella greca e quella longobarda.

Circondato da una natura più sensuale che mai e da una minuscola necropoli, il tempietto di San Pietro colpisce in primo luogo per le sue cupole in asse, caratteristica tipica delle costruzioni sacre di matrice longobardo-beneventana L’interno, un tempo completamente affrescato, conserva oggi solo una parte delle sue pregevoli raffigurazioni agiografiche. Ciò che ne resta è comunque di straordinaria fattura. Tra gli affreschi si legge, in greco, un’iscrizione votiva: “Questo tempio è stato edificato per la remissione dei peccati del servo di Dio … e della sua consorte Veneria e dei loro figli. Amen”. L’identità dell’agiato committente è rimasta a lungo ignota: grazie a recenti studi, si è potuto ipotizzare che il misterioso VIP fosse un certo Gaiderisio, principe beneventano e quindi di alto lignaggio longobardico, chiamato ad amministrare la città di Oria, “nodo strategico nei collegamenti via terra fra Jonio e Tirreno e “porta” del Salento per chi provenisse da Settentrione”12. Accedere in questi luoghi, farsi largo nella boscaglia, risalire o discendere queste alture seducenti è un po’ come varcare unoStargate aperto su una dimensione temporale semignota, gettarsi a capofitto nella cisterna del passato e naufragare sui lidi di altre ere, quando sentinelle di popoli in stato di costante belligeranza si scrutavano l’un l’altra sui terrapieni di confine e sul ciglio dei tempi.

 

1 Cfr. Federico Zeri, Dietro l’immagine, TEA (1987), p. 36.

2 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, BUR, p. 243. Questa evocazione, quasi cinematografica, è carica di atmosfere oniriche, come alcune opere del pittore tedesco Caspar David Friedrich, e tradisce il pulsare di alcune peculiarità della Germanitas, che in fondo non sono mai del tutto scomparse.

3 Bruno Luiselli, La Società longobardica del secolo VIII e Paolo Diacono storiografo tra romanizzazione e nazionalismo longobardico, BUR, p. 18.

4 Si ricordi che lo Scisma d’Oriente avvenne nel 1054. 

5 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, BUR, p. 151. 

I Longobardi, che in origine si sarebbero chiamati Vinnili, originerebbero dalla Scandinavia (v. UTET, 1967, XI – p. 445.). 

7 Wotan, alias Odino, è la divinità principale della mitologia germanica. 

8 Si tramanda che furono proprio i Longobardi a inglobare nel tessuto urbano di Trani la zona ebraica, prima di essi fuori le mura. 9 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, BUR, p. 485.

10 G. Antonucci, Note critiche di Japigia, a. IV, pp. 78-80.

11 G. Stranieri, Un Limes bizantino nel Salento? La frontiera bizantino-lomgobarda nella Puglia meridionale. Realtà e mito del Dzlimitone dei grecidz, p. 7. In questo interessante studio si assume che Dzperfino qualora la consistenza storica del limitone dei greci dovesse essere provata, in definitiva, esso dovrebbe essere visto piuttosto come una linea di delimitazione o di dissuasione che non come una muraglia confinariadz.

12 Dizionario biografico Treccani.it. 

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L’UTOPIA POSSIBILE DI GIBELLINA di Nicolò Stabile – Numero 1 – Luglio 2015

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È un’opera che si sottrae a qualsiasi tentativo di catalogazione. Letteralmente costruita con le pietre e le cose che furono strade, piazze, case, stalle, negozi, laboratori, scuole, chiese, ma anche un teatro all’italiana, un castello chiaramontano del XIV secolo… è il sepolcro e la matrice perduta di un piccolo paese del Sud, ricostruisce percorsi ideali, spaziali e temporali tra la memoria e il presente, tra i vivi e i morti. La sua storia è complessa. Iniziata nel 1979, non è ancora conclusa. Ha avuto un deus ex-machina, Ludovico Corrao, sindaco di Gibellina dal 1970 al 1994, che come Fitzcarraldo sapeva che chi sogna può muovere le montagne. Siamo alla fine degli anni Settanta. Mentre stiamo scontando un surplus di pena che dura da un decennio in baracche gelide d’inverno e roventi d’estate, i nuovi centri urbani (alcuni, come Gibellina, lontani dai vecchi centri) cominciano a prendere forma. Sono stati disegnati a tavolino in un ufficio romano da un manipolo di urbanisti che pensavano (come hanno scritto nella relazione di progetto) di sradicare la mafia costruendo strade larghe per mettere distanza tra gli abitanti. Nessun ascolto delle istanze e delle esigenze delle comunità locali, anzi: per legge i Comuni vengono esautorati da qualsiasi potere decisionale.

Ludovico Corrao, impotente sulle scelte urbanistiche imposte dallo Stato, ma consapevole della loro bruttezza, e convinto che le case da sole non bastino a far rinascere il senso di comunità e di attaccamento, e che alla ricostruzione bisogna dare un senso alto in cui la bellezza sia motore e legante, chiama a raccolta artisti, intellettuali e uomini di cultura, per cercare di renderla più bella di prima.

La mattina del 23 maggio 1987 Burri vede per la prima e ultima volta il suo Cretto: sembra deluso, non dice quasi nulla. Gli manca probabilmente il punto di vista dall’alto a cui l’aveva abituato la maquette. Gli manca, malgrado le dimensioni, quel senso di grandiosità che aveva immaginato. La visita dura meno di un’ora, appena in tempo per immortalare in uno scatto l’incontro tra l’artista e la sua opera. 

Nell’89 si fermano i lavori, all’80% del totale, per mancanza di risorse. Corrao riesce a farsi finanziare dalla Regione il completamento, ancora una volta presentando il progetto non come opera d’arte, ma come sedicente «parco urbano». Ma non fa in tempo a far partire la macchina burocratica. Dopo più di vent’anni, la gente di Gibellina non lo vuole più sindaco, e nel 1994 Corrao non sarà rieletto. Chi verrà dopo di lui, scientemente, riuscirà a far perdere quel finanziamento e da allora per il Cretto inizia un lento abbandono. 

Passano gli anni e il bianco diventa grigio. I ferri sotto la superficie arruginiscono facendo staccare pezzi di cemento. Qualche piccolo crollo, distacchi, crepe. Nessuna manutenzione, a parte qualche pulitura dalla vegetazione che inizia a infestarlo. Ai Ruderi nessuno va quasi più, sempre meno le occasioni di riunirsi lì. Del Cretto quasi ci si dimentica. Anche Burri non ne parla volentieri. Come aveva previsto, morirà (nel 1997) senza averlo visto ultimato. 

Poi sulle corona di colline che lo circondano, laddove fino a qualche anno prima c’erano giovani boschi, appare una batteria di pale eoliche. Il Comune pensa bene ci sia bisogno di un parcheggio, e lo realizza, a ridosso dell’opera, dello stesso cemento bianco: da lontano sembra una metastasi del corpo quadrangolare del Cretto. Con lo stesso materiale si ripavimenta il pezzo di strada provinciale che ne lambisce un lato, slabbrandone la forma. Nessuna levata di scudi contro questi macroscopici interventi pubblici che violentano l’idea di Burri. Vandalismo istituzionale. 

L’idea di lanciare un appello in favore del Cretto, perché “si restaurasse e completasse e se ne assicurasse la conservazione a futura memoria”, mi venne un pomeriggio di inizio estate del 2010 parlando con Ludovico Corrao, già molto malato, ma non per questo rassegnato. Non poter vedere il Cretto finito era per lui motivo di grande tristezza. L’appello viene firmato da un centinaio di personalità dell’arte e della cultura e inviato al Ministro e all’Assessore regionale. Neanche due mesi dopo, in una nota congiunta del Ministero, il sottosegretario e l’assessore dichiarano che l’appello non rimarrà inascoltato. Il Ministero mette subito dopo a disposizione per il restauro 1.100.000 euro dei fondi del lotto. La Regione prende tempo per quanto riguarda il completamento, l’assessore insiste perché si ricorra ai privati. Non riesco a farlo ragionare. Comincio a pensare che bisognerà inventarsi qualcos’altro… 

Poi, il 7 agosto del 2011, Ludovico Corrao muore ucciso dal suo badante con un’esecuzione che sa di tragedia greca. Tre giorni dopo, sul sagrato della Chiesa Madre di Gibellina, mentre stiamo dando l’estremo saluto al Senatore, l’assessore Missineo mi prende sottobraccio e sull’onda dell’emozione mi dice che troverà i fondi necessari per il completamento, che lo deve anche a Corrao (e manterrà la promessa). 

L’ultima montagna il Senatore l’ha spostata con la propria morte. 

I lavori del Cretto sono stati completati qualche settimana fa. La parte nuova, del bianco candido voluto da Burri, evidenzia ancora di più il grigiore della parte vecchia, creando una stridente dissonanza. 

Cosa fare per assicurarne “la conservazione a futura memoria”? Come uniformare la parte vecchia con la nuova?

Della necessità che la manutenzione di quell’opera straordinaria avesse bisogno di un approccio altrettanto straordinario ne avevo parlato con Corrao. Per lui era 

chiaro che

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1 Stefano Zorzi, Parola di Burri, U. Allemandi & Co, 1995; p. 59.
2 idem
3 idem, pag 60

 

L’UTOPIA POSSIBILE DI GIBELLINA

 

Scrive Sciascia nel discorso che pronunciò a Gibellina il 15 gennaio 1988 per il ventennale del terremoto: «Lo Stato italiano – bisogna pur dirlo – non era pronto né incline ad accogliere un’istanza di ricostruzione che non fosse una ricostruzione della miseria: si sperava forse, appunto, nella fuga, nell’abbandono, “nell’aprir bottega altrove”; e ne è dimostrazione il fatto che la cosiddetta legge del due per cento, la legge che devolve il due per cento della spesa per le opere pubbliche agli abbellimenti artistici, sia stata sospesa e invalidata per la ricostruzione di questi paesi. Vietata l’arte, vietata la bellezza: quasi si volesse che tutto fosse più brutto di prima, che la gente non riconoscesse e non si riconoscesse. Intenzione o inconscio desiderio o semplicemente carenza, nella classe di potere, di una sia pur vaga idea di ciò che abbellisce la vita e la fortifica, che più volte, qui intorno, è andata a segno; ma che qui a Gibellina ha trovato un centro di resistenza. [Ludovico Corrao] ha dato insomma il senso che la vita non è altrove, ma che può essere anche qui».

Gli artisti rispondono all’appello di Corrao e la nuova Gibellina, che lo Stato voleva più brutta della vecchia, si anima d’arte. Negli anni Ottanta diventa un laboratorio permanente delle arti, un crocevia di artisti, e un museo a cielo aperto. Corrao riesce a convincere anche il non facile Burri a venire a Gibellina. Succede nell’estate del 1979.

L’idea gli viene la sera stessa: «Io farei così: compattiamo le macerie, che tanto sono un problema anche per voi, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti un perenne ricordo di questo avvenimento»2.

Per poter realizzare i lavori, Burri sogna la partecipazione attiva e fattiva dei gibellinesi (solo molto tempo dopo gli arriverà all’orecchio, e sarà motivo di grande tristezza, che a molti il Cretto non solo non piace, ma da più d’uno è vissuto come una violenza).

Per reperire fondi, materiali, forza lavoro, Corrao s’inventa mille stratagemmi. Coinvolge persino l’esercito che presta cinque ruspe e forza lavoro. Opera una sorta di geniale e benevola concussione ai «danni» dei costruttori che in quegli anni realizzano opere pubbliche a Gibellina Nuova: chiede loro di donare la costruzione di un po’ di Cretto. E accettano, contenti e orgogliosi di farlo. Allo Stato non può chiedere aiuto: e lui dà incarico ai tecnici del Comune di preparare un progetto in cui i lavori per il Cretto siano camuffati da «opere di sistemazione idrogeologica del vecchio sito urbano». Lo Stato ci casca e, raggirato dal genio di Corrao, diventa inconsapevole cofinanziatore del Cretto.

Nel 1985 la cosa inizia a prendere forma, a farsi spazio tra le macerie. Burri segue da lontano, attraverso l’amico Alberto Zanmatti. Zanmatti sarà il legame tra Burri e il Cretto di Gibellina. Ai tecnici e agli operai il compito di inventare soluzioni tecnologiche per tradurre quelle raccomandazioni in forma.

Qualche anno dopo, alla domanda se nel bozzetto fossero riportate anche le ondulazioni che caratterizzano le pareti del Cretto, Burri risponderà «no, quelle devono crearle di volta in volta con le tavole e le lamiere…. ma dico, devo insegnarglielo io il mestiere?»3.

Misura 270 per 310 metri. Ricopre come un sudario di cemento bianco le macerie del paese distrutto dal terremoto del 15 gennaio 1968. Al centro della Sicilia occidentale, in un territorio ad alta stratificazione culturale, sta a metà strada, in un ideale dialogo senza tempo di assoluta bellezza, tra le imponenti colonne della greca Selinunte, e la magnifica solitudine del tempio dell’elima Segesta. 

Burri arriva con tutti i suoi preconcetti sul Sud e i suoi abitanti. La nuova città non lo ispira, e non lo tenta l’idea di lasciare un’opera accanto a quelle di artisti che non ama: «Qui non ci faccio niente di sicuro»1. Ma poi visita i Ruderi – deve aver sentito quel silenzio rotto solo dal gracidare dei corvi, in quel paesaggio di colline che sconfinano fino al mare d’Africa – e quasi si commuove.

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il Cretto di Gibellina non era un’opera d’arte come le altre e che oltre l’idea c’è il dato oggettivo: è il sepolcro del vecchio paese, sotto la sua superficie di cemento realizzate non dalla mano del Maestro ma da muratori e carpentieri, ci sono i ricordi, la storia e le radici di tutta la comunità gibellinese.

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E’ un’opera attraversabile. Più che una scultura è architettura. Ed è stata pensata e voluta da Burri bianca, di un bianco talmente squillante da essere quasi disturbante. 

Burri, come già ricordato, avrebbe voluto che fosse la comunità di Gibellina a realizzarlo. D’altronde, la sua opera è stata donata alla cittadinanza, e la cittadinanza, sebbene espropriata del titolo di proprietà delle proprie case non più esistenti, ne è moralmente proprietaria e quindi custode. Anche su queste basi si ragionava con Corrao, e l’idea che il Cretto andasse ripulito e imbiancato periodicamente dalla comunità (con la calce, materiale povero che disinfetta e disinfesta, facile da usare, e che ci riporta a una tradizione di tutta l’aerea del Mediterraneo) ci sembrava l’unica strada percorribile. L’alternativa sarebbe un restauro conservativo di ispirazione brandiana, un modello giustamente diventato prassi nelle soprintendenze italiane, ma che ha i suoi limiti oggettivi e nessuna ragione valida che impedisca la sua revisione in presenza di opere contemporanee e inclassificabili qual’è il Cretto. Un modello che proprio partendo da una discussione sul caso specifico del Cretto potrebbe trovare validi e utili spunti per fare il punto, rinnovare, superare, anche attingendo da visioni e prassi diverse, prime fra tutte quelle di scuola anglosassone. 

Un’altra considerazione credo vada fatta, senza per questo volere piegare la filosofia che sta alla base di un intervento di questo tipo a ragioni puramente economiche. Non possiamo però far finta di non considerare i costi insostenibili di un restauro conservativo, e la necessità che esso venga ripetuto spesso. Chi dovrebbe sostenere tali costi? Il Cretto non deve morire, ma non può neanche trasformarsi in un buco nero di soldi pubblici. Anzi, dovrebbe diventare, grazie ad azioni mirate che ne assicurino la promozione e la visibilità, un bene culturale comune capace di attirare turisti e di conseguenza, se ben gestito, produrre economia. 

Ma il vero nodo da sciogliere per assicurare al Cretto un futuro sta nel rapporto tra il sito dei Ruderi e la sua gente. Il Cretto è stato vissuto all’inizio come un corpo estraneo, una violenza contro quelle macerie che nella loro povera fisicità erano però capaci di alimentare un rapporto fortemente sentimentale. L’iniziale rifiuto di quell’opera ha come aumentato la distanza fisica (18 km) tra la Nuova e la vecchia Gibellina, una distanza poi cresciuta per l’indifferenza verso un’opera lasciata a metà. 

La necessità di un restauro partecipato e attivato dalla Comunità parte prima di tutto come necessità di creare un nuovo rapporto con l’opera di Burri e con l’intero sito dei Ruderi. Ed è partendo da questa necessità che dovrebbe essere progettato e messo in atto. Dovrebbe prima di tutto essere un’opportunità per ritrovarsi in un momento di festa e rituale in cui la popolazione si riappropria del luogo e dei simboli a esso riconducibili. Dovrebbe essere non solo economicamente sostenibile, ma capace di produrre economia e quindi vantaggi diretti. E deve chiaramente servire a mantenere costantemente visibile l’idea di Burri, nella sua originale e fondamentale cromia.

Per la gente di Gibellina sarebbe un modo per rompere l’incantesimo dell’umana nostalgia di un passato mitizzato dall’evento tragico del terremoto e di quello che ne è seguito, per finalmente accettare il presente, e cominciare a investire nel futuro.

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Un restauro fatto in tale modo, coinvolgendo i molti artisti che hanno già dato disponibilità a partecipare, diventerebbe un evento perfetto per la comunicazione, uno strumento straordinario di promozione mediatica, estremamente efficace per attrarre volontari, pubblico, flussi turistici, e sponsor privati. 

Questi ultimi tre anni ho avuto modo di condividere quest’idea con restauratori, esperti di materiali del contemporaneo, storici dell’arte, curatori. Con artisti, musicisti, performer. Con le persone che più di tutte sono state vicine e hanno collaborato con il Maestro negli anni in cui si costruiva il Cretto. Con la gente di Gibellina. E con le istituzioni che devono decidere, Comune di Gibellina e Soprintendenza di Trapani. A parte queste ultime, legate all’idea di restauro conservativo, tutti hanno accolto con entusiamo l’idea e il suo senso profondo. 

Il progetto di Corrao incarnato da Gibellina, esemplarmente sintetizzato dal Cretto di Burri, fondato sull’idea mediterranea che la bellezza rigeneri in un approccio maieutico, sulla necessità di rivivere, riattivandoli, i miti fondanti della nostra civiltà, è stato finora, non a torto, considerato un’utopia.

Il restauro partecipato segnerebbe il passaggio tra l’utopia e il presente, e il Cretto, finalmente, diventerebbe l’opera d’arte totale che Burri sognava di realizzare.

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IL RITORNO DELL’URBANISTICA, LE CITTÀ IDEALI SOSTENIBILI di Giusto Puri Purini – Numero 1 – Luglio 2015

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progettata da Le Corbusier, che ne disegna e costruisce i palazzi governativi in mattoni rossi, il centro universitario in c.a., i grandi viali e le immense strade, dando al tutto un sapore “Ville Radieuse”, suo progetto utopico degli anni 30/40. L.C. è attratto dal socialismo di Nehru, e dalla sua volontà di portare l’India, leader allora dei paesi non impegnati, verso un destino futuro di equità. Tamara d’improvviso mi dice: “per vivere città ideali, ci vogliono esseri ideali…”. Certo, l’idealità è un grande deterrente, per il miglioramento della “specie”, ma poi nella realtà delle cose vi si frappone quel “lato oscuro dell’Urbanistica”, il collante che tiene insieme la base sociale, fattore imprevedibile e non razionale, che non è fatto di numeri e di grafici ma da scenari eticamente non compromessi, sana espressione della qualità della vita.

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IL RITORNO DELL’URBANISTICA, LE CITTÀ IDEALI SOSTENIBILI

 

Principi che purtroppo nel mondo occidentale sono stati disattesi, costruendo solo grandi dormitori senza vita, considerati oggi dei fallimenti urbanistici, come nella sua “Unite d’Habitation” di Marsiglia, ispirata alla casbah, di Algeri, ed in altri casi, come Corviale a Roma, Secondigliano a Napoli, lo Zen a Palermo, solo per citarne alcuni, Senza infrastrutture sociali ed economiche e scelte di fondo coraggiose, proiettate nelle “nuove” utopie della sostenibilità, che ricostruiscono il tessuto sociale, impoverito da molte scelte sbagliate e da una marcata “assenza”, questi grandi mammuth urbanistici implodono.
Non sarà forse in mezzo a queste vie che nasce inevitabile, come gli eventi naturali che ci circondano, la “CITTÀ IDEALE SOSTENIBILE”, regina degli altrimondi e sobriamente felice? E, torno in Italia, dove nella sua storia, tanti architetti-urbanisti hanno profuso nella scienza prima delle città stato e poi delle città aperte, profondi elementi umanistici, estetici, funzionali.
Nelle città stato, il principe, il mercante, il banchiere, l’artista, l’orafo, l’artigiano, il contadino ed altri ancora, formavano un variegato ed attivo mondo operoso, che rendeva la propria città, grande e potente, in un rivaleggiare evolutivo, di cui fruivano tutti.
Oggi non ci sono più alternative e dobbiamo gioco-forza spingerci verso questa terza via senza scordare gli insegnamenti del passato: IDEALITÀ, SOSTENIBILITÀ, COMPETIVITÀ.
Ci troviamo di fronte, per la prima volta, a dover agire in profondità nel nostro pianeta; i cambiamenti climatici, l’inquinamento, prodotto dalle fonti di energia tradizionali, ci spingono verso una grande rivoluzione, fondamentalmente verde…”Going green!” Senza perdere di vista l’occasione creata dall’apertura di enormi mercati, basati sull’anti-inquinamento, ed il risparmio energetico, un’occasione unica per tutti, una nuova globalizzazione del pensiero.
Diventeremo da consumatori, produttori individuali di energia, rimettendo in rete il surplus dei nostri consumi.

L.C., nella casbah di Algeri, un’altra tipologia urbana, ha a lungo studiato interazioni sociali, trovando una profonda armonia tra quel brulicare di popolo, di botteghe artigiane, di mercanti che accrescevano in modo esponenziale un’offerta di beni, che è alla base dello sviluppo di ogni comunità.

Una trasformazione epocale che muterà il globo nei prossimi decenni.

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Tamara, mia moglie, mi ha chiamato l’altro giorno dall’India, stava fotografando Chandigar, capitale dell’Utar Pradesch, voluta dal Pandit Nehru, presidente dell’India negli anni cinquanta e 

Addirittura la Cina, oggi la più grande inquinatrice, sta producendo velocemente nuove tecnologie per ridurre gli effetti negativi del suo sviluppo, in un frenetico gioco del “costruire e distruggere”!Riappropriarci, nel nostro paese, dei “Centri Minori”, per avviare prima che nelle grandi città questa trasformazione, sembrerebbe uno dei primi passi da compiere.
Quindi si prevede che entro il 2040, il 60% della popolazione mondiale graviterà e cozzerà come un asteroide intorno alle grandi megalopoli, e già questo impone una rilettura immediata di tutti i dati urbanistici fino ad ora considerati. Si va inevitabilmente verso una “Urban evolution”.
L’Urbanismo totale coinvolgerà come un gigantesco magnete tutta la nuova ricerca scientifica ed umanista, dall’economia, alla riorganizzazione e distribuzione delle nuove fonti energetiche, al processo dei rifiuti urbani, all’architettura sociale, alla riqualificazione urbana, alla viabilità…campagna che entrerà in città e viceversa, un gigantesco dentro-fuori, che conserverà in parte la cultura contadina, con orti e campi coltivati, con espressioni individuali e collettive della grande capacità di Arte in questo paese.
Alcuni esempi: Daniel Libeskind, parla di “People’s Power”, per sottolineare che non si parla più solo di edifici; gli architetti delle nuove “Green Cities” concentrano le loro attenzioni su 4 punti chiave: energia, acqua, rifiuti e trasporti, “Averting crisis”, di come le città stanno affrontando il problema dei cambiamenti climatici.
(Inserto del Financial Times, “The Future of Cities” del 8/8/2010).
Queste ricerche e questi nuovi parametri, serviranno soprattutto nell’importantissima battaglia da condurre in Italia, alla salvaguardia delle “Città Minori”(15-30mila ab.), serbatoi di vita da non svuotare ma da conservare e fare evolvere come beni preziosi per il nostro futuro. Un’attenzione quindi particolare a questi luoghi, spesso magie urbanistiche, sentinelle del territorio altrimenti esautorato.

Tra le miriadi di queste micro città nel territorio italiano, ne emergono due, in Sicilia, contrapposte storicamente ed esplosivamente, una all’altra: la neo razionalista “Gibellina Nuova”, ad occidente, dove le esperienze moderne italiane, si riallacciano
ad una architettura del mezzogiorno,

 immagine di un Mediterraneo non rovinato da geometri ed architetti analfabeti, ma sulle orme piuttosto di una tradizione già “cantata” ed espressa, nelle città minori della bonifica pontina, nelle architetture del dodecanneso ed in genere nelle colonie italiane…

e la tardo barocca Noto, nella Sicilia orientale, la cui nuova impostazione urbanistica fu affidata, agli inizi del 700, ad un nobile “sapiente”, l’arch. Giuseppe Lanza, duca di Camastra, che
riunì dalle famose scuole di Napoli, pensatori, scienziati,
architetti, ingegneri, artisti,

per disegnare lontano dalla città originale distrutta da un terremoto, un asse viario da est ad ovest che per quasi 2km, allineato sempre sulla stessa quota a metà collina, separa a monte (nord), i maestosi edifici del clero e della nobiltà, ed a valle (sud), l’amministrazione pubblica, il teatro, l’habitat popolare.
La città è circondata da centinaia di ettari di mandorleto, di vigne, vi cresce il carrubo, si vive quel dentro-fuori tanto auspicato dalle filosofie contemporanee. Ma oltre al turismo e all’agricoltura, non c’è niente, la gente vende e fugge.
A Gibellina nuova è l’Arte che fa da traino, attraverso progetti suntuosi di tanti artisti contemporanei, dal cretto di Burri, all’aratro di Pomodoro, al teatro di Consagra, felicemente sposati alle architetture e alle piazze di Samonà, Venezia, Ungers, Purini e tanti altri, ma ora i completamenti si sono tragicamente interrotti.
Rivitalizzare questi centri, e non solo con il turismo usa e getta, ma renderli “desiderabili”, quindi sostenibili e autosufficienti, anche per chi ci vive, attraverso analisi scientifiche precise e rigorose, è il compito delle amministrazioni pubbliche, del settore privato con i loro investimenti, e di questa nuova generazione che incalza irrequieta ma che va dotata di consapevolezza e di nuovo sapere.

Il principio base deve diventare salvare il “Centro Minore”, per creare nei luoghi stessi quelle premesse di stabilità e benefici equamente ripartiti, armonie per fortuna già raggiunte nel nostro paese da tanti insediamenti, e insistere nel mezzogiorno, luogo già così felicemente “speziato” in ogni ordine di sapori che aggiungervi la parola “Urbanistica” non dovrebbe rappresentare
un problema insuperabile.

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Il Belice come narra la storia, una volta era la vita, e come dice Lorenzo Barbera, si chiamava “Il fiume caldo”: era navigabile e vi fiorivano città e villaggi, un ecosistema armonico che i romani furono i primi a distruggere trasformando i delicati equilibri vigenti in monoculture a base di grano.
Nei 2 millenni successivi il Belice s’inaridì seccandosi nel periodo estivo e nacque tra la popolazione il sogno della diga che avrebbe ridato al territorio, con un nuovo regime delle acque, l’antico splendore.
Ma insieme, sempre ai romani, questa volta sotto forma d’invadenza statalista (vedi Ministri ed affini) in Sicilia e nel Belice in particolare, altre forze potenti, portatrici malsane di interessi privati, si erano messe di traverso per bloccare l’evoluzione sociale del popolo, ed il suo ingresso nel mondo contemporaneo.
Quella ricchezza che poteva derivare dalla natura “armonizzata” e che grande il pensatore contemporaneo Paul Hawken ha reso affermando che “Il capitalismo naturale è alquanto differente dal capitalismo tradizionale che ha sempre trascurato il valore monetario delle risorse naturali e dei servizi forniti dagli ecosistemi, senza i quali non sarebbe possibile alcuna attività economica oltre la vita stessa.
Il capitalismo naturale al contrario capitalizza le risorse e punta all’efficienza per riuscire a produrre di più con meno.
Ridisegna le logiche industriali sulla base di un modello che esclude gli sprechi e la produzione di rifiuti; sposta l’economia verso un flusso continuo di valori e di servizi, investe nella protezione ed espansione del capitale naturale esistente”… Era ben lontana da venire. Poi ci fu quell’attimo del 15 gennaio 1968, come racconta Lorenzo Barbera: “…il boato urta contro la crosta della terra e tutti i fili della luce del Belice si spezzano e la luce si spegne, il comò si inginocchia e la casa è una barca in balia delle onde…” Il terremoto del Belice!Tutti i sogni, i pensieri, le lotte, si sbriciolarono in un attimo e per le genti delle valli, che sognavano un mitico ritorno ad un passato felice, il destino cambiò per sempre.
Gibellina verrà ricostruita molti anni dopo (17 anni) tra incongruità, incompetenze, e vere e proprie vessazioni contro la popolazione, ora separandola, ora aggregandola, diversamente spostando i nuovi centri urbani lontani dagli antichi luoghi, quasi tutti.
Vi trionferà la nuova Urbanistica (Samonà, Quaroni, Gregotti e altri), ispirata alle new towns inglesi.
Ma nel Belice avviene qualcosa di sorprendente, soprattutto a Gibellina, dove il Sindaco dell’epoca (Ludovico Corrao), si batte affinché la ricostruzione fosse anche l’occasione per un grande rilancio culturale.

Decine di architetti, urbanisti, artisti, volontari, (Nicolin, Venezia, Ungers, Pomodoro, Consagra, Burri, Paladino, Purini, Attardi, Thermes, Schifano) e tanti altri…, si succedono negli anni dando a Gibellina quella fisionomia attuale

che la rende frammentaria ed incompiuta al suo interno, ma che lascia intravedere nel suo degrado, nel non finito, opere architettoniche ed artistiche straordinarie, che la pongono automaticamente, sulla via della rinascita, tra le eccellenze dell’avanguardia, europea e mondiale. Risorgere dalle ceneri e riscattarsi con l’Arte!
É su questa speranza che le nuove generazioni devono fondare le loro forze, almeno due dal ‘68 ad oggi si sono succedute, nel portare avanti progetti impossibili, contestati e spesso fatti abortire, ora è il momento di ripartire.

Il valore oggettivo di questo Parco Artistico è incalcolabile, vanno riprese le fila dei molti interventi, dalla manutenzione ai completamenti architettonici, dai servizi, alle attività collaterali e alla promozione su scala mondiale. Come spetta ad un luogo che
non è più solo “memoria”, ma incredibile museo-habitat a cielo
aperto.

Guardare nel futuro, come avrebbero desiderato, per l’oggi, i tanti Dolci, Barbera, Corrao per fare pace con il passato e le sue incredibili sofferenze.

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AL SUD, IN SICILIA, SI PUÒ FARE di Marcantonio Lucidi – Numero 1 – Luglio 2015

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Gesualdo Bufalino diceva che “bisogna essere intelligenti per venire a Ibla, una certa qualità d’animo, il gusto per i tufi silenziosi e ardenti, i vicoli ciechi, le giravolte inutili, le persiane sigillate su uno sguardo nero che spia”.
Bisogna essere intelligenti anche per viverci, a Ragusa Ibla, perché la bellezza da queste parti è un’abitudine che porta all’assuefazione del bello, alla cecità.
Allora la mente deve essere acuta e sempre pronta alla meraviglia, perché è lo stupore a generare pensiero e movimento.

AL SUD, IN SICILIA, SI PUÒ FARE

 

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Il Teatro Donnafugata, piccolo, poco più di novanta poltroncine rosse, il rosso teatro, non il rosso pompiere, i velluti rossi, gli arredi rossi, la luce calda e ampia dei lampadari, finalmente, non le illuminazioni del minimalismo contemporaneo che sono delle tirchierie della visione, sta dentro il Palazzo Donnafugata.
Il visitatore al corrente di cosa bisogna vedere per capire una città e la sua popolazione, sa che il duomo e il teatro gli daranno le prime fondamentali indicazioni.
Si racconta che nel XIX secolo la chiesetta di Palazzo Donnafugata fu trasformata in teatro.
Ancora oggi al palchetto regale s’accede direttamente da una porta interna: non le ricchezze, non i privilegi dinastici, le sete d’oriente, le perle del mare e i gioielli perduti dell’antica Palmira, ma una semplice porta che dalle stanze di casa apre al teatro ed è il segno di legno di un’aristocrazia dello spirito.
L’ingresso sta in via Pietro Novelli, il teatro è l’unico di Ragusa, possiede vari saloni e il vecchio magazzino per il legname è diventato il bar.
Durante la ristrutturazione, incominciata nel 1997 e finita nel 2004 con l’apertura della prima stagione di spettacoli, il palco è stato ripristinato e allungato in avanti in modo da ricreare le quinte e poter ricavare a livello del proscenio un piccolo golfo mistico per l’orchestra.
Sono stati restaurati gli ornamenti pittorici e le decorazioni originali riprendendoli dal soffitto e dando continuità fino alle pareti e ai palchetti.
Si è migliorata anche l’acustica, già ottima come era normale per un teatro del primo Ottocento, perché il rumore d’un laccio di scarpa allentato deve arrivare in fondo alla platea.
È stato Giovanni Scucces Arezzo, avvocato, mecenate, discendente dell’omonima famiglia e proprietario di Palazzo Donnafugata, a volere che il teatro tornasse ad essere un centro della polis.
Spinto dal sangue secolare della famiglia, evidentemente.
Gli avi Arezzo Donnafugata scrivevano personalmente le opere teatrali, le mettevano in scena e le interpretavano.
Ospitavano le compagnie ottocentesche che recitavano durante l’inverno per ripartire a fare gli scavalcamontagne in primavera e anche Vincenzo Bellini passò di qua e lasciò una sua partitura manoscritta con una dedica ai Donnafugata.
Adesso il teatro, sotto la direzione artistica di Costanza e Vicky Di Quattro ha una stagione di prosa che va dal cabaret al teatro sociale, dalla commedia comica alla Commedia dell’Arte, con artisti del “continente” ed isolani, e concerti, mostre, presentazioni.
E soprattutto ha una cosa da dire con la sua esistenza: che si può fare.
Al sud, in Sicilia, si può fare.
Luchino Visconti sarebbe stato contento.

 

VIAGGIANDO VERSO IL SUD: LA MYRRHA DI ATI di Venera Coco – Numero 1 – Luglio 2015

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non poteva non sentire la necessità di forgiare per esso un nome che potesse tradurre il senso della propria scelta. Nella fucina del proprio pensiero ha preso forma un termine che più di altri ricorda la cultura mediterranea, la Mirrah che da sempre accompagna l’immaginario attraverso i deserti, le dune, le essenze e i colori di popoli dai mille segreti. Le leggere sfumature che ricordano l’ambra, l’ocra profumata delle ginestre che spezza le braccia robuste e scure della lava, la fragranza sparsa dalle sue ali polverose, non possono non ricordare le terre, che come in una danza, volteggiano sul Mediterraneo, abitate da popoli così diversi eppure così simili da intrecciare i loro canti.

Non a caso i canoni della bellezza classica esaltano il semidio Adone che nasce proprio dalla dea Mirra e perfino Ati – divinità della rinascita della vegetazione – usava impomatarsi i capelli con l’unguento dal nome divino.
Allora appare chiaro come quel nome, misterioso e soave, riesca ad indicare ogni piccolo dettaglio di una cultura che ripercorre le orme antiche per tracciare un nuovo cammino, uno slancio verso nuove interpretazioni, visioni che si proiettano verso il futuro, nel tentativo di rappresentare lo stile, l’inventiva e il talento di giovani designer.

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VIAGGIANDO VERSO IL SUD: LA MYRRHA DI ATI

 

Ed è proprio nel Sud Italia che si verifica questo miracolo; malgrado venga considerato ‘periferia di un’Europa produttiva’ è stato, quasi timidamente, il polmone che ha consentito alla Milano modaiola di andare avanti, gloriosamente. Qui si sono formati alcuni dei designers più influenti degli ultimi quarant’anni. Domenico Dolce a Polizzi Generosa in provincia di Palermo, Gianni Versace a Reggio Calabria, Marella Ferrera a Catania, Ennio Capasa a Lecce, Antonio Marras ad Alghero, tutti hanno permesso che il loro background fosse un punto di forza, non un’eredità di cui vergognarsi, tantomeno un “minus” di cui tener conto. 
Hanno saputo creare un espediente, una frenesia espressiva e comunicativa che solo chi vive al Sud può comprendere, un caotico ed eccitante big bang, un humus creativo che ha germogliato in tanti altri confini stilistici, rafforzandone la coscienza e la voglia di fare. Francesco Scognamiglio, Tommaso Aquilano, Fausto Puglisi, Maurizio Pecoraro, Marco De Vincenzo, Luisa Beccaria, Antonio Berardi, Carlo Alberto Terranova hanno raccolto il testimone per passarlo a loro volta al talento di altri giovani designer, che interpretano il loro essere “mediterranei” non come uno svantaggio, ma piuttosto come una meravigliosa risorsa. Nuove forme, nuovi colori e tessuti sono nati dall’estro di Claudio Cutugno, Ivano Triolo, Piccione•Piccione, AntPitagora, Vincent Billeci, Nhivuru, Francesco di Giorgi, Alessandro Enriquez, Daniele Carlotta e Sergio Daricello, fino alla realizzazione di un prodotto esclusivo nel quale sono presenti la forza e l’energia che questa terra conserva nelle sue viscere. La storia e la bellezza hanno reso unici questi luoghi, su cui aleggia il profumo della Mirrah. Basterebbe solamente tenere fra le dita i manufatti creati con tale maestria per riportare alla memoria di ciascuno le radici di una terra incantevole, spesso incompresa, che vuol guarire le sue ferite spargendo sale.

 

LA RICCHEZZA NASCOSTA NEL POVERO MEZZOGIORNO – PARTE 1 di Carlo Curti Gialdino – Numero 1 – Luglio 2015

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archeologica impietrita nel tempo dalla terribile eruzione del Vesuvio del 79 d.C.; non solo perché tutta la striscia prospiciente il mare della Campania, a partire da Napoli, metropoli sin dall’antichità e le testimonianze delle varie dominazioni, è un concatenarsi di ritrovamenti archeologici noti (Pozzuoli, Paestum) e meno noti (Pontecagnano e i suoi reperti Etruschi); e, saltando alla Sicilia vi sono stratificazioni mozzafiato, di civiltà anche autoctone sovrapposte a civiltà, come la mitica torta sette veli che si gusta a Messina; senza dimenticare che ogni altra Regione meridionale, in varie epoche, ha ospitato vestigia di un glorioso passato. 
Il Mezzogiorno, insomma, è uno scrigno di tesori mai davvero presi in considerazione per diventare volani di sviluppo, Pompei compresa, pur essendo, insieme al Colosseo, il sito archeologico italiano più visitato.

E non solo perché qui c’è Pompei e la sua area 

L’unico problema per il locale a piano terra destinato a coronare il suo sogno era la creazione dei servizi igienici. Lo scolo aveva problemi di riflusso. Per cui, il signor Faggiano arruolò i suoi due figli maggiori per aiutarlo a scavare ed investigare sulle cause dell’inconveniente. Aveva previsto che per i lavori ci sarebbe voluto giusto una settimana. Se solo non avessero impattato in una sorpresa… “Trovammo corridoi sotterranei ed altre stanze, quindi continuammo a scavare” dice il sig. Faggiano, che ha sessant’anni. La sua ricerca del canale di scolo, che iniziò nel 2000, divenne una storia familiare di ossessioni e scoperta.

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LA RICCHEZZA NASCOSTA DEL POVERO MEZZOGIORNO

PARTE I

 

Si organizza il minimo indispensabile, quello utile a tour promozionali in fiere del turismo, dalla milanese BIT ad altre più esotiche, rivelandosi questo tipo di politica arida di risultati, se non per chi se ne va in giro per il mondo a fare il promoter delle bellezze meridionali.
Eppure, all’estero, pur non possedendo neanche la millesima parte dell’intrigante intreccio fra storia, cultura, località godibili del nostro Sud, riescono a fare grandi flussi turistici.
Situata nel tacco dello Stivale italiano, Lecce era un punto nevralgico del Mediterraneo, ambita dagli invasori per tale posizione strategica. Dai Greci ai Romani, fino agli Ottomani, i Normanni ed i Longobardi.
Per secoli, una colonna di marmo del santo patrono di Lecce, Oronzo, ha dominato la piazza centrale della città, fino a che, gli storici, nel 1901, non hanno scoperto un anfiteatro romano che si estendeva sotterraneamente per tutta quell’area ed hanno spostato la colonna per poter fare gli scavi.
“I primi insediamenti a Lecce risalgono ai tempi di Omero, o almeno così dice la leggenda”, dice Mario De Marco, storico e scrittore locale, rilevando che gli invasori sono stati attratti dalla posizione d’oro della città e dalle prospettive di saccheggio. “Ognuna di queste popolazioni è venuta e ha lasciato una propria traccia”.
Severo Martini, assessore alla Pianificazione territoriale e all’Urbanistica del Comune di Lecce, afferma che i reperti archeologici vengono alla luce regolarmente e possono rappresentare un bel problema per la pianificazione urbana. Un progetto per un centro commerciale ha dovuto essere ridisegnato dopo la scoperta di un antico tempio romano sotto il sito del parcheggio. “Ogni volta che si scava un buco” dice “secoli di storia escono fuori come niente”. Come per la famiglia Faggiano.

Tutto quello che Luciano Faggiano desiderava, quando acquistò l’anonimo palazzo a via Ascanio Grandi 56, era di aprire una 

trattoria.

Un nome assai simbolico, in quanto proviene da greco e significa “Vedimi, sono la vita”. “Continuavo a scavare per realizzare il mio accesso alla fogna”, dice. “Nel contempo, però, ogni giorno speravamo di trovare nuovi manufatti”. Gli archeologi spinsero il signor Faggiano ad andare avanti. Oggi, l’edificio si è trasformato nel Museo Faggiano, un Museo archeologico privato, autorizzato dal Comune di Lecce.
Scale in metallo consentono ai visitatori di scendere nelle camere sotterranee, mentre le sezioni di pavimento in vetro servono ad ammirare le stratificazioni storiche dell’edificio. Rosa Anna Romano, una docente operante presso il Museo, è la vedova di uno speleologo dilettante che ha contribuito a scoprire la Grotta di Cervi, una grotta sulla costa vicino Lecce, verso Otranto, decorata con pittogrammi neolitici. Per saperne di più, vi consiglio di consultare il sito www.museofaggiano.it.
Con molta sorpresa, scoprirete che è tradotto in 9 lingue, compreso russo, cinese e giapponese. Certamente, il MiBACT del Ministro Franceschini ha da imparare, con quel suo sito ‘verybello’ che a stento parla inglese! Intanto, però, lo stesso Ministero ha comunicato la disponibilità di Fondi europei 2014 – 2020 per sostenere iniziative culturali nel Mezzogiorno. Ecco la comunicazione divulgata dal Ministero: “La Commissione Europea ha approvato il programma operativo “Cultura e Sviluppo” 2014 – 2020 cofinanziato dai fondi comunitari (FESR) e nazionali, per un ammontare complessivo di circa 490,9 milioni di euro, che vede il MiBACT nel ruolo di amministrazione proponente e Autorità di gestione. Il Programma Operativo Nazionale (PON) “Cultura e Sviluppo” 2014 – 2020 è destinato a 5 regioni del Sud Italia – Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia –  ed ha come principale obiettivo la valorizzazione del territorio attraverso interventi di conservazione del patrimonio culturale, di potenziamento del sistema dei servizi turistici e di sostegno alla filiera imprenditoriale collegata al settore. Gestito dal MiBACT, il PON dà attuazione alle scelte strategiche ed agli indirizzi definiti dall’Accordo di Partenariato (AdP) tra l’Italia e la Commissione Europea.

Il signor Faggiano trovò tracce di un mondo sotterraneo che risaliva a prima della nascita di Gesù: un tomba messapica (antica popolazione italica stanziatasi nella Murgia meridionale), un granaio romano, una cappella francescana ed altri dipinti dei 

Cavalieri Templari,

dalla vicenda così controversa, perseguitati dal re Filippo il Bello di Francia. Ma quella è un’altra storia. Se vi capita, approfonditela. La trattoria è ora diventata un museo, dove i ritrovamenti sono esposti. ‘Gli uomini di casa’ scoprirono un piano nascosto che portò ad un altro piano in pietra medievale, che portò a sua volta ad una tomba dei Messapi, i quali vivevano nella regione secoli prima della nascita di Gesù. Presto la famiglia scoprì una camera usata per conservare il grano dagli antichi romani e la cantina di un convento francescano in cui le suore, al tempo, preparavano i corpi dei morti alla sepoltura. Le Forze dell’Ordine arrivarono e bloccarono gli scavi, intimando di non addentrarsi in siti archeologici abusivi. Il presunto ‘tombarolo’ rispose loro che stava solamente cercando di costruire un tubo di scarico.
Passato un anno, finalmente gli fu permesso di riprendere la sua ricerca per il tracciamento della fogna, a condizione che i funzionari della Sovrintendenza partecipassero ai lavori. Emerse, così, un tesoro sotterraneo costituito da antichi vasi, bottiglie devozionali romane, un antico anello con simboli cristiani, manufatti del Medioevo, affreschi nascosti ed altro. “Abbiamo trovato – dice Luciano Faggiano – molto vasellame di epoche diverse. C’erano due tombe, ma una era stata svuotata già ai tempi della costruzione dello stabile, nel 1933.
Le poche monete, molto corrose, frutto degli scavi sono ora allo studio della Sovrintendenza. Non so, dunque, di che epoca sono. Mi ha colpito l’anello, che doveva essere un anello da sigillo, tant’è che lo abbiamo ritrovato ancora sporco di ceralacca. Era in oro, almeno laminato su altro metallo, con uno stemma indimenticabile: l’ostia consacrata. E’ impressionante, il disegno richiama molto quello che ora Papa Francesco ha assunto come suo stemma. Sarebbe bello che lo vedesse.
”La casa dei Faggiano ha livelli che sono rappresentativi di quasi tutta la storia della città, dai Messapi ai Romani, dal Medioevo fino all’età bizantina”, dice Giovanni Giangreco, funzionario del Ministero dei Beni culturali, ora in pensione, coinvolto nella supervisione degli scavi. I funzionari della Sovrintendenza, intuendo di essere di fronte ad una grande scoperta, portarono un archeologo sul sito, anche se i Faggiano si sono accollati i lavori di scavo, sostenendone le spese. Il signor Faggiano, cuoco provetto, continuava a sognare ancora una trattoria anche se, ormai, il progetto era diventato la sua Moby Dick. Intanto ha fondato un’Associazione culturale, denominata “Idume”, dal nome del fiume che scorre sotto la città di Lecce.

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L’Accordo individua tra gli obiettivi tematici la protezione, promozione e sviluppo del patrimonio culturale, considerato asset potenzialmente decisivo per lo sviluppo del Paese, sia in quanto fattore cruciale per la crescita e la coesione sociale, sia per gli effetti e le ricadute positive che esso è potenzialmente in grado di determinare nei rispetti del sistema dell’industria turistica.
Il Programma ha una dotazione finanziaria di 490,9 milioni di euro, di cui 368,2 milioni di euro a valere sui fondi strutturali europei (FESR) e 122,7 milioni di euro di cofinanziamento nazionale.
Il PON “Cultura e Sviluppo” 2014-2020 viene attuato attraverso una filiera corta e diretta: il MiBACT Amministrazione titolare del Programma si avvale delle sue articolazioni territoriali (Segretariati regionali, Poli museali, Soprintendenze) nell’ambito di una strategia di raccordo e di coordinamento con le Amministrazioni regionali delle cinque regioni interessate, con le quali saranno sottoscritti specifici Accordi Operativi di Attuazione (AOA)”.
Nulla cambia circa la necessità di coinvolgimento delle autorità regionali, in passato piuttosto inerti in materia, tant’è che ci sono state tantissime volte che si è corso il rischio di perdere i Fondi pur attribuiti, proprio a causa dell’incapacità progettuale delle stesse.
Si spera, invece, che ora, messe sotto il microscopio proprio per gli errori del passato, le Regioni siano più efficienti nella loro azione. Molto si potrebbe fare, però, se i cittadini, pur se attanagliati dalla crisi, fossero più propositivi e meno rassegnati. Propositivi come il signor Faggiano di cui vi ho raccontato.
Da queste pagine, parte un appello affinché vi sia maggiore partecipazione e minore lamentazione.
La filosofia dell’armiamoci e partite, se protratta, non consentirà al Sud di mettere in pista i suoi beni straordinari: un’eredità che è davvero un peccato dilapidare!

 

STREGATI DALL’ARTE LA COLLEZIONE D’ARTE CONTEMPORANEA BERLINGIERI, ECCELLENZA ITALIANA NEL MONDO di Luce Monachesi – Numero 2 – Ottobre 2015

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Poi ereditano il castello avito a San Basilio, in Basilicata, appartenuto a Emma sorella dell’Imperatore Federico II di Svevia, (poi divenuto monastero benedettino) e, in anni più recenti Palazzo Mazzarino a Palermo. A questa coppia unitissima di straordinari mecenati il merito di averli restaurati e fatti diventar gioielli dell’Italia del Sud.

Eravamo incuriositi dalle opere di artisti contemporanei che nostro cugino Niccolò Leonardi e il suo amico Giuseppe Panza di Biumo collezionavano da tempo. Approfittammo del ritardo della nascita della nostra primogenita Lydia nel 1968, per impiegare il nostro tempo visitando le gallerie d’arte di Milano. Ci imbattemmo in una straordinaria opera di Fontana: avemmo entrambi un colpo di fulmine e l’acquistammo immediatamente. Decidemmo così di iniziare una collezione di artisti contemporanei. Per non danneggiare le nostre figlie con investimenti sbagliati, però, cominciammo anche ad acquistare opere di artisti tradizionali alle aste, in provincia, rivendendole in città. Con il ricavato acquistavamo opere di avanguardia.

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STREGATI DALL’ARTE 
LA COLLEZIONE D’ARTE CONTEMPORANEA BERLINGiERI, ECCELLENZA ITALIANA NEL MONDO

 

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Come è nata questa vostra passione?

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Colti, eleganti, curiosi, e con grande sense of humour, i Marchesi Berlingieri mi ricevono nella loro luminosa e bella casa romana. Alle pareti, con leggerezza, opere di grandi artisti contemporanei.
Ci conosciamo da molti anni con Annibale e Marida Berlingieri, da quando iniziarono ad occuparsi d’arte d’avanguardia, dopo essere stati circondati da sempre da capolavori del passato, tra cui le sculture di Canova a Palazzo Treves a Venezia della madre di Annibale.

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Quale è stato il primo artista al quale avete commissionato un’opera?

Christo che, a San Basilio, impacchettò nel 1970 una delle carrozze del castello, servendosi anche dei sacchi di iuta del granaio.

La collezione contiene anche opere di artisti di Paesi che si affacciano sul Mediterraneo?

Abbiamo opere, tra le altre, di El Anatsaui e Konatè.

Quante volte opere della collezione hanno rappresentato l’Italia all’estero o sono state esposte in musei italiani?

Molte volte. Per esempio, l’opera di Bruce Naumann “Around the corner” è stata spesso in mostra a New York e Los Angeles. Per quanto riguarda il nostro Paese, abbiamo prestato molte, tra cui quella di Tony Ousler al MAXXI di Roma e sempre a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, il lavoro di Bill Viola “Emergence”.

Un episodio che riguarda la vostra attività di collezionisti?

Non un episodio ma due, riguardanti entrambi quest’ultimo artista. Di lui avevamo apprezzato l’intervento alla Cappella dell’Ospedale della Salpêtrière a Parigi. Pensammo quindi a lui per un intervento nella nostra cappella sconsacrata in prossimità di San Basilio, ma non riuscivamo a trovare nessuna galleria che si occupasse della sua opera. Finalmente ci riuscimmo attraverso Leo Castelli, il grande gallerista di New York che ci fornì il suo telefono. Lo contattammo e acquistammo a Londra una delle tre copie di “Emergence” che, poi, l’anno successivo Bill Viola venne a vedere installata nella nostra cappella. La prestammo in seguito altre volte tra cui quella al Palazzo delle Esposizioni. In questa occasione, il cardinale Ravasi fu talmente entusiasta dell’opera e dell’arte contemporanea, che decise di aprire il padiglione dello Stato Vaticano alla Biennale di Venezia.

Qual è l’ultimo arrivo nella vostra collezione?

Una opera di Gonçalo Mabunda, artista mozambicano invitato alla attuale Biennale di Venezia.

Quale è per voi l’artista più singolare?

E’ difficile rispondere perché lo sono tutti, ma in questo momento viene da pensare a Cady Noland che vive del tutto isolata in una metropoli come New York. E’ contattabile solo per fax, ma allo stesso tempo partecipa attivamente a tutte le lotte a favore dei diritti civili.

Progetti futuri?

Dopo i lavori di restauro di Palazzo Mazzarino a Palermo, abbiamo invitato importanti artisti a eseguire nuove opere, anche site specific. Il risultato è stato così incoraggiante da spingerci a ristrutturare anche l’ala della Cavallerizza per ampliare la collezione. Molti degli artisti di cui possediamo le opere sono diventati anche amici e sono spesso nostri ospiti insieme a esponenti del mondo dell’arte.

In famiglia chi ha ereditato la vostra passione per l’arte e il collezionismo?

Nostra figlia Lydia e suo marito Pier Vittorio Leopardi collezionano dagli anni ‘90 opere di fotografi tra cui Nan Goldin e Vanessa Beecroft, e adesso anche opere di altro genere. Nostra nipote Aloisia lavora a Londra in una fondazione che promuove artisti africani emergenti.

 

LA RICCHEZZA NASCOSTA DEL POVERO MEZZOGIORNO di Carlo Curti Gialdino – Numero 2 – Ottobre 2015

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‘misteriosa’ villa extraurbana rinvenuta nel 1963, oltre 50 anni fa, per puro caso, nel corso di lavori infrastrutturali. 
E’ completamente lontana dagli itinerari turistici, Casignana, neanche mille abitanti, e la sua collocazione evoca echi inquietanti. Si trova, infatti, nella Locride, in provincia di Reggio Calabria. Un nome spesso ricorso nella cronaca nera, che richiama alla memoria faide senza fine e un sistema malavitoso pervasivo. 
Sotto il profilo amministrativo, al momento, tutto è congelato e i Commissari prefettizi gestiscono l’ordinaria amministrazione, ovvero non si possono avviare iniziative atte a valorizzare questo prezioso tesoro cittadino, azione promozionale e culturale per cui da anni si batte l’on. Pietro Crinò, oggi consigliere regionale. 

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LA RICCHEZZA NASCOSTA DEL POVERO MEZZOGIORNO

PARTE II

 

 

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I mosaici ubicati in località Palazzi di Casignana, molto vicina al Mar Ionio fanno parte di una 

un tesoro preziosissimo, i cui mosaici gareggiano in bellezza, raffinatezza, straordinaria qualità artistica con quelli di Piazza Armerina e di Pompei.

E’ dello scorso 31 luglio, infatti, la delibera del Consiglio dei Ministri di prorogare lo scioglimento del Consiglio comunale di Casignana, per infiltrazioni della ‘ndrangheta. Inizialmente, il provvedimento era stato emanato il 18 aprile 2013. Una realtà sociale e amministrativa bloccata dalla situazione dell’ordine pubblico così degradato, pur avendo splendide prospettive per il tesoro archeologico che custodisce nel suo territorio, qualora se ne sapesse indirizzare bene il marketing territoriale presso le grandi agenzie di viaggio ed i siti turistici…
Ma torniamo al bello che i nostri avi seppero costruire (magari altrettanto ‘inquietanti’ di quelli di oggi nei loro vertici, ed altrettanto avidi, la storia ce lo insegna, ma con l’orgoglio di lasciare un segno alla posterità) e che noi, loro eredi, stupidamente vandalizziamo. 
Ci sono voluti 36 anni affinché, da quei casuali ritrovamenti in Contrada Palazzi, da parte delle maestranze della Cassa per il Mezzogiorno, impegnate nella posa di un acquedotto, il sito di 15 ettari fosse oggetto di una serie di campagne di scavo che ci hanno restituito

Al disvelamento di quest’opera, la Regione, inserendola nei Fondi europei, ha previsto un finanziamento di 2,5 milioni di euro, cifra che, in un paese normale, basterebbe senz’altro a recuperare un simile tesoro.

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L’assoluto isolamento della Calabria dalle rotte di un turismo non stagionalizzato, che non sia quello estivo, balneare, è la dimostrazione che, accanto alle cattedrali nel deserto industriali, esistono quelle culturali, archeologiche, straordinarie eredità di cui sembra non sappiamo cosa farcene. 
Gli stessi Bronzi di Riace che, al loro ritrovamento e nei primi tempi di esposizione, suscitarono clamore e file di turisti, ora sono stati restituiti al Museo da cui provenivano, sottoposto a lunghi restauri, ma a lungo sono stati un ammennicolo del Palazzo della Regione. 
Arrivare a Casignana è difficile. Ma soprattutto è difficile un’opera di marketing territoriale che tenga conto degli svantaggi competitivi dell’area. Manca persino un punto di partenza, ovvero un’amministrazione comunale in carica. Quei 2,5 milioni di euro al momento affidati al SUAP (Sportello Unico Attività Produttive) per realizzarne l’appalto servirebbero per continuare a scavare oltre gli 8mila mq già svelati;

per capire che ci fa un tesoro proprio lì; e di chi fosse quella villa, sorta in un pizzo di mondo piuttosto incongruo nella logica territoriale dell’antica Roma,

anche se si ritiene che essa sia sorta lungo la strada che collegava Locri Epizefiri e Rhegion (l’antica Reggio Calabria); ed è l’unico reperto romano in un mondo magno-greco.
L’attuale parco si compone di oltre 20 ambienti, con un cortile centrale, su cui si affacciano le terme, un giardino ove era collocata una fontana monumentale; i servizi; la zona residenziale vera e propria.
Le terme replicano quelle presenti nell’antica Roma: hanno i loro frigidariumtepidarium e calidarium. Accanto a quest’ultimo, c’è il laconicum, dove c’erano le saune (essudationes), dove il riscaldamento si realizzava attraverso i praefurnia (bocche da forno, collocati sotto il lastricato. Tutto questo sistema si è conservato fino ai giorni nostri ed è visibile ancor oggi.

Le vestigia più pregevoli sono rappresentate dalle pavimentazioni musive. Importantissima è quella della ‘sala delle Nereidi’,

dove, con tessere bianche e verdi viene rappresentato un thiasos marino da cui emergono quattro Nereidi (Ninfe marine), ognuna in groppa ad un animale simbolico: un leone, un cavallo, un toro ed una tigre.
Nella sala d’ingresso a Sud, è emersa l’immagine di un volto femminile, composta a tessere in colori vivacissimi e circondata da girali vegetali. 
Lascia sbalordita la bellezza della Sala delle Quattro Stagioni, ovvero la sala triclinare; ed è in corso di scavo l’anfiteatro. E’ stato altresì rivelato un altro pavimento, con un Bacco ebbro sorretto da un giovane Satiro, che versa vino da un’anfora. Non finisce qui. Vari avvistamenti casuali fanno ipotizzare che proprio lì davanti ci siano reperti in mare altrettanto preziosi. 
C’è anche la vecchia storia della Sfinge, di sofisticata fattura, ritrovata dallo scrittore Axel Munthe, capitato per caso proprio in questo luogo ed ora installata a Capri, a Villa San Michele. Non sarebbe il caso che tornasse a casa?

 

IL SAPORE DELL’INCOSTITUITO, OVVERO LA SULFARA TULUMELLO di Alessandro Gaudio – Numero 2 – Ottobre 2015

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È mediante uno strumento naturale di osservazione che si può connettere l’opera di un pittore, di un poeta, di un romanziere o anche di un filosofo, di un fotografo, di un musicista o di un artigiano a un luogo geografico, sempre che sia individuato con la massima precisione storica, oltre che geografica. Tale spazio particolare non è necessariamente quello in cui l’artista in questione è nato o nel quale svolge la propria attività, ma è a questa che si riannoda per un qualche rispetto ed è, ovviamente, situato a Sud. Muovendosi lungo il nesso tra arte e realtà a essa contingente, impugnando la storia, la geografia e la scienza della cultura occidentale e dei suoi limiti più estremi (quelle meridionali),

IL SAPORE DELL’INCOSTITUITO, OVVERO LA SULFARA TULUMELLO

 

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partecipa alla costruzione della realtà, anticipando gli approdi delle scienze umane o, magari, contribuendo a un loro assetto più funzionale.

È questa la via difficile di un moderno umanesimo che si snoda oltre i margini d’espansione della civiltà tardocapitalistica e che consente, al contempo, di sviluppare la coscienza di una nuova dimensione mediterranea; ovvero, di delineare una nuova mappa del Meridione che serva a guidare i lettori di «Myrrha» lungo un itinerario (intellettuale, ma non soltanto d’arte) mai percorso prima, un nuovissimo compendio dell’inattualità meridiana, nel cuore della cultura europea. Per far ciò, si riproduce un lavoro dell’artista scelto, accompagnato da una ricognizione critica che ne delinei sinteticamente le peculiarità ed, eventualmente, le connessioni con il luogo corrispondente.
Inizio con Agostino Tulumello, un artista nato nel 1959 a Montedoro, borgo situato a circa venti chilometri a ovest di Caltanissetta, vicino a Racalmuto, a Canicattì, a Serradifalco, in Sicilia.

I fili dell’opera intessuta da Tulumello − allo stesso modo − restituiscono l’estensione singhiozzante della realtà e del modo in cui essa viene percepita, avviluppata dai sensi come tra le spire brulicanti e ammaliatrici di un serpente d’acqua

Nelle sue opere egli è solito individuare un elemento visuale primigenio che, scelto per la sua elementarità, possa rinviare al processo (anche psicologico) della creazione, all’interno del quale si preparano le relazioni tra gli elementi, le gradazioni pittoriche e la prospettiva.

 

1 A. Pizarnik, Árbol de Diana [L’albero di Diana, 1962], in Ead., La figlia dell’insonnia, Milano, Crocetti, 2015, p. 38. Si riporta la traduzione di Claudio Cinti, curatore dell’unica raccolta antologica della poetessa argentina pubblicata in Italia: «Questi fili imprigionano le ombre / e le obbligano a render conto del silenzio / questi fili uniscono lo sguardo al singhiozzo» (ivi, p. 39). 
2 Sulla dimensione frattale esibita nell’opera di Agostino Tulumello e sullo schema iterativo e omotetico tipico del suo tratto si rimanda a A. Gaudio, Consistenza e caso. Idea e confini del neodadaismo da Cage a Pleynet e oltre, «Diacritica», a. I, fasc. 1, 25 febbraio 2015, pp. 49-60, in particolare pp. 52-54; ma si veda anche Id., Al di qua del linguaggio. La concezione scritturale dell’opera di Agostino Tulumello, «Rivista di Studi Italiani», a. XXXIII, n. 1, giugno 2015, pp. 793-796.

 

Nelle tele della serie di cui fa parte l’opera qui riprodotta, denominata Scrittura come cibo, egli tenta − come è sua consuetudine − di congelare alcuni degli elementi che poi precipiteranno nella figurazione e, pertanto, nella determinazione del gusto. Cosa accade nel processo di figurazione di un’opera d’arte prima che il gusto si orienti? Sembra che l’interesse di Tulumello verta intorno a tale questione; tuttavia, ci troviamo ben al di qua rispetto alla poesia gastronomica di Franco Verdi, esperimento ironico e irriverente nei confronti dell’atto creativo disimpegnato, precostituito e inscatolato; eppure, si può guardare a quell’operazione portata avanti dal poeta visivo veneto nel 1969 per comprendere meglio il valore del godimento per l’incostituito, proposto dal pittore siciliano. A questo stadio (quando ancora non ha fame), il processo sensoriale non va alla ricerca delle sottigliezze della modulazione del gusto, del sapore; mira, invece, a un concentrato di senso, inodore e insapore appunto, a un’immagine persistente o consecutiva che non segni il verso di una definizione; ricompone una totalità integrale, una grandezza sensoriale intera, colta nella sua indivisibilità non ancora orientata.
Guardando i segni grafici di Tulumello e facendo un ulteriore passo all’indietro, torna alla mente ciò che, nel 1962, sosteneva la poetessa di Buenos Aires Alejandra Pizarnik a proposito di un disegno di Wols, pseudonimo di Alfred Otto Wolfgang Schulze, pittore informale berlinese: «Estos silos aprisionan a las sombras / y las obligan a rendir cuenta del silenzio / estos silos unen la mirada al sollazzo».1

(della biddrina, magari, l’animale mitologico ferocissimo che vive nelle campagne di Caltanissetta), allorché il significato di quella realtà non ha ancora raggiunto un’estensione riconosciuta, un spazio di quiete. Lo spazio dell’opera di Tulumello coincide con l’inferno fisico fatto del dedaleo e folto andirivieni delle volute e dei nodi del serpente o, anche, delle esalazioni dello zolfo di Sicilia: esso è ridondante come l’eco dei colpi di piccone che, sino alla fine degli anni Cinquanta, risuonavano nelle miniere di Montedoro, nel cuore dell’altopiano gessoso-solfifero dell’isola; esso è opprimente così come l’alternarsi dei pieni e dei vuoti nell’attesa che il linguaggio dia forma ai versi della Pizarnik.
Il senso del progetto artistico di Tulumello è da includere, così, nella tradizione non figurativa e neodadaista che, muovendo dalle scritture bianche del pittore americano Mark Tobey, passa dai lavori poetico-visuali dell’artista belga Paul De Vree e, magari, arriva alle figure, geometriche o no, e agli ideogrammi dell’uruguaiano Clemente Padin e ad alcune espressioni della transavanguardia italiana (quella del già citato Verdi, ad esempio); esso non deve essere ricercato al di fuori di questa significazione originaria perché è proprio a partire da essa che ogni pensiero razionalizzato si dispiega: mostrando lo stato nascente dell’idea, l’artista di Montedoro riflette sulla funzione dell’immaginazione, sulla facoltà del possibile e, dunque, sull’efficacia stessa dell’immaginario. È in questo luogo che il tratto significante della scrittura si coniuga strutturalmente con il suo elemento figurativo, pur non essendo ancora decifrabile.2

 

LA CASA DELLE MUSE di Antonio Genovese – Numero 2 – Ottobre 2015

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Sulla collina
Io certo vidi le Muse
Appollaiate tra le foglie,
Io vidi allora le Muse
Tra le foglie larghe delle querce
Mangiare ghiande e coccole.
Vidi le muse su una quercia
Secolare che gracchiavano.
Meravigliato il mio cuore
Chiesi al mio cuore meravigliato
Io dissi al mio cuore la meraviglia.

Ma io che da anni leggo i suoi versi e le sue prose (e li cerco nelle varie edizioni che gli uni e le altre hanno diffuso), sono finalmente lieto di vedere lo sforzo che questo piccolo Comune della Basilicata ha saputo compiere per richiamare, in quella modesta abitazione, in un luogo non comodo dello Stivale, gente di ogni luogo: perché la Poesia di Sinisgalli ha saputo varcare il tempo della sua vita e le aree della sua pratica.

E’ da credere che le Scuole sapranno farvi momento di visita e di studio, ma l’iniziativa degli enti territoriali di Basilicata meritano la sosta di lettori e curiosi di tutte le età.

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LA CASA DELLE MUSE

 

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      Questa estate, ho approfittato dell’ozio da vacanza per fare un’incursione a Montemurro, un centro della (sempre più nota, per i suoi giacimenti petroliferi, che tanto stanno facendo discutere) Valle dell’Agri, in Basilicata. Una valle in cui il fiume (che sbocca sul litorale ionico) trasporta con sé, assieme ad un rilevante carico di acqua (è il fiume più ricco, anche se non il più lungo, della Basilicata), memorie millenarie.

La Valle, che soprattutto nella sua prima parte, è aspra e costellata di monti coperti di boschi (i Belliboschi, a cui Sinisgalli ha intitolato una raccolta di suoi scritti autobiografici e no, che uniti a Fiori pari fiori dispari formano quelle «prose di memoria e d’invenzione», tanto care ai suoi lettori), è cosparsa di piccoli centri di remota civiltà, più o meno arroccati sulle alture, che tendono a fare sistema ed a formare una sorta di Città della Valle (un po’ sul modello della Città del Vallo di Diana, invero da essa non molto distante ed anzi collegata a diverse altezze), con servizi distribuiti e strutture comuni, attività culturali messe a rotazione, santuari religiosi accomunanti le genti valligiane, ecc. (la Moliterno di Petruccelli della Gattina e Giacomo Racioppi, la Montemurro di Giacinto Albini, Marsico Nuovo e Marsico Vetere, la Viggiano di Vito Reale, Sarconi, la Spinoso di Biagio Petrocelli, Tramutola, ecc.) 
Accanto ai monti coperti di boschi ve ne sono altri (ad es. il Vulturino) quasi del tutto nudi, e però assai belli e suggestivi, che fanno da riferimento e da contrasto selvaggio con quelli altri, interamente verdi e ricchi di biodiversità.

Non c’è dubbio che anch’essi facciano parte di quella vera e propria identità comune delle genti della Val d’Agri, che oggi si arricchisce di sempre nuovi tasselli: un richiamo anche per le generazioni che più hanno dato con la loro emigrazione, ed i loro discendenti d’ogni parte d’Italia e del Mondo.

E davvero di Muse (al plurale) si tratta, giacché il Nostro non incarnò solo un’anima ma tante assieme, quelle di: scrittore, poeta, ingegnere, disegnatore, editor, curatore di prodotti culturali, perfino cineasta (autore o coautore di fortunati cortometraggi premiati alla Biennale di Venezia nel 1948 e nel 1950) e sceneggiatore.

Una casa semplice, come quelle di cui il Poeta ha detto nei suoi versi e negli altri scritti, ancora del tutto dispersi, perché affidati alle vecchie preziose edizioni d’epoca, ma ormai necessitanti la formazione di una raccolta completa (ad esempio, un Meridiano, edito da quello che fu il suo editore principale), per il lettore d’oggi. 

Una casa che non ha mai ospitato quel mobilio e quei libri, che il Poeta-Ingegnere ha portato con sé nel suo girovagare (cominciò a farlo a dieci anni) e, soprattutto, nei suoi spostamenti tra Roma e Milano, dove si è svolta – pressoché interamente – la sua vita professionale, non solo di artista (anche visivo) ma anche di direttore di belle riviste, alcune legate al mondo aziendale (dalla rivista Pirelli, alla più fortunata Civilità delle Macchine), di curatore di collane (come «Scienza e poesia»), di collaboratore con l’industria italiana (Olivetti, Finmeccanica, Alfaromeo, ecc.). 

Il museo (che è stato denominato, in maniera suggestiva: la Casa delle Muse) è stato affidato alle cure della Fondazione Sinisgalli (creata dagli enti territoriali di Basilicata, essenzialmente), che organizza mostre, eventi, convegni, incontri di studio (se ne veda l’elenco di quelli tenuti, ad oggi, nel bel catalogo intitolato Leonardo Sinisgalli, la Casa delle Muse e la Fondazione, Villa d’Agri, 2014, pp. 30).

In questo rinnovato interesse per la Valle, s’inserisce la bella novità di Montemurro: la creazione di un museo Sinisgalli, nella casa di famiglia, acquistata e recuperata alla bisogna.

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 In particolare, oggi la sua collaborazione a edizioni editoriali di pregio, con artisti contemporanei (Lucio Fontana, Orfeo Tamburi, Franco Gentilini, Domenico Cantatore, ecc.), ha reso spesso difficili da reperirle persino sul mercato del libro raro e di pregio.

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          La visita della casa di Sinisgalli, consente di ammirare – tra i riquadri della sua Biblioteca (quasi interamente recuperata) e composta di edizioni consultabili – anche una bella tela, acquistata dalla Fondazione Carlo Levi: un suo ritratto (del 1944), a olio, della sua concittadina Maria Padula, un’artista che merita ogni considerazione (anche la sua opera è in corso di catalogazione, grazie all’impegno della curatrice e figlia, la d.ssa Rosellina Leone, che ho avuto il piacere di ritrovare dopo anni). 

Tra libri e mobili del Poeta, è possibile ammirare tanti altri cimeli: abiti, foto, lettere, numeri di riviste, libri, ecc.

Le stanze sono coperte di didascalie, quadri che riportano i suoi principali versi, così che anche chi non ha mai praticato la sua Poesia possa essere in grado di comprendere la misura e la cifra dell’artista.