LAMPEDUSA IL PESCATORE E SCHUBERT di Francesco Festuccia – Numero 11 – Luglio 2018

cat-arte
cat-cultura
cat-sud
Francesco-Festtuccia

LAMPEDUSA IL PESCATORE E ScHUBERT

 

E poi, ancora ingrandendo, ci si approda. Un punto piccolissimo, sembra uno scoglio buttato lì. Stringi ancora sull’immagine ed ecco Lampedusa. E poi, spostandosi ancora un po’, quel segno che guardando la mappa ci fa capire che siamo nell’estremo dell’Europa.

Ecco, partiamo da qui, in quel luogo dove ora c’ė la Porta d’Europa, 

un piccolo monumento in pietra, simulacro per i migranti, 

per tornare al 2001.


Lampedusa non era ancora nota come punto critico dell’accoglienza, ma si parlava solo di mare meraviglioso, selvaggio. Ci fermiamo per un attimo e in quel tempo per raccontarvi la meraviglia di una scoperta con un personaggio d’eccezione: il grande violinista Uto Ughi. 

 

Eravamo andati a Lampedusa per realizzare una lunga intervista che avrebbe poi fatto parte di un Tg2dossier. E qui il giornalista deve uscire dal suo ruolo, perché eravamo lì per cercare una bella location, un bello sfondo. Per poter raccontare questa grande emozione che ci colpì, noi volevamo solo che il Maestro dialogasse davanti a un’altra sua grande passione, oltre la musica: il mare. E lui era lì fuori stagione – era metà ottobre – perché lì poteva ancora fare il bagno e nuotare per tenere in allenamento il suo magico braccio. 

 

Ma lì, sulla barca, tirò fuori il violino e scosse la testa. “Non posso – disse – così all’aperto il suono si disperde. Dobbiamo tornare a riva e trovare un posto chiuso”. Mi prese un vero smarrimento. Eravamo con il Maestro in mare aperto, nel punto simbolico dell’estremo sud dell’Europa.

A quel punto guardai smarrito l’anziano pescatore che ci aveva portato fin lì. 

Il suo viso tormentato dai segni di mille battaglie in mare si illuminò. 

E mi sorrise. Disse qualcosa in lampedusano stretto. 

Forse “fazzu da me. Se firassi?” 


Cos’altro potevo fare? Il Maestro era impaziente e voleva tornare. Ma il pescatore calmo spostò la leva del comando del motore e puntò dritto. Lo guardammo perplesso, ma ora il vento era cambiato, avevamo superato quel punto più a sud d’Europa. E, come se fosse stato preso da un demone, continuò a ripetere sottovoce, accarezzandosi la sua barba bianca incolta, “se firassi”. Il mare si calmò e lì non tirava più vento, coperti dall’isola, e il ronzio del motore era sottofondo al nostro nuovo paesaggio.

La parte dietro, meno conosciuta e più inaccessibile di Lampedusa, 

perché da terra visto lo strapiombo non si può arrivare e per mare 

non è consigliato per chi non è esperto.


Basta un guasto, il vento e le correnti e in un attimo ci si trova in mezzo al mare che ci separa dall’Africa. 

 

Il nostro pescatore invece andava deciso, passando a pochi metri da quella roccia. “se firassi” mi disse ancora, con il viso ancora più illuminato, e ruotò la barca verso la roccia. Calò i giri del motore, poi lo spense. Ora ci stavamo accostando ancor più alla roccia e intravedemmo un passaggio. Borbottava, ancora, “se firassi, se firassi.” E fu la “meraviglia”. 

 

Entriamo piano, abbassando la testa, in una meravigliosa e inaspettata grotta. Il motore è spento e

la vecchia barca di legno scivola in quell’acqua azzurra illuminata, 

nel silenzio. Ci guardiamo, al pescatore si illumina il viso. 

Noi non possiamo che fare un “oh” di meraviglia.


E a qual punto il Maestro ci zittisce con un segno delle braccia. E poi comincia a battere le mani. Il suono rimbomba in maniera fantastica. E lui continua a battere le mani ritmicamente e il suo volto si illumina. Si ferma e ancora silenzio. Ricomincia a battere e dice qui c’è un’acustica perfetta, meglio che nell’auditorium di Vienna. Si piega sulla custodia di violino e tira fuori il suo strumento. Quasi per scusarsi dice: “Non è né il mio Stradivari e né il Guarneri…è un violino da combattimento che mi porto in viaggio per esercitarmi”. E cominciano questi straordinari momenti, Uto Ughi in maglietta e calzoncini lì in mezzo a quella grotta, sulla barca con il fondale accesso da una luce che arriva da un taglio di roccia, comincia a suonare un movimento di Schubert.

È un attimo e quella grotta si riempie di musica. Uto Ughi che suona senza fermarsi. Trasportato in un altro mondo con una ispirazione diversa dai soliti concerti.


Lì gli unici spettatori erano il pescatore che sembrava aver disteso le rughe del viso, l’operatore di ripresa che incredulo stava testimoniando qualcosa di irripetibile, e chi vi sta raccontando. E questa storia sembra tramutarsi in un miracolo laico, di quelli che poi fanno pensare alla grandezza e all’eternità dell’arte.

Ad un tratto cominciano a cadere delle piccole gocce, bagnano anche il violino


che il Maestro lasciando la musica un momento asciugava, con amore. Sembravano lacrime, forse di gioia, della grotta. Fui preso quasi da un’allucinazione: la musica celestiale di uno dei più grandi musicisti, il mare azzurro, la luce che entrava dal basso. Guardai il pescatore, mi disse ancora “se firassi”. Non è un miracolo. Sembrano lacrime, ma sono lacrime per noi. La chiamano a Lampedusa proprio la grotta delle lacrime.

È una grotta di cui nelle guide si parla poco o nulla, un fenomeno fisico dovuto all’umidità, gocce dal sapore dolce, come delle lacrime. Una storia quasi segreta, 

che viene raccontata da generazioni di pescatori, lacrime che arrivano 

dal profondo cuore di quel grande scoglio in mezzo al mare 

che è Lampedusa, oggi approdo per tanti migranti.


E magari di Lampedusa si parla per questo, o per l’isola dei conigli che è dalla parte opposta, ma non di questo anfratto selvaggio che è un piccolo capolavoro della natura, forse affascinante quanto la grotta azzurra di Capri, con un’acustica incredibile. 

 

Il maestro lo continuava a ripetere, lui non aveva mai suonato in una grotta, l’ha fatto e quelle lacrime di gioia cadevano anche su sul volto. “se firassi”, ci aveva detto il vecchio pescatore, facendoci credere in un miracolo. Sì, gli abbiamo creduto.

 

su Google Earth bisogna cliccare molto per arrivare ad intravedere quel puntino sperduto in mezzo al mar Mediterraneo, tanto al di sotto della Sicilia e tanto vicino alla Tunisia.

partendo_dalla_visione
fine-t-blu
lampedusa_il_pescatore

 

BURRI A GIBELLINA IN CONTROLUCE di Alessandra Oddi Baglioni – Numero 11 – Luglio 2018

cat-arte
cat-cultura
cat-sud

BURRI              A GIBELLINA  IN CONTROLUCE

 

Una che ci vuole raccontare un Burri in controluce, un Burri dietro le luci accecanti che hanno illuminato le espressioni della sua arte. Un Burri vicino di casa, un Burri che siede alla stessa vostra tavola. Un Burri che vi prende per mano e vi spiega non la sua opera – perché quella lui non ha mai voluto spiegarla – ma vi spiega se stesso.

Eh già! Io Burri non l’ho conosciuto di persona, non l’ho conosciuto 

in carne ed ossa. Ma è un personaggio 

che mi ha sempre affascinato.


Ho cominciato piano piano ad avvicinare le persone che lo avevano incontrato, dapprima quelle ufficiali, poi gli amici, quelli delle partite di calcio, quelli degli appostamenti per la caccia. 

 

Al mio lavoro però mancava ancora un tassello, che per una donna è essenziale: mancava di parlare con chi aveva trascorso con lui le sere, con chi aveva condiviso gli attimi che rendono due esseri fusi in un solo pensiero. La moglie, l’enigmatica, l’estrosa Minsa, era morta. Altri con cui avevo parlato erano elusivi su questo tema. Finalmente un incontro ha da dato una svolta alle mie ricerche e, condotta per mano da una donna – anche lei grande artista, ho scoperto anche il cuore di Burri.

Pian piano mi si è ricomposto un mosaico; e credo di aver vissuto 

con la sua ombra, calpestato i suoi terreni, respirato la sua aria, 

addirittura mangiato ciò che mangiava lui: in una parola 

è come se avessi vissuto per sei mesi con la sua anima.


Ho cercato di raccontare “L’Umbrietà” di Burri, i suoi neri ed oro rispecchiavano i colori del rinascimento, le sue tele stracciate, l’estrema povertà della nostra terra, i territori aspri e difficili dell’alta valle del Tevere. Così, anche nel raccontare la sua presenza a Gibellina, ho voluto dare una immagine inusuale, convinta che la nostra Umbria, che pure è squassata continuamente dai terremoti, lo avesse segnato nelle sue decisioni.

Il più grande capolavoro europeo di land art poteva nascere solo 

da quella caparbietà che confronta l’uomo 

con la natura distruttrice.


Nel mio capitolo su Gibellina, estratto dal volume Controluce. Alberto Burri. Una vita da artista, edito da Donzelli, ho cercato di mostrare il momento in cui Alberto decide di occuparsi del territorio terremotato.

 

“Arrivai a Gibellina, alla nuova Gibellina, quella ricostruita a venti chilometri dal luogo della distruzione, nel primo pomeriggio, accolto dalla stella di Consagra. Una porta d`acciaio attraverso cui si intravedeva un cielo striato: la scultura sembrava impedire anche alle nuvole rosate di entrare in città. Diane aveva tanto insistito, Corrao mi chiamava quasi ogni giorno, ho dovuto accettare di andare almeno a fare un sopraluogo. Per fortuna c`era lei, Giovanna, l`unica in grado di capire l’angoscia che mi provocava quella desolazione: mi ricordava la guerra e la disperazione del dopoguerra. Ma lei con il suo sorriso, con le sue parole mi incoraggiava. 

 

Ero lì, seduto nella hall dell`albergo, incapace di muovermi, ma lei mi prese per mano, mi fissò negli occhi: «Pensa alla ricostruzione, a ciò che puoi fare per questa povera gente.» In quel mentre entrò Diane: «Andiamo, Zanmatti vuol farci fare un giro.» Vagammo per la città piena di cantieri. Ci fermammo nel portico del comune. Avevano voluto rappresentare la città ideale, e le ceramiche della Attardi richiamavano un colore rinascimentale, ma c`era qualcosa di discordante come un bellissimo pezzo musicale dove qualcuno stonava. Camminavamo in un immenso museo all`aperto, fuori dal tempo, vivo, ma la città… dov’era la città? 

 

Poi entrammo nella Chiesa di Quaroni. Mentre gli altri discutevano sulle rotondità della palla, io cercavo Dio in quel luogo, ma avevo l`impressione che se ne fosse tenuto lontano. L`avvolgersi su se stesso di quella palla non aveva nulla dello slancio verso il cielo dei miei campanili umbri. Diane cominciò a parlare con Giovanna: il gorgoglio delle parole rintronava nelle mie orecchie, uscii di scatto da quella chiesa alla ricerca di qualcosa di diverso. 

 

A cena dissi: «Basta andiamocene io non potrò mai intervenire in questo guazzabuglio, perché mi avete portato qui? Diane domattina ripartiamo.» Uscii infuriato, e Giovanna mi seguì mi prese per mano e cercò di calmarmi. Udimmo un leggero scampanellare e in fondo, di fronte alla montagna di sale di Paladino, da cui i cavalli spezzati cercavano invano di uscire, vidi passare un carretto siciliano luminoso nei suoi colori, tirato da un cavallo bardato a festa che faceva dondolare i campanellini dalle sue orecchie. Dietro di lui una processione di gente che cantava litanie, invocava la vergine e si dirigeva verso i luoghi della vecchia Gibellina, i luoghi spazzati via dal terremoto. Ci unimmo a loro, Giovanna stringeva sempre più forte la mia mano: in quel momento capii cosa volevo fare.

Gli occhi di quella gente che riflettevano il bisogno disperato di tornare 

alla loro Gibellina, che ormai era solo nei loro sogni mi aveva fatto venire un`idea. La mia opera avrebbe dovuto sorgere dove il terremoto aveva colpito, dalla rovina sarebbe sorto il simbolo della speranza, del futuro, di tutto ciò 

che sarebbe potuto accadere un giorno qui.


La mattina dopo mi diressi velocemente all`ufficio del sindaco: «Ho deciso, interverrò». Corrao tirò un sospiro di sollievo. Continuai: «Perimetreremo tutta la zona terremotata, la ricopriremo di cemento bianco lasciando emergere le vecchie vie. Farò in modo che dalle superfici bianche emergano i cretti.» Corrao impallidì: «L`idea è splendida, ma un`opera così colossale non posso affrontarla con le risorse modeste che mi sono state affidate.» Intervenne il mio angelo custode Diane: aprì una sottoscrizione internazionale, sollecitò gli emigrati denarosi: da tutto il mondo arrivarono i fondi. I lavori iniziarono alla fine del 1984 e continuarono per cinque anni.”

Dopo le importanti celebrazioni del grande artista Alberto Burri mi potrete chiedere cosa ci viene a dire una che Burri non lo ha conosciuto di persona.

DUE_O_TRE_COSE
ALESSANDRA_ODDI_BAGLIONI_ARTE
TOP_FOTO

1 – A. Oddi Baglioni, Controluce. Alberto Burri. Una vita da artista, Donzelli Editore, 2015.

fine-t-blu

 

LE CORALLARE DI TORRE DEL GRECO di Stefania Conti – Numero 11 – Luglio 2018

cat-arte
cat-economia
cat-storia

LE CORALLARE DI TORRE    DEL GRECO              

 

stefania_conti

Solo lì, sul collo bianco e saldo delle donne, nell’immediata vicinanza dell’arteria pulsante, sorella dei cuori femminili, rinascevano a nuova vita, acquistavano splendore e bellezza ed esercitavano il loro innato magico potere di attrarre gli uomini e ridestare le loro voglie amorose”. 

 

Una visione poetica come solo uno scrittore della sua epoca può dare. E, a dire il vero, non solo le contadine hanno amato gli Antozoi (questo il nome scientifico). Usato da Sumeri, Egizi, Celti, presente nell’arte bizantina, diffuso nel Medioevo occidentale, ha avuto una particolare fioritura in Italia nel 17° e 18° secolo. Tra le nobili, come tra le plebee. Come gioiello o come oggetto di ornamento. Ma se si trascende da questo aspetto,

si può leggere una storia molto interessante dal punto di vista economico 

e sociologico. Perché i coralli hanno scritto una pagina importante 

nella storia dell’emancipazione femminile meridionale. E non solo.


Uno dei centri di pesca del prezioso materiale è stato per secoli Torre del Greco. Nel 1805 un imprenditore francese, Bartolomeo Martin, ottiene da Ferdinando IV di Borbone l’autorizzazione ad impiantare una fabbrica per la lavorazione. Fino a quel momento i pescatori avevano venduto il corallo pescato dalle coralline di Torre del Greco ai mercanti di Livorno, che poi a loro volta lo vendevano a Trapani, Genova, Marsiglia. 

 

Se Martin era un rappresentante del new age napoleonico, un borghese imprenditore con lo sguardo lungo, Ferdinando di Borbone era l’espressione dell’ancien régime, ma era molto interessato al tema delle manifatture (è lui il fondatore delle seterie di San Leucio, ancora oggi un vero e proprio modello di organizzazione). Ed è proprio il re Borbone che impone al Martin la clausola che qui ci interessa: la manodopera deve essere femminile.

Il motivo era semplice. Gli uomini impegnati nella pesca del corallo 

stavano fuori casa anche per anni. La famiglia 

veniva mandata avanti dalle donne.


Ma spesso i soldi non bastavano, anche perché non si sapeva mai con certezza la data del rientro e bastava un niente per farla saltare. Le povere torresi erano costrette a ricorrere agli usurai e, nei casi peggiori, a prostituirsi. Torre del Greco stava diventando una vera e propria piaga. Per questo Ferdinando interviene. Non solo. Nel 1807 si decide anche di aprire una scuola nel Real Albergo dei Poveri a Napoli, dedicata alle “donzelle” per la manifattura del corallo. Scuola che ben presto sarà aperta anche ai giovani reclusi. Le cose al Real Albergo di Napoli non andarono bene. Ma a Torre, sì. Già nel 1806 Il lavoro delle donne andava particolarmente bene.

Avevano una forte motivazione che le rendeva particolarmente abili nel bucare, 

infilare e confezionare collane. Con misure ante litteram potevano anche scegliere 

di lavorare a casa o part time, così potevano accudire i bambini.


Ce la mettevano tutta, lavorare in fabbrica era il mezzo per uscire dalla povertà e dall’emarginazione.

 

“C’erano bambini, a Torre, cresciuti praticamente nelle cassette di corallo grezzo: quando erano piccoli, le mamme li mettevano lì per averli sotto gli occhi e continuare a lavorare”, ricorda Caterina Ascione, storica dell’arte e appassionata studiosa del corallo.

Nel 1878 sorse in città addirittura una Scuola per l’incisione e la lavorazione 

del corallo, tuttora esistente, presso la quale nel 1933 

fu istituito l’omonimo museo.


Caduti i Borbone, arrivano i francesi. Giuseppe Napoleone prima e Gioacchino Murat dopo. Anche con loro la fabbrica di Bartolomeo Martin continua. Anzi, tra alti e bassi va avanti per oltre vent’anni. I due sovrani francesi incoraggiano e promuovono l’attività industriale meridionale. E per quanto riguarda il corallo, Martin certamente è aiutato dalla moda che esplode nelle corti napoleoniche. Una ambasciatrice autorevole è stata Carolina Bonaparte Murat, che per l’oro rosso aveva una vera e propria passione. Al punto di regalare a suo fratello Napoleone (sembra per far pace dopo una lite) i cammei di corallo finemente lavorati che decorano la spada di gala del Gran Corso. Oggi la si può vedere nel museo napoleonico di Fontainebleau. 

 

Carolina va oltre. Lo sponsorizza come prodotto speciale del Regno.

Diventa le souvenir de la Reine. Le riviste di moda francesi lo propongono 

come gioielleria “da giorno”. Una parure di corallo associata ad uno chale cachemire morbidamente appoggiato sulle braccia di una dama, e, voilà, il gioco è fatto.


Una rapida e duratura fortuna presso le signore dell’alta borghesia e dell’aristocrazia che presto conquisterà tutta l’Europa, e stavolta non sarà più pour les dames di più alto lignaggio, ma anche presso le popolane. 

 

La lavorazione ancora oggi è in mano femminile. Torre del Greco è considerata una capitale del corallo e combatte da pari con la concorrenza dei prodotti asiatici.

 

 

 

 

 

nel suo libro Il mercante di coralli immaginava che l’anelito dei coralli fosse quello “di essere colti e portati sulla superficie della terra dai palombari, essere tagliati, levigati e infilati per adempiere infine il vero scopo della loro esistenza: diventare il monile di belle contadine.

Museo del corallo 1 Cattura
lo_scrittore_austrrungarico

Foto: autorizzate da Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per il Comune di Napoli Istituto d’Istruzione Superiore “Francesco Degni” Torre del Greco

fine-t-blu

 

EDUARDO, TITINA E PEPPINO di Fernando Popoli – Numero 11 – Luglio 2018

cat-cultura
cat-arte

EDUARDO, TITINA          E PEPPINO

 

Io avevo circa tredici anni ed ero amico di Gastone de Luca, che abitava in Via Vittoria Colonna 6, il proseguimento di Via dei Mille, la strada più elegante della città, dove i ragazzi della Napoli bene sfoggiavano le cravatte di Marinella, a poche centinaia di metri da Via Carducci, dove abitavo io, in un attico che vedeva da lontano Capri e il mare e ti riempieva l’anima di poesia. 

 

Gastone era cugino di secondo grado dei De Filippo, la madre, Margherita Pezzullo, era cugina di primo grado. La casa in Via Vittoria Colonna era stata costruita insieme a tutto il palazzo da Eduardo Scarpetta ed era stata anche la casa dei De Filippo, e Titina, che si era trasferita a Roma come i fratelli, quando tornava nella sua città natale per recitare al San Ferdinando, andava a dormire nella sua vecchia casa, abitata ora dai parenti.

Fu così che io la conobbi. Margherita Pezzullo, quando la cugina arrivava,
la andava a prendere alla stazione con la sua Millecento Fiat, color verde militare,
e Gastone ed io la accompagnavamo. Durante il tragitto l’argomento
era sempre centrato sui fratelli Eduardo e Peppino, sul teatro
e sulle recite al San Ferdinando.


Il San Ferdinando era un antico teatro costruito alla fine del Settecento dall’architetto Camillo Leonti e decorato da Domenico Chelli, nel cuore della città storica, in una traversa di Via Foria. Eduardo l’aveva comprato quando era praticamente distrutto e vi aveva investito tutti i suoi soldi per restaurarlo e rappresentarvi le sue commedie. I lavori furono affidati all’Ingegner Mannaiuolo e costarono quattrocento milioni di lire, una cifra enorme per quegli anni, ma il risultato fu molto soddisfacente. La vecchia facciata storica fu conservata, all’interno invece fu costruito un teatro moderno ed efficiente che ha funzionato per molti anni e ancora oggi è attivo e dove io, da ragazzino, ho visto buona parte delle commedie di Eduardo, che hanno contribuito alla mia prima formazione artistica.

Titina era rimasta legata a Eduardo quantunque la loro compagnia, “I De Filippo”, 

si fosse sciolta da un pezzo per via dei continui litigi tra Peppino e Eduardo.


Si erano uniti nella compagnia di Vincenzo Scarpetta, di fatto loro fratellastro, perché i tre fratelli erano figli illegittimi del grande attore e commediografo napoletano Eduardo Scarpetta che li aveva avuti dalla relazione con la sarta teatrale Luisa De Filippo, nipote di sua moglie Rosa De Filippo. Fu in quel periodo che Eduardo si cimentò nella sua prima commedia, Farmacia di turno, che fu rappresentata dalla compagnia di Vincenzo e ottenne un buon successo. Eduardo Scarpetta era molto rigoroso sulle scene e pretendeva il massimo da tutti i suoi collaboratori. Questo rigore fu acquisito anche da Eduardo che lo applicò in tutta la sua carriera di attore e commediografo. 

Uomo e Galantuomo fu la seconda opera teatrale che scrisse e mise in scena unendo elementi che gli saranno cari anche in seguito: la pazzia e il tradimento. 

E’ sicuramente una farsa molto divertente che lo mise in luce definitivamente 

nel mondo teatrale dell’epoca.


Alla fine degli anni Venti, dopo la morte del padre Eduardo Scarpetta e l’allontanamento dalla compagnia del fratellastro Vincenzo, Eduardo formò una sua compagnia con Titina, Peppino e Michele Galdieri e debuttò al Fiorentini di Napoli con lo spettacolo La rivista…che non piacerà; in seguito, sempre con i fratelli e un gruppo di attori che rimarrà sempre legato a loro, Pietro Carloni, Carlo Pisacane, Tina Pica, portò in scena Pulcinella principe in sogno, con il famoso sketch Sik, Sik l’artefice magico, dove costruisce il personaggio a lui molto caro dell’artista tormentato, povero e un poco filosofo come tutti i napoletani.

I De Filippo continuano insieme la loro grande avventura teatrale dividendosi 

tra lo spettacolo leggero come il varietà e i testi 

che Eduardo continua a sfornare


come Natale in casa Cupiello, consolidando la loro fama e ponendosi all’attenzione di tutta l’Italia affrontando poi anche i testi impegnativi di Luigi Pirandello. Sono gli alfieri della “napoletanità”, gli interpreti di commedie che rappresentano l’animo della città, l’animo di Napoli che assurge nella sua grande umanità e nelle sue contraddizioni a emblema di una società universale.

Al teatro ben presto seguì una vasta attività cinematografica, dove i tre fratelli 

con ruoli e parti diverse di protagonisti e comprimari legano la loro bravura 

a film indimenticabili


per la versatilità dei personaggi che esprimono come Tre uomini in frak, L’oro di Napoli, Guardie e Ladri, Napoli milionaria, Totò Peppino e la malafemmina, La banda degli onesti, ecc.

 

Sicuramente possiamo dire che

Peppino ebbe una grande notorietà come attore comico sia nel cinema 

sia nella televisione, memorabile il suo personaggio di Pappagone 

nel varietà della Rai Scala reale, abbinato alla lotteria di capodanno. 

Mentre Eduardo rimase insuperabile nel teatro sia come commediografo 

sia come attore arrivando a recitare in dialetto perfino a Mosca


dove il pubblico lo capiva e si divertiva. Titina appare tra i tre una figura minore, ma questo si deve unicamente alla minore attività nel piccolo e grande schermo, però sicuramente la sua bravura come attrice e la considerazione che aveva di lei il pubblico fu sempre grandissima. 

 

Eduardo io l’ho conosciuto al Teatro San Carlo, me lo presentò il Maestro Ferraresi, in quegli anni primo violino dell’orchestra, un apprezzato musicista molto conosciuto in Italia. Il Maestro era il padre di due miei amici, Marcello e Augusto e sapeva della mia passione per il cinema. Muovevo in quegli anni lontani i miei primi passi e volle presentarmi al grande attore e regista; egli stette pochi minuti ad ascoltarmi con attenzione, nel suo viso vissuto, velato di malinconia, segnato dalle rughe, si leggevano la saggezza e l’esperienza dei grandi. Mi fece capire che ci saremo rivisti in qualche modo ed io non gli dissi che ero amico del nipote Gastone e avevo conosciuto la sorella Titina. Egli faceva una vita abbastanza appartata rispetto alla famiglia, una vita che lo poneva su un piedistallo diverso, dove c’era lui e solo lui: il grande Eduardo, ormai attore e commediografo famoso in tutto il mondo. Nella sua vita aveva avuto importanti riconoscimenti: due lauree honoris causa e la nomina a senatore a vita.

Titina raggiunse l’apice della sua bravura nelle commedie di Eduardo
Filumena Marturano, scritta per lei dal fratello, e Napoli Milionaria

dove si consacrò come attrice di


successo, con pari dignità di Eduardo e Peppino. Fu molto versatile, interpretò tante commedie anche di altri autori e molti ruoli cinematografici. Soffriva di cuore e verso i sessant’anni dovette limitare il suo lavoro sino poi a ritirarsi del tutto. Sposò Pietro Carloni, che aveva conosciuto da giovane, ed ebbe un figlio, Augusto, che divenne giornalista parlamentare dopo una breve parentesi nello spettacolo. 

 

A Napoli, i De Filippo sono stati considerati una gloria nazionale ineguagliabile, intere generazioni hanno seguito nel teatro, nel cinema e in televisione i loro spettacoli, divertendosi, appassionandosi, amandoli. Hanno avuto molti allievi nelle loro compagnie, che si sono in seguito affermati.

Il figlio di Eduardo, Luca, e quello di Peppino, Luigi, hanno continuato 

il teatro dei genitori tenendo in piedi la commedia napoletana 

e conseguendo sempre ottime accoglienze 

di pubblico e di critica.


Ambedue sono scomparsi senza eredi. Con la morte prematura anche di Mario Scarpetta, nipote di Vincenzo, anch’egli attore affermato, la famiglia di attori e commediografi napoletani più famosa al mondo, quella dei De Filippo, che ebbe come capostipite Eduardo Scarpetta, si è estinta del tutto, lasciando dietro di sé un vuoto incolmabile e una profonda amarezza. Resta il ricordo della loro bravura, dei loro personaggi, delle commedie, di una Napoli scomparsa per sempre, di un bel tempo andato che non tornerà più, ma riempie il nostro animo di un indelebile ricordo d’amore per il teatro.

di grande creatività artistica; l’Italia, uscita distrutta dalla guerra, ritrovava se stessa e la sua anima più profonda.

fernando_popoli_cultura
top_peppino
correvano_glii_anni_cinquanta
simbolo-art-marr-pall

 Foto: Courtesy Teatro San Ferdinando

Correlato:
Fernando Popoli

IL MAESTRO DEI MAESTRI EDORDO SCARPETTA

cat-stile

 

SICILIA GRAND TOUR DI FABRICE MOIREAU di Gaia Bay Rossi – Numero 11 – Luglio 2018

cat-arte
cat-storia

SICILIA              GRAND TOUR DI FABRICE MOIREAU 

 

 

 

 

“È in Sicilia che si trova la chiave di tutto. La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l’unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra… chi li ha visti una sola volta li possiederà tutta la vita”.

Così scriveva Goethe in una delle sue famose lettere durante il suo primo viaggio in Italia nel 1787.

 

E Goethe fu solo il più noto dei giovani aristocratici che a cavallo 

tra Settecento e Ottocento si recarono in un lungo viaggio in Italia 

con lo scopo di perfezionare il loro sapere 

e ammirare l’arte e la natura locali.


Tappa fondamentale era la Sicilia, con i vulcani, i monumenti greci e barocchi dell’isola, considerata nel 1827 dall’architetto e scrittore Friedrich Maximilian Hessemer come un “puntino sulla i dell’Italia, […] il resto d’Italia mi par soltanto un gambo posto a sorregger un simil fiore”. 
 
A distanza di quasi due secoli e mezzo, riportiamo quella storica esperienza di viaggio ai giorni nostri con la mostra “Sicilia, il Grand Tour” che vede protagoniste le straordinarie opere del francese Fabrice Moireau, uno dei più grandi acquerellisti al mondo, e i testi del giurista Lorenzo Matassa che danno risalto alle opere, donando loro una personalità ancora più forte. La mostra, in vigore dall’8 maggio al 22 luglio 2018 a Palazzo Cipolla a Roma, è promossa e realizzata dalla Fondazione Cultura e Arte, in collaborazione con la Fondazione Federico II. 
 
Il percorso espositivo, ampio, ben organizzato e illuminato, ci porta di città in città, riproducendo monumenti, architetture, scorci, panorami, dettagli di una Sicilia tutta da scoprire. Il Prof. Avv. Emanuele, patron dell’iniziativa, ci fa notare che

nel mirino delle pennellate di Moireau ci sono “edifici, chiese, strade, angoli noti 

e meno noti di un’isola che è un vero caleidoscopio di culture ed architetture:


punica, romana, araba, bizantina, normanna, barocca, art noveau, la Sicilia fu meta e crocevia di popoli e tradizioni millenarie destinati a lasciare il segno nella Storia dell’intera area mediterranea. Questo percorso espositivo è una vera poesia, un inno all’isola che indusse Federico II di Svevia ad affermare che era a tal punto felice di vivere in Sicilia da non invidiare a Dio il Paradiso”. 
 
Tutto questo Moireau lo ha saputo riprodurre nei minimi dettagli, mostrando, tra le altre, la bellezza di città come Palermo, Trapani, Marsala, Catania, Siracusa, e poi aree archeologiche importanti ed antiche quali Segesta e Selinunte,

ma ancora ha voluto presentarci il volto dei piccoli e romantici borghi rurali, 

la campagna con i suoi colori e i frutti del lavoro, e infine il mare 

in tutte le sue sfaccettature, dalla candide spiagge, alle onde 

che si infrangono sugli scogli, ai porti tranquilli, 

ai litorali famosi per la loro bellezza come 

Scopello, San Vito lo Capo, Taormina. 


Moireau, cittadino del mondo, ma ormai stanziale nella capitale spirituale dell’arte, Firenze, ha percorso il suo personale Grand Tour in Sicilia per ritrarre dal vivo e sul luogo tutte le vedute della mostra, accompagnato dal suo inseparabile zaino colmo degli attrezzi da lavoro: tavolozza, pennelli, colori, fogli bianchi e il portatile sgabello pieghevole.
 

“Da trent’anni vado in giro per il mondo e disegno quello che vedo – 

dice l’artista Moireau – La Sicilia è unica. È un piccolo continente, 

con mare, montagna, paesaggi, arte e storia.


E poi i siciliani così speciali. Cosa mi è rimasto più impresso? Difficile dirlo, ma certamente il Tempio di Segesta mi ha emozionato. Come una farfalla rimasta poggiata lì da secoli”. “Sicilia, il Grand Tour” è anche un libro edito dalla Fondazione Tommaso Dragotto, con i circa 400 acquerelli di Moireau, arricchiti dal racconto del magistrato scrittore Lorenzo Matassa.

 

TOP_FOTO
gli_acquerelli_moireau
fine-t-blu
Gaia-Bay-Rossi-arte
cat-stile

 

LA BARCA DI ISIDE IL PAPIRO E LA SCRITTURA di Gaia Bay Rossi – Numero 10 – Marzo 2018

cat-arte
cat-storia
cat-ambiente

LA BARCA
DI ISIDE 

IL PAPIRO E 

LA SCRITTURA 

Cosa non può l’ingegno? 

Ecco che il palustre papiro, 

ridotto dalla lama in strisce larghe e sottili, 

dà ai mortali lo strumento della carta. 

Allora per la prima volta gli amici lontani 

poterono mandare e ricevere dolci messaggi. 

Vennero poi i codici in onore: 

allora tutti ad esercitare l’animo con gli studi, 

a dirozzare le menti incolte: 

il papiro raffinò il cuore dell’uomo 

e tanta scienza si dispiegò in tanti libri”. 

(Jean Imberdis, 1693)

Quest’antica scritta accoglie i visitatori del Museo del Papiro di Ortigia (Siracusa), un piccolo gioiello incastonato nell’ex convento di Sant’Agostino fondato dai professori Corrado Basile e Anna Di Natale nel 1987, unico museo esistente interamente dedicato al papiro e ai suoi usi, che nel 1995 per la sua importanza scientifica e didattica, è stato inserito nell’elenco finale dei musei selezionati per il prestigioso premio European Museum of the Year. L’ignaro visitatore che si appresta ad attraversare il portone dell’ex convento non può minimamente immaginare quale universo gli si stia per aprire davanti,

 

un mondo incantato di reperti in papiro che riportano 

agli albori della civiltà.

 

Sì, perché il papiro Cyperuspapyrus L. non è solo la pianta da cui si traeva il materiale per gli antichi fogli ad uso scrittorio ma è una specie erbacea perenne che consente la produzione – e così è stato in Egitto sin dal 3.000 a.C. e poi in Palestina e in tutto il mondo greco-romano – di particolari corde, vesti, calzature, recipienti e anche piccole imbarcazioni. Sono proprio tre leggere barche in papiro uno dei fiori all’occhiello del Museo del Papiro.

 

Nei suoi viaggi di ricerca in Africa, il professor Basile si recò prima 

in Etiopia, dove recuperò due delle tre barche presenti al museo costruite nei laghi Tana e Zwai, 

 

e dopo nel lago Ciad, dove andò sia per studiare l’origine della pianta e i tassi di crescita nelle diverse condizioni ambientali, sia per documentare i processi di costruzione delle barche con la tecnica usata dai pescatori Buduma, e dove riuscì ad ottenere una delle ultime “kedeje” con la poppa tronca e la prua rialzata. Le tre barche gli furono anche richieste da un importante museo all’estero, ma lui le ha sempre custodite, rendendole parte integrante dei beni stabili del suo Museo del Papiro. D’altra parte, oltre ad essere degli esemplari rarissimi, rappresentano secoli di storia, tradizioni e leggende. Le barche in papiro, infatti, hanno una storia antichissima, basti pensare che ne abbiamo testimonianze da autori antichi e anche nei passi biblici. Come ci ricorda il prof. Basile, Isaia descrive i viaggi degli ambasciatori etiopi dall’Egitto alla Palestina su barche di papiro, e nell’Esodo è scritto che la madre di Mosè mise il figlio in un cestello di papiro. 

 

Altre testimonianze antiche narrano la leggenda secondo cui 

in nessun caso un coccodrillo avrebbe attaccato chi navigava 

su un’imbarcazione in papiro per rispetto alla dea Iside 

che ne aveva utilizzata una lungo il Nilo alla ricerca 

del corpo straziato del marito Osiride.

 

Ma questo è solo un tassello della ricca collezione del Museo. Oltre alle imbarcazioni,

 

il museo espone la collezione di papiri faraonici del XV sec. a.C., 

ieratici, demotici, greci, copti e arabi, poi alcuni manufatti in papiro, 

come corde, che fabbricate nell’antico Egitto venivano esportate 

in tutto il Mediterraneo,

 

sandali, fabbricati sin dall’epoca faraonica, e recipienti utilizzati per conservare cibo o altri materiali; infine anche i papiri prodotti a Siracusa dal XIX secolo, con la manifattura della carta di papiro e i materiali e strumenti scrittori, come pigmenti di alcuni colori, penne e palette. Il ruolo svolto dal Museo del Papiro non è solo quello riguardante la parte museale vera e propria, ma è anche tutto ciò che concerne la ricerca scientifica e storica, gli studi sulla pianta, sul trattamento della carta papiracea e sulla conservazione dei papiri antichi. Non meno importanti gli studi sull’origine del papiro in Sicilia e l’uso della pianta nelle varie culture.  

 

Nel 2017 il Museo del Papiro, attraverso i due soci fondatori, è stato premiato dal Museo Egizio del Cairo per essere stato promotore 

sin dal 1998 del “Progetto di restauro dei papiri in Egitto” 

 

in collaborazione con istituzioni culturali e scientifiche egiziane, con lo scopo di favorire l’attività di ricerca e di studio nel campo del restauro dei papiri antichi, nonché per la creazione del più grande “Laboratorio di restauro dei papiri” all’interno del Museo Egizio del Cairo, che è operante dal 2005. Il Museo del Papiro di Siracusa è l’unica istituzione ad aver ricevuto dal Museo Egizio del Cairo un così importante riconoscimento, cui si aggiunge il decreto governativo che nomina Corrado Basile consulente per tutti i progetti di restauro dei papiri in Egitto.

 

Poiché le radici ci riportano spesso a casa, tra i vari rami di studio, 

il professor Basile si dedica anche all’indagine storica del papiro 

in Sicilia e alla tutela della pianta nell’ambiente fluviale 

del fiume Ciane e dei papiri della Fonte Aretusa di Siracusa. 

 

Il papiro è presente lungo le sponde del Ciane, il fiume di mitologica e storica fama che scorre a pochi chilometri da Siracusa. La caratteristica che rende unica quest’area protetta è che, se si esclude la piccola colonia di Fiumefreddo di Sicilia (Catania), il papiro del fiume Ciane è considerato l’ultimo superstite di una maggiore presenza in Sicilia nel versante orientale e in quello meridionale, ed è in assoluto la più grande colonia europea di Cyperuspapyrus L. Ma i papiri sono presenti fino nel cuore di Siracusa, a Ortigia, all’interno della Fonte Aretusa, uno dei monumenti più importanti e visitati della città, le cui piante sono state affidate alla cura e al mantenimento del Museo del Papiro, che peraltro possiede un’ampia documentazione archivistica delle piante della Fonte. Di questa fonte con i suoi papiri rimase affascinato anche Orazio Nelson che, quando sostò a Siracusa nel 1798, prima di affrontare Napoleone ad Abukir scrisse: “Grazie ai vostri sforzi noi ci siamo riforniti di viveri ed acqua, e sicuramente avendo attinto alla Fonte Aretusa, la vittoria non ci può mancare”. Nei secoli il papiro è stato utilizzato dai pescatori siracusani per intrecciare corde o dai contadini per legare covoni,

 

mentre le ampie chiome verdi erano impiegate come decorazione 

per ricoprire pavimenti di strade e chiese durante le festività.

 

Inoltre grazie alla vasta presenza della pianta, Siracusa sviluppò la produzione di carta di papiro sin dall’antichità per arrivare ai giorni nostri con alcune piccole eccellenze. Il prof. Basile ha iniziato a occuparsi negli anni Sessanta delle antiche tecniche di fabbricazione della carta di papiro e del restauro conservativo dei documenti papiracei antichi e oggi, all’interno del suo museo, spiega ai visitatori e agli studenti la manifattura della carta papiracea. Per riassumere in poche parole 

 

come sia possibile da una pianta arrivare a un foglio ad uso scrittorio,

 

si utilizza la porzione mediana del fusto raccolto nel momento di più idonea maturazione. Il fusto è liberato dalla scorza e tagliato in strisce (lunghe anche 40 cm). Dopo il pretrattamento con particolari soluzioni, le strisce vengono appoggiate su un panno e sovrapposte di qualche millimetro, formando un unico strato. Si procede poi con un secondo strato disposto perpendicolarmente al primo. Il tutto viene poi pressato con un torchio o un rullo. Traslando un nostro modo di dire molto conosciuto, possiamo in conclusione affermare che “del papiro non si butta via niente”. Abbiamo visto la vasta quantità di oggetti che venivano prodotti con questa pianta, ma non è finito: le ombrelle infatti erano usate anche nelle feste e nei riti funebri, i germogli più teneri venivano mangiati, lessi, arrosto o crudi, succhiando la parte più liquida e gettando la polpa, i rizomi erano utilizzati come ottima legna da ardere.

 

Così lo studio, la cura e la conservazione di questa straordinaria pianta hanno trasformato un piccolo museo di una città del sud 

in un’eccellenza internazionale,

 

con i suoi fondatori chiamati a partecipare a campagne di scavo in Egitto, convegni internazionali, inaugurazioni di biblioteche e musei in Egitto, pubblicazioni su riviste scientifiche, cattedre universitarie e riconoscimenti pubblici.

basile
il museo del papiro2
fine-t-blu
Gaia-Bay-Rossi-arte

 

CAMPI CITTA’ DEL LIBRO di Gianluca Anglana – Numero 9 – Dicembre 2017

cat-arte
cat-cultura
cat-economia

CAMPI CITTA’  DEL LIBRO

 

Gianluca-Anglana-cultura
da carmelo bene

Novembre 2017. 

Metti una sera in Puglia. Si sente odore di autunno: è quello dei camini accesi e della carne cotta alla brace. È già il crepuscolo e le strade brulicano ancora di vita. È la folla composta e discreta di coloro che amano i libri, di chi cerca la cultura. Capannelli di gente si formano davanti all’ingresso della Chiesa di San Giuseppe. A giudicare dalla sua facciata austera non diresti mai che, all’interno, svetta un altare centrale pregevolissimo, quasi un retablo spagnolo: un piccolo capolavoro, insomma, in cui riconoscere la firma di Giuseppe Cino, architetto tra i più insigni del barocco leccese..

santa maria
Palazzo Marchesale

“Campi città aperta”, si potrebbe dire, parafrasando Roberto Rossellini:
le vie del centro sono spalancate alla milizia del sapere.
I suoi monumenti s’illuminano a festa: accolgono
i pellegrini della conoscenza.


Si va a caccia dell’evento più attrattivo. Si sfida l’imbarazzo della scelta. Gruppi di curiosi stendono davanti agli occhi, come una mappa del metrò, il programma della Città del Libro, il festival dell’editoria giunto quest’anno alla sua ventiduesima edizione. Un bel traguardo, per Campi Salentina, il paese che se ne attesta la paternità e che lo ospita sin dal 1995. Un vanto per questa terra, vero motivo di orgoglio, per lo più snobbato dalla stampa nazionale, distratta dagli schiamazzi della politica e dal sensazionalismo della cronaca nera. L’Imam di Lecce, Saiffedine Maaroufi, al quale mi presento, si chiede, mi chiede: «dove sono i giornalisti?» Mi concede parte del suo tempo prima di tornare a Lecce. È un uomo dagli occhi sorridenti, dalla barba fitta e da quella, che mi sembra, una palpabile fiducia nel futuro. Il suo intervento è inserito nella Rassegna dal titolo I cammini dell’uomo verso un nuovo umanesimo. Si compiace dell’interesse della gente e si rammarica della scarsa attenzione dei mass media: un’assenza esecrabile, a mio modo di vedere, in un periodo storico in cui invece sarebbe più saggio investire sugli incontri, piuttosto che sui presunti scontri di civiltà. Scambiamo qualche parola: scopro che è originario della Tunisia. Commentiamo insieme il dibattito appena conclusosi tra la scrittrice Simona Toma e Sumaya Abdel Qader, blogger perugina, di origine giordana, oggi consigliera comunale della città di Milano nonché autrice del libro Porto il velo. Adoro i Queen. Molta la partecipazione, soprattutto al femminile: alcune lettrici hanno fame di conoscere, sono animate dalla curiosità e pongono alla Signora Qader domande sulla religione musulmana, sulla cultura araba e sulla condizione della donna nelle aree di fede islamica.

 

C’è una bella atmosfera a Campi, c’è voglia d’incontro, c’è il desiderio 

di capire e di capirsi, c’è la curiosità di conoscere meglio altri individui, altri popoli, altre culture, altre religiosità. C’è l’aspirazione 

a cercare elementi unificanti piuttosto che divisivi.

 

E non potrebbe essere altrimenti, visto che l’Edizione numero ventidue di Città del Libro è dedicata ad Abramo – leggo sulla pagina web del Festival letterario – «il cui nome significa ‘padre di molti popoli’» e costituirà un riferimento culturale fondamentale capace di far dialogare le letterature e i popoli che abitano l’area mediterranea e africana. Una moltitudine di nomi importanti: lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun; il Direttore Generale di Treccani, Massimo Bray; il giornalista Domenico Quirico; la giurista francese Jeannette Bougrab; la scrittrice inglese Nicolette James, solo per citarne alcuni. 

 

Dicembre 2017. È un mattino di sole. Negli uffici comunali, incontro il Sindaco di Campi Salentina, il Prof. Egidio Zacheo1, cui va l’indiscutibile merito di avere dato i natali alla Città del Libro nel 1995.

Fu l’inizio di un rinascimento: Campi, che fino ad allora saliva
alla ribalta delle cronache esclusivamente per fatti di malavita, 

cominciò a mutare volto, a credere maggiormente in se stessa – fregiandosi persino del titolo di Città grazie a un Decreto della Presidenza della Repubblica2 – e a tributare maggiore rispetto 

al suo passato sfavillante e ai suoi monumenti 

sia architettonici sia umani. 

 

Pochi sanno, ad esempio, che a Campi sorge uno dei rarissimi esempi di arte gotica nel Salento: si tratta dei resti della Cappella Maremonti, rinvenuti quasi per caso all’interno della Chiesa Principale. Pochi sanno che Campi è il luogo in cui è nato uno dei massimi artisti italiani del Novecento, Carmelo Bene, cui va il merito di avere cambiato per sempre il teatro italiano.

 

Perché il Sud migliore, quello produttivo e propositivo,
fatica ancora a fare notizia?

 

«Mi meraviglierei del contrario. In tutti i campi, il Sud ha maggiori difficoltà rispetto al resto d’Italia. Molti eventi, che si tengono nel Mezzogiorno, soffrono l’indifferenza dell’informazione. È un po’ ciò che è accaduto alla Città del Libro, la quale tuttavia quest’anno ha catalizzato un’attenzione maggiore perché la formula utilizzata è stata davvero innovativa: non si poteva non tenerne conto. Il 2017 ha segnato un cambio di passo, potremmo dire un salto di qualità. La Città del Libro è stata per anni la Fiera del Libro, cioè l’incontro di autori ed editori per pubblicizzare e far vendere libri: cosa del tutto legittima e positiva, per carità, sia benvenuta ogni iniziativa volta a fare vendere più libri. Quest’anno, però, abbiamo pensato a qualcosa di diverso. La nostra rassegna non poteva più essere la Fiera del Libro: doveva avere obiettivi culturali di più ampio respiro. Abbiamo voluto un evento che avesse un ruolo strategico, che fosse uno strumento di dialogo tra le varie sponde del Mediterraneo».

 

Un ponte tra le culture e le nazioni…

 

«Noi abbiamo creato e creiamo opportunità di dialogo in una fase storica in cui invece si amplificano il contrasto, l’incomprensione, persino il timore del diverso (pensi, ad esempio, al fenomeno delle migrazioni in Europa che suscita paura e sgomento). Tutto ciò si combatte con la cultura e con il dialogo. Il nostro è un obiettivo ambizioso, che noi dobbiamo proporci di portare avanti, perché la Puglia è una regione vocata a questo compito, perché il Salento è un avamposto proiettato nel Mediterraneo, un osservatorio atto a favorire formidabili momenti di scambio. E noi abbiamo pensato di fare di Città del Libro un’occasione per intrecciare dei contatti culturali con altre genti. Abbiamo stabilito rapporti di scambio con case editrici e autori al fine di favorire la pubblicazione in Italia di opere edite nei Paesi con cui abbiamo collaborato e viceversa; è stata siglata un’intesa tra Università di Lecce, Città di Campi e alcuni Atenei del Nordafrica per un Erasmus nella direzione di quei Paesi, insomma un Erasmus verso il Sud piuttosto che un Erasmus verso il Nord3. Campi diventa lo snodo di questa intesa, che prevede iniziative di varia natura. Campi è il comune che avrà la regia di tutto questo. In questa progettualità sta la novità rispetto al passato e risultano coinvolti la Regione Puglia e l’Università di Lecce e quindi tutto il territorio. La finalità è combattere la diffidenza, i pregiudizi e la paura con il dialogo, tramite l’interazione tra culture di varia provenienza. Città del Libro aveva bisogno di trovare una sua specificità, data anche la collocazione geografica del Salento e di Campi in particolare in quanto baricentrica rispetto alle tre province4. Quest’anno, ribadisco, c’è stato il grande salto di qualità: prova ne è la partecipazione di personalità di grande rilievo e caratura».

 

Sono passati molti anni dal 1995, quando ebbe l’intuizione 

di scommettere sul suo paese e dare vita ad un festival 

dedicato ai libri. Che cosa la spinse a questa scommessa?

 

«Allora Campi era in mano alla criminalità organizzata. Ci chiedemmo: come combatterla? Scommettemmo sulla cultura: a nostro modo di vedere, la cultura poteva vincere la barbarie. I cittadini avrebbero potuto riappropriarsi della loro città (qui alle otto di sera c’era il coprifuoco!), se si fossero rammentate loro la nobiltà delle proprie radici e la ricchezza culturale della loro terra. Quell’amministrazione organizzò quindi feste, spettacoli, concerti, incontri, presentazioni di libri, mostre; costituì perfino un’orchestra comunale; esaltò il talento e la creatività e la gente cominciò a reimpossessarsi della città. E man mano che i cittadini si reimpossessavano degli spazi pubblici, arretrava la criminalità. Potemmo certo contare sul sostegno degli altri livelli istituzionali, delle forze dell’ordine, delle scuole e delle associazioni. Ma fu la cultura a dimostrarsi la carta vincente, il grimaldello con cui scardinare il meccanismo dell’illegalità. Alla fine di ogni anno scolastico, veniva donato un libro a tutti gli studenti, inondando la città di millecinquecento volumi: fu così che prese quota l’idea di Città del Libro. È stata una scommessa bella e anche difficile, perché abbiamo fatto tutto con le nostre mani. Pensi che l’anno scorso la Regione Puglia ha stanziato più di un milione di euro per la Notte della Taranta e ventunomila euro per la Città del Libro. C’è proporzione? Noi siamo riusciti a portare avanti la nostra manifestazione, perché ci abbiamo creduto e perché siamo aiutati dai cittadini e da un numero di persone straordinarie che per più di due mesi lavorano gratuitamente»

In un’intervista dello scorso Giugno, il Presidente della Fondazione della Città del Libro, Cosimo Durante, ha parlato 

di un nuovo modo di fare turismo: quello sostenibile, 

quel turismo che procede orientato dai beni e dagli interessi culturali e quindi anche da appuntamenti come Città del Libro (che vanno ad inserirsi in Puglia3655). 

Qual è la Sua idea di turismo?

 

«Consideri quello che è accaduto a Gallipoli, parlo del turismo “mordi e fuggi” e di puro intrattenimento, che nega la valorizzazione delle risorse culturali di una località. Mentre la parabola di questa forma di turismo ha toccato il suo picco massimo, a Gallipoli ha chiuso i battenti l’ultima libreria cittadina6. Ecco, noi tentiamo di muoverci nella direzione esattamente opposta. Vogliamo un turismo intelligente che valorizzi le risorse culturali, artistiche, storiche, monumentali e soprattutto umane: questa terra vanta la luce di figure straordinarie. Vede, noi abbiamo affidato l’inaugurazione dell’Edizione 2017 della Città del Libro a un concerto dell’ottima Orchestra del Salento, la quale, nella magnifica cornice della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, ha eseguito un’opera di Carmelo Bene. Carmelo Bene, un genio salentino, ha reinterpretato il Manfred di Robert Schumann sul testo di Lord Byron7. Mi sono venuti i brividi! La nostra terra ha dialogato con le espressioni più alte della cultura universale: e Carmelo Bene era di Campi! Quella sera si capiva visivamente quante potenzialità abbiamo: e invece per Carmelo Bene, per la musica e per gli artisti e i musicisti locali abbiamo fatto ancora troppo poco». 

 

Perché mancano manifestazioni teatrali di alto livello
nella città di Carmelo Bene?

 

«Il Salento è una terra che nei confronti del suo figlio illustre ha mostrato di avere una certa smemoratezza: noi abbiamo voluto farle tornare la memoria. Come? In primo luogo, nel corso del 2017 e con bando nazionale, ha avuto luogo la prima edizione del Premio Carmelo Bene: una commissione di Docenti Universitari ha premiato due tesi di laurea e una pubblicazione sull’Opera di Carmelo Bene8. Inoltre, il Teatro di Campi è stato già intitolato a Carmelo Bene: è il primo teatro a lui dedicato in Italia e nel Mondo. In più, stiamo lavorando per tenere a Campi nei prossimi mesi, spero prima dell’estate, un convegno nazionale che si riunisca magari con cadenza biennale e che faccia un po’ il punto sugli studi su Bene. Questa è la progettualità per Carmelo Bene, per la cui radicazione occorre tempo».

 

A proposito di viaggiatori e di turisti in cammino, colpisce 

la collaborazione tra Fondazione Città del Libro e Matera 2019. 

È facile fare sistema tra realtà meridionali?

«Sia nel mondo dell’impresa sia nel mondo politico-istituzionale, non siamo educati a fare sistema: questo ci rende più deboli. Noi facciamo fatica a trovare l’appoggio o la collaborazione stabile da parte del settore imprenditoriale o bancario, salvi alcuni casi. Proprio per questo, Città del Libro è un piccolo miracolo del Sud».

 

L’edizione numero ventidue di Città del Libro si è tenuta a Campi dal 23 al 26 Novembre. Proprio il 27 Novembre il Sole 24 Ore pubblicava la consueta classifica annuale del benessere socio-economico delle province italiane. Anche quest’anno le province meridionali occupano la parte bassa della classifica. Mi colpiscono in particolare le ultime due posizioni, assegnate rispettivamente a Taranto e a Caserta, territori ricchissimi di storia e un tempo gloriosi.

Fa specie vedere così in affanno l’antica Tarentum e la città 

della Reggia. Lecce è centoquattresima su centodieci. 

Secondo Lei, cosa serve al Meridione per decollare?

 

«Più civismo. Risorsa fondamentale per la qualità della vita. Civismo vuol dire legare di più il cittadino alla dimensione pubblica. Per ragioni storiche, i nostri concittadini non sentono questo legame. Quella meridionale non è solo una questione economica, bensì anche di civismo. Il civismo comporta la valorizzazione di ciò che è di tutti. Il pubblico è cosa di tutti: la nostra mentalità tende a ritenere che ciò che è pubblico è di nessuno. Dobbiamo lavorare sulla piena valorizzazione dei nostri tesori e talenti, perché il nostro meglio entri in un sistema pubblico. Lecce è una città meravigliosa: perché affonda tanto nelle graduatorie nazionali? Perché i cittadini sentono il rapporto con la dimensione pubblica in modo debole. Potenziare il civismo significa accrescere la qualità della vita. L’illusione è che si possa stare bene restando isolati: se si resta isolati, non si sta mai bene. E se manca la dimensione pubblica è difficile essere felici».

Che cos’è per Lei il Dono del Sud?


«Il Sud è ricco di doni. La civiltà moderna è nata in queste contrade: noi siamo la terra di Federico II. Qui sono nati l’arte moderna, la cultura moderna, il diritto moderno, la scienza moderna. Come? Attraverso le contaminazioni. Ecco la “Città del Libro-ponte”: la cultura araba è stata promossa da Federico, perché ai suoi tempi quello arabo era un sapere avanzato (soprattutto sul piano scientifico e filosofico), perché ai suoi tempi il Nord dell’Europa eravamo noi. Il Sud è una terra piena di doni: ha donato molto al mondo e poi ha smarrito questo ruolo, perché non ha saputo diventare comunità. Noi abbiamo bisogno della comunità, d’istituzioni e classi dirigenti credibili, di legare il cittadino al destino comune, di fargli capire che ciò che è di tutti è di tutti e non di nessuno. Gli interventi finanziari, da soli, sono inefficaci: il divario rispetto al Nord è rimasto, perché di matrice culturale».

Se lei volesse fare uno spot per Campi Salentina, 

quale slogan utilizzerebbe?


«Mi lasci partire da un esempio. Carmelo Bene non è un prodotto casuale. Tra la fine del 400 e tutto il 600, Campi è stata una comunità molto attiva dal punto di vista artistico e specialmente teatrale. C’era un humus. Questa è una città ricca di cultura e figure straordinarie. Questo consentirebbe a Campi di entrare nel futuro con più equilibrio e sicurezza. Perciò ecco lo slogan che io conierei: grazie a una cultura antica proiettarsi verso l’avvenire. Guardi, Federico II di Svevia veniva in queste terre con Pier delle Vigne per cacciare e contemporaneamente ragionare delle Costituzioni di Melfi, promulgate nel 1231. Federico è un brand della Puglia: opere straordinarie come il castello federiciano di Brindisi o la Torre di Leverano9 andrebbero messe a sistema. Federico era puer Apuliae, sicché auspicherei un percorso prettamente salentino dei luoghi federiciani: Oria, Leverano, Campi Salentina, Lecce. Dietro questo circuito dei monumenti si nasconde un circuito intellettuale, in cui la Puglia e il Salento hanno ancora molto da dire. Abbiamo creato la ricchezza materiale: va bene. Abbiamo riempito lo stomaco: va bene. Ora, è tempo di investire in cultura. Riempiamo un po’ la testa… Riempiamo un po’ la testa…». 

 

La mia conversazione finisce con la cordialità di una stretta di mano. Esco dal Municipio ed entro nella luce abbagliante di quest’autunno che muore. Sento il vento del Nord che mi annusa il cappotto: osservo l’eleganza dell’entrata laterale della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, che da quel vento ha preso il nome, la Porta della Tramontana. Procedo in direzione del Palazzo Marchesale e penso a Federico a caccia, nei boschi attorno a Campi: il fascino di questa terra ricca di storia mi riempie un po’ la testa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

decoro cultura
1  Il Prof. Zacheo è stato più volte sindaco di Campi (dal 24 aprile 1995 fino al 13 febbraio 2001: oggi è in carica dal 27 maggio 2014).
2 DPR 2 settembre 1998.

3 Si tratta di una Dichiarazione di intenti, siglata a Campi Salentina il 24/11/2017, da una parte, da Città del Libro, a firma del Sindaco Zacheo oltre che del Presidente della Fondazione “Città del Libro”, Cosimo Durante, e dell’Assessora all’Industria Turistica e Culturale della Regione Puglia, Loredana Capone; dall’altra, dall’Università di Lecce, dagli Atenei di El-Tarf e Annaba in Algeria e dall’Università Mohammed V di Rabat in Marocco.

4 Lecce, Brindisi e Taranto (nda).

Puglia365 è il piano strategico del turismo della Regione Puglia per il periodo 2016-2025.

6 Cfr. articolo del 14/12/2017 pubblicato su www.illibraio.it .

7 Il Manfred è uno spettacolo teatrale del 1978, diretto, interpretato e tradotto da Carmelo Bene, tratto dal poema drammatico di George Gordon Byron con musiche di Robert Schumann.

8 Qui: http://www.comune.campi-salentina.le.it/documenti/notizie/VERBALE.pdf, il Verbale della Commissione Giudicatrice.

9 La Torre Federiciana di Leverano, che si eleva per circa 28 metri nel centro abitato, fu voluta, secondo la tradizione, da Federico II di Svevia per monitorare la costa ionica. Monumento nazionale dal 1870, la torre presenta una forma parallelepipeda a base quadrata con i prospetti orientati secondo i punti cardinali ed è provvista di merli.

 

ORO DI PUGLIA: LA PIETRA LECCESE di Giusto Puri Purini – Numero 9 – Dicembre 2017

cat-arte
cat-economia
cat-ambiente

ORO DI  PUGLIA:  LA PIETRA LECCESE

 

Giusto-Puro-Purini-storia

«Neglette, e quasi molli in ampia massa,
le pietre a Lecce crea l’alma Natura:
ma poiché son rescise, in loro passa virtute,
che le pregia, e che l’indura:
mirabili a vederle, ò se vi si lassa
scelti lavor la dedala scultura,
ò se ne fanno i dorici Architetti
gran frontespitij con superbi aspetti».

(Ascanio Grandi, I fasti sacri, 1635)

 

nella Puglia

esistenti sotto svariate forme e combinazioni chimiche, affioranti e non, dalla piana ai modesti rilievi, si è presto associata ai destini delle popolazioni quivi giunte da più parti, ma soprattutto dal Mediterraneo orientale. 

 

Furono Japigi, Messapi, fino alla conquista romana, a scavare
ed utilizzare queste pietre tagliate a misura, a seconda della durezza
ed impiegarle all’inizio, nella realizzazione di antichi simboli cosmici, quali Dolmen e Menhir, con lastre e colonne di grandi dimensioni.

 

Le parti più dure e compatte, di quelle tante varietà che il suolo offriva, trasformarono poi l’Habitat, dalle grotte alle costruzioni lignee ed infine alla pietra. Oggi quel materiale, estratto in cave di grande, media e piccola dimensione come nei piccoli appezzamenti contadini, marca definitivamente il territorio della Puglia ed in particolare del basso Salento. Lecce, mitica città del sud Italia, ne fu il centro: il suo nome nasce dalla sovrapposizione di una lupa (Lupia in latino) e dell’Ilex (il Leccio), entrambi raffigurati nello stemma della città, a simboleggiare l’uno la Civiltà romana, l’altro i grandi boschi di lecci che anticamente coprivano quelle terre. Lecce, anche il luogo dove i calcaridi affioravano nella piana, come una gigantesca vena. All’origine fu Sybar, città Messapica, diventando Lupiae dopo la conquista romana; ma fu solo dall’arrivo dei Normanni (nell’XI secolo), che vi trasferirono la capitale e la loro corte e ove nacque Tancredi, figlio di Ruggero III, a svilupparsi come grande centro, diventando nel tempo quella meravigliosa città che oggi vediamo. 

 

Il segreto fu, dunque, quell’immane blocco di Leccisu (la Pietra leccese), la parte più pura dei calcaridi, cangiante di tonalità a seconda della luce, in una infinita quantità di toni e sottotoni del giallo e soprattutto resistente al tempo ed alle intemperie. 

Il miracolo, quindi, di una pietra che, esposta all’aria e messa in opera, si compatta e solidifica. L’Oro di Puglia, affiorante in superficie, si estendeva da Lecce fino a Corigliano d’Otranto, Melpignano, Maglie e Cursi. Gli Aragonesi, durante il Regno di Napoli, ne fecero uno dei centri più importanti del Mediterraneo, costruendo Castelli, Infrastrutture, Palazzi, Masserie e Torri di difesa fortificate. Si diede libero sfogo all’uso soprattutto dei calcari, in dimensioni massicce, alternando nelle strutture portanti, realizzate con perizia e qualità artigianale, materiali compatti di varie gradazioni. Lo conferma, oggi, l’eccellente stato di conservazione di molte opere.  

 

Con gli spagnoli, iniziò anche la costruzione di molte Chiese, a fare
da contraltare alle imponenti architetture guerresche; ed è qui
che iniziò l’avventura di quel meraviglioso Barocco Leccese,

 

che ammiriamo oggi, ricco di fregi, balconi, estradossi, infradossi, volute, sculture grottesche, rosoni, significati esoterici, che l’infinita malleabilità della pietra leccese (Leccisu), permetteva a grandi artisti ed artigiani di scolpire e realizzare. Tutta Lecce, oggi, è un fluire di scorci barocchi, illuminati o spenti dal variare della luce solare e non, facendo ora risaltare quell’aggetto, ora quel timpano, o quella lesena, evidenziandone i chiaroscuri. Tra le opere più belle, la Basilica di S. Croce(1549-1695) disegnata da Gabriele Ricciardi e realizzata dagli architetti Cesare Penna e Giuseppe Zimbalo, che ristrutturò tra l’altro anche il Duomo dell’Assunta tra il 1659 ed il 1670.

 

La pietra leccese portò anche una rivoluzione nella costruzione 

delle volte,

 

in particolare le molte varianti di quelle a stella ed altre, che arricchivano i palazzi nobiliari; ma anche le semplici case dei salentini, data la perizia dei contadini muratori-architetti e voltaroli. E tutta l’area fu invasa da una miriade di piccoli Templi e Cappelle, i quali, pur in modo semplice e spoglio, segnavano comunque la magia del vivere salentino.

Ciò fu possibile grazie alla facilità di tagliare a misura i conci in leccisu per le volte, a seconda dell’ampiezza del fabbricato.


Una forma di progressione geometrica nell’avvicinarsi al centro della volta, già vista nelle pagliare, che oggi, nei progetti, date certe misure auliche molto ripetitive, fanno pensare ad un sistema contemporaneo di prefabbricazione. Ancora adesso, moderne aziende come la Pimar di Maglie, estraggono i preziosi conci in gigantesche cave a cielo aperto, esportando il leccisu in tutto il mondo, collaborando con grossi studi internazionali (Renzo Piano, Jean Nouvel ecc. …) e grandi Designer come Ugo La Pietra.

 

Gli artigiani scalpellini, nelle loro botteghe, sperimentano design di ogni tipo, scultori ed artisti ne fanno largo uso ed è vissuto come un vanto il possedere un pavimento, una rifinitura, un portale, un capitello, realizzato con l’Oro di Puglia.

 

 

 

 

 

fine-t-blu
leuca

 

COSENZA E IL PARCO DELLA SILA di Helene Blignaut – Numero 9 – Dicembre 2017

cat-ambiente
cat-arte
cat-stile

COSENZA E IL PARCO DELLA SILA

 

Helene-Blignaut_verde

Sono in giro a Cosenza di sotto, un quadrato tagliato in diagonale dove faccio la spesa di cipolle e origano e scivolo tra moda, gioielli e sculture e poi me ne vado laggiù, oltre un fiume che non manca di ricordarci quanto i Goti piansero Alarico.

E m’infilo su per una strada stretta dove severi edifici di pietra antica
mi scortano ai fianchi, interrotti da vicoli e scalette storte
che salgono verso un non si sa dove.

 

E passo la cattedrale sonnolenta a ogni ora. Arrivo in cima, sulla piazza dei nobili palazzi e del Teatro Rendano e il verde di un giardino che mi porta più su, lungo la strada di curve a S e giunge al gran Castello Svevo. E poi scendo e riscendo.

 

Da sotto, mi volto a guardare questo agglomerato a cono, un insieme di elementi scuri intrecciati come dita di mani giunte in preghiera, ma dalla modernità del quadrato, siamo pronti per risalire ancora. Si va “in Sila”. E’ un giugno talmente verde che ci colora pelle e pensieri. Andiamo con la macchina e mi prende un profondo senso di colpa:

 

 tra queste foreste eterne e silenziose, tra i cespugli dove occhieggiano bonari i lupi e una fauna timida, e i fiori di ginestra 

vibrano ovunque in macchie gialle,

mi domando perché non siamo saliti a cavallo. Il rumore di zoccoli potrebbe essere gradito ai padroni del parco. Il rombo dei motori del progresso suona come una violazione, così tento di compensare parlando a bassa voce. 

 

I boschi, i laghi e le pianure sterminate dove riposano mucche e buoi e passeggiano greggi di pecore, mi fanno apprezzare quanto la lingua italiana sia esatta: 

il participio passato del verbo splendere non esiste. E’ un verbo difettivo e dice tutto nel suo participio presente: splendente.
Da sempre e per sempre. Niente di compiuto e tutto in divenire.


Molto più alto, tra dirupi vertiginosi, mi aspetta un borgo antichissimo, Longobucco, dove donne pazienti tessono le fibre di ginestra e c’è qualcuno che tinge le pezze con frutta e liquirizia, e tra i vicoli sono stesi copriletti e tovaglie, sipari multipli che mi portano a un belvedere. Da qui, la maestosità della natura si offre alla vista e ancora m’impone il silenzio, mi rallenta l’anima in pensieri leggeri. Ma è impossibile fermarsi. La macchina è già stata messa in moto. Mi arrendo. Scendiamo alle porte del parco, a Camigliatello, per comprare funghi profumati da svenire di fame e, già che ci sono, tovaglie e tappeti dal tatto rustico come una franca stretta di mano.

 

Ora, di nuovo giù, nel quadrato di Cosenza moderna, voglio comprare ancora origano e liquirizia che, nonostante l’accurata confezione, lasceranno per sempre nella mia valigia
un ineffabile profumo di Calabria.

 

 

 

 

bellezze sottosopra
ghirigoro_ambiente
cosenza2
parco sila

 

DE SICA: UNA LEGGENDA DAL SUD di Fernando Popoli – Numero 9 – Dicembre 2017

cat-arte
cat-economia

DE SICA:  UNA  LEGGENDA DAL SUD

 

 

testimonianza delle arti e delle scienze, insieme con altri preziosi documenti, nell’ipotesi che altri popoli, di altri mondi, possano raccogliere, studiare e capire la genialità di noi italiani. Questo è il più importante tributo a Vittorio de Sica, regista e attore, tra i più grandi del Novecento. Pietra miliare del cinema italiano, genialità del Meridione, 

LADRI_DI_BICICLETTE

 

 

“Napoletano de fora”, come amava definirsi, essendo nato a Sora 

nel 1901, da padre impiegato della Banca d’Italia, trasferito lì 

per qualche anno, e da madre napoletana. Sora, in quegli anni,
faceva parte della provincia di Caserta, Terra di Lavoro, 

e risentiva dell’influenza culturale del Napoletano. 

Dopo alcuni anni la famiglia tornò a Napoli, dove Vittorio adolescente crebbe, formò il suo carattere e acquisì la cultura che ha sempre caratterizzato la sua opera d’artista. “Ladri di biciclette”, scritto da Cesare Zavattini, è uno dei capolavori del Neorealismo italiano di De Sica regista, insieme a sciuscià, Miracolo a Milano, Stazione Termini e Umberto D. Il film vinse oltre cinquanta premi internazionali, compreso l’Oscar come miglior film nel 1949. E’ lo stesso De Sica, in un’intervista, ad affermare che: “Dopo alcuni film commerciali, colsi subito la proposta di Zavattini per un film che affrontasse la dura realtà del dopoguerra italiano con le sue paure, la sua povertà, la mancanza di solidarietà umana”. L’originalità della storia si esprime attraverso il dramma dell’attacchino al quale rubano la bicicletta, mezzo di trasporto indispensabile per il suo lavoro, con tutte le conseguenze che ne derivano. 

Tutto era diverso in quel film: l’ambientazione nelle strade di Roma,
gli attori presi dalla strada, il tema sociale, le facce vere della gente. Tutto era diverso dai “telefoni bianchi” che sino allora avevano addormentato le coscienze. Era uno sguardo su una realtà
ignorata che apriva nuovi scenari, nuove forme espressive
e dava spazio ai veri sentimenti dell’uomo.

Alla prima al Barberini di Roma, c’erano tutti i grandi di quegli anni: Visconti, Fellini, Amidei, Rossellini, e fu un vero trionfo. Dopo una navigazione non entusiasmante nelle sale italiane sotto il profilo economico, il film cominciò a mietere premi in tutto il mondo, uno dopo l’altro, sino a essere consacrato come un capolavoro assoluto. La rivista cinematografica britannica Sight & Sound lo considerò il più grande film di tutti i tempi. Nel 1958 fu dichiarato il secondo miglior film di sempre alla Confrontation di Bruxelles; fu classificato in quarta posizione ne I cento migliori film del cinema mondiale, dalla rivista inglese Empire. Sciuscia, Miracolo a Milano, Stazione Termini e Umberto D seguono gli stessi stilemi, i temi sociali, le problematiche di quegli anni, e furono altri riconoscimenti internazionali con premi Oscar. Charlie Chaplin, dopo aver visto Umberto D, affermò di aver pianto e singhiozzato per quindici minuti. Umberto D è considerato il miglior film di De Sica; era dedicato al padre, alla sua vita difficile, spesso al limite della povertà, ma sempre dignitosa, come lo stesso De Sica affermava: “La mia famiglia viveva in tragica e aristocratica povertà”. Anche in questo caso la risposta del pubblico fu modesta, ma ebbe successo all’estero e diventò una pagina straordinaria del Neorealismo. Mentre de Sica conquistava il mondo con i suoi film, c’era in patria chi lo denigrava, lo ostacolava e definiva il suo cinema: “Stracci, panni sporchi da lavare in famiglia”. Capitano di questa denigrazione un politico italiano, in quegli anni Sottosegretario allo Spettacolo, che faceva di tutto per ostacolare la genialità dei nostri più grandi autori: 

 

De Sica, Rossellini, Amidei, Zavattini, perché, a suo dire, rappresentavano un paese appena uscito dalla guerra
con le sue miserie, le sue povertà, i suoi bisogni,
tutte cose che quel politico voleva nascondere
e che, per fortuna, non gli riuscì di fare.

 

Prima della grande stagione del Neorealismo, c’era stato un altro De Sica, attore di un cinema da commedia piccolo borghese dei film di Mario Camerini, come Gli uomini che mascalzoni e Parlami d’amore Mariù, che gli dettero una grande notorietà, e regista poi di Maddalena zero in condotta, Teresa venerdì e I bambini ci guardano, che anticipavano la stagione successiva. Fu un lungo periodo di successo che mostrò le qualità dell’attore e del regista, ben presto diventato un beniamino del pubblico. In precedenza, una lunga gavetta aveva formato De Sica nel mestiere dell’attore, insegnandogli i segreti della recitazione. Aveva fatto parte della compagnia teatrale di Tatiana Pavlova, di Italia Almirante e di quella di Sergio Tofano e Giuditta Rissone. Negli anni Trenta diventò primo attore nella Compagnia Za-Bum di Mario Mattoli e, da lì in poi, fu un susseguirsi di successi assurgendo a una notorietà nazionale. Nel dopo guerra lavorò con Luchino Visconti e Mario Chiari, sino ad abbandonare per sempre la recitazione teatrale e a dedicarsi unicamente al cinema. Della stagione neorealista abbiamo detto, diamo uno sguardo alla sua bonomia, alla sua spiccata simpatia, alla sua inconfondibile comunicativa di attore popolare che ha rappresentato nel meglio la personalità dell’italiano. Penso sopratutto alla serie dei Pane, Amore e Fantasia di Comencini e poi di Risi. Qui il maresciallo Carotenuto è amante delle belle donne, alle prese con i pregiudizi dell’epoca e con le reprimende di un fratello prete. 

 

Al suo fianco, grandi attrici come la Lollobrigida e la Loren,
icone meravigliose dell’Italia che risorgeva dalla guerra
e vedeva realizzato nelle “maggiorate” il proprio sogno erotico. Esilarante i duetti con Tina Pica, la governante, la quale ripeteva
al maresciallo: “La gente mormora… mormora… “, mettendolo
in guardia per il suo comportamento libertino.

 

Alla serie di Pane e Amore seguirono altro straordinari successi di De Sica attore, quali Peccato che sia una canaglia, Il conte Max e Il vigile, con Alberto Sordi; memorabili le sue scene con Albertone, vigile testardo, che multa anche il proprio sindaco – De Sica. E in seguito: Il generale della Rovere, di Roberto Rossellini, nel personaggio di un truffatore che assurge a un’inaspettata dignità umana e subisce le torture dei tedeschi. Una pagina bellissima di recitazione di De Sica e di regia di Rossellini. E ancora, I due marescialli, Un italiano in America e tanti, tanti altri film ai quali dà un tocco di stile e di eleganza. E poi c’è il De Sica regista in questi anni, che consolida la sua fama internazionale ed è premiato in tutto il mondo. Basta ricordare

 

La ciociara, dal romanzo di Moravia, con Sophia Loren e Jean Paul Belmondo, ambientato nei luoghi in cui si svolsero le terribili Marocchinate, gli stupri di donne per opera dei soldati guidati
dal generale Alphonse Juin. Il film valse un Oscar
alla Loren per l’interpretazione. 

 

E quindi, Matrimonio all’italiana, con la Loren e Mastroianni, tratto dalla commedia di de Filippo Filomena Marturano, ancora un Oscar come miglior film straniero. E poi Ieri, oggi e domani, con Mastroianni e la Loren, prodotto da Carlo Ponti, con il celebre spogliarello di Sophia di fronte a un Marcello intimidito, altro premio Oscar nel 1965. Sino ad arrivare al Giardino dei Finzi Contini, dal romanzo di Bassani, Oscar nel 1972 come miglior film straniero.

 

La fama di de Sica è ormai leggendaria, il suo nome è garanzia
di successo internazionale. Il produttore Carlo Ponti ha costruito
con lui e la coppia Loren – Mastroianni un trio imbattibile nel cinema mondiale, espressione della genialità italiana e, specificamente,
del Meridione d’Italia; De Sica nativo di Sora, la Loren napoletana, Mastroianni di Fontana Liri.

 

L’ultimo progetto al quale stava lavorando insieme a Zavattini era I due vecchietti, una disamina della loro esperienza di vita e di arte; loro due, uniti negli anni da una grande amicizia, che si raccontano. Un tumore ai polmoni gli tolse la vita a seguito di un’operazione e morì all’età di 73 anni nel 1974 a Neully sur Seine, vicino a Parigi, lasciando dietro di sé una scia di leggenda. I film di Vittorio de Sica, oggi, sono studiati nelle università di tutto il mondo.

 

Il ragazzo nato a Sora, di spirito napoletano, assurse con la sua sensibilità alle vette più alte del cinema internazionale, portando
nel mondo il nome dell’Italia e consolidando
la genialità della gente del Sud.
 

 

 

 

 

 

 

 

primaria2
fernando_popoli
fine-t-blu

 Le foto sono state gentilmente concesse da Arturo e Marco Zavattini

cat-stile