IL MAMMUT E LA CITTÀ RICOSTRUITA di Gianluigi D’Alfonso numero 28 maggio-giugno 2023 Editore Maurizio Conte

IL MAMMUT…  E LA CITTÀ RICOSTRUITA

 

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trovato in provincia dell’Aquila nel 1954, è tornato di recente ad essere esposto nel Forte Spagnolo Aquilano, rappresentando uno dei simboli della ricostruzione della città abruzzese dopo il terribile sisma del 2009.

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E sì perché il terremoto che colpì la città de L’Aquila alle 3:32 del mattino del 6 aprile 2009, tra le innumerevoli devastazioni che cambiarono il volto del bellissimo capoluogo abruzzese e provocarono il tragico bilancio di 309 vittime, determinò anche seri danni alla struttura del Forte cinquecentesco Spagnolo che ospitava l’esposizione del mastodonte nonché importanti lesioni a parte dello scheletro e della struttura portante del Mammut. 

 

Da figlio di genitori aquilani ricordo sin da piccolo, in occasione delle affascinanti visite presso la sala del bastione est del Forte Spagnolo a

questo raro esemplare di animale preistorico, di aver subito considerato 

il Mammut uno dei simboli di questa bellissima città.


Probabilmente perché anche lui “immoto manet” protetto all’interno della Fortezza Spagnola ed in questo suo troneggiare impersona plasticamente la robustezza e la fierezza delle genti d’Abruzzo. 

 

Ma facciamo un balzo indietro e ripercorriamo brevemente l’interessante storia del Mammuthus Meridionalis Vestinus,

tra i pochi esemplari rinvenuti in Europa in buone condizioni, per l’integrità 

dello scheletro e l’ottimale stato di conservazione, grazie al clima rigido, 

quasi dolomitico, che caratterizzava i territori abruzzesi.

Esso fu subito considerato uno dei reperti più importanti della preistoria italiana, uno degli esemplari più completi esistenti insieme a quelli esposti a Parigi, a Leningrado e negli Usa.   

 

La Conca dell’Aquila nella preistoria era occupata da un grande lago dove vivevano elefanti e rinoceronti, ippopotami, cervi e cinghiali e

nel marzo del 1954, a seguito di scavi per la ricerca dell’acqua, in località Madonna della Strada a Scoppito, fu rinvenuto lo scheletro quasi integro 

di un Elephas Meridionalis Nesti,


noto come Mammut, diffusosi nella penisola italiana all’inizio del Quaternario. 

 

All’esemplare maschio e anziano dell’Aquila, morto probabilmente di vecchiaia a 55 anni, attorno a 1.500.000 anni fa, fu attribuita la denominazione prima di Archidiskodon meridionalis vestinus, poi di Mammuthus meridionalis vestinus. Il Mammut era un “bestione” pesante all’incirca più di sedici tonnellate e alto più di quattro metri, molto simile ad un elefante, ma più robusto, con le zanne più curve e la bocca più sporgente

Il restauro seguì un percorso a più tappe. Successivamente alla sua scoperta, 

dopo circa sei anni di lavori di riparazione delle singole parti, fu esposto al pubblico 

nel 1960 nel bastione est del Forte Spagnolo, sezione paleontologica 

del Museo Nazionale dell’Aquila.

Alla fine degli anni ’80 si rese necessario un secondo restauro concluso nel giugno del 1991 effettuato in parte presso il Laboratorio di Restauro del Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Firenze.

 

Si arriva, quindi, all’ultimo restauro post terremoto 2009

avvenuto anche grazie ad una generosa donazione di 600 mila euro della Guardia di Finanza che ha voluto contribuire così alla rinascita dell’Aquila dopo il sisma. L’intervento di restauro è stato realizzato dall’allora Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Abruzzo (oggi Segretariato Regionale per l’Abruzzo).

 

Il Mammut aquilano è ritornato nel 2022 a costituire una delle attrazioni 

del Museo Nazionale D’Abruzzo (MuNDA) de L’Aquila ma, soprattutto, 

il suo ultimo restauro con la sua “restituzione” 

al patrimonio culturale della città


ha significato un ulteriore importante passo in avanti verso la completa ricostruzione della città dell’Aquila per tornare a splendere nella sua antica e particolare bellezza.

 

 

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UN’ALTRA SARDEGNA di Gloria Salazar numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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UN’ALTRA SARDEGNA

 

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Un’isola dalle interminabili distese incontaminate e disabitate, dagli scenari sempre diversi (gli altipiani delle Giare, le montagne del Gennargentu, i tacchi dell’Ogliastra, gli stagni costieri, dove nidificano i fenicotteri rosa); punteggiati in cima alle falesie da cinquecentesche torri difensive, testimonianza del periodo di dominazione spagnolo.

 

Per secoli, infatti, l’isola è stata un crocevia nel Mediterraneo

 

ed una terra di conquista di cui porta ancora le tracce nella lingua, nella gastronomia e nelle architetture. Vestigia delle dominazioni straniere si ritrovano nei borghi, alcuni annoverati tra i più belli d’Italia. Ad esempio ad Alghero, “la piccola Barcellona”, (dove si parla il catalano), con le sue splendide fortificazioni; a Carloforte, nell’isola di San Pietro – una delle isole nell’isola – (dove si parla il genovese), che sembra un angolo di riviera ligure; a Bosa, con le case dalle facciate multicolori, dominata dal castello toscano dei Malaspina, e a Castelsardo (un tempo chiamato Castelgenovese e poi Castellaragonese) dominato da quello genovese dei Doria; ad Iglesias con la cinta muraria pisana ed i balconi “sivigliani”; ed a Buggerru, fondata da imprenditori francesi ed un tempo detta “la piccola Parigi”.   

 

Una regione italiana giustamente famosa per il suo mare cristallino e le sue spiagge caraibiche che spesso sono state utilizzate, al posto di quelle, per la pubblicità.

 

Ma anche una regione, al di la delle coste, ingiustamente sconosciuta.

 

Probabilmente perché mal collegata (con l’esterno ed all’interno), lontana da tutto e spesso dimenticata da tutti (perfino – e per fortuna- anche dall’Isis, che inizialmente non l’aveva inserita nelle mappe della “riconquista”), non ha beneficiato dell’arrivo di un turismo colto, come è successo invece in altre regioni d’Italia con gli inglesi, che hanno fatto la fortuna, ad esempio, della Toscana. Eppure questo isolamento ha consentito di preservarne la natura e mantenerne inalterate molte caratteristiche ancestrali che altrove si sono perse.   

 

La Sardegna perciò è molto più che un mare “da cartolina”, ha molto altro da offrire.  In primis la qualità della vita, che garantisce, insieme alla genetica, un primato di longevità ai suoi abitanti, studiato persino dai giapponesi, gli altri ultracentenari del pianeta.

 

Ma la Sardegna – la terra emersa più antica d’Italia 

– è un’isola di altri (sconosciuti) primati:


come l’olivo di Luras che di anni ne ha più di 4mila; il Pan di zucchero, il faraglione più alto del Mediterraneo; Piscinas, un deserto in miniatura, con dune costiere tra le più alte d’Europa ed una delle più belle spiagge del mondo secondo il National Geographic; Porto Pino con le dune bianchissime; la Grotta subacquea del Bue Marino, la più lunga d’Italia (70 km.); anche un canyon, Su Gorropu, “il più spettacolare del continente”.   

 

Nell’isola ci sono architetture megalitiche che possono rivaleggiare con quelle del nord Europa: i molti dolmen (come quello di Sa Covecadda a Mores), ed i circa mille menhir sparsi nel territorio, tra i quali il più alto d’Italia (quasi 6 metri) a Villa Sant’Antonio; anche noi abbiamo le nostre – piccole – Stonehenge, ma pochi le conoscono.

 

In Sardegna c’è un esercito di pietra che risale a più di otto secoli prima 

dell’esercito di terracotta cinese: i Giganti di Monte Prama,

 

tra le più antiche sculture a tutto tondo del Mediterraneo, alte quanto alcune di quelle dell’isola di Pasqua; c’è una necropoli preistorica, a Sant’Andrea Priu, con sepolture tra le più vaste del Mediterraneo; c’è persino una ziqqurat, simile a quelle della Mesopotamia, a Monte d’Accoddi, ma pochi lo sanno. Come pochi conoscono le terme romane di Fordongianus (antica Forum Traiani); le città romane di Nora e Tharros, in riva al mare; l’abazia romanica di Saccargia, la più maestosa delle tante chiese medievali isolate nella campagna; il tempio di Antas, al centro di una foresta; o il villaggio preistorico di Tiscali (che ha dato il nome alla società di comunicazioni), in una dolina. C’è anche un sito dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità: la reggia nuragica di Su Nuraxi a Barumini; uno dei moltissimi ed imponenti nuraghe che torreggiano nell’isola.

 

Tutti monumenti immersi in un paesaggio intatto, sovrastato da una volta stellata 

che nei cieli della Penisola non riusciamo più a vedere.

 

 

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IL SALOTTINO DI PORCELLANA A CAPODIMONTE Gemme del Sud numero 27 gennaio febbraio 2023 ed. maurizio conte

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IL SALOTTINO DI PORCELLANA  A CAPODIMONTE

 

 Gemme del Sud
                         Napoli

 

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Originariamente creato per gli appartamenti privati della regina di Napoli Maria Amalia di Sassonia nella Reggia di Portici, questo capolavoro della Real Fabbrica di Porcellana di Capodimonte fu realizzato tra il 1757 e il 1759. Nel 1866, quando il Palazzo Reale di Portici divenne proprietà demaniale, fu smontato e riposizionato in una sala della Reggia di Capodimonte, dove si trova tuttora.

 

Il salottino, progettato da Giovan Battista Natali, è in stile rococò ed è composto 

da pannelli in porcellana a sfondo bianco decorati ad altorilievo, posizionati 

alle pareti ed alternati a sei ampi specchi racchiusi da cornici 

di festoni floreali e candelieri a tre bracci 

sempre in porcellana.

 

Nella colorata decorazione compaiono frutti, animali, scene di genere con uomini e donne nei caratteristici abiti tradizionali cinesi e cartigli scritti in mandarino, temi che si rifanno alla moda cinese e alle cineserie in gran voga nell’Europa del XVIII secolo. 

 

Anche il soffitto richiama la stessa tipologia decorativa delle pareti, ma è in stucco con decorazione a rocailles, mentre è in porcellana il mirabile lampadario che pende al centro della sala nel quale, tra i dodici bracci avvolti da tralci di fiori, il fusto raffigura una palma, una scimmia e un cinese con ventaglio. 

 

Fantasie e suggestioni dell’Estremo Oriente andarono ad alimentare un gusto per paesi lontani creando un misto di stili in cui accanto ad elementi esotici tradizionali si aggiunsero capricci ed invenzioni che diedero origine ad un linguaggio tipicamente europeo espresso in una porcellana di qualità e di una raffinatezza unica.

 

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“SA ROCCA” DI SEDINI LA CATTEDRALE DELLE “DOMUS DE JANAS” Gemme del Sud numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

“SA ROCCA” DI SEDINI LA CATTEDRALE DELLE “DOMUS DE JANAS”

 

 Gemme del Sud
                     Sedini (SS)

 

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In Sardegna l’uso di scavare tombe nelle roccia ha avuto larga diffusione: sono più di duemila le sepolture rinvenute in tutta l’isola, risalenti al Neolitico, testimonianza della grande abilità degli uomini di lavorare la viva roccia con pochi strumenti rudimentali. Spesso venivano ricavate una accanto all’altra, dando vita così a vere e proprie necropoli.

 

Secondo la tradizione popolare, queste strutture erano abitate da piccole creature leggendarie, un po’ fate ed un po’ streghe, che instancabili tessevano splendide stoffe sui loro preziosi telai d’oro e per questo sono conosciute come 

“domus de janas” (letteralmente “case delle fate”). 

 

Unica nel suo genere è quella di Sedini, paesino della valle dell’Anglona, in provincia di Sassari, al punto da essere definita “la cattedrale delle domus de Janas”. “Sa Rocca”, come la chiamano gli abitanti del luogo, è realizzata in un enorme masso alto 12 metri che si trova completamente in superficie, con la punta della roccia che si staglia verso il cielo. Ha la peculiarità di trovarsi nel cuore del paese e non, come la maggior parte delle domus de janas, in luoghi isolati e difficilmente raggiungibili. 

 

Proprio questa insolita posizione – una “casa delle fate” incastonata tra le strutture 

del paese – le conferisce un fascino particolare e regala al visitatore 

un colpo d’occhio sorprendente. 

 

Altra particolarità è che, pur avendo mantenuto una parte delle sue caratteristiche originali, nei secoli ha subito diverse trasformazioni che l’hanno resa parte viva del paese: è stata prigione, luogo di ricovero per animali, negozio, sede di partito ed abitazione privata. Oggi ospita il Museo delle Tradizioni Etnografiche dell’Anglona che si sviluppa su tre livelli ed ogni livello ha un racconto, una sorpresa da svelare. Bellissima la parte che conserva intatta la struttura medievale, con il focolare scavato al centro della stanza nel pavimento roccioso e scale a chiocciola ricavate nella roccia.

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I MURALES DI CAMPOMARINO E LA COMUNITA’ ARBERESHE Gemme del Sud numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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I MURALES DI CAMPOMARINO E LA COMUNITA’ ARBERESHE

 

 Gemme del Sud
               Campomarino (CB)

 

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Nel borgo di Campomarino, centro storico dell’omonima cittadina che sorge nei pressi della costa adriatica in provincia di Campobasso, la pres­­­enza dell’antica comunità arbëreshë, ovvero gli Albanesi d’Italia, è raccontata dagli originali e colorati murales disegnati sulle facciate delle case dall’artista contemporanea campomarinese Liliana Corfiati.   

 

Composta da immigrati provenienti dall’Albania che a partire dalla fine del XV secolo si insediarono in territorio molisano per sfuggire all’invasione ottomana di Maometto II, e a seguito della morte dell’eroe della resistenza albanese Giorgio Kastrioti Skanderbeg, la comunità arbëreshë di Campomarino ha saputo integrarsi con la popolazione locale, pur conservando nei secoli i caratteri originari della propria cultura e la lingua che sopravvive ancora oggi nella segnaletica bilingue delle vie del Comune. 

 

Passeggiando per i vicoli del borgo 

 

Passeggiando per i vicoli del borgo si scoprono murales che raccontano 

antichi mestieri e la vita quotidiana di una società 

di origine agro-pastorale: 

 

un uomo ed una donna che raccolgono le olive, donne sedute sull’uscio di casa a ricamare, una donna che inforna il pane, un ciabattino intento al suo lavoro, uomini e donne in abiti tradizionali che sembrano danzare al ritmo di una musica antica. 

 

L’origine cristiano ortodossa della comunità italo-albanese si rivela nel bel Mural degli Sposi in cui, sullo sfondo di un mare azzurro, il sacerdote officiante, vestito nel tradizionale abito nero, “incorona” gli sposi secondo l’antico rituale bizantino Akoluthìa tu Stefanòmatos, espressione di una identità culturale ancora orgogliosamente sentita dalle odierne generazioni arbëreshë.

 

 

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“LA POESIA” E’ UNA SORGENTE di Lorenzo Salazar numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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LA “POESIA” e’ UNA SORGENTE

 

 

Dal novembre dello scorso anno il già ampio panorama dei ristoranti italiani a Parigi si è arricchito con l’inaugurazione di un nuovo locale, dotato però di un interesse affatto peculiare.

 

L’indirizzo in rue de la Fidelité, nel 10° arrondissement, a pochi passi dalla Gare de l’Est, sembra giocare con il nome del locale, “La Poesia”.

 

Che non deriva però dalla più eterea delle sette arti bensì dal sostantivo greco πόσις (“bere”), da cui trae origine il nome di un fascinoso luogo sulla costa del Salento che si trova nelle immediate adiacenze dell’area archeologica di Roca Vecchia, poco a sud di Lecce. Una profonda sorgente naturale dà vita a una piscina naturale di acqua dolce che si trova proprio in riva al mare, arroccata su un promontorio e circondata da scogliere calcaree. A questa fonte, fin dal II millennio a.C., dapprima i marinai messapi e quindi quelli greci usavano accostarsi per rifornirsi di acqua e invocare la protezione delle rispettive divinità sulla navigazione. Un nome capace, da solo, di evocare tutta la bellezza della natura, della storia e della cultura del nostro Sud. 

 

Al di là del nome, i piatti preparati dallo chef Giuseppe Fiore, originario di Praiano, si ispirano alla migliore tradizione della cucina meridionale e utilizzano prodotti e materie prime (molti dei quali biologici, come pasta, lenticchie, pomodori secchi…) provenienti in massima parte dal catalogo di Libera Terra, l’associazione che riunisce cooperative sociali guidate dall’associazione Libera di Don Ciotti. 

 

Dietro di esse vi sono decine di strutture produttive e centinaia di ettari di terreno sottratti alle mafie in Sicilia, Puglia, Calabria e Campania grazie all’istituto del riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie introdotto in Italia dalla legge n. 109 del 1996 

in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati.

 

Su quei terreni e in quelle aziende – non di rado dopo aver resistito a ulteriori atti di intimidazione o violenza posti in essere anche dopo la definitività dei provvedimenti di confisca, quale disperato ultimo tentativo delle organizzazioni criminali di opporsi agli stessi – si producono pasta, olio, vino e altri generi alimentari che rendono omaggio, sin dal nome posto sull’etichetta, alla lotta alle mafie e alle vittime della loro violenza. 

 

Così un vino Primitivo del Salento è dedicato ad Antonio Montinaro, giovane poliziotto pugliese capo scorta del giudice Giovanni Falcone, caduto a 29 anni nell’attentato di Capaci, opera del più sanguinario dei boss, Totò Riina, o un Negroamaro della stessa regione ricorda la storia di Renata Fonte, assessora alla cultura e alla pubblica istruzione del comune di Nardò, assassinata il 31 marzo 1984 per la sua lotta contro la speculazione immobiliare nel Leccese. O ancora i vini Centopassi, tanti quanti quelli che separavano a Cinisi la casa del giovane giornalista e attivista Peppino Impastato da quella di Tano Badalamenti, mandante del suo assassinio avvenuto il 9 maggio 1978; era lo stesso giorno del ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani, coincidenza questa che contribuì a confondere la percezione iniziale dell’evento (che gli autori cercarono anche di mascherare sotto le sembianze di un suicidio, ponendo una carica di tritolo sotto il corpo del povero giornalista, adagiato sui binari della ferrovia Palermo-Trapani) in tal modo oscurandolo in parte all’attenzione dell’opinione pubblica. 

 

Noi italiani, già da molti anni abituati a vedere beni oggetto di confisca destinati a finalità di pubblica utilità (tra i più recenti esempi quello della sede romana della Scuola Superiore della Magistratura, con strepitoso affaccio sulla Fontana di Trevi, già residenza di lusso di un boss della banda della Magliana) 

 

abbiamo difficoltà a comprendere quanto e come esperienze simili possano risultare invece innovative e dirompenti agli occhi dei cugini d’oltralpe.

 

Nonostante l’adozione, nell’aprile 2021, di una legge ispirata a quella italiana, pratiche simili appaiono ancora marginali e poco conosciute in Francia, dove i servizi statali sono spesso apparsi riluttanti a riconoscere la crescente presenza della crimine organizzato e solo di recente hanno cominciato a mobilizzare l’Agence de gestion et de recouvrement des avoirs saisis et confisqués (Agrasc) creata sul modello della nostra Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata.

A una tale presa di coscienza intende a suo modo contribuire anche l’équipe 

de La Poesia, ispirata tra l’altro da un magistrato francese che ha a lungo lavorato 

nella nostra penisola, proponendosi di promuovere e diffondere l’esperienza italiana 

in materia di contrasto alle organizzazioni criminali.

Il locale viene infatti animato non solo attraverso l’esposizione sui suoi muri di opere di pittori italiani legati al meridione ma anche con eventi e incontri sul tema (il più recente dei quali dedicato proprio al trentennale degli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino). Sono state anche avviate iniziative di partenariato con associazioni francesi impegnate nel reinserimento sociale dei più debolì, partecipando in tal modo, anche attraverso l’assunzione di personale di sala tratto dalle stesse, a un percorso di solidarietà concreta. 

 

Quanta distanza appare separare l’esperienza de La Poesia da quella, così diversa e di breve durata, del ristorante aperto nel 2017, in un diverso quartiere della capitale francese, proprio dalla figlia del boss di Corleone giudicato principale responsabile della strage di Capaci, che faceva esplicito riferimento, già a partire dalla scelta del nome, all’evocativa immagine del paese del Padrino. Le differenze non si misurano solo sulla base degli ingredienti delle pietanze e delle voci dei menù… 

 

 

 

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LA CUCINA MOLISANA Gemme del Sud numero 27 gennaio febbraio 2023 Editore Maurizio Conte

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LA CUCINA MOLISANA

 

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                Molise

 

  

Il Molise è una regione molto piccola, ma grazie al suo territorio così eterogeneo possiede una gran varietà di prodotti gastronomici tipici. 

 

I 36 chilometri di costa offrono una molteplicità di ricette a base di pesce, come le zuppe, il famoso brodetto, risotti e moltissimi modi di servire il baccalà. Il visitatore che si troverà a passare per l’antico Sannio, territorio montuoso e collinare con tradizione pastorale ed agricola, scoprirà una grande produzione di formaggi e salumi, aromi come il tartufo bianco, focacce e dolci tipici.
 

Alcuni di questi prodotti hanno alle spalle tradizioni lunghissime, come, ad esempio, 

il caciocavallo di Agnone. La sua presenza è testimoniata 

fin dai tempi della Magna Grecia

 

e la sua produzione è legata al periodo della transumanza. Questo formaggio è entrato a far parte dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali Italiani ed è chiamato “formaggio archeologico” per la sua lunga storia e perché anticamente veniva fatto stagionare in grotte naturali. 

 

I prodotti molisani sono in larga parte legati alle tradizioni povere e contadine ed alle ricorrenze e feste popolari, e si basano su ingredienti semplici, soprattutto grano e legumi.

 

Secondo la leggenda, i famosi “cavatelli” – una pasta di semola di grano duro 

ed acqua – vennero realizzati in occasione di una visita 

dell’imperatore Federico II,

 

che pare ne andasse ghiotto. Costituivano il piatto principale di cene e banchetti, cucinati con fave, pancetta e piselli, e furono serviti anche al “Colloquium generale”, la riunione di tutti i funzionari e dignitari regi che si svolse a Foggia nel 1240. Oggi i cavatelli sono i protagonisti delle sagre che tra luglio ed agosto si svolgono in molti comuni molisani. 

 

Il Molise vanta la creazione di un’altra pasta fresca: i fusilli. Essi erano lavorati anticamente da alcune donne qualificate che tagliavano striscioline di impasto di circa un centimetro, le arrotolavano intorno ad un ferro da calza e le sfilavano, creando così la tipica forma arricciata. Questa laboriosa lavorazione aveva luogo nelle case delle famiglie agiate. La classica ricetta dei fusilli alla molisana prevede il condimento con il tradizionale ragù di agnello o di maiale, un piatto semplice, ma che richiama alla memoria secoli di storia popolare.

 

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Fresh uncooked cavatelli pasta.

 Foto da DEPOSITPHOTOS

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CORALLIUM RUBRUM. JAN FABRE E L’AURA PARTENOPEA di Francesca Romana De Paolis numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed Maurizio Conte

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Corallium Rubrum. Jan Fabre e l’aura Partenopea

 

Al centro di una doppia trasmutazione alchemica, per così dire – che consta della devitalizzazione dell’organico e quindi della vitalizzazione dell’inorganico, a garanzia di uno splendore imperituro, nodo di remoti commerci tra Mediterraneo e Oriente, legame tra il folklore del passato e il lusso folklorico del presente – risiede

uno dei più pregiati doni del Sud: il corallo.


È risaputo che dal 3500 a. C. l’uomo appendesse corni animali sull’uscio delle proprie caverne, gesto apotropaico. Noto che dagli scavi di Pompei ed Ercolano siano affiorati, tra i molteplici reperti, anche enigmatici cornicelli

Dall’antica Roma Plinio il Vecchio, nell’enciclopedica Naturalis Historia, descrive le spade dei Galli come decorate in oro rosso. 

E nel Medioevo pillole coralline rappresentarono un portentoso farmaco contro crisi epilettiche, incubi e malattie infantili. 

Tutti sanno infine che nel Meridione il corno di corallo è simbolo di buona sorte. Lungi da interpretazioni freudiane esso rappresenterebbe, nella forma, il fallo di Priapo, antica divinità simbolo della forza generativa maschile e della fecondità della natura.

E benché dal diario di Marco Polo – che raccontò dei corallini ornamenti indiani 

e degli amuleti nepalesi, degli utensili tibetani e degli elmi e dei copricapi mongoli 

o ottomani – affiori in sottoparlato il profilo di una via del corallo, accanto 

alla via delle spezie e a quella della seta; benché percorrendo 

la vesuviana cittadella di Torre del Greco o i vicoli partenopei, 

possiamo ancora scorgere il profilo di questa via, 

ci accorgiamo lo stesso di un rischio imminente.


Non possiamo non constatare – in questo ventunesimo secolo di humana historia – una crisi auratica dilagante, un dissolvimento cultuale della materia dalla quale perfino il sacro corallo sembra non avere scampo. Qualsivoglia oggetto di pregio, quando non davvero rituale, per non soccombere alla scadenza effimerica dell’oggi, abbisogna di un gesto salvifico in controtendenza. 

Soffermiamoci su quel sublime olio su tavola rinascimentale che è La Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, laddove il bambino Gesù indossa un ciondolo di corallo, monito del futuro sacrificio. Soffermiamoci sulle Sette Opere di Misericordia dell’ultimo Caravaggio, che al corallo si lega non per iconografia, ma per significazione, poiché nulla di più misericordioso e caritatevole esiste del sangue versato per l’Altro. Corallium sanguinis imago. E scopriamo come un modo vi sia – offerto proprio da Napoli, città sirenica, partenopea, feconda di risorse – per ritrovare alfine l’aura del Corallium Rubrum, sopravvissuta in resilienza.

Entro la napoletana chiesa ottagonale del Pio Monte della Misericordia, 

in via dei Tribunali – fondata nel 1602 grazie a sette nobili caritatevoli 

che offrivano assistenza ogni venerdì presso l’ospedale degli Incurabili – 

si trovano, in forma permanente, dal 2019, quattro sculture realizzate 

dall’artista contemporaneo Jan Fabre (Anversa, 1958). 

In dialogo con i dipinti seicenteschi delle sette cappelle d’intorno 

e con l’opera del Merisi, posta sull’altare: si tratta di una tetragonia 

di sculture fatte interamente di corallo.


L’artista belga, amante di Caravaggio e di Napoli, che non a caso ha dato a suo figlio il nome Gennaro, è legato al concetto di Caritas e ha scelto il corallo per risvegliarne la storia a partire dalla tradizione culturale e pittorica barocca. Il filo rosso – più rosso non potrebbe dirsi – che lega le sculture fiamminghe è la presenza, in ciascuna, di grossi, guizzanti cuori anatomici. Di volta in volta associati a simbologie cristologiche. 

Nella Purezza della Misericordia, ispirata alla tela del Merisi, ove Sansone eroe biblico, beve dalla mascella di un asino, questa è la base ossea su cui si regge il cuore umano, dal quale sbocciano magnifici gigli, simbolo della purezza della Vergine Maria, cui la chiesa è dedicata. La colomba con ramo d’ulivo è il soggetto corallino de La Libertà della Compassione, dove il cuore umano è stretto fra catene. E lo stesso cuore è circondato di edere nella Rinascita della Vita, a omaggiare il ciclo di vita, morte e resurrezione. Mentre nella Liberazione della Passione il cuore di corallo si fa serratura ed accoglie le chiavi del Paradiso di San Pietro.

Perché adempia al suo compito di portare fortuna il corallo dev’essere ricevuto 

in dono, non acquistato, infatti le opere fabriane sono state donate dal fiammingo 

al Pio Monte della Misericordia, grazie al sostegno di Gianfranco D’Amato 

e Vincenzo Liverino in ricordo dei Cavalieri del Lavoro 

Salvatore D’Amato e Basilio Liverino


Questo fa del Pio Monte non soltanto un celebre luogo di culto cristiano e il custode partenopeo di una delle più complesse opere di Caravaggio, ma anche un tempio della Buona Sorte. 

Varcando la soglia della chiesa tutto ciò che il corallo taceva torna a galla. Quella storia raccontata da Ovidio, che vuole la rossa viscera splendente generarsi dalle stille di sangue della Medusa decollata da Perseo. La sollecita corsa quattrocentesca all’acquisto di gioielli corallini di Alfonso d’Aragona per soddisfare la vanitas della sua Lucrezia d’Alagno.

La fascinazione che ebbe per il corallo la moglie del re di Napoli Gioacchino Murat, Carolina Bonaparte, che regalò al fratello Napoleone una spada imperiale ornata 

di cammei torresi, una scacchiera corallina ed altri gioielli vermigli.


La moda per il Rubrum Corallium che di qui si espanse alla corte di Francia. 

Il racconto di qualche viaggiatore d’oggi, che forse si è udito senza troppa cura. Che descrive alcune casupole Polinesiane sull’isola di Huahine, povere e disadorne viste da fuori, ma che all’interno custodiscono ancora pavimenti rivestiti di corallo. E ancora, le colonie degli artigiani di Torre del Greco generatesi in Giappone quando si scoprirono risorse coralline nel Pacifico. 

I mercanti ebrei di Livorno e Genova che sovraneggiavano sul mercato corallino, messi in riga dall’ordine giuridico di Ferdinando IV di Borbone. La diaspora quattrocentesca dei fini corallari siciliani che si insediarono in Campania portando le proprie tecniche di lavorazione tra Napoli, San Giorgio a Cremano, amalgamandosi agli artigiani napoletani del corallo. 

Questo fa Napoli, città pulsante di segreti. Mischia le carte e sovrappone le storie. Dal mito alla religione, dal lusso d’Oriente, alla moda cortese fino all’arte contemporanea. E lo fa anche attraverso la storia infinita dei rami di corallo.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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 Foto di Francesca Romana de Paolis

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JOE DI MAGGIO di Gaia Bay Rossi e Luigi Vignali numero 27 gennaio febbraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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JOE DI MAGGIO

 

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quando delineò il dovere del Filosofo nel secondo libro de La Scienza della Legislazione, che “Se i lumi che egli sparge non sono utili pel suo secolo e per la sua patria, lo saranno sicuramente per un altro secolo e per un altro paese. 

Dopo un lungo viaggio la coppia si stabilì a Martinez, cittadina vicino a San Francisco, ebbe nove figli e fra i loro, il 25 novembre 1914, nacque Joe.

Sin da piccolo appassionato di baseball


(come i fratelli Dom e Vince, che diventeranno anch’essi giocatori professionisti), esordì a soli diciassette anni nella “minor league”, con la squadra dei San Francisco Seals. Dopo quattro stagioni venne ceduto ai New York Yankees, in cui costruirà la sua straordinaria carriera sportiva e in cui rimase fino al 1951, quando a trentasette anni si ritirò dallo sport agonistico.   

 

Joe Di Maggio fu uno dei più grandi giocatori di baseball di tutti i tempi. Vinse per tre volte il titolo di miglior giocatore dell’American League e fu chiamato nella selezione dei più forti giocatori per ben 13 volte.

 

Tifosi e giornalisti lo chiamavano Joltin’ Joe (“Joe che fa sobbalzare”) 

per la forza con cui colpiva la palla. Nell’arco della carriera Joe 

totalizzerà l’incredibile risultato di 2.214 “battute valide”.


Il giorno prima della vittoria degli Yankees contro i Red Sox, partita che chiudeva il campionato del 1949, il Corriere della Sera scrisse: il campione 
“è stato festeggiato non solo dai propri tifosi, ma anche dai giocatori e dai tifosi della squadra avversaria. Una folla di 80.000 persone lo ha acclamato per un’ora intera prima che la partita potesse cominciare: Joe è stato letteralmente coperto di doni, che andavano da un chilo di gelato alla crema ad un motoscafo da corsa di gran lusso. Quest’ultimo però non è stato portato in campo. Il sindaco di Nuova York è sceso per congratularsi con lui e per consegnargli una bicicletta per il suo figliuolo. Joe Di Maggio, il bel ragazzo sorridente ed espansivo di origine italiana […] ha consegnato al sindaco tutti i doni in denaro che aveva ricevuto perché venissero divisi tra due fondazioni: quella per ammalati di cuore e quella per le ricerche sul cancro”. 

 

Un grande sportivo, un grande italiano. Nella sua vita Joe non dimenticò mai l’Italia 

e Isola delle Femmine. Nel 1955, giunto a Roma decise di far visita al paese 

dei genitori, dove una volta arrivato fu accolto dall’allora sindaco 

suo omonimo, Francesco Di Maggio.


Tornò a Roma una seconda volta, nel 1993, come rappresentante della Federazione Italia-America, con l’intenzione di recarsi a Isola delle Femmine per ritirare la cittadinanza onoraria. A causa di un malore non poté partire: fu dunque il sindaco a venire a Roma, alla Farnesina, per la consegna della cittadinanza. Oggi a Isola delle Femmine, è possibile visitare la casa Museo Joe Di Maggio, per ricordare un campione straordinario, uno dei personaggi più amati nella storia dello sport americano. Si sposò una prima volta con l’attrice Dorothy Arnold e dal matrimonio nacque Joe Di Maggio Jr., ma i due divorziarono nel 1943, mentre Joe prestava servizio militare alle Hawaii.

 

Dopo una serie di storielle senza importanza, arrivò finalmente

il grande amore, Marilyn Monroe.


Joe perse completamente la testa, nonostante l’opposizione del fratello Dom che e soprattutto del vescovo di New York, che gli negò il divorzio dalla prima moglie e poi la possibilità di ricevere i sacramenti. 

Durante la celebrazione del matrimonio con Marilyn, di fronte a 400 persone, il giudice Peery dichiarò: “Ho dimenticato di baciare la sposa, come vuole la tradizione e, credetemi, mi dispiace”. Gli sposi partirono per il Giappone, dove Joe era stato invitato a lanciare la nuova stagione di baseball; Marilyn doveva invece esibirsi per le truppe americane di stanza in Corea: in tre giorni di tour incontrò 13.000 soldati e in ogni base militare fu accolta da enormi ovazioni.

 

Di Maggio era certo che, una volta sposati, Marilyn avrebbe lasciato la carriera 

per dedicarsi alla famiglia (al giornalista che le chiese se aveva intenzione 

di avere bambini, aveva risposto: “Certo, almeno sei”). 

 

Ma così non fu, 


la sua popolarità negli Stati Uniti era al culmine e la sua fama mondiale. Dopo un primo periodo di felicità, arrivarono discussioni e violente liti, anche se non erano note al grande pubblico. Joe seguiva le condizioni contrattuali di Marilyn con le case cinematografiche, riuscendo a ottenere migliori compensi, ma era esacerbato dalla gelosia per una donna che rappresentava il desiderio proibito per antonomasia. Forse il punto di non ritorno fu la gonna svolazzante del film
“Quando la moglie è in vacanza”, per Joe fu devastante vedere l’intera troupe a bocca aperta davanti alla scena – poi trasmessa nei cinema di tutto il mondo. Sicuramente fu l’ultima volta che i coniugi apparvero insieme in pubblico. 

Il 5 ottobre 1954, a solo nove mesi dal matrimonio, Marilyn Monroe, annunciò la decisione di separarsi dal marito. Dopo poco seguirà l’annuncio del divorzio. La causa di divorzio fu molto dura. Di Maggio si fece addirittura accompagnare da Frank Sinatra (peraltro già amante di Marilyn) a un’”imboscata” alla diva – con il risultato di una porta sfondata a una sconosciuta, cui i due dovettero risarcire 7000 $. Dopo vari anni, in cui Marilyn si era risposata una terza volta (con Arthur Miller), aveva sofferto per alcuni aborti, era diventata dipendente da farmaci e psicofarmaci, la donna si riavvicinò a Joe Di Maggio. 

 

Lui, nonostante tutto, continuava a esserne innamorato. Addirittura nel 1961 

i giornali parlavano di un secondo matrimonio tra i due.

 

Poi il 5 agosto del 1962 lei morì improvvisamente, in circostanze mai del tutto chiarite, nella sua casa di Los Angeles.   

 

Di Maggio si occupò del funerale e delle spese. Invitò solo gli amici più intimi, escludendo sia le star hollywoodiane, sia le note personalità politiche che pure Marilyn frequentava. Con il figlio Joe Jr. accanto, seguì il feretro fino alla sepoltura nel cimitero di Brentwood. Prima della chiusura Joe baciò per tre volte la cassa e per tre volte le disse “Ti amo”. E ordinò di deporre un mazzo di 6 rose rosse due volte a settimana sulla sua tomba, per sempre. Quando giunse la sua ora, nel 1999 per un tumore ai polmoni, le ultime parole furono: “Finalmente riuscirò a vedere Marilyn”.  

 

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MATTIA PRETI, CAVALIERE (E ORGOGLIO) CALABRESE di Claudia Papasodaro numero 27 gennaio febbvraio 2023 Ed. Maurizio Conte

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MATTIA PRETI, CAVALIERE

E ORGOGLIO CALABRESE

 

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Molti conoscono la vicenda artistica di Mattia Preti: gli esordi romani col fratello Gregorio, anch’egli pittore, la straordinaria parentesi napoletana, la consacrazione maltese. In pochi, forse, conoscono la vicenda umana di questo artista, oggi riconosciuto come uno dei grandi protagonisti della stagione pittorica seicentesca, definito da Roberto Longhi “apocalittico, secondo solo a Caravaggio”. Pochissimi, probabilmente, sanno che 

il legame di Mattia Preti con la sua terra va ben oltre quell’appellativo 

di “Cavalier Calabrese”, che sempre lo accompagnò da quando, nel 1642, 

per volere di papa Urbano VIII, ricevette l’investitura di Cavaliere di Obbedienza Magistrale dell’Ordine di San Giovanni Gerosolimitano. E poco noto è che, 

nonostante la fama ed il prestigio di una carriera che lo tenne costantemente lontano, non dimenticò mai la sua Taverna, il piccolo borgo che gli aveva dato i natali 

e che aveva lasciato giovanissimo (come tanti altri calabresi 

ieri e ancora oggi) per cercare fortuna altrove.


Taverna, nel catanzarese, è una graziosa cittadina di poco più di 2500 abitanti, incastonata tra i monti della Sila Piccola e non lontana dallo Ionio, dove d’inverno ti inebria l’odore di legna bruciata e d’estate senti quasi il profumo del mare. Qui il sentimento di orgoglio e la riconoscenza nei confronti del Cavalier Calabrese è ancora palpabile, come dimostra la statua bronzea a lui dedicata posta nella principale Piazza del Popolo, opera dello scultore Michele Guerrisi, altra grande personalità calabrese. 

 

Mattia Preti è stato un artista estremamente prolifico, documentato con circa settecento opere, tra disegni, dipinti, affreschi e progetti architettonici, che oggi sono conservati in chiese, collezioni private e musei di tutto il mondo. 

 

E proprio Taverna può vantarsi di custodire oltre 20 opere del suo figlio più illustre – un numero davvero incredibile per un piccolo centro come questo. Come ha affermato lo storico dell’arte John Thomas Spike – uno dei maggiori studiosi dell’artista – 

“non ci sono esempi paragonabili di pittori che abbiano voluto creare la memoria 

di sé stessi nel loro luogo natale”. E questo, in effetti, 

è un fatto davvero straordinario.

 

All’apice della sua carriera nell’isola di Malta, dove trascorse gli ultimi trent’anni della sua lunga ed intensa vita al servizio dell’Ordine dei Cavalieri, elevato prima al rango di Cavaliere di Grazia e poi di Commendatore dell’Ordine Gerosolimitano, l’artista si prodigò nella realizzazione di opere da inviare alle chiese del suo borgo natale, dove volle tornare (e restare) con la sua arte. 

 

Emblematica in questo senso è la Predica di San Giovanni Battista, la monumentale tela nella chiesa di San Domenico, dove Mattia Preti, anche se lontano, volle acquistare una cappella in onore della sua famiglia. Questo gesto rappresentò un vero e proprio riscatto sociale per l’artista: una rivalsa dalla delusione subita dalla famiglia nel 1605, quando al padre Cesare fu negato lo status di nobile a causa dell’insufficiente ricchezza

Dedicò l’altare al Battista – patrono dei Cavalieri – e nella grande tela inserì 

il suo autoritratto in qualità di donatore dell’altare stesso, come a voler suggellare 

in eterno il suo legame con quel luogo,


in una sorta di testamento pittorico che, secondo Spike, fa del Preti “il primo pittore che ha voluto creare, con deliberato impegno e notevole dispendio di mezzi, un monumento permanente a sé stesso” nella sua terra natia. Si raffigurò come più amava farlo, con la veste da Cavaliere, lo sguardo fiero e nella mano destra insieme la spada e il pennello, suoi inseparabili compagni di vita. 

 

Nella stessa chiesa sono altre sei le tele del Preti che è possibile ammirare, tra cui il Cristo Fulminante che da solo vale il viaggio. 

Altre opere sono conservate nella chiesa di Santa Barbara e nel Museo Civico, 

meta ogni anno di migliaia di visitatori e divenuto, dalla sua fondazione nel 1989, 

un punto di riferimento imprescindibile per gli studiosi dell’artista 

a livello internazionale.


Un piccolo borgo diventato importante centro culturale grazie all’attaccamento di un figlio che se n’è andato senza mai però lasciarlo davvero e che, con dedizione e riconoscenza, si impegna per tenerne sempre vivo il ricordo. 

 

Mattia Preti – Cavaliere e orgoglio calabrese – con la sua storia ci racconta dell’amore e, al tempo stesso, del tormento di coloro che hanno dovuto lasciare questa terra. Un sentimento profondo e sincero, come la Calabria stessa

 

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The ceiling of Church of St Francis of Assisi, Valletta, Malta

 Nella foto: dipinto di Mattia Preti nella chiesa di San Francesco d’Assisi a la Valletta – Malta – Foto da DEPOSITPHOTOS