LA VOCE DI NAPOLI di fernando popoli numero 32 febbraio marzo 2025 editore maurizio conte

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 LA VOCE DI NAPOLI

 

Il cantante nacque a Villaricca, piccolo paese della provincia di Napoli, da genitori poverissimi e, come egli stesso racconta nel suo libro Scontri e incontri, è costretto a lasciare la scuola a metà della terza elementare perché non ha i libri, ha smarrito una scarpa dell’unico scalcagnato paio di scarpe che possiede e si vergogna di andare in classe come un pezzente. 

A nove anni,

 

poco più che bambino, si iscrive ad una scuola serale di musica organizzata per formare la banda musicale del paese. A undici anni diventa ufficialmente 

suonatore di clarinetto ed inizia così la sua carriera musicale.


A diciassette anni si trasferisce a Napoli con la famiglia. Comincia a lavorare come operaio per guadagnarsi da vivere ed entra nel giro di alcuni studenti ai quali palesa le sue prime qualità canore, che vengono subito apprezzate.   

Nel 1943 entra a far parte del novantunesimo reggimento di cavalleria di Torino. Si trova a casa in convalescenza quando riceve la notizia che a Napoli stanno insorgendo contro le truppe tedesche, dunque forma velocemente un gruppo di giovani volontari suoi coetanei, insieme si armano con l’aiuto di un capitano di artiglieria e riescono audacemente a sminare un ponte a Chiaiano. Sulla via del ritorno incontrano un drappello di tedeschi con cui si apre un violento conflitto a fuoco, dove viene ferito gravemente. Trasportato in ospedale dai compagni sopravvissuti su di una ”carrettella”, si salva la vita quasi per miracolo, ma rimane per sempre con una gamba claudicante.   

 

Spinto dagli amici di Chiaiano, inizia a frequentare la scuola di canto del maestro Gaetano Lama e del cantante Vittorio Parisi che lo prendono subito a ben volere e ne intuiscono le sue eccellenti doti canore. Dopo pochi mesi, presentato dallo stesso Parisi, debutta al Teatro Reale di Napoli ottenendo un lusinghiero successo, ma la sua carriera viene subito osteggiata dall’impresario del teatro che vuole favorire i suoi cantanti e lo esclude dagli spettacoli. Affronta così un momento estremamente duro e difficile. Frequenta la Galleria Umberto I, di fronte al Teatro San Carlo, dove si riuniscono spesso cantanti e attori disoccupati in cerca di scritture che non arrivano, ma l’anno successivo

partecipa ad un concorso bandito dalla Rai per voci nuove e riscuote un clamoroso successo. Giunto alla fase finale della competizione, che si svolge 

al Teatro Delle Palme, nel quartiere Chiaia, 

a ridosso della celebre Via dei Mille, 

si classifica primo assoluto


con 298 voti a suo favore, mentre il secondo classificato ne ottiene solo 43. La vittoria giunge come una salvezza: ottiene il premio in denaro di tremila lire ed un contratto con Radio Napoli, e la miseria è abbandonata per sempre. Comincia a cantare in seguitissime trasmissioni radiofoniche con la guida del Maestro Gino Campese che dirigeva in quegli anni Radio Napoli. Su suggerimento di Campese

cambia il suo nome d’arte in Sergio Bruni per non confondersi con un omonimo cantante ed inizia per lui un periodo di grandi successi, 


in un ambiente altamente professionale qual è la Rai di Napoli. Contemporaneamente riprende a studiare per affinare le sue qualità canore. Inoltre, si sposa felicemente con Maria Cerulli e ha con lei quattro figli.   

 

Nel 1949 partecipa alla prima Piedigrotta, trampolino di lancio per le voci nuove, e ha un grande successo con la canzone Vocca ‘e rose di Mallozzi e Rendine, due autori di chiara fama. Negli anni di partecipazione alle successive edizioni di Piedigrotta lancia le canzoni ‘O ritratto ‘e Nanninella, Suonno a Marechiaro, Vieneme ‘nzuonno e nel 1962 si classifica primo con Marechiaro Marechiaro, di Murolo-Forlani. Nel 1960

al culmine della sua carriera ormai consacrata, partecipa per la prima volta 

al Festival di Sanremo e canta Il mare, di Pugliese, e È mezzanotte, di Testa e Rossi, ottenendo uno strepitoso successo di pubblico ed entusiasmando tutta l’Italia.


Ora tutti gli impresari lo richiedono per i loro spettacoli, il Festival l’ha consacrato come grande interprete della canzone napoletana, ma lui si rifugia nella sua bella villa per una pausa di riflessione. Riduce drasticamente le sue esibizioni con la delusione dei suoi fans e il suo repertorio attinge sempre più alle canzoni classiche.   

 

Negli anni Sessanta tiene concerti acclamatissimi in America e in Russia, rifiutando molti altri inviti e rinunciando a fiumi di soldi. Comincia a porsi il problema della continuazione della canzone napoletana in un mondo ormai dominato dall’avvento del Rock e da altre forme musicali. Con il poeta Salvatore Palomba musica Parole povere e Carmela, che diventa subito un classico della canzone napoletana.  

Viene invitato alla trasmissione televisiva Levate ‘a maschera Pulicenella e il sindaco di Napoli Maurizio Valenzi si congratula con lui per la vitalità e la freschezza con cui rinnova la grande tradizione della canzone. 

Tra gli anni Ottanta e Novanta realizza un’antologia della canzone napoletana orchestrata da Roberto De Simone e da lui stesso. Si ricordano anche la sua interpretazione nel film Serenata a Maria, per la regia di Luigi Capuano, e le sue partecipazioni ai film Il viaggio di Vittorio De Sica e Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? di Billy Wilder.   

 

Per un certo periodo si dedica anche alla pittura, realizzando delle mostre. 

Fonda inoltre un’associazione dal nome “Centro di cultura per la canzone napoletana”, dove insegna a titolo gratuito canto e chitarra a tutti quelli che ne fanno richiesta. 


In un piccolo teatro di venticinque posti nella sua dimora si esibisce, sempre gratuitamente, con i suoi allievi. Nel 1994 la casa discografica Emi, la più importante in assoluto, pubblica l’album Sergio Bruni, la voce di Napoli.   

 

Nel 1995 tiene
.

due memorabili concerti: il primo ha luogo a Napoli, a Piazza San Domenico Maggiore, alla presenza del sindaco Antonio Bassolino, con diecimila spettatori in delirio, 

il secondo a Roma, al Teatro dell’Opera, per volontà dell’assessore Gianni Borgna, 

che in quell’occasione scrive «Sergio Bruni è la voce di Napoli».


Anche Eduardo De Filippo, nel riprendere questa citazione, gli dedica una poesia.   

 

Nel 2000 lascia Napoli e la sua bella villa per ritirarsi a Roma, dove vivono le sue due figlie, e da allora si interrompono per sempre le sue performance.   

 

Cosa ha rappresentato Sergio Bruni per Napoli è presto detto: con la sua voce soave ha interpretato la più autentica canzone napoletana, quella che tocca il cuore per la sua poeticità e per la sua semplicità narrativa, allietando persone di tutti i ceti sociali, da quelli più popolari a quelli alto borghesi. Sergio Bruni, «la voce di Napoli», ha cantato per tutti coloro che chiedevano di sognare trasportati dai versi immortali e da quella melodia le cui radici si innestano nella grande tradizione musicale e canora napoletana. Quest’uomo semplice e schietto, modesto ed eccelso, generoso ed altruista rispose con il suo canto al loro bisogno di poesia. Su YouTube oggi vi sono migliaia di visualizzazioni dei suoi video e commenti entusiastici, a testimonianza di quanto sia ancora apprezzato.

 

 

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LA SARDEGNA E L’UNESCO di Gloria Salazar numero 32 febbraio marzo 2025 editore maurizio conte

 

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La sardegna e l’unesco

 

È la regione italiana che detiene, su scala nazionale, di gran lunga la percentuale maggiore di aree archeologiche, ossia il 17%, contro – incredibilmente – l’8,2% di quelle, ad esempio, del Lazio; ed è un valore sottostimato, perché si riferisce solo ai siti musealizzati. Per la precisione, oltre alle suddette aree archeologiche, nell’isola vi sono il 3,5% dei parchi archeologici ed il 2,7% dei manufatti archeologici nazionali. 

Numeri alla mano, dei 342 siti (tra aree, parchi e singoli monumenti) archeologici italiani, 61 si trovano in Sardegna. Senza contare le 30 strutture museali dedicate all’archeologia presenti nella regione.  La fonte è l’ISTAT, dati riferiti al 2017 del report del 2019 “I Musei, le aree archeologiche e i monumenti in Italia”. 

Un valore sottostimato, dicevamo, perché i siti archeologici censiti nel Piano Paesaggistico regionale della Sardegna sono più di 10.000 e molti, addirittura, non vi sono stati ancora inseriti. 

Praticamente 

non c’è neppure uno dei 377 comuni isolani che non annoveri delle vestigia archeologiche nel suo territorio. Si tratta di resti prenuragici, nuragici, fenici, punici, romani; un tesoro inestimabile e tuttora parzialmente inesplorato.


Di recente, nel 2020, è stata costituita l’Associazione “La Sardegna verso l’UNESCO”, per promuovere la candidatura di 32 dei principali siti nuragici, bene identitario sardo per antonomasia, alla lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità. 

Una goccia nel mare, ma una goccia importante. 

Ad oggi in Sardegna vi è un solo complesso nuragico, tra gli ottomila esistenti, ricompreso tra i monumenti 

Patrimonio dell’Umanità: il sito di Su Nuraxi a Barumini. Lo scopo prefissosi dall’Associazione è quindi quello di  

far includere il patrimonio nuragico nella World Heritage List, affinché ne «sia riconosciuto, tutelato e protetto l’inestimabile valore universale».


Augurandoci che questo possa servire anche a preservare nel presente – e per sempre nel futuro – l‘incontaminato contesto paesaggistico nel quale si trova questo patrimonio, di recente minacciato dall’indiscriminata installazione di foreste di pale eoliche e tappeti di campi fotovoltaici.   

 

L’iter è lungo, ma se la candidatura verrà – com’è auspicabile – accolta, una pagina importante della civiltà umana sarà portata all’attenzione mondiale. Quella di un’isola ancora da scoprire: una Sardegna che è un museo a cielo aperto.

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L’Italia, si sa, possiede un patrimonio archeologico straordinario. Quello che non si sa, o non si dice, è che la Sardegna di questo patrimonio ne possiede circa un quinto. 

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 Foto di Gloria Salazar

 

IL TEATRO-TEMPIO DI PIETRAVAIRANO Gemme del Sud numero 31 ottobre novembre 2024 editore maurizio conte

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IL TEATRO-TEMPIO DI PIETRAVAIRANO

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                  Pietravairano (CE)

 

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Pietravairano è un antico borgo di origine normanna non lontano da Caserta, 

che fino a poco più di vent’anni fa era ignaro di essere 

il custode di un tesoro straordinario.

 

Una mattina del febbraio 2001, il professor Nicolino Lombardi – dirigente scolastico con una grande passione per il volo e per l’archeologia – sta compiendo uno dei suoi tanti voli di ricognizione con lo scopo di coronare il suo più grande sogno: fare un’importante scoperta archeologica. 

 

Giunto all’altezza del Monte San Nicola, nota delle pietre bianche disposte in modo semicircolare e il suo sogno finalmente si avvera: si tratta dei resti di un antico complesso di epoca romana fino ad allora sconosciuto.

Il complesso archeologico del Teatro-tempio Romano di Pietravairano costituisce 

un raro esempio di impianto del tipo teatro-tempio risalente al II-I secolo a.C. 

Secondo gli storici, il luogo era un’area di culto fortificata già in epoca sannitica, 

che i Romani poi riconvertirono in un santuario dedicato forse a Giunone, 

a cui aggiunsero un ampio teatro scavato direttamente nella roccia.

 

Le due strutture sorgono su due terrazze a quote differenti: sulla terrazza superiore ciò che resta del tempio a pianta rettangolare; una ventina di metri più in basso, il teatro di cui si conservano la cavea semicircolare e la scaena

 

Il sentiero che dal comune di Pietravairano porta a Monte San Nicola è leggermente impegnativo in alcuni tratti ma ne vale davvero la pena: il complesso è maestoso e il panorama che si gode da qui è uno spettacolo nello spettacolo. La vista spazia in ogni direzione, dalla costa tirrenica al massiccio del Matese e regala la sensazione di dominare la vallata stando sospesi nel vuoto.

 

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IL POLO MUSEALE DI LATIANO Gemme del Sud Numero 31 ottobre novembre 2024 editore Maurizio Conte

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IL POLO MUSEALE DI LATIANO

 

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                     Latiano (BR)

 

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Nel 2018, a seguito di un lodevole progetto di riqualificazione del sistema museale, 

un vero e proprio “museo diffuso” è nato a Latiano (in provincia di Brindisi), 

per questo definita “città dei musei”. I musei civici della città 

sono stati riuniti in un unico Polo Museale

 

che trova la sede principale nell’ex Convento dei Domenicani (bellissimo edificio cinquecentesco appositamente restaurato), ma si espande anche nella Torre del Solise e nel Palazzo Imperiali, ubicati nel centro storico, e nel Parco archeologico di Muro Tenente, situato in piena campagna. 

 

I musei che costituiscono il Polo sono, nell’ex Convento dei Domenicani, quello delle Arti e Tradizioni di Puglia e quello del Sottosuolo e della Storia della Farmacia, e presso il Palazzo Imperiali la Pinacoteca Comunale ed il Centro di Documentazione Archeologica che, con la sua collezione archeologica “Antonio Marseglia”, è strettamente legato al sito del Parco Archeologico di Muro Tenente. A tali strutture si aggiunge inoltre la Casa-Museo Ribezzi Petrosillo.

Il Museo delle Arti e Tradizioni è uno dei primi di Puglia ad aver raccolto, dal 1974, testimonianze della cultura demo-etno-antropologica della regione

(oltre 4.000 oggetti e migliaia di documenti, anche fotografici, 

nonché le due notevoli sezioni speciali 

dedicate al vino ed alla ceramica).

 

Importanti sono le quattro ricchissime sezioni del Museo del Sottosuolo, che è unico in Puglia, la collezione del Museo della Storia della Farmacia, con la biblioteca specialistica fornita anche di volumi rari sull’alchimia, ed il Centro di Documentazione Archeologica, che con il suo eterogeneo repertorio di oggetti fornisce un interessante excursus dalla preistoria al Medioevo. 

 

Oltre all’esposizione delle sue pregevoli raccolte, il Polo è stato concepito per essere anche un centro polifunzionale che, ospitando diverse attività di divulgazione (mostre, convegni, eventi artistici, laboratori), ha la finalità di ampliare la fruizione dei musei da parte di un più vasto pubblico.

 

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RETABLOS di Gloria Salazar numero 31 ottobre novembre 2024 editore maurizio conte

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Chi ha reminiscenze scolastiche ricorderà di non aver mai sentito parlare dell’arte rinascimentale sarda.  

 

Quando si pensa alla Sardegna sotto il profilo artistico viene in mente tutt’altro. Tutti conoscono la civiltà nuragica con i suoi bronzetti e le sue misteriose torri, molti sanno dell’esistenza degli splendidi esempi di architettura romanica, forse qualcuno penserà agli artisti contemporanei; ma la pittura medioevale e rinascimentale sarda – se mettiamo da parte gli scritti di pochi storici dell’arte, in particolare Corrado Maltese, e i fondamentali studi di ambito locale – è sfuggita, almeno come movimento, ai radar della storiografia dell’arte nazionale. 

 

In una terra contesa per secoli tra l’Italia (Pisa, Genova e poi il Piemonte) e la Spagna, lo studio dell’arte sarda è rimasto terra di nessuno. Eppure in Sardegna vi sono, pressoché ignote, interessanti testimonianze di arte pittorica, cicli di affreschi e dipinti Medioevali di grande suggestione

 

Ma la manifestazione più notevole dell’arte sarda è rappresentata dai retabli

 

vasta espressione di un importante fenomeno artistico, altrettanto sconosciuto, fiorito nell’isola nel XV e XVI secolo.  

 

Paradossalmente, o forse no, negli ultimi anni la Spagna si è dimostrata maggiormente interessata alla storia ed alle vicende artistiche isolane, piuttosto che l’Italia stessa; probabilmente come conseguenza della dominazione iberica, sotto la quale la Sardegna si è trovata dal XIV al XVIII secolo. 

 

Ed è proprio dalla Spagna che nel ‘400 venne importata in Sardegna la fattispecie del retablo, termine derivato dal latino “retro tabula”, ossia dietro la tavola (dell’altare). I retabli – italianizzazione dello spagnolo retablos – per alcuni aspetti corrispondono ai nostri polittici. Hanno come caratteristica principale una struttura imponente in legno scolpito e dorato, suddivisa in numerosi scomparti posti su vari ordini, nei quali sono inseriti statue e dipinti su tavola, prevalentemente a fondo oro. La loro più impressionante rappresentazione è costituita dal Retablo Mayor della Cattedrale di Siviglia, il più grande del mondo, un’opera monumentale che misura quasi 30 metri di altezza e 20 di larghezza.

 

Anche in Sardegna i retabli sono pale d’altare maestose ricoperte d’oro. Incorniciano dipinti dai colori vividi, pervasi da una leggiadria iconografica 

che sotto certi aspetti rimanda all’arte gotica.


Sono opera di artisti sardi e sardo catalani, della maggior parte dei quali, purtroppo, non è noto il nome, e che sono conosciuti perciò come “Maestro” della località in cui si trovano i loro principali lavori. 

La Sardegna era stata una terra di conquista e per certi versi, seppure un’isola, idealmente anche una terra di confine, e come tale aveva subito le influenze dell’una e dell’altra sponda limitrofe al suo territorio. Per questa ragione

 

gli stilemi delle pitture dei retabli sardi sono riconducibili
sia a quelli coevi dell’arte spagnola che a quelli italiani;

non scevri, anzi spesso fortemente connotati, da richiami fiamminghi. D’altronde all’epoca l’impero spagnolo, di cui la Sardegna faceva parte, si estendeva fino alle Fiandre, della cui Scuola artistica la penisola iberica aveva recepito totalmente i modelli. 

Il Retablo di San Bernardino, datato al 1455, è noto per essere il più antico retablo sardo ed è conservato, come molti altri, nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari.

 

Ma è nel Retablo di Tuili che si rinviene la più alta raffigurazione
dell’arte pittorica rinascimentale della Sardegna,
opera del cosiddetto Maestro di Castelsardo,


cui fu attribuito tale nome per i frammenti di un retablo rinvenuti nell’omonima località. L’artista, la cui vera identità non è stata stabilita con certezza, era contemporaneo – per fornire una collocazione temporale – di Botticelli e Perugino. Recentemente è stato ipotizzato si potesse trattare di Gioacchino Cavaro, forse zio di Pietro Cavaro, pittore appartenente ad una prolifica dinastia. Quest’ultimo fece parte, insieme al figlio Michele, della più famosa Scuola d’arte del Rinascimento sardo, la Scuola di Stampace – attiva dalla fine del XV secolo – che prese il nome da un quartiere storico di Cagliari dove si trovavano le botteghe degli artisti.  

Ne furono protagonisti, oltre ai Cavaro, Antioco Mainas, insieme ad altri pittori minori, anch’essi autori, quasi sempre anonimi, dei dipinti di innumerevoli retabli.

 

Alla scoperta di queste opere d’arte della Sardegna si potrebbe ispirare
un inconsueto itinerario di viaggio nell’isola, una “via dei retabli”.


Infatti tali opere, o parti di esse, oltre che nella già menzionata Pinacoteca di Cagliari, che ne custodisce la principale raccolta, e nel Museo Diocesano della città, si trovano in numerose chiese e musei sparsi su tutto il territorio. Per citare alcuni tra i più notevoli ricordiamo i retabli di: Villamar; Perfugas (il più grande della Sardegna, con 54 tavole); Ozieri, con le splendide opere dell’omonimo Maestro, alcune visibili anche a Benetutti, a Ploaghe e a Bortigali, a proposito del quale Federico Zeri disse: “si potrà definire il Maestro di Ozieri un pittore sardo nella stessa misura in cui Chopin può dirsi risolto nell’etichetta di compositore polacco”; Ardara (il più alto – 10 metri – tra quelli sopravvissuti nella loro interezza); Dolianova; Codrongianos; Iglesias; Lunamatrona; Suelli; Oliena; Olzai; Gonnostramatza; Milis. Senza dimenticare la collezione conservata nel Museo Antiquarium Arborense di Oristano e quella del Museo Diocesano di Alghero.

I retabli perdurarono a lungo come “forma d’arte”. Con l’avvento del Barocco l’aspetto architettonico della struttura assunse un’importanza preponderante
ed i dipinti furono soppiantati da sculture lignee.


Anche di questa tipologia esistono in Sardegna vari esempi, tra i quali: lo spettacolare retablo di San Pietro a Sassari, alto 12 metri; e l’imponente retablo di Sant’Antioco ad Iglesias.

 

 

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LA LEGGENDA DELLE TESTE DI MORO di Francesca de Paolis numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 ed maurizio conte

 

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LA LEGGENDA DELLE TESTE DI MORO

anfore ed otri abbellite da fiori e limoni; piastrelle dipinte a mano con motivi fitomorfi. Sono questi i manufatti artigianali tipici della Sicilia: terra dove si addensano i profumi dei capperi e dei fichi, degli agrumi e dei giardini. Regione di mare e pescatori, di vini, anfiteatri ed altre bellezze antiche.

Fra tanti misteri esotici, c’è una storia di laggiù – di quell’isola così sfarzosamente mediterranea – che in pochi conoscono e che noi, per vezzo e smodata curiosità di arcani più che per scarno amore di verità, desideriamo raccontare.

A tutti è noto che Caltagirone, luogo in cui si affollarono i migliori artisti di ogni tempo, 

è capitale siciliana di ceramiche, esportate in tutto il mondo.


Catania e Taormina brulicano di botteghe allestite di terrecotte. E basta volgere lo sguardo alle finestre, all’ingresso delle case o dei ristoranti per ammirare e riconoscere il simbolo per eccellenza della ceramica siciliana: le Teste di Moro. 

 

Stravaganti vasi a forma di testa, dalle parvenze vagamente orientali, ai quali negli ultimi anni si sono ispirati anche i gioiellieri. Così, oggi capita di vedere, appesi ai lobi dei più barocchi, piccoli volti di ceramica, sempre in coppia. Una testa, dalla faccia nera, è di un arabo, con turbante, baffi e monili, l’altra raffigura una giovane normanna.

Non si tratta di un’iconografia inventata, frutto del fastoso virtuosismo 

di qualche artigiano, ma di una moda che ha attraversato i secoli, 

affondando le sue radici in una storia sicula del XII secolo.


Era il 1100, durante l’egemonia araba, quando una fanciulla del quartiere di Al Hàlisah di Palermo, oggi chiamato Kalsa, si innamorò di un Moro che era in città di passaggio, e ne fu ricambiata. 

 

Dopo qualche tempo di incontri amorosi, però, l’uomo rivelò all’amata che sarebbe presto dovuto ripartire, poiché in Oriente lo aspettavano moglie e figli. Folle di rabbia, la fanciulla, di tempra combattiva, come è d’uso fra le splendidamente vigorose e tenaci donne del Sud, uccise l’amante nottetempo. Gli tagliò la testa e la usò come vaso per piantarci del basilico che, per non si sa quale strana alchimia, crebbe più rigoglioso che mai. Tanto che il vicinato cominciò a commissionare vasi a forma di testa di moro, usandoli come ornamenti per i propri balconi. 

 

Di questa leggenda siciliana, nella quale si aggrovigliano passione e vendetta, tradimento e gelosia, sono sature dunque le famosissime Teste di Moro in ceramica dipinta prodotte in terra trinacria. Rese nelle più diverse varianti, ad assecondare il gusto di tutti coloro che, anche non conoscendone la storia, sono subito attratti dal loro eccentrico fascino. 

 

A distanza di duecento anni,

 

chi dimostrò di essere stato sedotto dalla storia delle Teste di Moro 

fu niente di meno che una delle tre corone della nostra letteratura: 

Giovanni Boccaccio


Nella ricchissima e variegata raccolta di novelle del Decameron (1349-1351), in particolare nella quinta storia, narrata da Filomena, si parla di una vicenda molto simile. Che certo il nostro novelliere trasse dalla Sicilia. 

La novella di Boccaccio racconta di una certa Lisabetta da Messina che amava in gran segreto Lorenzo, un giovane di Pisa, che non avrebbe potuto frequentare, poiché era di umili origini. Quando la famiglia lo scoprì, i fratelli di Lisabetta, tre ricchi mercanti, uccisero Lorenzo e lo seppellirono nelle campagne. 

La giovane affranta ebbe, tuttavia, una visione in sogno: il suo amato defunto le rivelò il luogo della propria sepoltura. 

 

Così Lisabetta si recò nel luogo indicato, dissotterrò Lorenzo, ne recise la testa e la portò a casa con sé, nascondendola in un vaso di basilico. Di giorno in giorno la giovane andava a piangere per il suo Lorenzo sopra a quel vaso. E fu così che le lacrime d’amore versate da Lisabetta annaffiarono il basilico, che divenne più florido e lussureggiante che mai. 

 

È certo che gli abitanti del posto sapranno offrire una dovizia di particolari in più sulla leggenda, ma prima di avventurarci in Sicilia per saperne di più, per intessere in Trinacria travagliate storie d’amore, o semplicemente per comprare delle splendide e ornamentali Teste di Moro, c’è un dettaglio da notare.

Il basilico ricorre sia nella storia originale delle Teste di Moro 

che nella versione di Boccaccio.


L’illustre scrittore toscano poteva scegliere un’altra pianta per la sua Lisabetta da Messina, invece sceglie la stessa. Il basilico, infatti, è una pianta fortemente simbolica, dal significato ambivalente. È ritenuto di buon auspicio per l’aldilà. Antichi egizi e greci lo usavano per le imbalsamature. Cinesi ed arabi ne conoscevano le proprietà medicinali, i crociati ne riempivano le navi per renderle profumate e nel Medioevo era utilizzato per guarire numerose ferite. Inoltre, in Occidente, al basilico, portatore di fertilità, è attribuito un significato erotico. Mentre sull’isola di Creta il basilico rappresenta una pianta nefasta. 

 

È un po’ come se nel basilico, rigoglioso ed olezzante, squisitamente mediterraneo, si celassero tutti quegli umori, sentimenti, accenti, venature di cui si compone la suggestiva storia che si cela dietro le Teste di Moro.

 

 

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LA VILLA ROMANA DI POSITANO Gemme del Sud numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 Editore Maurizio conte

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LA VILLA ROMANA DI POSITANO

 

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                       Positano

 

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L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. causò la distruzione di abitati in un ampio raggio di chilometri e, oltre alle famose Ercolano e Pompei, colpì anche la costiera amalfitana, come testimoniano i resti della ricca domus marittima di Positano, costruita nel I secolo a.C., sepolta dai materiali piroclastici. 

 

Un settore dell’antica struttura si trova sotto la cripta superiore della chiesa di Santa Maria Assunta, ad una profondità di circa 11 metri, in una interessante stratificazione culturale da cui provengono suppellettili e diversi materiali esposti nel rinnovato MAR, il Museo Archeologico di Positano.

 

Le campagne di scavo iniziate nel 2003 hanno rimosso cenere e pomici dell’eruzione ed individuato una porzione della villa che, attraverso rampe e terrazze, 

degradava sulla baia ed hanno portato alla luce un ambiente triclinare, 

accessibile ai visitatori, che probabilmente sul lato sud aveva 

un portico colonnato che affacciava sul mare.

 

Le pareti di questo vano sono decorate da magnifici affreschi e stucchi con motivi riconducibili al Quarto stile pompeiano ed il pavimento è in un raffinato mosaico bicromatico. 

 

Sulle pareti sono dipinti scorci di architetture prospettiche, edicole, colonne e architravi a metope, ricchi tendaggi, mostri marini, delfini guizzanti, ippocampi, animali vari, uccelli, amorini, pannelli con ghirlande, medaglioni con ritratti e scene mitologiche, un paesaggio marino e nature morte in un susseguirsi di colori tra i quali spiccano il rosso, il giallo, il verde ed il blu. 

 

La vicinanza con Roma, l’amenità dei luoghi e il clima salubre, fecero della costa campana la mèta preferita dall’aristocrazia romana che vi costruì lussuose residenze con rigogliosi giardini e panorami mozzafiato sul mare dove trovare ristoro e dedicarsi all’otium.

 

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GLI EXULTET DI BARI Gemme del Sud numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 editore maurizio conte

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GLI EXULTET DI            BARI

 

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                           Bari

 

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Nel Museo Diocesano di Bari sono conservati tre preziosi rotoli di pergamena 

risalenti al Medioevo, restaurati di recente,

 

che esprimono l’essenza delle varie anime della città, compendio tra le civiltà latina, bizantina e le influenze longobarde. 

Tali opere sono conosciute come Exultet, ovvero pergamene miniate in Italia meridionale tra il X ed il XIV secolo, il cui nome deriva dall’incipit – cioè l’inizio – del canto liturgico che annuncia la resurrezione di Cristo. Di questi autentici capolavori, benché poco conosciuti, ne esistono in tutto 28 al mondo ed è orgoglio del nostro Meridione che ben tre di essi siano stati realizzati, e tuttora siano conservati, nel capoluogo pugliese. 

Durante la Veglia pasquale del Sabato Santo gli Exultet venivano srotolati dall’ambone e mostrati ai fedeli affinché potessero ammirarne le immagini nel corso della lettura del testo in latino, questo per rendere comprensibile l’argomento trattato anche da coloro che non conoscevano quella lingua.

Gli Exultet, lunghi fino a 5 metri, sono scritti in una preziosissima grafia, 

che i paleografi denominano “minuscola Beneventana del tipo barese”.


La grafia Beneventana nasce nel monastero Benedettino di Montecassino nel X secolo e si tipicizza a Bari nell’XI secolo, esattamente negli scriptoria (centri scrittori) del monastero di San Benedetto, luogo che ospitò le ossa del patrono della città, San Nicola, fino alla costruzione dell’omonima cattedrale. 

Dunque gli Exultet del Museo Diocesano testimoniano anche l’esistenza di uno scriptorium nel capoluogo pugliese e rappresentano un vero e proprio tesoro sia dal punto di vista religioso, sia da quello storico-artistico e letterario, ed infine occupano un posto importantissimo nella storia della musica, in quanto contengono le prime notazioni musicali occidentali, anticipatrici del pentagramma moderno.

 

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 Durante la Veglia pasquale del Sabato Santo gli Exultet venivano srotolati dall’ambone e mostrati ai fedeli

IL SITO PREISTORICO LA PINETA E IL MUSEO DEL PALEOLITICO Gemme del Sud numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 ed Maurizio Conte

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IL SITO PREISTORICO LA PINETA E IL MUSEO DEL PALEOLITICO

 

 Gemme del Sud
                         Isernia

 

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Ad Isernia si trova uno dei siti paleolitici più importanti d’Europa, denominato La Pineta, scoperto nel 1978, i cui ritrovamenti sono esposti nel Museo del Paleolitico della stessa cittadina, una struttura che ha la particolarità di svilupparsi attorno al giacimento preistorico in un progetto di parco archeologico. L’insediamento si trova nella piana di Isernia, un’ampia zona dove sono presenti numerose tracce della presenza dell’uomo primitivo risalente a 600.000 anni fa, che, grazie ad una serie di fortunati eventi, si è conservato intatto fino ad oggi.

 

A La Pineta è stato riportato alla luce il più antico resto umano

rinvenuto nella penisola italiana,i

 

il dente da latte di un bambino deceduto all’età di circa 5-6 anni attribuito a Homo heidelbergensis, antenato dell’uomo di Neanderthal, la cui scultura antropologica è stata creata per il Museo dalla paleo-artista Élisabeth Daynès. 

 

Oltre ad esporre i reperti provenienti dall’area archeologica e da altre zone del Molise, il Museo comprende lo scavo stesso che, protetto da un padiglione costruito nel 1999, può essere visitato dal pubblico percorrendo un ballatoio che permette di avere una visione d’insieme dell’insediamento e di osservare i ricercatori al lavoro.     

 

Suddiviso in tre corpi di fabbrica uniti da un lungo corridoio esterno, il percorso museale accompagna il visitatore alla scoperta ed alla comprensione delle tracce dell’uomo primitivo attraverso chiari pannelli espositivi, anche multimediali, che ricostruiscono un ambiente naturale fatto di ampie praterie, boschi radi ed aree umide in cui vivevano elefanti, bisonti e rinoceronti ed in cui comunità primitive praticavano la caccia e lo sfruttamento delle risorse animali. 

 

Tra reperti in selce, tracce di fauna, ossa di animali e la riproduzione a grandezza naturale di un Elephas antiquus ci si ritrova immersi in un mondo perduto in cui i nostri antenati combattevano ogni giorno per la sopravvivenza e dove il tempo era scandito solo dai ritmi circadiani.

 

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 Dentino incisivo superiore di bambino rinvenuto a La Pineta appartenente alla specie dell’Homo heidelbergensis Fonte: Catalogo generare dei Beni Culturali https://catalogo.beniculturali.it/detail/ArchaeologicalProperty/1400108144

IL CASTELLO DI PESCOLANCIANO Gemme del Sud numero 29 agosto 2023 editore maurizio conte

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IL CASTELLO      DI PESCOLANCIANO

 

 Gemme del Sud
                 Pescolanciano (IS)

 

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Il piccolo comune di Pescolanciano, in provincia di Isernia, conta soltanto 829 residenti e sorge su uno spuntone roccioso (“pesco”, o “peschio”, che significa grosso ciottolo), situato tra la valle del fiume Trigno ad est e del torrente Savone ad ovest. Il borgo è protetto da 

 

una cinta muraria lunga 75 metri, abitata e ben conservata, nella quale svetta 

l’antico e bellissimo Castello Ducale d’Alessandro che domina la valle

 

L’origine del borgo, edificato in posizione strategica per proteggere l’insediamento, è molto antica, probabilmente sannita, mentre quella del castello potrebbe risalire all’epoca medievale, nel periodo longobardo o di Carlo Magno. Nel XIII secolo sappiamo sicuramente che Federico II di Svevia diede l’ordine a Ruggero di Peschio-Lanciano di conquistare il castello, rimuovere i feudatari ed assediare Isernia, ostile al regno federiciano. 

 

Il castello, nell’aspetto odierno, ha forma esagonale irregolare, ma ha subito alcune trasformazioni nel corso del tempo. Sicuramente nel Basso Medioevo doveva apparire come una robusta fortificazione costituita da vari edifici, nello stile dei castelli medievali, fin quando, nel XVIII secolo, sotto la signoria dei d’Alessandro, divenne una residenza sontuosa, con un loggiato che prese il posto dell’antica merlatura e la torre che non fu più utilizzata per scopi difensivi, ma per ammirare un affascinante panorama. All’interno della fortezza è stata costruita una piccola chiesa dove sono custodite alcune reliquie di Sant’Alessandro. 

Nella seconda metà del XVIII secolo, il duca Pasquale d’Alessandro, avvalendosi dell’aiuto degli artigiani di Capodimonte, collocò nei locali del castello 

una fabbrica di pregiate ceramiche e maioliche, 


andata poi distrutta in un incendio. Alcuni pezzi sopravvissuti di questa produzione si possono attualmente ammirare nel Museo delle Ceramiche di Pescolanciano. Il castello è ancora abitato dai discendenti dei d’Alessandro ed è visitabile in varie occasioni, tra cui la festa di Sant’Alessandro, che ha luogo il 26 agosto.

 

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