VENAFRO E IL SUO PARCO DEGLI OLIVI Gemme del Sud – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 – Ed. Maurizio Conte

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VENAFRO E….. IL SUO PARCO  DEGLI OLIVI

 

Gemme del Sud

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Venafro (in provincia di Isernia), nota come la Porta del Molise, è senza dubbio una delle più belle e caratteristiche cittadine della regione, ricca di storia, arte e cultura. Ma c’è una cosa che rende questo posto davvero unico: i suoi ulivi, tra i più antichi piantati in Italia. 

Venafro è uno dei tre luoghi simbolo dell’olivicoltura storica mediterranea, 

insieme alla biblica Efraim ed al Monte degli Ulivi di Gerusalemme.

 

Venafro (in provincia di Isernia), nota come la Porta del Molise, è senza dubbio una delle più belle e caratteristiche cittadine della regione, ricca di storia, arte e cultura. Ma c’è una cosa che rende questo posto davvero unico: i suoi ulivi, tra i più antichi piantati in Italia. 

Le sue origini antiche sono tramandate da numerose fonti letterarie – da Orazio 

a Plinio il Vecchio, a Marziale – molte delle quali testimoniano che i Romani 

ritenevano l’olio di oliva prodotto in questo luogo 

il più pregiato del mondo antico.

 

Venafro (in provincia di Isernia), nota come la Porta del Molise, è senza dubbio una delle più belle e caratteristiche cittadine della regione, ricca di storia, arte e cultura. Ma c’è una cosa che rende questo posto davvero unico: i suoi ulivi, tra i più antichi piantati in Italia. 

 

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RUDISTE GIOIELLI DELL’AMBIENTE di Santa Picazio – Numero 23 – Dicembre 2021 gennaio 2022 – Ed. Maurizio Conte

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i confini fra le regioni restano inesistenti. Sono linee immaginarie tracciate dall’uomo per comodità di studio, o per convenzioni politiche. 

RUDISTE GIOIELLI DELL’AMBIENTE

 

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È quanto bisogna considerare quando si passa dalla Puglia al

Molise, una regione minuscola, posata di traverso sulla Puglia come un cappellino, 

ma ricca di motivi per una visita, e non una visita veloce, ma una di quelle lente, consapevoli delle tante cose che ci sono da vedere. 


Si potrebbe cominciare da Pietrabbondante, con il suo Teatro italico, in località Calcatello. Affacciato sulla valle del Trigno, toglie il fiato per la sua imponenza, un’antica e ricercata imponenza. Risale infatti ad un paio di secoli prima della nascita di Cristo. Ed ancora, una visita ad Agnone, con le sue famose campane, dove si resta affascinati dal bronzo fuso, calato ad occupare il vuoto della forma, e dove rimarresti ancora per scoprire un altro segreto, quello del loro suono. E che dire di Sepino? La Pompei molisana, cui si arriva attraversando una porta romana. Un luogo ancora ben conservato, dove hai la sensazione di poter salutare antichi romani, e dove tutto si confonde, fino a meravigliarti di incontrare turisti invece che veder passare delle matrone.

C’è, però, una tappa che non ti aspetti, quella che porta in direzione del Matese, 

verso San Polo Matese, un piccolo comune di meno di cinquecento anime.


In questa località sopravvive una torre di origine forse longobarda, restaurata di recente, in prossimità della quale si notano delle strane rocce che racchiudono dei fossili: sono le Rudiste. Ed è a questo punto che la curiosità del turista, di un attento ed interessato turista, deve molto indietreggiare nel tempo, fino al periodo Mesozoico, circa 200 milioni di anni fa. A quell’epoca tutta la regione, e non solo, era ricoperta dal mare, un mare con un bel nome, “Tetide”, limpido, non molto profondo, a temperatura quasi costante, che si estendeva dalle Alpi al Borneo, dall’America centrale all’Himalaya. In questo mare, le Rudiste, questi molluschi bivalvi, prosperavano, riproducendosi senza problemi. Poi, accade che una lenta, ma inesorabile trasformazione di questo favorevole ambiente portò alla fine delle Rudiste. Ma non scomparvero, divennero pietra, che non si perderà mai nel tempo, ma rimarrà a far parte dei nostri paesaggi più interessanti.

L’importanza delle Rudiste risiede, appunto, nel fatto che hanno contribuito, con l’accumulo dei loro resti, e la successiva fossilizzazione, alla formazione 

di rocce particolarmente utili per l’uomo.


Le loro particolari caratteristiche, definite “calcari a Rudiste”, riscontrabili in molte zone dell’Italia centro-meridionale, si sono rivelate un elemento di grande importanza. La sedimentazione di questi preziosi gusci ha formato nel tempo strati fossili alti migliaia di metri. Una lunga storia durata per milioni di anni. Poi, il fondale marino decise di emergere, non per guardarsi attorno, ma per le forti spinte tettoniche dei continenti che desideravano dividersi per poi rincontrarsi. Ed ecco gli Appennini, e non solo: tante sono le terre emerse, l’Italia tutta, per esempio, dove le rocce calcaree, sensibili al lavoro costante dell’acqua si sono trasformate in bellissime grotte con ricami di pietra. Ma queste rocce hanno anche una funzione meno decorativa e di grande utilità per l’uomo costruttore: offrono la possibilità di ricavare calce viva per il suo impegnativo lavoro.                              

 

 

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AVEZZANO L’AIA DEI MUSEI di Ilse Beretta Covacivich – Numero 22 – Settembre ottobre 2021 – Ed. Maurizio Conte

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AVEZZANO L’AIA DEI MUSEI

 

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tra l’antico ed il contemporaneo, un’operazione culturale riuscita ed il mecenatismo degno di questo nome rendono l’Aia dei Musei un imperdibile luogo dove approdare. 

Il tutto deve essere condito da impegno, straordinaria forza di volontà e amore per quello che è intorno a noi, che spesso vediamo senza guardare.   

 

Quando cultura e comunicazione rendono con efficacia le correlazioni tra territorio, tradizione, innovazione ed informazione, ecco allora

l’Aia, nome evocativo di un luogo di incontro e di lavoro, di tradizioni custodite 

e storie raccontate, dello stretto rapporto tra uomo e ambiente, oltre che 

della particolare ricchezza dell’Abruzzo in questi ambiti.


Nel caso dell’Aia dei Musei, polo museale di recente impianto, ecco come una struttura culturale degna di questo nome interconnette storia ed attualità. L’occasione per guardare con attenzione all’impresa così brevemente accennata viene da una mostra temporanea, “Sculture a colori”. L’esposizione porta ad Avezzano il movimento artistico chiamato “Cracking Art”, che connette un ‘prima’ così lontano ed un ‘oggi’ grazie alla relazione tra l’ambiente e l’artefice delle sue trasformazioni, utilizzando, per l’opera di creazione, il riciclo di materiali inquinanti.

La contingenza di una mostra d’arte contemporanea, degno tributo di un mecenate che non delude mai, rende evidente una storia durata quasi duemila anni: 

quella del Lago del Fucino.


Terzo bacino per grandezza in Italia, al centro, nel corso della storia, di importanti progetti di ingegneria idraulica, da quello di Giulio Cesare fino a quello del banchiere Alessandro Torlonia (divenuto principe grazie al completamento dell’opera cui si accennerà), il bacino era destinato ad essere prosciugato per farne risaltare le potenzialità agricole. 

Esso, infatti, per le caratteristiche geofisiche – prime fra tutte la mancanza di un emissario che potesse farne defluire le acque – era soggetto ad eccessivi sbalzi volumetrici che non permettevano di creare stanziamenti agricoli in una terra conosciuta per la fertilità.

Il progetto pensato da Giulio Cesare, assassinato prima di poter iniziare i lavori, 

fu portato ad un primo completamento dall’Imperatore Claudio


che creò un emissario artificiale sotterraneo per salvare gli abitanti dalla risalita di quasi 12 metri del livello delle acque. Le manutenzioni, necessarie per il tipo di pietra impiegato, erano tante e tali che, alla caduta dell’impero per l’avvento delle orde barbariche, il sito venne lasciato in stato di abbandono, riconsegnando il livello delle acque all’imprevedibilità delle condizioni atmosferiche.

Fu nella metà dell’Ottocento che venne data la concessione di ripristinare 

le opere claudiane ad Alessandro Torlonia


il quale, per essere riuscito nell’impresa di bonifica, non solo ottenne le terre strappate alle acque, ma venne titolato principe da Vittorio Emanuele dopo la dichiarazione di avvenuta bonifica del 1878. Le parole di Alexandre Dumas del 1863 rendono più di ogni racconto: “Il principe Alessandro Torlonia portò a termine un’opera ideata da Cesare, ritenuta impossibile da Augusto, tentata da Claudio, rilanciata invano da Adriano e Traiano e che, nel corso di diciassette secoli, aveva vanificato gli sforzi di Federico di Svevia, Alfonso I d’Aragona, i dubbi Colonna e Ferdinando IV, che valeva la pena fare una deviazione di qualche chilometro per ammirare quel lavoro dell’antichità, che, se avesse saputo come farlo, l’avrebbe chiamato l’ottava meraviglia del mondo”. 

Questa la storia raccontata oggi in uno dei due musei dell’Aia, chiamato, per l’appunto, “Il Filo dell’Acqua”.

Con la mostra “Cracking Art”, l’Aia dei Musei, luogo ricco di storia e tradizioni, 

si trasforma in una variopinta e contemporanea Arca di Noè, con sculture 

di conigli, orsi, lupi, elefanti, tartarughe e chiocce come simbolo 

di rappresentazione di tutte le specie e del potere che viene loro attribuito. 

Il messaggio che arriva allo spettatore è di un’impellente 

necessità di rigenerazione della natura stessa.


Come il luogo in cui è realizzata è stato trasformato dall’uomo per il miglioramento della vita di chi vi abitava, così questa mostra innovativa sottolinea come l’utilizzo di materiali considerati deleteri per la flora e per la fauna possa essere destinato alla creazione di opere d’arte. Le “sculture a colori”, realizzate da un gruppo di artisti che si definiscono crackers, fanno entrare il pubblico in un mondo surreale composto da forme e colori diversi.

Il messaggio del ‘prima’ e del ‘dopo’ è quello secondo cui l’attività umana plasma oggetti e materiali, trasformandoli in capolavori portatori 

di un profondo messaggio di rinnovamento.


Il coronamento di tanta forza evocativa si deve, ancora una volta, alla Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, presieduta dall’illuminato Emmanuele Emanuele, che ha avuto modo di affermare come “la sede espositiva ancora poco nota rispetto alla sua bellezza […] merita sicuramente di essere conosciuta, e che la Fondazione intende contribuire a farla diventare un nuovo polo di eccellenza per l’arte contemporanea”.

 

 

 

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IL CUORE DEL VULTURE: LA BADIA DI SAN MICHELE di Sergio Spatola numero 22 settembre ottobre 2021 ed. Maurizio Conte

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affidandosi alle sapienti mani di colui che non solo li vive ma li ama, senza porsi domande e senza consultare guide – insomma, ponendosi favorevolmente nei confronti dell’ignoto – è già un’avventura. Naturalmente la qualità umana dell’ospite gioca un ruolo essenziale e, nel caso di chi scrive, è una certezza.

Se il “dove” è la Basilicata, poi, ci si può ubriacare da tanta bellezza e sentirsi così “persi” nei boschi, nelle alture, nei punti panoramici, nei castelli, da provare quella fugace emozione chiamata felicità.

In questo caso specifico, il crescente stupore, culminato in meraviglia,


ha avuto inizio sul Monte Carmine ad Avigliano, ove è adagiato l’omonimo santuario. È un luogo per tutti: religiosi e non. Mentre il primo potrebbe fare anche una sosta mariana, entrambi potrebbero godere di un panorama che comprende tutta la Basilicata, dal confine campano a quello pugliese, che, con il suo tavoliere, si para all’orizzonte orientale.

E poi c’è il Nord, verso il quale solitario, maestoso, cromaticamente riconoscibile 

per via dei boschi che non sono stati strappati in favore dell’agricoltura, 

si erge lui, il vulcano ormai spento: il Vulture.

Lungo il percorso che da Monte Carmine porta nel cuore del cratere, ci si imbatte nel castello federiciano di Lagopesole. Tra non molto sarà possibile rivederlo. Nel frattempo, il noto calore umano meridionale di qualche operatore del Nucleo di Tutela della biodiversità ve ne parlerà e vi racconterà dei lavori che lo stanno portando all’antico splendore.   

 

Superata la zona dell’Aglianico, per chi non volesse e non potesse fermarsi a gustarlo lentamente, accompagnato magari da strascinati con cacio ricotta e peperone crusco, lo attendono i boschi di querce che sussurrano una promessa: entra nel vulcano e vedrai! 

Hanno ragione. 

Cos’è questa meraviglia? Non sono i due laghi (il maggiore e il minore) di Monticchio con un grado di biodiversità tale da avere il diritto a un documentario tutto loro e che costituiscono uno spettacolo di rara bellezza, ma quello che incastonano insieme alle pareti del cratere. 

Mi riferisco al luogo che custodiscono:

l’Abbazia di San Michele Arcangelo, che la devozione, già precedente all’anno mille, 

e il tempo hanno connotato di una tale stratificazione architettonica 

da essere tuttora studiata.


Quel luogo era destinato: già in epoca pre-cristiana vi si venerava una dea femminile, per poi, dall’epoca bizantina in poi, essere dedicato a San Michele Arcangelo. 

E la santificazione della forza e del coraggio, tipicamente attribuite all’apice della schiera angelica, non poteva che trovare luogo più adatto per essere celebrata, pur non facendo parte della cosiddetta Linea Sacra. 

La stessa storia della lunga, incessante e perigliosa costruzione della Badia lo testimonia.

Tutto ha avuto inizio con i Benedettini che fino al XVI secolo hanno gestito sia il luogo che le risorse patrimoniali, compresa la fonte che ancora oggi 

concede la sua acqua ricca di sali minerali.

Ma la storia architettonica del luogo che oggi vediamo ha a che fare con un evento fin troppo familiare: un terremoto. La catastrofe del 1456 ha spinto i monaci del monastero di Sant’Ippolito, posto in basso tra i due laghi, a portare il culto micaelico sulla rupe in cui sono custodite le tracce più antiche del sito. Da quel momento, i frati Agostiniani prima e i Cappuccini poi hanno completato l’opera che oggi può essere ammirata, o meglio percepita.   

 

La Badia è visibile nella sua interezza dal lago maggiore, perché quando ci si trova dentro è talmente ripida la facciata che la prospettiva non può essere interamente colta, a testimoniare quanto scoscesa sia la base di roccia a cui letteralmente è stata appesa.

Un luogo di preghiera innanzitutto, e soprattutto, per un religioso 

e un luogo di introspezione per chi non lo è.

Affacciarsi dalle vetrate della chiesa o scorgere dalla finestra di una stanzetta che era una delle celle dei monaci – perfettamente conservata, compresi gli arredi – offre una tale visione del creato che doveva necessariamente avvicinare lo spettatore a qualcosa di supremo. Ciò che l’uomo ha voluto fare a Monticchio non è venerare, ma avvicinarsi a Dio, cercando di cogliere un angolino della sua immensa bellezza, a prezzo di appendere un’opera d’arte su una scarpata della creatura più temibile in natura, un vulcano.

 

 

 

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GARGANO IL MONTE DEL SOLE di Santa Picazio – Numero 22 – Settembre ottobre 2021 – Ed. Maurizio Conte

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GARGANO IL MONTE DEL SOLE

 

come di un luogo di estremo interesse, ma erano mancate le occasioni per verificarlo, mi era mancato il tempo, avendone trascorso molto fuori per motivi di studio, e mi era mancata un’auto personale per poter decidere un percorso in piena autonomia.

Poi capita che all’improvviso, quando non ci pensi più, ti ritrovi ad avere una macchina tua, ed un figlio di tre anni con una tosse che potrebbe giovarsi di aria buona, proprio di quella del nostro Gargano, bisognava solo decidere dove andare per poterla respirare a pieni polmoni. Interpellato mio marito, che da un po’ di tempo, sollecitato dai miei racconti, ha scoperto il piacere di fare delle escursioni sul territorio, azzardo la mia proposta. Dopo un attimo di esitazione per il fatto che si trattava di un percorso poco noto, decidiamo di andare.

 

Partiamo nascondendo una certa ansia per la viabilità irregolare ed approssimativa. L’ansia, però, si spegne all’improvviso; si spegne quando si apre di fronte a noi 

uno spettacolo naturale di rara bellezza!

 

Scendiamo dalla macchina quasi intimiditi; il paesaggio è fantastico. Il Gargano, infatti, anche per chi ci è nato, si rivela all’improvviso. Il Gargano si cela come in uno scrigno, e quando credi di aver pescato anche l’ultima gemma, ne scopri un’altra. Poi scopri che esiste addirittura un doppio fondo, e che le cose più preziose sono ancora tutte da scoprire. Il casale di Devia è una di queste! Lo spettacolo che si apre davanti ai nostri occhi ci toglie il fiato.

Restiamo muti ad osservare il mare, un mare di un incredibile colore, a cui le Tremiti movimentano l’orizzonte. Restiamo a lungo accovacciati sul limite dell’altopiano.


Sotto di noi la collina degrada per 250 metri, e si incunea dividendo i due laghi costieri di Varano e di Lesina. Penso alle tante spiegazioni che si danno ai toponimi; ma, per me, Devia può significare solo separa”! II Monte d’Elio, infatti, si protrae verso il mare separando i due laghi che, come due languidi occhi, sembrano destinati ad osservare l’infinito cielo!   

 

Decidiamo che il posto merita una esplorazione più approfondita, ed

 

Iniziamo con la visita agli importanti ruderi che ci siamo lasciati alle spalle 

per l’ansia di affacciarci sul panorama.

 

È difficile definire come chiesa quei ruderi, ma la struttura è chiara. Proviamo ad entrarci. Il tetto è praticamente scomparso; un paio di falchi danno segno di inquietudine ed abbandonano la trave su cui erano appollaiati. Una mucca, forse stanca per aver brucato l’erba non più tanto tenera, riposa ai piedi di un affresco coperto dalle ragnatele. C’è anche un asino che, come tutti gli asini, non mostra alcun interesse per le novità; sembra crogiolarsi nella sua solitudine. I nostri passi, seppure attenti, mettono in fuga una lucertola. Senza muoverci dal punto in cui ci troviamo, diamo uno sguardo in giro.

 

Sulle pareti notiamo degli affreschi che si sforzano di resistere al tempo 

e alle intemperie! Quel luogo, di cui pure avevo sentito parlare con interesse, 

sembra lontano anni luce dall’interesse degli uomini

 

che, solo un po’ più a valle, cominciano anche a parlare di turismo! Continuiamo l’esplorazione, inerpicandoci per quanto possibile con un bimbo al seguito.   

 

Scopriamo altri ruderi, mentre avanza il desiderio di saperne di più; bisognerà avviare una vera ricerca, e mi riprometto anche di interrogare gli amici di San Nicandro per capire i motivi di tanto abbandono. Da quel giorno, dal giorno di questa nostra prima esplorazione, sono passati tempo e storia.

Sono passati anni durante i quali, fra alti e bassi, abbiamo assistito anche da vicino 

ad un felice recupero del sito. La chiesa restaurata si è rivelata un vero gioiello. 

Gli scavi archeologici lungo i fianchi della montagna hanno messo in luce 

i ruderi del borgo di Devia.

 

Ora sono solo dei ruderi, dei quali solo alcuni sembrano degni di attenzione. Peccato, perché Devia deve aver avuto un passato importante. Già dal VII secolo erano iniziate le escursioni dalmate sui nostri litorali, governate da uno Juppano, una particolare figura di capo villaggio. ln seguito, secondo alcuni documenti risalenti all’Xl secolo, ritrovati nell’ abbazia delle Tremiti, Devia fu sede fortificata di una colonia slava. Ricordata nei documenti come civitas, pare sia stata fondata per volere dei Bizantini proprio a tutela delle coste perennemente soggette agli sbarchi di popolazioni poco gradite. Con il tempo, forse per l’arrivo dei Normanni, Devia viene abbandonata a vantaggio della piana Sannicandrese.

Di tutto il villaggio resta la chiesa. Una fortuna perché si tratta di un vero gioiello, 

con un importante ciclo di affreschi.

Ceduta nel 1032 all’abbazia di Tremiti dal Vescovo Giovanni da Lucera. Santa Maria iuxta mare, per la sua particolarissima posizione fronte mare, mostra all’esterno tre absidi semi circolari. ln quella centrale esiste, e resiste, un affresco del Cristo Pantocratore. Alcune monofore contribuiscono, filtrando la luce, a focalizzare gli affreschi lungo le pareti. Gli affreschi tutti molto interessanti, meriterebbero una trattazione a parte per il loro richiamo allo stile cavalleresco e crociato, una trattazione troppo lunga per iniziarla ora. L’abbazia delle Tremiti, e quasi tutte le chiese garganiche, che si avvalevano del mare come via di transito, erano importanti proprio in considerazione delle scarse ed impraticabili strade interne di quei tempi. Ai lunghi periodi di culto seguirono crisi e desolazione, e poi ancora una felice ripresa nel XVI secolo che durò fino al 1744. Da quel momento in poi inizia un nuovo abbandono, che la trasforma nella stalla sfondata che noi ritrovammo negli anni 60.

 

L’interesse per il sito riprese vigore, anche grazie alle mie convincenti chiacchierate, solo nel 1970 quando iniziarono finalmente i dovuti restauri!

 

Ora c’è un nuovo black-out! Ancora una volta si è spento l’interruttore culturale su Devia. Ne attendiamo le motivazioni che sembrano esclusivamente politiche. Quindi, lontane dalla soluzione. Quest’anno ci sono tornata, presa dalla nostalgia, accompagnata da quel bimbo di tre anni che oggi ne ha cinquanta, ma non più con lo stupore di allora. Sono scesa dalla macchina con l’amarezza di chi sa già, di chi conosce lo scarso valore che si riserva oggi, più che mai, ai nostri Beni culturali.

 

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 © Foto di Ivan Galavotti

 

IL BERGAMOTTO, L’ORO VERDE DELLA CALABRIA Gemme del Sud Numero 21 giugno luglio 2021 Ed. Maurizio Conte

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IL BERGAMOTTO, L’ORO VERDE DELLA CALABRIA

 

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Gemme del Sud

Locride

 

Lungo la Costa dei Gelsomini, in un piccolo fazzoletto di terra nel cuore della Locride, grazie al clima favorevole ed ai terreni argillosi, fruttifica un agrume dalle straordinarie virtù benefiche, un’eccellenza calabrese conosciuta ed apprezzata in tutto il mondo: il Bergamotto.

 

Dalla cucina alla cosmesi passando per la medicina, sono tantissimi gli utilizzi 

di questo frutto, della cui coltivazione la Calabria detiene il primato mondiale.

 

Il frutto del Bergamotto ha origini antiche ma, nonostante le numerose ipotesi, esse rimangono ancora avvolte nel mistero. La stessa etimologia del nome è incerta: secondo alcuni potrebbe risalire alla città di Berga (nome antico di Barcellona), dove sarebbe stato importato da Cristoforo Colombo di ritorno dalle Canarie, o a quella di Pergamon (l’antica Troia). Altri associano il termine Bergamotto a Berg-a-mudi, che in turco significa “pero del Signore”.

Una leggenda racconta che un moro di Spagna vendette un ramo di Bergamotto 

ai signori Valentino di Reggio Calabria, che poi innestarono il nuovo frutto 

su un arancio amaro in un possedimento di loro proprietà.

 

Di sicuro sappiamo che la coltivazione di questo agrume sul litorale di Reggio Calabria risale al Settecento e che, sempre qui, nell’Ottocento, è documentata la prima estrazione dell’olio essenziale di bergamotto.

 

L’importanza del Bergamotto per questo territorio è testimoniata anche dall’esistenza di un museo ad esso dedicato, il Museo del Bergamotto di Reggio Calabria,

 

dove sono esposti macchinari e foto d’epoca che tramandano gli antichi processi di lavorazione e raccontano, al contempo, un pezzo di storia di questa terra. 

 

Dal 2001, inoltre, il Bergamotto di Reggio Calabria – Olio essenziale è riconosciuto come marchio D.O.P. dell’Unione Europea.

 

 

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L’OASI DI TORRE SALSA Gemme del sud numero 21 giugno luglio 2021 Ed. maurizio conte

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L’OASI di.torre salsa

 

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Siculiana

 

Lungo il litorale agrigentino, tra Siculiana Marina ed Eraclea Minoa, si estende per circa 6 km la Riserva Naturale Orientata di Torre Salsa, gestita dal WWF, dove il mare azzurro e cristallino lambisce ampi tratti di spiaggia dorata. 

Un luogo ricco di storia in cui il ricordo degli sbarchi dei pirati saraceni del XVI secolo è testimoniato dai ruderi di due torri di avvistamento, Torre Salsa e Torre Pantano, e la presenza dell’uomo è attestata dal ritrovamento di quattro tombe bizantine e da una calcara utilizzata, in tempi più recenti, per produrre gesso.

Tratti di costa alta, formatasi dalle stratificazioni argillose e calcaree  

che richiamano alla mente la vicina “scala dei Turchi” di Realmonte  

si alternano a falesie a strapiombo sul mare 

con panorami mozzafiato,


mentre nelle zone basse la sabbia sciolta forma dune costiere dove fiorisce il Giglio marino. 

Nell’antica macchia mediterranea sopravvive una vegetazione diversificata, in grado di resistere al clima arido del periodo estivo, e che durante la fioritura primaverile esplode in un tripudio di colori. Nei tratti boschivi crescono il Pino di Aleppo, l’Eucalipto e l’Acacia. Torrenti ramificati e profondi, tra cui il Salso che dà il nome all’Oasi, sfociano in mare creando incantevoli scorci scenografici.

In questo angolo di Sicilia ancora selvaggio ed incontaminato vive l’Istrice 

e nidificano molte specie di uccelli tra cui l’Usignolo di fiume, i Gabbiani corallini 

ed il Passero solitario, di leopardiana memoria, e ci si può immergere 

alla scoperta di fondali marini ricchi di flora e fauna.


Sulla spiaggia, ogni anno torna a nidificare anche la tartaruga marina “Caretta caretta”, specie protetta inserita nel progetto WWF di salvaguardia della specie, che in estate offre la visione spettacolare della schiusa delle uova e del lento e suggestivo cammino dei piccoli rettili verso il mare aperto, sotto l’occhio vigile dei volontari dell’Oasi.

 

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 Photo credit © WWF

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LA GAIOLA, AMATA DAL VENTO E DA NORMAN DOUGLAS di Aurora Adorno – N.20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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LA GAIOLA, AMATA DAL VENTO E DA NORMAN DOUGLAS 

 

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Il celebre romanziere inglese l’aveva trovata la sua casa, in quel della Gaiola, una piccola isola che chiamò “Nepente”, come il succo di quella pianta che se estratto e bevuto fa scordare ogni umano dolore e tormento. Un anno dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, egli scelse di chiudere il cerchio della sua vita nella piccola cava della costa di Posillipo,

 

ammaliato dal vento meridionale chiamato “scirocco” che, 

come lui stesso scrive in Vento del Sud


(celebre romanzo pubblicato a Londra nel 1917), modifica il comportamento degli uomini, in particolare degli anglosassoni, orientandoli verso una sorta di follia. 

 

“Era un posto aereo, sospeso fra terra e cielo. Qui, si può trovare ancora la pace lontano dal mondo, qui si possono raccogliere le cose che ci sono rimaste e passare le ore sognando, ispirando l’inebriante profumo dei pini e ascoltando quella loro melodia teocritea, che non è propriamente un sussurro, ma un quasi impercettibile respiro: musica d’estate”, scrive.

 

L’isola sorge nel Parco sommerso della Gaiola, area protetta che dal borgo 

di Marechiaro si estende fino alla Baia di Trentaremi.  


Egli preferì l’abbraccio del sole, il profumo dei fiori ed il colore dei frutti alla sua patria Inghilterra, trovando rifugio sull’isola detta un tempo Euplea, protettrice dei navigatori.  

 

Il nome Caiòla o Gaiòla, deriva dal modo in cui i ruderi di origine romana sono posizionati, ovvero a forma di gabbia, in napoletano cajòla. Gli antichi resti appartenevano ad una villa costruita nel 1874 da Luigi de Negri e che poi nel 1910 divenne del senatore Paratore. Nel cuore della Gaiola si trova la villa detta “maledetta”, composta da roccia, pietra e tufo sormontati da una costruzione che si rispecchia, come una dea vanitosa, nel mare cristallino.

 

Meta turistica incantevole e misteriosa, l’area marina protetta 

ospita nel suo fondale reperti archeologici, 

animali e vegetali colorati,

 

che aprono al visitatore le vie del mare in itinerari snorkeling e diving, un paradiso sommerso in cui la natura appare all’uomo rivelata nella sua bellezza.  

 

Dall’ingresso della Grotta di Seiano in via Coroglio si accede al Parco Archeologico del Pausilypon, dal quale è possibile ammirare i resti della fastosa villa di Pollione, sul promontorio che domina la baia di Trentaremi, per giungere infine alla Gaiola. 

Luoghi questi che furono apprezzati già al tempo dei Romani, dai senatori e da ricchi cavalieri che dal I sec. a.C. vi costruirono le loro eleganti residenze. Discendendo un’area rocciosa, una lunga rampa di scale si apre ad una bella spiaggia libera in cui il mare trasparente infrange le sue onde accarezzato dal quel vento di scirocco tanto amato da Norman Douglas.

 

Lo scrittore non fu l’unico a subire il fascino della Gaiola: 

 

negli anni Venti venne acquistata dal celebre medico Hans Braun, in seguito fu del commerciante di profumi Otto Grunback, poi del barone tedesco Karl Langheim, di Gianni Agnelli e del magnate americano Paul Getty, adesso di proprietà della Regione Campania.  

 

Luogo di culti e leggende: tra lo scoglio di Trentaremi e gli isolotti pare che Virgilio abbia tenuto una scuola di magia, tanto che i ruderi posti alla punta estrema del promontorio vengono chiamati “Scuola di Virgilio” o “Casa del mago”.

Si dice che durante le notti di plenilunio la Carrozza Anfibia di un mago, 

l’illuminista Raimondo di Sangro Principe di Sansevero, 

appare all’orizzonte stregando le onde del mare. 


La leggenda narra anche che nel 1600 essa fosse abitata da un eremita soprannominato Lo Stregone, che viveva delle offerte dei pescatori. Un’alchimia di elementi ispirò la fantasia dello scrittore a creare l’isola Nepente appunto, situata in un luogo immaginario tra la Sicilia e l’Africa, in cui personaggi della 
Belle Époque vissuti nella Capri dei tempi si intrecciano in uno scambio di dialoghi e storie.

 

“L’isola sembrava galleggiare sulle onde come un candido uccello marino, 

un uccello marino o una nuvola”.  

 

La frase tratta da Vento del Sud è stata incisa su una piccola mattonella di ceramica e posta sulla facciata del Bar Funicolare di Capri per rendere omaggio a quell’inglese che all’isola aveva portato fama e fortuna. Gaiola isola d’incanto, mistero e magia, che con i suoi colori e le sue storie incanta la bella Napoli e la Costa di Posillipo, meta incontaminata, lontana dal frastuono della nostra civiltà.  

 

Citando Henry David Thoreau: “Ai nostri giorni quasi ogni cosiddetto miglioramento a cui l’uomo possa por mano, come la costruzione di case e l’abbattimento di foreste e alberi secolari, perverte in modo irrimediabile il paesaggio e lo rende sempre più domestico e banale”. 

E alla Gaiola non vi è niente di domestico, né di banale… 

 

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Stelle al Sud

 

Con la serie “Stelle al Sud” Myrrha va alla ricerca di alcuni tra i tanti personaggi celebri la cui arte si è in qualche modo intrecciata con la natura incontaminata di un Sud selvaggio e incantatore, divenuto per essi fonte di ispirazione, talvolta dimora d’elezione.

 

 

LE SALINE DI MARSALA – Gemme del Sud – N. 20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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LE SALINE di MARSALA

 

Gemme del Sud

Marsala

 

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La Riserva della Laguna dello Stagnone di Marsala è un’area naturale protetta che si estende nel tratto di mare compreso tra capo San Teodoro e capo Boeo o Lilibeo, comprendendo le quattro isole di Mozia (San Pantaleo), Isola Grande, Schola e Santa Maria, e le saline costiere San Teodoro, Genna e Ettore Infersa.

Lo “Stagnone” è la laguna più grande della Sicilia, caratterizzata 

da acque molto basse e una temperatura più alta del normale.


Per questo motivo oggi è diventata il paradiso del kitesurfing: l’acqua bassa e completamente priva di onde ha fatto dello Stagnone la meta ideale sia per i principianti, che per i kiters esperti che vengono qui ad allenarsi nel freestyle. 

All’interno della riserva sono presenti le vasche delle saline con i famosi mulini a vento.  

 

Questo luogo unico, fuori dal tempo, si è classificato al primo posto nella classifica Fai “luogo del cuore”, speciale Expo di Milano 2015.

Un paesaggio naturale mozzafiato, per i suoi colori, i suoi profumi, 

i suoi tramonti, le bianche saline con i mulini a vento,


i fenicotteri e gli altri uccelli migratori, lo sguardo sull’arcipelago delle Egadi e la vegetazione sviluppatasi per sopravvivere all’alto grado di salinità dei luoghi, come la Posidonia e la Calendula marina.  

 

In epoca fenicia lo Stagnone era un luogo strategicamente importante per la presenza dell’isola di Mozia, un’influente stazione commerciale fenicia per gli scambi tra Oriente e Occidente, data la sua posizione geografica al centro del Mediterraneo.

Proprio grazie alla sua posizione, Mozia catturò l’interesse di diversi popoli come Greci e Cartaginesi in lotta per il predominio della Sicilia.


Oggi sull’isola è presente un museo ed è una piacevole meta di turismo. 

 

Altro punto di interesse lo si ha all’imboccatura sud dello Stagnone, dove durante la Seconda guerra mondiale venne costruito per la Regia Aeronautica un importante idroscalo militare, le cui aviorimesse in cemento armato furono progettate dal noto ingegnere Pier Luigi Nervi. Lo Stagnone è stato anche teatro del film “Briciole sul mare” (2016) e della fiction “Il commissario Maltese” (2017). 

 

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COMPENDIO GARIBALDI LA MADDALENA – Gemme del Sud – N. 20 – Marzo-Aprile 2021 – Ed. Maurizio Conte

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compendio garibaldi la maddalena

 

Gemme del Sud

Caprera

 

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Quale miglior modo di distrarsi dal mare che visitare il Compendio Garibaldino, raggiungibile percorrendo la strada comunale da La Maddalena a Caprera? Il nostro eroe acquistò il primo compendio nel 1854 dai fratelli Ferracciolo per 36 lire e il secondo nel 1855, grazie all’eredità del fratello Felice, per 32.250 lire.

Garibaldi, dopo aver ripristinato ad abitazione il preesistente ovile, costruito 

la casa di legno e recintato il terreno, si diede alla realizzazione 

della sua dimora definitiva,


la c.d. Casa Bianca, aiutato da quattro o cinque amici tra il cui il maggiore Basso e il figlio Menotti. Quest’ultimo, ancora ragazzo, collaborò come manovale. Secondo Dumas, il fautore dell’Unità d’Italia si ispirò a una casa vista in Sud America, con il tetto piano dalle orlature alte in modo da facilitare la raccolta delle acque. L’esiguità degli spazi della prima abitazione costrinse Garibaldi a pensare ad un ampliamento, e poichè i tempi stringevano, dovendo ospitare i tre figli Menotti, Teresita e Ricciotti, decise di costruire una casa in legno con del tavolame importato da Nizza (probabilmente fece arrivare l’intera casetta prefabbricata), di facile e rapida costruzione, su di un alto basamento in muratura. La casetta venne ultimata nel 1856, ed i figli vi abitarono durante la loro prima visita, per circa un anno.

Sul lato nord del cortile venne poi eretta una casa di ferro. Sulla base di alcuni documenti rinvenuti presso il Museo del Risorgimento Italiano di Milano, 

si può ipotizzare che si tratti di un manufatto inglese omaggio 

del varesino Felice Orrigoni, compagno d’armi di Garibaldi.


Si tratta di un prefabbricato in legno rivestito esternamente di lamiera ondulata di ferro (oggi di rame) che giunse a Caprera dentro 38 casse. Il fabbricato non venne mai abitato personalmente da Garibaldi, ma destinato a diversi usi: alloggio per gli ospiti, segreteria, officina del “legnaiuolo”, “magazzino delle derrate”. Tra gli ospiti che vi soggiornarono: Basso, Stagneti, Carpeneti, Guerzoni, Fruscianti, Gusmaroli. I lavori per il secondo ampliamento della casa bianca avvennero nel 1880. Occorreva, infatti, una stanza di rappresentanza più ampia e dignitosa per accogliere gli ormai numerosissimi ospiti (Garibaldi, infatti, era all’epoca costretto a trascorre la sue giornate a letto o in carrozzella).

Venne quindi costruito il nuovo salotto nel settore nord-occidentale della casa, modificati i prospetti, e costruito un ponticello che permettesse 

al generale di raggiungere la terrazza.


Quest’ultima stanza venne trasformata da Garibaldi, nell’ultimo periodo della sua vita, nella propria stanza, in modo che, ormai immobilizzato a letto, potesse mirare dalla finestra le coste della Corsica. Alle 18,20 del 2 giugno 1882 (come attestano il calendario e l’orologio rimasti immutati da quel giorno), proprio in quel letto morì. Anziché essere bruciato (o cremato) come era sua volontà, egli venne imbalsamato e sepolto a Caprera vicino alle tombe dei suoi familiari. Enrico Costa, corrispondente da Caprera del giornale “la Sardegna” fornisce un’attenta descrizione del funerale. Più tardi, il 9 giugno, viene pubblicata sulla “cronaca bizantina”, una lettera di Giosuè Carducci, furibondo con i parenti e gli italiani per non aver rispettato le ultime volontà dell’eroe.

 

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