IL TEATRO-TEMPIO DI PIETRAVAIRANO Gemme del Sud numero 31 ottobre novembre 2024 editore maurizio conte

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IL TEATRO-TEMPIO DI PIETRAVAIRANO

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                  Pietravairano (CE)

 

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Pietravairano è un antico borgo di origine normanna non lontano da Caserta, 

che fino a poco più di vent’anni fa era ignaro di essere 

il custode di un tesoro straordinario.

 

Una mattina del febbraio 2001, il professor Nicolino Lombardi – dirigente scolastico con una grande passione per il volo e per l’archeologia – sta compiendo uno dei suoi tanti voli di ricognizione con lo scopo di coronare il suo più grande sogno: fare un’importante scoperta archeologica. 

 

Giunto all’altezza del Monte San Nicola, nota delle pietre bianche disposte in modo semicircolare e il suo sogno finalmente si avvera: si tratta dei resti di un antico complesso di epoca romana fino ad allora sconosciuto.

Il complesso archeologico del Teatro-tempio Romano di Pietravairano costituisce 

un raro esempio di impianto del tipo teatro-tempio risalente al II-I secolo a.C. 

Secondo gli storici, il luogo era un’area di culto fortificata già in epoca sannitica, 

che i Romani poi riconvertirono in un santuario dedicato forse a Giunone, 

a cui aggiunsero un ampio teatro scavato direttamente nella roccia.

 

Le due strutture sorgono su due terrazze a quote differenti: sulla terrazza superiore ciò che resta del tempio a pianta rettangolare; una ventina di metri più in basso, il teatro di cui si conservano la cavea semicircolare e la scaena

 

Il sentiero che dal comune di Pietravairano porta a Monte San Nicola è leggermente impegnativo in alcuni tratti ma ne vale davvero la pena: il complesso è maestoso e il panorama che si gode da qui è uno spettacolo nello spettacolo. La vista spazia in ogni direzione, dalla costa tirrenica al massiccio del Matese e regala la sensazione di dominare la vallata stando sospesi nel vuoto.

 

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IL POLO MUSEALE DI LATIANO Gemme del Sud Numero 31 ottobre novembre 2024 editore Maurizio Conte

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IL POLO MUSEALE DI LATIANO

 

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                     Latiano (BR)

 

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Nel 2018, a seguito di un lodevole progetto di riqualificazione del sistema museale, 

un vero e proprio “museo diffuso” è nato a Latiano (in provincia di Brindisi), 

per questo definita “città dei musei”. I musei civici della città 

sono stati riuniti in un unico Polo Museale

 

che trova la sede principale nell’ex Convento dei Domenicani (bellissimo edificio cinquecentesco appositamente restaurato), ma si espande anche nella Torre del Solise e nel Palazzo Imperiali, ubicati nel centro storico, e nel Parco archeologico di Muro Tenente, situato in piena campagna. 

 

I musei che costituiscono il Polo sono, nell’ex Convento dei Domenicani, quello delle Arti e Tradizioni di Puglia e quello del Sottosuolo e della Storia della Farmacia, e presso il Palazzo Imperiali la Pinacoteca Comunale ed il Centro di Documentazione Archeologica che, con la sua collezione archeologica “Antonio Marseglia”, è strettamente legato al sito del Parco Archeologico di Muro Tenente. A tali strutture si aggiunge inoltre la Casa-Museo Ribezzi Petrosillo.

Il Museo delle Arti e Tradizioni è uno dei primi di Puglia ad aver raccolto, dal 1974, testimonianze della cultura demo-etno-antropologica della regione

(oltre 4.000 oggetti e migliaia di documenti, anche fotografici, 

nonché le due notevoli sezioni speciali 

dedicate al vino ed alla ceramica).

 

Importanti sono le quattro ricchissime sezioni del Museo del Sottosuolo, che è unico in Puglia, la collezione del Museo della Storia della Farmacia, con la biblioteca specialistica fornita anche di volumi rari sull’alchimia, ed il Centro di Documentazione Archeologica, che con il suo eterogeneo repertorio di oggetti fornisce un interessante excursus dalla preistoria al Medioevo. 

 

Oltre all’esposizione delle sue pregevoli raccolte, il Polo è stato concepito per essere anche un centro polifunzionale che, ospitando diverse attività di divulgazione (mostre, convegni, eventi artistici, laboratori), ha la finalità di ampliare la fruizione dei musei da parte di un più vasto pubblico.

 

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RETABLOS di Gloria Salazar numero 31 ottobre novembre 2024 editore maurizio conte

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Chi ha reminiscenze scolastiche ricorderà di non aver mai sentito parlare dell’arte rinascimentale sarda.  

 

Quando si pensa alla Sardegna sotto il profilo artistico viene in mente tutt’altro. Tutti conoscono la civiltà nuragica con i suoi bronzetti e le sue misteriose torri, molti sanno dell’esistenza degli splendidi esempi di architettura romanica, forse qualcuno penserà agli artisti contemporanei; ma la pittura medioevale e rinascimentale sarda – se mettiamo da parte gli scritti di pochi storici dell’arte, in particolare Corrado Maltese, e i fondamentali studi di ambito locale – è sfuggita, almeno come movimento, ai radar della storiografia dell’arte nazionale. 

 

In una terra contesa per secoli tra l’Italia (Pisa, Genova e poi il Piemonte) e la Spagna, lo studio dell’arte sarda è rimasto terra di nessuno. Eppure in Sardegna vi sono, pressoché ignote, interessanti testimonianze di arte pittorica, cicli di affreschi e dipinti Medioevali di grande suggestione

 

Ma la manifestazione più notevole dell’arte sarda è rappresentata dai retabli

 

vasta espressione di un importante fenomeno artistico, altrettanto sconosciuto, fiorito nell’isola nel XV e XVI secolo.  

 

Paradossalmente, o forse no, negli ultimi anni la Spagna si è dimostrata maggiormente interessata alla storia ed alle vicende artistiche isolane, piuttosto che l’Italia stessa; probabilmente come conseguenza della dominazione iberica, sotto la quale la Sardegna si è trovata dal XIV al XVIII secolo. 

 

Ed è proprio dalla Spagna che nel ‘400 venne importata in Sardegna la fattispecie del retablo, termine derivato dal latino “retro tabula”, ossia dietro la tavola (dell’altare). I retabli – italianizzazione dello spagnolo retablos – per alcuni aspetti corrispondono ai nostri polittici. Hanno come caratteristica principale una struttura imponente in legno scolpito e dorato, suddivisa in numerosi scomparti posti su vari ordini, nei quali sono inseriti statue e dipinti su tavola, prevalentemente a fondo oro. La loro più impressionante rappresentazione è costituita dal Retablo Mayor della Cattedrale di Siviglia, il più grande del mondo, un’opera monumentale che misura quasi 30 metri di altezza e 20 di larghezza.

 

Anche in Sardegna i retabli sono pale d’altare maestose ricoperte d’oro. Incorniciano dipinti dai colori vividi, pervasi da una leggiadria iconografica 

che sotto certi aspetti rimanda all’arte gotica.


Sono opera di artisti sardi e sardo catalani, della maggior parte dei quali, purtroppo, non è noto il nome, e che sono conosciuti perciò come “Maestro” della località in cui si trovano i loro principali lavori. 

La Sardegna era stata una terra di conquista e per certi versi, seppure un’isola, idealmente anche una terra di confine, e come tale aveva subito le influenze dell’una e dell’altra sponda limitrofe al suo territorio. Per questa ragione

 

gli stilemi delle pitture dei retabli sardi sono riconducibili
sia a quelli coevi dell’arte spagnola che a quelli italiani;

non scevri, anzi spesso fortemente connotati, da richiami fiamminghi. D’altronde all’epoca l’impero spagnolo, di cui la Sardegna faceva parte, si estendeva fino alle Fiandre, della cui Scuola artistica la penisola iberica aveva recepito totalmente i modelli. 

Il Retablo di San Bernardino, datato al 1455, è noto per essere il più antico retablo sardo ed è conservato, come molti altri, nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari.

 

Ma è nel Retablo di Tuili che si rinviene la più alta raffigurazione
dell’arte pittorica rinascimentale della Sardegna,
opera del cosiddetto Maestro di Castelsardo,


cui fu attribuito tale nome per i frammenti di un retablo rinvenuti nell’omonima località. L’artista, la cui vera identità non è stata stabilita con certezza, era contemporaneo – per fornire una collocazione temporale – di Botticelli e Perugino. Recentemente è stato ipotizzato si potesse trattare di Gioacchino Cavaro, forse zio di Pietro Cavaro, pittore appartenente ad una prolifica dinastia. Quest’ultimo fece parte, insieme al figlio Michele, della più famosa Scuola d’arte del Rinascimento sardo, la Scuola di Stampace – attiva dalla fine del XV secolo – che prese il nome da un quartiere storico di Cagliari dove si trovavano le botteghe degli artisti.  

Ne furono protagonisti, oltre ai Cavaro, Antioco Mainas, insieme ad altri pittori minori, anch’essi autori, quasi sempre anonimi, dei dipinti di innumerevoli retabli.

 

Alla scoperta di queste opere d’arte della Sardegna si potrebbe ispirare
un inconsueto itinerario di viaggio nell’isola, una “via dei retabli”.


Infatti tali opere, o parti di esse, oltre che nella già menzionata Pinacoteca di Cagliari, che ne custodisce la principale raccolta, e nel Museo Diocesano della città, si trovano in numerose chiese e musei sparsi su tutto il territorio. Per citare alcuni tra i più notevoli ricordiamo i retabli di: Villamar; Perfugas (il più grande della Sardegna, con 54 tavole); Ozieri, con le splendide opere dell’omonimo Maestro, alcune visibili anche a Benetutti, a Ploaghe e a Bortigali, a proposito del quale Federico Zeri disse: “si potrà definire il Maestro di Ozieri un pittore sardo nella stessa misura in cui Chopin può dirsi risolto nell’etichetta di compositore polacco”; Ardara (il più alto – 10 metri – tra quelli sopravvissuti nella loro interezza); Dolianova; Codrongianos; Iglesias; Lunamatrona; Suelli; Oliena; Olzai; Gonnostramatza; Milis. Senza dimenticare la collezione conservata nel Museo Antiquarium Arborense di Oristano e quella del Museo Diocesano di Alghero.

I retabli perdurarono a lungo come “forma d’arte”. Con l’avvento del Barocco l’aspetto architettonico della struttura assunse un’importanza preponderante
ed i dipinti furono soppiantati da sculture lignee.


Anche di questa tipologia esistono in Sardegna vari esempi, tra i quali: lo spettacolare retablo di San Pietro a Sassari, alto 12 metri; e l’imponente retablo di Sant’Antioco ad Iglesias.

 

 

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LA LEGGENDA DELLE TESTE DI MORO di Francesca de Paolis numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 ed maurizio conte

 

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LA LEGGENDA DELLE TESTE DI MORO

anfore ed otri abbellite da fiori e limoni; piastrelle dipinte a mano con motivi fitomorfi. Sono questi i manufatti artigianali tipici della Sicilia: terra dove si addensano i profumi dei capperi e dei fichi, degli agrumi e dei giardini. Regione di mare e pescatori, di vini, anfiteatri ed altre bellezze antiche.

Fra tanti misteri esotici, c’è una storia di laggiù – di quell’isola così sfarzosamente mediterranea – che in pochi conoscono e che noi, per vezzo e smodata curiosità di arcani più che per scarno amore di verità, desideriamo raccontare.

A tutti è noto che Caltagirone, luogo in cui si affollarono i migliori artisti di ogni tempo, 

è capitale siciliana di ceramiche, esportate in tutto il mondo.


Catania e Taormina brulicano di botteghe allestite di terrecotte. E basta volgere lo sguardo alle finestre, all’ingresso delle case o dei ristoranti per ammirare e riconoscere il simbolo per eccellenza della ceramica siciliana: le Teste di Moro. 

 

Stravaganti vasi a forma di testa, dalle parvenze vagamente orientali, ai quali negli ultimi anni si sono ispirati anche i gioiellieri. Così, oggi capita di vedere, appesi ai lobi dei più barocchi, piccoli volti di ceramica, sempre in coppia. Una testa, dalla faccia nera, è di un arabo, con turbante, baffi e monili, l’altra raffigura una giovane normanna.

Non si tratta di un’iconografia inventata, frutto del fastoso virtuosismo 

di qualche artigiano, ma di una moda che ha attraversato i secoli, 

affondando le sue radici in una storia sicula del XII secolo.


Era il 1100, durante l’egemonia araba, quando una fanciulla del quartiere di Al Hàlisah di Palermo, oggi chiamato Kalsa, si innamorò di un Moro che era in città di passaggio, e ne fu ricambiata. 

 

Dopo qualche tempo di incontri amorosi, però, l’uomo rivelò all’amata che sarebbe presto dovuto ripartire, poiché in Oriente lo aspettavano moglie e figli. Folle di rabbia, la fanciulla, di tempra combattiva, come è d’uso fra le splendidamente vigorose e tenaci donne del Sud, uccise l’amante nottetempo. Gli tagliò la testa e la usò come vaso per piantarci del basilico che, per non si sa quale strana alchimia, crebbe più rigoglioso che mai. Tanto che il vicinato cominciò a commissionare vasi a forma di testa di moro, usandoli come ornamenti per i propri balconi. 

 

Di questa leggenda siciliana, nella quale si aggrovigliano passione e vendetta, tradimento e gelosia, sono sature dunque le famosissime Teste di Moro in ceramica dipinta prodotte in terra trinacria. Rese nelle più diverse varianti, ad assecondare il gusto di tutti coloro che, anche non conoscendone la storia, sono subito attratti dal loro eccentrico fascino. 

 

A distanza di duecento anni,

 

chi dimostrò di essere stato sedotto dalla storia delle Teste di Moro 

fu niente di meno che una delle tre corone della nostra letteratura: 

Giovanni Boccaccio


Nella ricchissima e variegata raccolta di novelle del Decameron (1349-1351), in particolare nella quinta storia, narrata da Filomena, si parla di una vicenda molto simile. Che certo il nostro novelliere trasse dalla Sicilia. 

La novella di Boccaccio racconta di una certa Lisabetta da Messina che amava in gran segreto Lorenzo, un giovane di Pisa, che non avrebbe potuto frequentare, poiché era di umili origini. Quando la famiglia lo scoprì, i fratelli di Lisabetta, tre ricchi mercanti, uccisero Lorenzo e lo seppellirono nelle campagne. 

La giovane affranta ebbe, tuttavia, una visione in sogno: il suo amato defunto le rivelò il luogo della propria sepoltura. 

 

Così Lisabetta si recò nel luogo indicato, dissotterrò Lorenzo, ne recise la testa e la portò a casa con sé, nascondendola in un vaso di basilico. Di giorno in giorno la giovane andava a piangere per il suo Lorenzo sopra a quel vaso. E fu così che le lacrime d’amore versate da Lisabetta annaffiarono il basilico, che divenne più florido e lussureggiante che mai. 

 

È certo che gli abitanti del posto sapranno offrire una dovizia di particolari in più sulla leggenda, ma prima di avventurarci in Sicilia per saperne di più, per intessere in Trinacria travagliate storie d’amore, o semplicemente per comprare delle splendide e ornamentali Teste di Moro, c’è un dettaglio da notare.

Il basilico ricorre sia nella storia originale delle Teste di Moro 

che nella versione di Boccaccio.


L’illustre scrittore toscano poteva scegliere un’altra pianta per la sua Lisabetta da Messina, invece sceglie la stessa. Il basilico, infatti, è una pianta fortemente simbolica, dal significato ambivalente. È ritenuto di buon auspicio per l’aldilà. Antichi egizi e greci lo usavano per le imbalsamature. Cinesi ed arabi ne conoscevano le proprietà medicinali, i crociati ne riempivano le navi per renderle profumate e nel Medioevo era utilizzato per guarire numerose ferite. Inoltre, in Occidente, al basilico, portatore di fertilità, è attribuito un significato erotico. Mentre sull’isola di Creta il basilico rappresenta una pianta nefasta. 

 

È un po’ come se nel basilico, rigoglioso ed olezzante, squisitamente mediterraneo, si celassero tutti quegli umori, sentimenti, accenti, venature di cui si compone la suggestiva storia che si cela dietro le Teste di Moro.

 

 

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LA VILLA ROMANA DI POSITANO Gemme del Sud numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 Editore Maurizio conte

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LA VILLA ROMANA DI POSITANO

 

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                       Positano

 

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L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. causò la distruzione di abitati in un ampio raggio di chilometri e, oltre alle famose Ercolano e Pompei, colpì anche la costiera amalfitana, come testimoniano i resti della ricca domus marittima di Positano, costruita nel I secolo a.C., sepolta dai materiali piroclastici. 

 

Un settore dell’antica struttura si trova sotto la cripta superiore della chiesa di Santa Maria Assunta, ad una profondità di circa 11 metri, in una interessante stratificazione culturale da cui provengono suppellettili e diversi materiali esposti nel rinnovato MAR, il Museo Archeologico di Positano.

 

Le campagne di scavo iniziate nel 2003 hanno rimosso cenere e pomici dell’eruzione ed individuato una porzione della villa che, attraverso rampe e terrazze, 

degradava sulla baia ed hanno portato alla luce un ambiente triclinare, 

accessibile ai visitatori, che probabilmente sul lato sud aveva 

un portico colonnato che affacciava sul mare.

 

Le pareti di questo vano sono decorate da magnifici affreschi e stucchi con motivi riconducibili al Quarto stile pompeiano ed il pavimento è in un raffinato mosaico bicromatico. 

 

Sulle pareti sono dipinti scorci di architetture prospettiche, edicole, colonne e architravi a metope, ricchi tendaggi, mostri marini, delfini guizzanti, ippocampi, animali vari, uccelli, amorini, pannelli con ghirlande, medaglioni con ritratti e scene mitologiche, un paesaggio marino e nature morte in un susseguirsi di colori tra i quali spiccano il rosso, il giallo, il verde ed il blu. 

 

La vicinanza con Roma, l’amenità dei luoghi e il clima salubre, fecero della costa campana la mèta preferita dall’aristocrazia romana che vi costruì lussuose residenze con rigogliosi giardini e panorami mozzafiato sul mare dove trovare ristoro e dedicarsi all’otium.

 

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GLI EXULTET DI BARI Gemme del Sud numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 editore maurizio conte

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GLI EXULTET DI            BARI

 

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                           Bari

 

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Nel Museo Diocesano di Bari sono conservati tre preziosi rotoli di pergamena 

risalenti al Medioevo, restaurati di recente,

 

che esprimono l’essenza delle varie anime della città, compendio tra le civiltà latina, bizantina e le influenze longobarde. 

Tali opere sono conosciute come Exultet, ovvero pergamene miniate in Italia meridionale tra il X ed il XIV secolo, il cui nome deriva dall’incipit – cioè l’inizio – del canto liturgico che annuncia la resurrezione di Cristo. Di questi autentici capolavori, benché poco conosciuti, ne esistono in tutto 28 al mondo ed è orgoglio del nostro Meridione che ben tre di essi siano stati realizzati, e tuttora siano conservati, nel capoluogo pugliese. 

Durante la Veglia pasquale del Sabato Santo gli Exultet venivano srotolati dall’ambone e mostrati ai fedeli affinché potessero ammirarne le immagini nel corso della lettura del testo in latino, questo per rendere comprensibile l’argomento trattato anche da coloro che non conoscevano quella lingua.

Gli Exultet, lunghi fino a 5 metri, sono scritti in una preziosissima grafia, 

che i paleografi denominano “minuscola Beneventana del tipo barese”.


La grafia Beneventana nasce nel monastero Benedettino di Montecassino nel X secolo e si tipicizza a Bari nell’XI secolo, esattamente negli scriptoria (centri scrittori) del monastero di San Benedetto, luogo che ospitò le ossa del patrono della città, San Nicola, fino alla costruzione dell’omonima cattedrale. 

Dunque gli Exultet del Museo Diocesano testimoniano anche l’esistenza di uno scriptorium nel capoluogo pugliese e rappresentano un vero e proprio tesoro sia dal punto di vista religioso, sia da quello storico-artistico e letterario, ed infine occupano un posto importantissimo nella storia della musica, in quanto contengono le prime notazioni musicali occidentali, anticipatrici del pentagramma moderno.

 

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 Durante la Veglia pasquale del Sabato Santo gli Exultet venivano srotolati dall’ambone e mostrati ai fedeli

IL SITO PREISTORICO LA PINETA E IL MUSEO DEL PALEOLITICO Gemme del Sud numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 ed Maurizio Conte

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IL SITO PREISTORICO LA PINETA E IL MUSEO DEL PALEOLITICO

 

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                         Isernia

 

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Ad Isernia si trova uno dei siti paleolitici più importanti d’Europa, denominato La Pineta, scoperto nel 1978, i cui ritrovamenti sono esposti nel Museo del Paleolitico della stessa cittadina, una struttura che ha la particolarità di svilupparsi attorno al giacimento preistorico in un progetto di parco archeologico. L’insediamento si trova nella piana di Isernia, un’ampia zona dove sono presenti numerose tracce della presenza dell’uomo primitivo risalente a 600.000 anni fa, che, grazie ad una serie di fortunati eventi, si è conservato intatto fino ad oggi.

 

A La Pineta è stato riportato alla luce il più antico resto umano

rinvenuto nella penisola italiana,i

 

il dente da latte di un bambino deceduto all’età di circa 5-6 anni attribuito a Homo heidelbergensis, antenato dell’uomo di Neanderthal, la cui scultura antropologica è stata creata per il Museo dalla paleo-artista Élisabeth Daynès. 

 

Oltre ad esporre i reperti provenienti dall’area archeologica e da altre zone del Molise, il Museo comprende lo scavo stesso che, protetto da un padiglione costruito nel 1999, può essere visitato dal pubblico percorrendo un ballatoio che permette di avere una visione d’insieme dell’insediamento e di osservare i ricercatori al lavoro.     

 

Suddiviso in tre corpi di fabbrica uniti da un lungo corridoio esterno, il percorso museale accompagna il visitatore alla scoperta ed alla comprensione delle tracce dell’uomo primitivo attraverso chiari pannelli espositivi, anche multimediali, che ricostruiscono un ambiente naturale fatto di ampie praterie, boschi radi ed aree umide in cui vivevano elefanti, bisonti e rinoceronti ed in cui comunità primitive praticavano la caccia e lo sfruttamento delle risorse animali. 

 

Tra reperti in selce, tracce di fauna, ossa di animali e la riproduzione a grandezza naturale di un Elephas antiquus ci si ritrova immersi in un mondo perduto in cui i nostri antenati combattevano ogni giorno per la sopravvivenza e dove il tempo era scandito solo dai ritmi circadiani.

 

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 Dentino incisivo superiore di bambino rinvenuto a La Pineta appartenente alla specie dell’Homo heidelbergensis Fonte: Catalogo generare dei Beni Culturali https://catalogo.beniculturali.it/detail/ArchaeologicalProperty/1400108144

IL CASTELLO DI PESCOLANCIANO Gemme del Sud numero 29 agosto 2023 editore maurizio conte

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IL CASTELLO      DI PESCOLANCIANO

 

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                 Pescolanciano (IS)

 

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Il piccolo comune di Pescolanciano, in provincia di Isernia, conta soltanto 829 residenti e sorge su uno spuntone roccioso (“pesco”, o “peschio”, che significa grosso ciottolo), situato tra la valle del fiume Trigno ad est e del torrente Savone ad ovest. Il borgo è protetto da 

 

una cinta muraria lunga 75 metri, abitata e ben conservata, nella quale svetta 

l’antico e bellissimo Castello Ducale d’Alessandro che domina la valle

 

L’origine del borgo, edificato in posizione strategica per proteggere l’insediamento, è molto antica, probabilmente sannita, mentre quella del castello potrebbe risalire all’epoca medievale, nel periodo longobardo o di Carlo Magno. Nel XIII secolo sappiamo sicuramente che Federico II di Svevia diede l’ordine a Ruggero di Peschio-Lanciano di conquistare il castello, rimuovere i feudatari ed assediare Isernia, ostile al regno federiciano. 

 

Il castello, nell’aspetto odierno, ha forma esagonale irregolare, ma ha subito alcune trasformazioni nel corso del tempo. Sicuramente nel Basso Medioevo doveva apparire come una robusta fortificazione costituita da vari edifici, nello stile dei castelli medievali, fin quando, nel XVIII secolo, sotto la signoria dei d’Alessandro, divenne una residenza sontuosa, con un loggiato che prese il posto dell’antica merlatura e la torre che non fu più utilizzata per scopi difensivi, ma per ammirare un affascinante panorama. All’interno della fortezza è stata costruita una piccola chiesa dove sono custodite alcune reliquie di Sant’Alessandro. 

Nella seconda metà del XVIII secolo, il duca Pasquale d’Alessandro, avvalendosi dell’aiuto degli artigiani di Capodimonte, collocò nei locali del castello 

una fabbrica di pregiate ceramiche e maioliche, 


andata poi distrutta in un incendio. Alcuni pezzi sopravvissuti di questa produzione si possono attualmente ammirare nel Museo delle Ceramiche di Pescolanciano. Il castello è ancora abitato dai discendenti dei d’Alessandro ed è visitabile in varie occasioni, tra cui la festa di Sant’Alessandro, che ha luogo il 26 agosto.

 

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LA PINACOTECA “GIUSEPPE DE NITTIS” A BARLETTA di Gianluca Anglana numero 30 dicembre 2023 e gennaio 2024 editore Maurizio Conte

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 LA PINACOTECA “GIUSEPPE DE NITTIS” a BARLETTA

 

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il fascino austero della cattedrale, la severità marziale del castello, l’aura di corrucciata enigmaticità del Colosso. E anche Palazzo della Marra, splendida dimora aristocratica ceduta al demanio dello Stato nel 1958: un edificio elegante, che oggi ospita la Pinacoteca De Nittis.   

 

Come si vedrà più avanti, questa collezione di quadri è uno dei più toccanti attestati d’amore che, per interposta persona, un artista abbia mai tributato alla propria terra natia. 

Già, perché Giuseppe De Nittis, tra i più originali protagonisti della pittura europea dell’800, nacque il 25 febbraio del 1846 proprio a Barletta. Qui trascorse l’infanzia e la prima adolescenza fino al 1860, quando si trasferì a Napoli. Perse il padre prematuramente: dovette così imparare a rendere conto al fratello maggiore Vincenzo, a discuterci, a negoziare con lui le prospettive del proprio futuro. La diffidenza del nuovo capofamiglia rispetto al «mestiere dei disperati» non fu evidentemente abbastanza coriacea ed impenetrabile da impedirgli di iscrivere Giuseppe all’Istituto di Belle Arti. Nondimeno l’indole inquieta e burrascosa dell’apprendista generò presto conflitti con i vertici dell’Accademia, da cui venne espulso come un imbrattatele privo di stoffa artistica.   

 

Eppure, gli anni napoletani furono determinanti nella formazione tecnica di De Nittis, che nel 1863 aderì, a Portici, alla cosiddetta “Scuola di Resina” e divenne sodale dei suoi fondatori: Marco De Gregorio e Federico Rossano. Privilegiò la pittura en plein air. Gli esordi in Campania consentirono a Giuseppe di scoprire e nutrire la sua passione per la natura e per i paesaggi, passione di cui si trova traccia nei suoi Notes et Souvenirs sotto forma di ammissione di debito e devozione sconfinata: 

«La natura, io le sono così vicino! L’amo! Quante gioie mi ha dato! Mi ha insegnato tutto: amore e generosità». Il trasporto, la brama di conoscere i misteri della terra, 

il desiderio tenace di capire, abbracciare, riprodurre le «belle nubi», le sfumature 

del cielo e persino i colori dell’aria:


tutto questo entrò nel suo bagaglio per il trasloco a Parigi, dove giunse per la prima volta nel 1867. Nella capitale francese, ancora sfavillante prima della disastrosa guerra contro la Prussia, conobbe Léontine Gruvelle, la futura moglie che ebbe grande parte nell’introdurlo negli ambienti culturali più innovativi; alcuni dei massimi interpreti dell’Impressionismo, come Édouard Manet o Edgar Degas con i quali strinse amicizia; soprattutto il mercante d’arte Adolphe Goupil che intuì subito il talento del giovane e sconosciuto italiano, al punto da legarlo a sé con un accordo di esclusiva stipulato nel 1872. 

 

Tramite l’esercizio, talora invadente, delle proprie pretese di controparte contrattuale, Goupil premeva sull’artista affinché, in una prima fase di produzione pittorica, rappresentasse panorami e soggetti del Mezzogiorno d’Italia: le atmosfere quasi esotiche, le tinte vivaci e i mondi rurali con biche e trulli solitari, così lontani dalla frenesia della ville lumière, catturavano l’attenzione e solleticavano la curiosità dei facoltosi compratori americani, che consideravano Parigi come la piazza principale per i loro acquisti d’arte. Quando invece la mondanità parigina e le frivolezze della Belle Époque si imposero come oggetto esse stesse di una promettente narrazione figurativa, Goupil sollecitò il Maestro al cambiamento. Fu così che, nel 1874, De Nittis realizzò una delle sue opere più celebri e accattivanti, 

Che freddo!, un gruppo di donne investite da un gelido vento invernale, 

che gli fruttò l’appellativo di “Peintre des Parisiennes” (pittore delle parigine) 

e che soprattutto fu venduto per la cifra astronomica di diecimila franchi


Quel guadagno da capogiro rese Goupil quasi pazzo di gioia e persuase De Nittis che era giunta l’ora di voltare le spalle al suo passato italiano per immergersi totalmente nel suo definitivo presente francese. A questa nuova fase produttiva appartengono molte delle tele esposte a Barletta. Tra le tante meritano di essere citate: Figura di donna (Léontine De Nittis) del 1880; Il salotto della principessa Mathilde del 1883, pregevolissimo racconto di un momento di festa dell’alta società; Colazione in giardino del 1884 e la Signora con gattino nero, del 1880, la quale colpisce per l’avvenenza e il sorriso negli occhi.   

 

Il pittore lavorò instancabilmente, anche per sostenere l’elevato tenore di vita cui aveva abituato la sua famiglia e se stesso. E viaggiò molto: tornò spesso in Italia, approdò a Londra che gli permise altre conoscenze ed inesplorati orizzonti di ricerca, rivide la sua Barletta che omaggiò il suo figlio illustre con una medaglia d’oro. Morì a Saint Germain en Laye, anche lui precocemente come suo padre, il 21 agosto del 1884.

La pinacoteca illustra chiaramente l’evoluzione artistica di Giuseppe De Nittis. 

Il percorso espositivo è ricchissimo di opere, frutto del generoso 

lascito testamentario disposto da Léontine, vedova, 

in favore della città che aveva dato i natali 

al suo Giuseppe:

portano la data del 3 Novembre 1912 le ultime volontà di colei alla quale oggi Barletta deve così tanto. Un’antologia di meraviglie che, seppure provvisoriamente, si è arricchita di un altro capolavoro del Maestro pugliese, forse il suo dipinto più commovente: La Strada da Napoli a Brindisi. Completato nel 1872, dopo un’impegnativa serie di disegni preparatori, fu esposto al Salon di Parigi di quello stesso anno. Recava il numero di serie 1177 della Maison di Adolphe Goupil, il quale ne era entusiasta e vi riponeva grandi aspettative di guadagno: rimase oltremodo deluso, come ammise furente in una lettera a Léontine, quando seppe che la piccola tela aveva ricevuto solo una menzione speciale anziché un premio vero e proprio. Ad ogni modo, l’11 ottobre 1872 riuscì a venderla, per milletrecento franchi, ad un magnate americano che, per l’acquisto, si servì di un prestanome per scongiurare incrementi di prezzo: fu così che la Strada da Napoli a Brindisi prese la via dell’America e, sempre restando dentro i confini statunitensi, passò di mano in mano fino ai primi anni Quaranta, quando fu acquisita dalla famiglia dell’attuale proprietario. È lui che ha acconsentito al prestito in favore del museo barlettano, dove oggi si può ammirare, anche se solo fino ai primi mesi del 2025. Dopo, tornerà oltreoceano, all’Indianapolis Museum, dove è custodito in comodato.   

 

Una strada bianca. Molto più che un tratturo: una di quelle arterie volute dai Borboni per connettere tra loro le città. Due contadini avanzano insieme, vestiti dei loro poveri stracci: procedono stanchi, forse si parlano, e sembra quasi di sentirli mormorare nella melodia di uno dei numerosi dialetti pugliesi. E poi una carrozza, trainata da due cavalli: dentro c’è qualcuno, se ne intuisce la gamba sinistra. I contadini ci vengono incontro. La carrozza no: pare allontanarsi, diretta verso Napoli, Brindisi, chissà. 

Eppure non siamo soli. Attorno a noi, la languida campagna pugliese, con le sue molteplici tonalità di verde e le sue voci selvagge, mandrie di bovini al pascolo. E poi un corso d’acqua, sarà l’Ofanto, il fiume di cui nessuno parla più se non Orazio nelle sue odi. E poi gli arbusti, i fiori, gli alberi e candide casette lontane: sembrano macchie di biacca, spruzzate qua e là. E poi c’è lui:

l’immenso cielo di Giuseppe De Nittis, la vastità di cui era deciso ad apprendere 

i segreti e le potenzialità cromatiche, il reame percorso dalle «belle nubi», 

la divinità eterna nella quale tutti noi, qui al Sud, presto o tardi, 

ci perdiamo incantati.


Stornare lo sguardo da un dipinto di De Nittis è come un risveglio. 

La sua arte è fatta d’incanto e di emozioni, seduzione e ipnosi, sogni e sentimento. È un’arte in moto perenne, come le nuvole in transito o la vita breve e inquieta di colui che la produsse. Un’arte fatta di momenti e di visioni, di opportunità da cogliere al volo, come il Maestro stesso ci rivela: «una immagine di quella dolce vita da sognatore al quale basta una distesa di cose bianche, una pioggia di neve o una pioggia di fiori. È la vita per la quale son nato: dipingere, ammirare, sognare».

 

 

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LA CHIESA DI SANTA LUCIA A ROCCA DI CAMBIO Gemme del Sud numero 29 agosto2023 editore Maurizio Conte

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 LA CHIESA               DI SANTA LUCIA         A ROCCA DI CAMBIO

 

 Gemme del Sud
                       Abruzzo

 

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Nel piccolo comune di Rocca di Cambio, in provincia de L’Aquila, conosciuto per essere il paese più alto dell’Appennino, a pochi chilometri dal centro abitato, si trova la chiesa di Santa Lucia, ciò che resta di un antico complesso abbaziale citato per la prima volta in documenti datati agli inizi del 1300 ma la cui costruzione potrebbe risalire ai secoli XI-XII.

 

L’edificio è sopravvissuto ai danni causati dai ciclici terremoti 

che nel tempo si sono verificati nella zona,

 

pl cui ultimo disastroso risale al 2009. Più volte restaurato, oggi presenta all’esterno una semplice facciata con portale del XV secolo sormontato da un piccolo rosone ed un campanile a vela mentre l’interno a tre navate è privo di abside e conserva un ciborio del 1400. 

 

Ciò che sorprende entrando in questa chiesa, dichiarata monumento nazionale nel 1902, sono gli affreschi del presbiterio e della cripta – cui si accede dalla navata centrale – testimonianza della produzione pittorica abruzzese compresa tra il XII e gli inizi del XV secolo. 

 

Ed è nel presbiterio che, accanto alla rappresentazione della Vergine, delle vicende di Cristo, della vita di Santa Lucia e di altri santi, lo sguardo è catturato da un’ampia Ultima Cena in cui Gesù, seduto a capotavola, è raffigurato benedicente e rivolto verso gli apostoli tra i quali sono insolitamente presenti San Paolo e San Barnaba

 

Ammirando queste pitture, recentemente restaurate, si viene inondati dal colore, 

ed è un po’ come rivivere lo stupore e le emozioni di quei fedeli 

ai quali la Chiesa, nei secoli passati, attraverso le immagini 

insegnava il messaggio cristiano, la storia 

del Salvatore e dei santi.

 

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L’Ultima Cena raffigurata sulla parete nord del presbiterio – Fotografia di Paola Ceretta