IL PIL DEL SUD – Redazionale – Numero 5 – Luglio 2016

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Redazionale

Da anni le proposte per un “cambio di passo” sollevate da più osservatori si concentrano sugli investimenti pubblici, da realizzare in alcune grandi aree (Gioia Tauro, Taranto, Napoli, Palermo e Bari) e la risposta del Governo è sembrata in linea, visto che oltre 11 miliardi di spesa per investimenti legati al piano Juncker sono destinati alle regioni del Sud. Logistica, porti, aree economiche speciali sono le direttrici più citate nelle analisi di policy per gli interventi strutturali, analisi accompagnate negli ultimi quattro anni dalle cronache sul commissariamento dell’Ilva (15mila addetti di cui 12mila a Taranto), che a fine anno dovrebbe passare di mano a una delle cordate in campo (Arcelor Mittal con Marcegaglia o Cdp con Arvedi e Del Vecchio), per non parlare delle più recenti cronache sul piano di rilancio del polo di Bagnoli.

 

IL PIL

DEL SUD

 

Le impressioni suscitate da analisi, proposte e cronache sono diverse e tutte accomunate da un senso di incertezza sulle dinamiche reali e profonde di territori e popolazioni che sembrano intrappolate in una sorta di mito di Sisifo, in una fatica che non costruisce, esposti a una vulnerabilità resa più forte dalle sfide della globalizzazione e da un’Unione europea più fragile.

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Cercare però cause esterne ai ritardi strutturali del Mezzogiorno è sbagliato: un dualismo Nord-Sud come quello italiano ha pochi paragoni nell’Eurozona ed espone il Paese a rischi di marginalità maggiori. Serve un salto quantico di mentalità e senso civico per ripartire. Un anno di ri-crescita congiunturale dell’1,0% dopo sette anni di recessione non cambia di una virgola il quadro ma invita tutti a guardare a questa realtà con un coraggio diverso e la consapevolezza che il distacco di produttività di un’area territoriale non si colma per magia.

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La crescita più importante, dal punto di vista delle risorse, arriva dall’agricoltura, con un +7,3% del valore aggiunto, ma incrementi di un certo rilievo statistico si sono registrati anche nel commercio, nei trasporti, negli esercizi pubblici e telecomunicazioni (+1,4%), mentre l’industria è rimasta al palo e i servizi finanziari hanno subito un calo dello 0,6%. In miglioramento, sempre secondo l’Istat, anche il mercato del lavoro, con un’occupazione in recupero grazie al traino dell’agricoltura (+1,5%): misurata in termini di numero di occupati è la variazione maggiore rispetto alle altre grandi aree del Paese.

Come dobbiamo leggere questi segnali statistici? Con estrema cautela.

Partiamo dal dato sull’occupazione: nel Centro Nord la variazione dello 0,6% del 2015 è inferiore solo perché lì la ripresa era già iniziata nel 2014, anno ancora di piena recessione per il Sud. La crescita del prodotto interno è stata più intensa al Centro Nord, con il risultato che il divario è cresciuto e non diminuito. Rispetto ai valori massimi di occupazione raggiunti nel 2008, il Centro Nord l’anno scorso ha recuperato quasi per intero i posti andati perduti nonostante il Pil resti inferiore del 6% rispetto ai livelli pre-crisi, mentre nel Mezzogiorno a fronte di un calo delle attività dell’11% l’occupazione è rimasta più bassa del 7%. Significa che nel Sud la correlazione tra occupati e economia reale è più stretta e senza un’espansione strutturale di quest’ultima il lavoro non riparte. Sono ripartiti, invece, i flussi migratori, verso il Nord e l’estero. I numeri dell’Istat disponibili in questo caso si fermano al 2014 ma confermano che le regioni del Sud (-31mila) e le Isole (-10mila) restano i territorio da cui si parte di più in cerca di lavoro. Secondo Adriano Giannola, presidente dello Svimez, le persistenti partenze di cittadini meridionali avrebbero compensato il divario del Pil-procapite, che al Sud è di circa il 40% inferiore a quello del Nord, un dato confermato anche dalle indagini della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane, secondo cui il divario dei redditi medi equivalenti dei capifamiglia si sarebbe sempre più allargato dagli anni Novanta fino a oggi, raggiungendo nel 2015 un livello medio inferiore ai 14mila euro al Sud e attorno ai 21mila euro al Nord (calcolati ai prezzi del 2014).

Il rosario delle cifre che fotografano la distanza tra Nord e Sud potrebbe proseguire per pagine e pagine: è noto il gap infrastrutturale e il differenziale dei costi del credito all’economia, è noto che nel Mezzogiorno le condizioni sociali sono peggiori (il 12% delle famiglie vive sotto la soglia di povertà), è nota la diffusione in questi territori dell’economia sommersa (come il caporalato che non produce né ricchezza né benessere ma distorce il mercato e abbatte la produttività) ed è noto il radicamento della criminalità organizzata.

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dopo sette anni di calo ininterrotto, il prodotto interno nel Mezzogiorno ha registrato un primo recupero (+1,0% a fronte di un +0,8% registrato a livello nazionale). 

 

PALMIRA. LA SPOSA DEL DESERTO di Paola Pariset – Numero 5 – Luglio 2016

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parlavano più delle parole – in un grande archeologo come lui, avvezzo alla pacata e fruttuosa ricerca degli scavi, che nei decenni resuscitarono Ebla, la sua biblioteca, i tesori fascinosi dell’antica Mesopotamia – a proposito della drammatica distruzione di resti intangibili di Nimrud e di Palmira, nell’incontro del 15 febbraio “Il Tempio distrutto. Una questione cosmopolitica”, all’Istituto Svizzero di Roma, in via Ludovisi.

Gli occhi specchio dell’anima di Paolo Matthiae tradivano l’immanità della tragedia e della barbarie di oggi, in cui le opere d’arte sono divenute – come, in tanti altri casi, il corpo brutalizzato delle spose, delle madri, delle sorelle – oggetto di ricatto e mercanzia bellica, che brucia al militare più delle proprie ferite e della propria morte.

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PALMIRA.

LA SPOSA

DEL DESERTO

 

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 E basterà ricordare (ma mai nessuno dimenticherà) la fiera resistenza dell’ottantaduenne direttore del Museo Archeologico di Palmira, Khaled Asaad, che, per non rivelare i luoghi di collocazione protetta dei reperti museali, ha subìto tortura e atroce decapitazione nell’agosto 2015, per mano dell’ISIS. Perciò, dinanzi a questo regresso della civiltà, il direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci, in occasione dell’intervista alla SIAE per la sua firma su “Unite for Heritage” e la presentazione dei Caschi Blu della Cultura, il 16 febbraio scorso affermò: “Sarò qui…

credo che ogni operazione fatta per la cultura abbia in sé una valenza pacifica, anche se i cani della guerra sono più forti di qualsiasi buona intenzione”.

Infatti nessuna costruzione a volta o a cupola qui tradisce la monumentalità dell’estetica imperiale romana: ovunque, nella rettilinea via colonnata simile a quella di Damasco, nel Teatro Romano di impianto ellenistico col favoloso proscenio a edicole, nel Tempio di Baal di tipo ionico-corinzio, trionfano la limpida geometria, il rapporto delle perpendicolari, la rettilineità ellenica. Su questo olimpico universo interferirono nel secolo III dopo Cristo il mondo partico, sassanide, iranico, coi loro simbolismi astratti e metafisici, appartenenti alla religione di Ahura Mazda: le coeve sculture funerarie palmirene, di livello artistico molto alto, palesano questo impossibile eppure realizzato connubio. Fu questo il periodo in cui prosperò il potente Regno di Palmira, retto dalla ricchissima e bellissima regina Zenobia, che osò muovere contro Roma proprio dopo la terribile disfatta dell’esercito dell’imperatore Valeriano da parte del sassanide Shapur I a Edessa, nel 270: ma solo l’imperatore Aureliano sconfisse e catturò Zenobia in fuga sull’Eufrate, conducendola a Roma per il proprio trionfo, stretta in catene d’oro, come il quadro tardoromantico di Herbest Schmalz testimonia, con immaginaria fedeltà. Sappiamo che anche Diocleziano e Giustiniano misero mano a fortificazioni della città di Palmira, che restò base militare romana e poi bizantina, prima di venire definitivamente abbandonata.

Paolo Matthiae ricordava, e dinanzi ai suoi occhi scorrevano i decenni serviti a riportare alla luce antichissime città e i pochi minuti per seppellire il Tempio di Baal e l’intero santuario di Baalshamin a Palmira, nella polvere di un’enorme e letale esplosione. Palmira, la Sposa del Deserto: il suo manto nuziale non è candido, è color sabbia, e tale è rimasto dall’origine dell’umanità, da quando essa iniziò ad accogliere le infinite carovane in sosta, lungo il viaggio tra Occidente e Oriente, per lo scambio di mercanzie, stoffe seriche, spezie.

Palmira era l’oasi fresca delle palme che le diedero il nome, fresca per la sete di centinaia di migliaia di uomini, in lento cammino.

Oggi essa vive di ricchezze archeologiche, perpetuanti fra le sue sabbie desertiche lo splendore della Grecia antica, anche se nella storia precristiana di Palmira rientrano le mitiche fortificazioni di Salomone, di cui nessuno conosce le fondamenta. Quando essa fu raggiunta dall’espansionismo romano, divenne provincia orientale di Roma, pur mantenendo l’autonomia che già possedeva nel periodo ellenistico seleucide.

All’imperatore Adriano, profondamente cólto, che dal mitico centro mediorientale rimase affascinato, risalgono quasi tutti i reperti archeologici monumentali di Palmira giunti fino a noi, che recano il segno del di lui amore per la Grecità classica ed ellenistica.

Un fascino unico promana da queste inclite mura, che ascendono come fiori dalle sabbie desertiche, del cui colore si ammantano: qui ebbe luogo la fusione culturale fra Est e Ovest, fra il mondo classico greco e quello bizantino e medievale.

Perché questo fu il ruolo storico di Palmira. Ma essa dal 2015 non è più come prima. Gli scempi perpetrati dall’Isis hanno sollevato lo sdegno mondiale, ma non hanno fermato il Califfato. Ed allora gli occhi smarriti del professor Matthiae si sono armati di nuova energia: e la sua opera si indirizza – come quella dei suoi colleghi internazionali e dell’ICCROM – a sostenere l’operato di chi vigila sui beni rimasti in situ, dai livelli direttivi all’usciere, visto che, nel frattempo, altri 15 custodi e funzionari sono rimasti uccisi per difendere il patrimonio artistico e il loro ruolo non si svolge affatto nella sicurezza. “L’ICCROM – afferma il direttore Stefano De Caro – è figlia delle distruzioni, ma si sa bene che la soluzione è il dialogo, anche coi Talebani. Intanto, teniamo corsi di preparazione alla guerra, al pronto-soccorso dell’arte, ad impacchettare i monumenti”. Matthiae, dall’alto dei suoi 76 anni, ha compreso che a ciò conduce “l’odio dell’altro”, come ai tempi di Costantino e Teodosio, ma anche della Francia di Luigi XVI (pochissime le statue di lui rimaste), e non finisce qui.

Questo, dunque, non è più il momento di nuovi scavi, della conquista di nuove conoscenze, ma quello pratico della salvaguardia, delle ricostruzioni

con criteri filologici o meno, per mettere infine i popoli – dice ancora Matthiae – “in condizione di fare da sé, di gestirsi da sé. E non sotto tirannide”.

 

I “LUOGHI DELL’IDENTITÀ SALENTINA” di Luigi Nicolardi – Numero 5 – Luglio 2016

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Se solo volessimo immaginare quale fosse l’immagine del paesaggio salentino anche solo agli inizi del secolo scorso, molto probabilmente dovremmo pensare una grande distesa di banco roccioso che costituiva la crosta terrestre. Ancora oggi, basta fare una passeggiata nella campagna, ormai abbandonata, per rendersi conto della enorme quantità di pietre che vi sono depositate. Ovunque intorno si vedono pietre. La maggior parte sotto forma di muretti a secco che delimitano le proprietà, definiscono confini, disegnano terrazzamenti; oppure sotto forma di ricoveri temporanei, fabbricati monocellulari pajare, lamie, caseddhe, furneddhi, ancora ammucchiate l’una sull’altra a costituire enormi “specchie”, o come imponenti blocchi monolitici, dolmen e menhir.

 

I “LUOGHI DELL’IDENTITÀ SALENTINA”

 

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La pietra, dunque, domina incontrastata il paesaggio salentino. Pietre mute all’apparenza, ma, per chi le sa ascoltare, parlano e raccontano storie di dolore, di sacrifici e di sofferenze di intere generazioni

impegnate a strappare alla dura crosta porzioni sempre più ampie di territorio da destinare dapprima ai coltivi e poi alla propria residenza.
Lo aveva intuito bene Maria Brandon Albini, quando nel 1959, nel suo “Viaggio nel Salento”, così si esprimeva: “la campagna svela subito la sua struttura di altopiano leggermente digradante verso il mare che lo cinge da tre lati; ossatura antica, petrosa, bianca, sulla quale è posato un sottile strato di terra, trenta centimetri circa, rossa e argillosa.

Lo scheletro della penisola salentina par quello di un mammuth pietrificato, che si scuota di dosso la terra che le piogge d’autunno o il badile del contadino tentano di buttargli addosso. La lotta millenaria del contadino contro la natura è scritta, a ogni passo…”.

Maria Brabdon Albini, prima ancora di Ernesto De Martino con la sua “Terra del Rimorso”, ci restituisce, fissandola in una sorta di grande dagherrotipo, l’ultima immagine di una civiltà contadina che non era ancora stata toccata dalla modernità; ormai ridotta allo stremo, provata e privata da lunghi secoli di soprusi e di sfruttamento; tutta arroccata su se stessa, sui suoi riti e sulle sue tradizioni, sui suoi miti e sulle sue leggende; scavata nei volti e nell’animo delle sue genti, che fondava la propria esistenza sui principi di solidarietà, di accoglienza, di tolleranza e di condivisione tra le genti. Una civiltà che fondava la propria esistenza sui principi di solidarietà, di accoglienza, di tolleranza e di condivisione tra le persone e sul mito dell’autosufficienza famigliare, incentrato sul rapporto utilitaristico con la natura, che le consentiva di non estinguersi e al tempo stesso di superare le avversità.
Lo studio dell’Antropologa rappresenta l’inizio della fine della civiltà contadina; da quel momento in poi, la storia non sarà più la stessa, il Salento viene aggredito dalla modernità. Gli anni che seguiranno saranno caratterizzati in particolar modo dal progressivo abbandono della campagna da parte dei “popliti” che, fino ad allora, l’avevano vissuta secondo due modalità: da un lato, l’emigrazione verso il nord Italia e verso il nord Europa; dall’altro, lo spostamento di quelli rimasti nei piccoli paesi, alla ricerca di maggiori comodità e di una vita più consona per sé e per i propri figli, che la campagna non era più in grado di offrire perché incapace di produrre reddito.

Sul finire degli anni ottanta, quella civiltà contadina – con i suoi riti, i suoi miti, le sue credenze, le sue superstizioni, le sue tradizioni che erano alla base dello studio della Brandon Albini – era quasi del tutto scomparsa.

Quel mondo arcaico fatto di panare, lamie, furneddhi, pozzi e pozzelle, dolmen e menhir, muretti a secco, masserie, di licurda, di cicidi e tria, di acqua e sale, di ficandò, di diavulicchi e di municeddhi, di Santi, di tarantate e di pizzicate si era completamente dissolto come neve al sole nel giro di due decenni.
La scomparsa della civiltà contadina aveva lasciato dietro di sé “innumerevoli segni”, scolpiti nella pietra, che nel corso di secoli si erano depositati sul territorio e che i nostri padri e le nostre madri avevano in fretta e furia abbandonato perché considerati “i luoghi del dolore e della sofferenza”.

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Passeggiare nella campagna salentina abbandonata vuol dire ripercorrere quella “civiltà di pietra” così tenacemente radicata in quel sottile strato di argilla, fare i conti con questo recente passato.

Dopo secoli di soprusi, di sofferenze, di delusioni, quei “luoghi del dolore” sono diventati il simbolo di una rinascita culturale dell’identità salentina. Per una sorta di nemesi storica la nuova identità salentina si fonda proprio sulla riconoscibilità di quei caratteri che per secoli hanno rappresentato la subalternità. E’ bastato scrostare appena la polvere che ricopriva quel recente passato per scoprire che sotto c’era il fuoco ardente della passione di un popolo che aveva tanta voglia di rinascere.

Il veleno della taranta, che pure aveva alimentato tante storie, tante illusioni, tante paure, tante credenze popolari custodite gelosamente dentro le mura domestiche, ritorna a scorrere ancora dentro le nostre vene e dentro le vene dei nostri padri;

solo che, questa volta, non provoca più convulsioni, ma la gioia di un popolo che – liberatosi dalle catene della storia che, per secoli, l’avevano tenuto relegato ai margini delle vie dello sviluppo – non ha più paura del proprio passato.
Tuttavia, se, da un lato, tutta questa attenzione al passato ha consentito il recupero di una memoria che rischiava di perdersi; dall’altro, ha provocato una frattura tra presente e futuro.
Oggi le condizioni sono cambiate: ai tempi di internet non è più necessario affidare alle ali di una rondine il canto d’amore per l’innamorato/a nella campagna abbandonata al suo inesorabile declino, la taranta non morde più i piedi scalzi delle contadine costringendole a lunghe ed estenuanti danze di guarigione. Di ben altri antidoti ha bisogno la società contemporanea per curare i suoi mali: non basta più ballare fino allo sfinimento per liberarsi dalle tossine. Ben altri veleni la affliggono, ma, ancora una volta, sicuramente il più mortale di tutti è quello della perdita della memoria. Questo presente, ancora una volta è incapace di prefigurare un futuro, ma sta prendendo le distanze dal suo passato. I “luoghi dell’identità salentina” stanno diventando “non luoghi”, sacrificati come sono alle regole del mercato capitalistico che li svuota dei propri significati. Oggi, la campagna, lungi dall’essere il luogo del lavoro e dell’incontro di un popolo, sta diventando sempre di più un “luogo dell’eterotopia”, sempre più avulso dal contesto sociale, dove si va solo per trascorrere brevi periodi di riposo senza più nessun rapporto con essa.

Oggi più che mai occorre impegnarsi per continuare a tenere unito quel filo rosso che lega il passato al futuro; non più solo per esorcizzare il veleno del ragno, ma per continuare a esorcizzare i nuovi veleni che la società contemporanea ci propina

quotidianamente, che sono legati alla incapacità di accoglienza nei confronti dei migranti, allo sfruttamento del lavoro nero e clandestino, alla perdita del lavoro e al progressivo impoverimento di una parte cospicua della popolazione; al nuovo senso di estraniamento che ha colpito il ceto medio della nuova società capitalistica.

La campagna deve tornare ad essere il luogo entro cui depositare i nuovi progetti della trasformazione urbana con un occhio al passato, ma con lo sguardo dritto verso il futuro.

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Giusto Puri Purini

SALENTO. LE PIETREFITTE

 

LA DEA E I SUOI TABÙ di Giovanna Mulas – Numero 5 – Luglio 2016

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“Che cosa poteva sapere, Socrate, quando l’ho presa con me? Non aveva ancora quindici anni quando è venuta nella mia casa; fino allora era vissuta sotto stretta sorveglianza, doveva vedere meno cose possibili, udirne il meno possibili e fare meno domande possibili”.

Altra causa frequente di ripudio era la sterilità; rimandando al padre la moglie sterile, lo sposo adempiva addirittura a un obbligo religioso e patriottico. E in ogni caso l’eventuale gravidanza della moglie non costituiva ostacolo al ripudio. Il marito che ripudiava la moglie, però, doveva restituirne la dote e questa costrizione costituiva il solo freno – spesso efficace – al moltiplicarsi dei divorzi.

Ecco, questa è probabilmente la parola magica: follia, ma non rappresenta IL Tutto, ché sarebbe riduttivo parlare soltanto di follia,

LA DEA

E I SUOI

TABÙ

 

A scrivere queste righe è una donna ‘diversa’: forse più forte o forse no ma che in un capitolo nuovo, questa nuova vita, vive l’amore amata di stesso amore; ciò che ogni donna è portata fisiologicamente a vivere e dovrebbe vivere: in libertà, dignità, purezza.

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rivolgersi all’arconte, protettore naturale degli incapaci, e consegnargli una dichiarazione scritta dove venivano esposti i motivi sui quali si fondava la sua richiesta di separazione. E’ probabile che l’evidente infedeltà del marito non bastasse a far deliberare all’arconte la separazione giacché i costumi tolleravano la libertà sessuale del maschio; al contrario, percosse e maltrattamenti subiti dalla moglie, se accertati nel corso dell’inchiesta, costituivano motivo valido seppure l’opinione pubblica sarebbe rimasta comunque sfavorevole alle donne che si separavano dai mariti: “Lasciare lo sposo è infamante per le donne e non è loro permesso di ripudiarlo” (Euripide, “Medea”, vv.236-237).
Sappiamo che esistono ferite, nella vita, che non rimargineranno.
Il tempo potrà ammansirle, vestirle di una nuova prospettiva di saggezza e serenità, ma, mai, queste ferite potranno cicatrizzare del tutto. Vuoi perché sono troppo profonde; vuoi perché, oramai, fanno parte di noi, e solo con noi scompariranno. 
E ogni volta che una donna, Sorella di Lune e Destino, muore per mano di un amore malato, la mia ferita grida ancora. A volte vorrei che smettesse, qualche volta io stessa ho voluto smettere, ma il richiamo alla vita è sempre stato, purtroppo o per fortuna, più forte e maledetto, istintuale. La vita mi ha chiamato quando pensavo di non avere più nulla da darle o da risponderle, e credo che è pure per questo che io, oggi, sono qui a raccontarlo.

L’opera venne commissionata dal Vescovo di Ariano, Mons. Diomede Carafa al Pittore suo amico Leonardo da Pistoia, e allude alle tentazioni dalle quali si deve – dalle quali il prelato deve – trovare la forza di allontanarsi. 
Il Quadro raffigura un San Michele che abbatte il diavolo con un incantevole volto di donna. Il viso tentatore era quello della Nobildonna Vittoria d’Avulso, che aveva fatto perdere la testa al Carafa. Ancora oggi, a Napoli, una donna che reca solo guai è detta ‘bella come il diavolo di Mergellina’.
Dea uguale viaggio?: nell’ipocrisia, nei tristi, malsani pregiudizi di donne nei confronti di altre donne, noi che dovremmo essere sorelle e unite di quella forza che la Natura già ci dona semplicemente perché donne, creatrici, mestruate sempre, portatrici partorienti di energia.

Tale era dunque l’ideale della buona educazione, della sofrosine per le fanciulle. E’ il tutore della giovinetta – padre o nonno o tutore legale -, nel momento giusto, a scegliere il marito decidendo per lei e senza che il consenso dell’interessata fosse necessario. La principale ragione del matrimonio era di ordine religioso: ci si sposava per avere dei figli maschi, almeno uno che perpetuasse la razza e assicurasse a suo padre il culto che questi aveva dedicato ai suoi antenati, indispensabile per la felicità del defunto nell’al di là (tutta la vita era scandita dal ritmo delle feste religiose della famiglia, del demo, della città e dalla minuziosa esecuzione dei riti ereditati dagli antenati). Le fanciulle potevano sposarsi appena raggiungevano la pubertà, verso i 12 o 13 anni ma, in genere si aspettava che ne avessero 14 o 15. Esiodo consigliava all’uomo di sposarsi verso i 30 anni con una fanciulla di 16 (“le opere e i giorni”, vv. 696-698).

Il matrimonio legittimo fra un cittadino ed una figlia di cittadino era caratterizzato ad Atene dall’engyesis (“consegna di un pegno”) ch’era più di un semplice fidanzamento.

Era in realtà un accordo che si ha ragione di credere avesse luogo presso l’altare domestico; una convenzione orale ma solenne fra due persone: da una parte il pretendente, dall’altra il kyrios della fanciulla che era il padre, se ancora in vita. Ci si scambiava la stretta di mano e qualche frase rituale (da “La fanciulla dai capelli corti”, Menandro, vv.435-437):
PATAICOS -ti do questa fanciulla perché metta al mondo dei figli legittimi.
POLEMON – Io l’accolgo.
PATAICOS – Aggiungo una dote di tre talenti (il talento valeva 6.000 dracme, n.d.r.)
POLEMON – L’accolgo con piacere.
“Abbiamo le cortigiane per il piacere, le concubine per le cure quotidiane, le mogli per darci dei figli legittimi ed essere le custodi fedeli delle nostre case”. (Pseudo-Demostene, ‘Contro Neaira’, 122). E ancora, da Esiodo, ‘Le opere e i giorni’, vv. 376-377: “Abbi un figlio unico (…) E’ così che la ricchezza cresce nella casa.”.

Ben diversa era la situazione quando a volersi separare era la moglie, collocata dalla legge in una condizione d’endemica incapacità giuridica. La donna aveva una sola possibilità:

Una singolare tela, che va sotto il nome di ‘San Michele che calpesta il demonio’ o anche ‘Diavolo di Mergellina’, è conservata nella Chiesa di Santa Maria del Parto a Napoli.

Italia, i dati: dall’inizio del 2016, almeno 58 donne sono state uccise dal partner o dall’ex fidanzato. Tornando indietro nel tempo al gennaio 2015, risultano 155 le uccisioni. Telefono Rosa denuncia 9.000 casi di violenza e altri mille di stalking; quindi, una legge che non basta.
Una donna su tre (circa 6 milioni e 788mila persone) ha subìto violenza fisica o sessuale almeno una volta nel corso della vita. La percentuale è il 31,5% delle donne italiane fra i 16 e i 70 anni. Il 20,2% ha subìto violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% (un milione e 157mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652mila) e il tentato stupro (746mila).

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Un marito aveva sempre il diritto di ripudiare la propria moglie, anche senza alcun motivo valido. L’adulterio della donna, quando giuridicamente accertato; rendeva addirittura obbligatorio il ripudio, pena l’atimia per il marito che non lo intimasse.

Curioso che, ancora oggi, si debba rimarcare che a una donna la libertà spetta di diritto, per nascita. 
La mia è una storia come tante, e per raccontarla volo indietro nel tempo, al 2001, in un’apparentemente tranquilla cittadina di provincia, la mia Nuoro: una richiesta di divorzio dall’uomo che era mio marito, tre tentativi di omicidio subìto dei quali l’ultimo, per strangolamento e accoltellamento, avvenuto davanti agli occhi dei nostri quattro figli, allora tutti minori.
Sospesa tra la vita e la morte, un limbo.
Di quei giorni ‘non miei’ – tre anni di distacco dalla vita, dal mondo – porto, voglio portare, il ricordo nebuloso; incerto.
Infiniti perché, il pozzo profondo della depressione, il buio e l’alcol, la profonda crisi artistica, intima: perché ero viva, perché io e perché a me, perché i nostri bambini avevano dovuto assistere a tutto questo, perché lui aveva tentato il suicidio, perché lui a me, dove avevo sbagliato, come e ancora perché…e lui, che fino al giorno prima aveva ripetuto di amarmi alla follia.

e offensivo nei confronti delle sorelle che, per mano di un amore malato hanno perso e perdono la vita, o il sorriso o la speranza…donne che, in ogni modo, si sono perse dentro e non sempre riuscendo a ritrovarsi.
Troppi nomi, tabù e colpe, croci.

Viaggio in una chiesa misogina, in uno Stato che tenta di curare la donna vittima di violenza, tampona le ferite ma, paradossalmente, lo fa senza intaccare la radice della violenza, senza punire severamente chi la attua.

Si muore a “mani nude”, per le percosse, strangolamento o soffocamento: così nel 2013 è morta, uccisa, una donna su tre.

A rilevarlo è il rapporto Eures che mette in relazione tale modalità di esecuzione ad un “più alto grado di violenza e rancore”: 51 vittime, pari al 28,5% dei casi; in particolare le percosse hanno riguardato il 5,6% dei casi, lo strangolamento il 10,6% e il soffocamento per il 12,3%. Di poco inferiore la percentuale dei femminicidi con armi da fuoco (49, pari al 27,4% del totale) e con armi da taglio (45 vittime, pari al 25,1%).
La violenza fisica è più frequente fra le straniere (25,7% contro 19,6%), mentre quella sessuale più tra le italiane (21,5% contro 16,2%). Le donne che subiscono più violenze fisiche o sessuali sono le separate e le divorziate; i casi più gravi di violenze vengono perpetrati dai partner attuali o ex compagni. Il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente. Gli sconosciuti sono nella maggior parte dei casi autori di molestie sessuali (76,8%).
Aumentano le violenze che hanno causato ferite (dal 26,3% al 40,2% da partner) e il numero di donne che hanno temuto per la propria vita (dal 18,8% del 2006 al 34,5% del 2015). Il 16,1% delle donne (3 milioni e 466mila) ha subìto stalking nel corso della vita, nella metà dei casi dall’ex partner.
Oggi e ieri la violenza continua a nutrirsi di mala cultura, di omertà, di informazione perversa, di Non legge. Denunciamo la violenza e ovunque: oggi, domani e sempre. Come madri, insegnamo la Non violenza e che finalmente, in questa Italia da emergenza femminicidio, si faccia una Legge, giustizia vera contro la violenza.

Da Posidippo, frammento 11: un figlio lo si alleva comunque, anche se si è poveri, mentre una figlia la si espone anche se si è ricchi.

 

PASQUALE FESTA CAMPANILE: IL REGISTA MILIARDO di Rosalba Mazzamuto – Numero 5 – Luglio 2016

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ha fatto sì che molti italiani di quelle zone abbiano un carattere che di meridionale ha ben poco. Gli Svevi soggiornarono in Lucania e Pasquale Festa Campanile di sicuro sangue svevo nelle vene doveva averne. Di meridionale egli si era riservata la sensibilità, il senso di umanità antico, mentre se si dà un’occhiata alla sua produzione sia letteraria che cinematografica, ne viene fuori un personaggio che non ha avuto attimi di tregua: egli approfondiva, studiava, limava ogni riga scritta, ogni fotogramma impressionato. Questa creatività, tuttavia, non faceva di lui un frenetico proprio perché la componente meridionale glielo impediva.

Amava il cinema e la letteratura. Ad altri spetta ricordare le caratteristiche dell’uomo di cultura, io posso soltanto dire che

il periodo passato accanto a lui è stato bello, esaltante, per me giovane moglie, proveniente da ambienti diversi da quelli del cinema; era tutto una novità, incontrare attori famosi che venivano a lavorare a casa, andare a cena con i suoi amici produttori cinematografici

Basti ricordare Bingo bongoNessuno è perfettoCulo e camicia e altri… interpretati da Celentano, Pozzetto, Montesano, Ornella Muti, film che hanno oltrepassato il traguardo dei 10 miliardi di lire di incasso dell’epoca. 
Dopo 18 anni dal primo romanzo, ritorna alla letteratura con un secondo e poi con altri, tutti tradotti in film per la sua regia. Era il periodo dell’austerity energetica e Pasqualino scrive Conviene far bene l’amore, successivamente portato sullo schermo con Gigi Proietti, idea originale per la ricerca di fonti alternative, come l’energia sprigionata dall’incontro fra un uomo e una donna che improvvisamente illumina un teatro intero. Poi viene Il Ladrone del 1980 che divenne film con Enrico Montesano nei panni di Caleb, il ladrone buono della croce, un antieroe picaresco, un simpatico ciarlatano che vende polveri miracolose e finte reliquie in una Palestina percorsa dei messaggi rivoluzionari di Cristo. Uno dei film a cui ha tenuto di più, anche questo sempre riproposto dalla televisione nel periodo pasquale, che non manca di avere qualche relazione con il successivo Per amore solo per amore, la storia di San Giuseppe come lo voleva vedere lui, ragazzo normale innamorato che si trova inconsapevole a percorrere una storia che non sempre capisce, premiato come miglior romanzo al Premio Strega. 
La sua carriera cinematografica si chiude in bellezza con il film Uno scandalo per bene, ispirato al “caso” Bruneri Canella, con Ben Gazzarra e Giuliana de Sio, e la sua carriera letteraria si chiude con il romanzo Buon Natale Buon Anno, Premio Bancarella, la cui stesura ci ha accompagnato fedelmente fino alla sua fine, poi tradotto in film per la regia di Comencini con due grandi attori: Virna Lisi e Michel Serrault.

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PASQUALE FESTA CAMPANILE: IL REGISTA MILIARDO

 

come Luigi o Aurelio De Laurentiis, Mario Cecchi Gori o Fulvio Lucisano o Luciano Martino, allora fidanzato con Edwige Fenech, o editori dei suoi libri come Valentino Bompiani o Leonardo Mondadori. 
Ma quel periodo è stato anche infinitamente triste, per la lunga malattia che a 58 anni, a poco a poco, lo ha divorato, senza concedergli un’altra possibilità. 
Abitavamo in via Giulia, una casa piena, piena di libri – amava dire che ve ne erano circa 30.000 – che non leggeva ma di cui le pareti erano tappezzate; tutte, persino quelle dei bagni e, difatti, alla fatidica domanda “ma li hai letti tutti?” egli rispondeva “no, però li annuso quotidianamente, le parole, le frasi, i concetti volano nell’aria”. Erano i suoi approfondimenti, soprattutto per i film in costume, come la sceneggiatura del Gattopardo o quella di Rocco e i suoi fratelli, ambedue regie di Luchino Visconti, oppure Le quattro giornate di Napoli di Nanny Loy, scritta con Massimo Franciosa e Vasco Pratolini, o la fortunatissima commedia musicale Rugantino, che ormai rappresenta nella commedia dell’arte la maschera di Roma, costante successo internazionale, scritta assieme a Garinei, Giovannini, Luigi Magni e Massimo Franciosa, musicata da Armando Trovajoli, o la favola musicale 20 zecchini d’oro assieme a Luigi Magni, per la regia di Franco Zeffirelli. Come non ricordare poi Le voci bianche, rievocazione dei favolosi musici castrati in un colorito settecento romano, o Una vergine per il principe con Virna Lisi e Vittorio Gassman che gigioneggiava piacevolmente in abiti rinascimentali, delle quali fu anche il regista.

La casa di via Giulia era straripante di sceneggiature che gli proponevano, di libri che gli inviavano, o curricula di attori che volevano lavorare con lui, e, inoltre, vestiti fuori moda mai buttati, ma anche preziosi vasi e lampade art-nouveau che collezionava,

francesi di Emile Gallè, Le Verre Français, Daum e altri, o americani come i bellissimi Tiffany. Ne possedeva 80/90 pezzi, che davano una particolare allegria, colore e luce alla casa. 
Pasqualino arriva a Roma con la famiglia da piccolo, dalla Basilicata. 
La sua carriera giornalistica iniziò ad appena 19 anni, nell’immediato dopoguerra, in una prestigiosa testata culturale, «La Fiera Letteraria», passando poi alla radio e alla televisione, occupandosi prevalentemente di letteratura. 
Ma le radici lucane non tardano a farsi sentire nel suo primo romanzo del ’57, La nonna Sabella, poi tradotto in quel divertentissimo film diretto da Dino Risi e interpretato dalla magistrale Tina Pica che la televisione, durante il periodo estivo, ci ripropone spesso: comicità esilarante, spaccato di usi e costumi della sua terra natia e infarcito di ricordi della sua nonna. Il successo fu immediato. 
Da allora, Festa Campanile coniugò il proprio nome con i maggiori successi degli anni ’60, ’70, ‘80: la sua carriera di regista comincia con Un tentativo sentimentale, nella Roma del miracolo economico, passando per La costanza della ragione di Vasco Pratolini, Adulterio all’italianaLa cintura di castità con Tony Curtis e Monica Vitti, attraverso Poveri ma belli, Giovanni Mariti, il divertente Quando le donne avevano la coda, o il conosciutissimo Il merlo maschio con un eccezionale Lando Buzzanca e la bellissima Laura Antonelli, successo travolgente anche in Francia. Per fare solo alcuni esempi.

Era una firma di sicuro successo. I produttori se lo contendevano, riempiva le sale cinematografiche. Fu ribattezzato il regista miliardo ma non per averli intascati lui, i miliardi, bensì per averli fatti arrivare nelle tasche dei produttori.

 

MAREVIVO PROTEGGE IL “POLMONE BLU” di Luce Monachesi – Numero 5 – Luglio 2016

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MAREVIVO PROTEGGE IL “POLMONE BLU”

 

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La passione per il mare è ovviamente in me sin da bambina a Napoli: preservarlo e difenderlo è stato il grande obiettivo della mia vita. Ho iniziato la mia battaglia ambientalista a Capri, regalando caramelle ai bambini affinché ripulissero le grotte dalle plastiche che le inquinavano. Contemporaneamente, cercavo di sensibilizzare tutti gli amici sul fatto che il mare è il nostro “polmone blu”: produce l’80 % dell’ossigeno che respiriamo e ricopre il 71% della superficie del Pianeta.
Determinante fu l’incontro nel 1985 con Fulco Pratesi, all’epoca presidente del WWF, che mi suggerì di creare una vera e propria associazione. Nacque Marevivo, a cui molti amici (per la precisione 27) aderirono con entusiasmo e coinvolgemmo, come comitato scientifico, il CoNISMa, cioè il Consorzio Nazionale Interuniversitario per Le Scienze Del Mare.

Qual è la storia dell’Associazione?

L’incontro della nostra associazione con Papa Francesco sui temi dell’ambiente. Soltanto attraverso la comunione degli ideali e la partecipazione di tutti possiamo promuovere la giustizia ambientale e difendere il Creato. Noi ambientalisti del mare, impegnati da trent’anni in attività e azioni in difesa dell’ecosistema marino e delle sue creature, siamo mossi da un’onda benefica di speranza e tutti dobbiamo attivarci seguendo l’invito di Papa Francesco.

Rosalba Giugni Laudiero, napoletana doc (figlia di armatori ed esperta subacquea), ha da poco festeggiato i trent’anni della associazione ambientalista Marevivo, che ha fondato e presiede con impegno e competenza meritando, a tutti gli effetti, il titolo di “regina del mare”.
La incontriamo a Roma presso il barcone sul Tevere, sede ufficiale dell’Associazione, e le chiediamo:

L’educazione ambientale soprattutto; a tale scopo abbiamo organizzato dei veri e propri percorsi per bambini, come il progetto “Delfini Guardiani” che coinvolge 1576 studenti delle isole minori d’Italia e si sta concludendo alle Eolie e alle Egadi, per sensibilizzare le nuove generazioni alla tutela del proprio mare e del proprio territorio.
Questa iniziativa ha avuto tanto successo e ora sta crescendo nelle principali città.
Poi ci sono le azioni di contrasto all’inquinamento; ad esempio, continua l’impegno di Marevivo per il mare di Napoli. Non ci arrendiamo, dobbiamo restituire il suo golfo e il fiume Sarno liberi dall’inquinamento.

Qual è la cosa che ti ha emozionato di più recentemente?

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Qual è l’obiettivo di Marevivo?

Quale è stata la prima manifestazione dell’Associazione?

Il nostro trampolino di lancio fu la prima campagna di ripulitura delle spiagge e delle rive dei principali fiumi, alla quale parteciparono con entusiasmo moltissime persone.

Una delle molte manifestazioni è stata quella denominata “No Finning”. Puoi spiegarci di cosa si tratta?

Il nostro obiettivo era proteggere lo squalo, vittima di una caccia indiscriminata a causa della sua pinna gelatinosa, reputata una prelibatezza per la cucina orientale. Siamo noi ad attaccare loro: negli ultimi 40 anni la popolazione degli squali medio-grandi è scesa del 90%. Cause principali sono la pesca non selettiva, le cosiddette “catture accessorie”, il mercato di pinne e carne e, infine, l’inquinamento.

Avete creato anche una “Tavola Blu”.

Insegnare ai futuri chef che è possibile coniugare creatività e tutela del mare è stata una gran bella sfida. Ricordo l’esperienza che ci ha portato a cucinare meduse: poiché ne siamo invasi, abbiamo convocato un grande cuoco, Gennaro Esposito, che ci ha fornito preziose ricette per cucinarle, essendo le meduse ricche di proteine e collagene.

Qual è la prossima battaglia?

Pesca illegale ed eccessiva, petrolio, veleni di ogni tipo riversati, ogni giorno, nel mare; ma non finisce qui: c’è un mostro apparentemente inarrestabile e indistruttibile che si insinua, addirittura, nella catena alimentare dell’uomo: la plastica. Per capire come affrontarlo, Marevivo sta portando avanti la campagna di informazione, sensibilizzazione e conoscenza “Mare Mostro: un mare di plastica?”, realizzata in collaborazione con la Marina Italiana e il CoNISMa e partita a bordo della nave scuola Amerigo Vespucci.

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CASTEL DEL MONTE di Roberta Lucchini – Numero 5 – Luglio 2016

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La dovizia di informazioni che liberamente circolano sulle autostrade di cavi in rame o fibra o sui corridoi aerei rappresenta, come noto, la grande opportunità di conoscenza mai offerta all’essere umano; il quale, nel percorrere corsie talvolta sconosciute, può imbattersi, per curiosità o semplicemente per caso, in notizie che, seppure singolari, accendono un qualche anelito di riflessione.

A sostegno di tale ipotesi sia l’analisi delle tecniche costruttive, del sistema di raccolta delle acque pluviali, di quello di scolo all’interno delle stanze (che, si ricorda, sono otto al pian terreno e otto al piano superiore, di forma trapezoidale, con grandi caminetti solo in alcuni ambienti), sia la presenza di veri e propri bagni in alcune delle torri ottagonali esterne e di sistemi di adduzione dell’acqua negli stessi, sia, ancor prima di tutto questo, la valutazione della geometria stessa della costruzione, cioè la base ottagonale, presente già in epoca romana nelle strutture termali (si pensi, ad esempio, all’Aula Ottagona nelle Terme di Diocleziano) e successivamente nell’architettura cristiana del Fonte Battesimale.

Vien da pensare qui, come per contrappasso con la possanza di queste mura, alla freschezza dei giovani scalpitanti, ai ragazzi in età scolare che dovrebbero venire a conoscere luoghi come questo per liberarsi da un nozionismo sterile, che non può dare conto della complessità e della ricchezza di molti scenari e personaggi.

CASTEL

DEL

MONTE

 

Ora, il visitatore, trovandosi nell’abbraccio del cortile centrale, mentre osserva i tre portali di accesso al piano terra o le tre porte-finestre del piano superiore incorniciate di breccia corallina, può sentirsi libero di sposare l’una o l’altra opzione, od anche di non prendere posizione.

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Nel farlo, però, deve ammettere che le parole altisonanti utilizzate dalla Principessa Von Hohenstaufen nella sua domanda di restituzione di Castel del Monte, secondo cui quest’ultimo dovrebbe diventare “omfalos della sapienza, scienza, centro della pace e dialogo tra i popoli”, parole capaci, ad una prima lettura, di strappare un sorriso, non risultano totalmente prive di una qualche suggestione, se consideriamo che l’origine di tutto ciò è nella personalità eclettica, poliedrica, illuminata e affascinante del preteso trisavolo Federico II, colui che, fra l’altro, preferì alla guerra guerreggiata la via del dialogo col sultano Al-Malik al–Kamil. E se combiniamo il tutto con le affermazioni di De Biase, secondo il quale “i cittadini possono diventare i maggiori tutori e fruitori del patrimonio culturale”, sorge spontanea un’ulteriore riflessione, che assume caratteri più generali. Vien da pensare qui al testamento che abbiamo il dovere morale di redigere.

Senza dimenticare che il pericolo di isolamento cui i nativi digitali sono esposti, altra faccia della medaglia rispetto alla facilità di reperire notizie a basso costo sul web, potrebbe allontanarli dal desiderio di entrare “fisicamente” in contatto con la realtà, accontentandosi del mondo virtuale. Si dovrebbe approfittare in positivo, come d’altronde si sta già facendo, delle limitazioni che la cronaca recente impone alle istituzioni scolastiche circa le mete delle cosiddette uscite didattiche, orientate oggi, per esigenze di sicurezza, alla scoperta della nostra Penisola: siti pregnanti come questo devono essere stabilmente inseriti all’interno dei circuiti delle gite degli studenti che frequentano gli ultimi anni delle scuole secondarie di primo e secondo grado, e selezionati innanzitutto per familiarizzare con periodi della nostra storia che sono spesso percepiti come ostici e troppo distanti; secondariamente

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Capita così di leggere che, nel 2009, la Principessa Yasmine Aprile, che si dichiara erede unica della casa Hohenstaufen, abbia inviato un telegramma al Comune di Andria ed alla Regione Puglia per ottenere la restituzione di Castel del Monte, la celeberrima costruzione sulla Murgia voluta nel XIII secolo dal suo presunto avo Federico II di Svevia, lo Stupor mundi, adducendo a pretesto l’estremo degrado, l’incuria e l’ignominia in cui il Castello sarebbe piombato. A parte la leggerezza di una simile richiesta, erroneamente indirizzata a destinatari che non godono della proprietà del sito, avendo lo Stato italiano acquistato Castel del Monte nel 1876 dalla famiglia Carafa d’Andria per venticinquemila lire; a parte che lo stesso è entrato nel 1996 nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’ Unesco (evento di cui è stato celebrato il Ventennale lo scorso 27 maggio presso la Sala Consiliare del Comune di Andria); a parte l’aver verificato che la principessa è avvezza a rivendicare possedimenti “irrinunciabili e imprescrittibili” appartenuti ai suoi antenati, come ha fatto per la reggia di Carditello e per l’Isola di San Giulio sul lago d’Orta; tuttavia un moto di orgoglio meridionale, in cerca di redenzione per i continui e frustranti luoghi comuni sulla trascuratezza del Sud e la latitanza delle istituzioni pubbliche anche nella gestione del patrimonio culturale, innesca quel desiderio di “accertamento” dello stato dei fatti che solo può dare il reale polso della situazione.

Cosa significa recarsi oggi a Castel del Monte,

vale a dire presso uno dei trenta siti storici più visitati in Italia, il primo della Puglia, in cui nel 2015 si sono registrate circa 250.000 presenze, con un incremento di circa il 20% rispetto all’anno precedente?

Vuol dire, come testimoniano i numeri, doversi ricredere rispetto alla drammatica situazione dipinta dalla nobildonna qualche anno fa.

E’ lampante l’impegno a rendere questo sito sempre più fruibile, attraverso il tentativo di risolvere alcuni dei problemi, come la questione della viabilità e dei parcheggi a ridosso dell’area museale o quella dei servizi legati alle informazioni al turista, con i quali il Mezzogiorno d’Italia sembra destinato a confrontarsi quasi come in un atavico supplizio di Tantalo. 
Inoltre, i recenti lavori di sistemazione della zona verde subito sottostante il Castello dimostrano la volontà di intraprendere un virtuoso percorso di valorizzazione dell’intera area, in modo da aprirsi più e meglio ad un turismo di ampio respiro. Del resto, il nuovo direttore del Museo Archeologico di Castel del Monte, il foggiano Alfredo De Biase, nominato lo scorso gennaio, ha manifestato con chiarezza la propria visione della funzione museale: non più l’arte riservata ad una élite, ma un patrimonio culturale che si offre alla comunità. 
E, certamente, quello custodito fra le mura di Castel del Monte rappresenta un capitale ricco e a tutt’oggi non totalmente disgelato, un serbatoio da cui si può ancora attingere, se si considera la perdurante attenzione degli studiosi su struttura e funzioni dell’edificio, nella speranza di carpirne il significato. Si scopre infatti che, dopo averne esclusa la natura di castrum per le inesistenti caratteristiche difensive; dopo aver scartato la eventuale funzione di residenza, non essendovi traccia di cucine e quant’altro possa riportare alla possibilità di soggiornarvi; dopo aver ridimensionato il legame fra Federico II ed il maniero, avendone sicuramente il primo ordinato l’edificazione (come risulta da un atto scritto risalente al 1240) ma visitato lo stesso pochissime volte (sicuramente in occasione del matrimonio della figlia Violante con Riccardo conte di Caserta nel 1249); dopo aver avanzato ipotesi legate a misteriose finalità esoteriche, data la posizione geografica, i rapporti fra le dimensioni costruttive, l’orientamento rispetto agli astri (ipotesi in parte smentite da più accurati studi sulle reali misure e geometrie del palazzo), o aver immaginato funzioni “formative”, come luogo di incontro e discussione sulle varie discipline umanistiche e scientifiche,

spunta fuori, qualche anno fa, ad opera di due ricercatori dell’Università di Bari, una nuova teoria: il Castello sarebbe un esempio di Spa, un hammam, un luogo dove godere dei benefici dell’acqua, ritemprando lo spirito.

perché trovarsi in un monumento come Castel del Monte, ove simbologie cristiane, ebraiche e musulmane si sono fuse armonicamente significa comprendere che dal passato, quello più insospettabile, quello delle Crociate e della frammentazione di regni e dinastie, arrivano messaggi attualissimi di tolleranza e pacifica convivenza;

in terzo luogo perché favorire la domanda di cultura equivale a stimolarne l’offerta, avviando peraltro meccanismi generatori di impiego per le comunità locali; infine perché, riallacciandosi alle parole di De Biase, solo trasmettendo “sul campo” alle nuove generazioni l’importanza della conoscenza delle nostre radici, il rispetto per il passato, la curiosità di ricercare nuove chiavi di lettura attraverso l’approfondimento scientifico, possiamo auspicare di mettere insieme un asse ereditario che non potrà essere passibile di rivendicazioni perché realmente condiviso e tutelato come patrimonio comune, nella speranza di favorire il superamento di una cultura che percepisce il bene pubblico come terra di nessuno. La trappola dell’indifferenza è il pericolo maggiore. E il Mezzogiorno lo ha compreso, per non dover essere ancora, stancamente, demagogicamente, additato di disinteresse, incuria, disamore…

La volontà di riscatto da una simile etichetta è forte, sulla Murgia come in molte altre aree del nostro Meridione, dove sarebbe logico raccogliere l’eredità federiciana favorendo nel visitatore quel senso di “stupore” che contraddistinse il sovrano. Ma il patrimonio, anche quello culturale, va amministrato: nel farlo, si pensi anche, e prima, ai giovani e al loro futuro, è l’unica ancora di salvezza.

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PERCHÉ UN MUSEO? di Donatello Genovese – Numero 5 – Luglio 2016

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Ad Avigliano (comune della provincia di Potenza, sito nella parte nord-occidentale della Basilicata, a circa 800 m s.l.m.) ogni anno, nel periodo estivo, si tiene la caratteristica manifestazione dei “quadri plastici”, ossia la rappresentazione vivente d’immagini tratte da capolavori dell’arte figurativa.

La tradizione è molto antica, anche se le notizie certe disponibili, tramandate oralmente, consentono di datare le prime rappresentazioni negli anni ’20 del secolo scorso.

Gli attori, inseriti in contesti scenografici fedeli nei più minuti dettagli alle opere artistiche oggetto d’imitazione, restano immobili per qualche minuto, come statue viventi, riproducendo scene sacre, storiche, mitologiche o immaginarie, tratte dai celebri quadri pittorici.

Attualmente i quadri plastici vengono realizzati su palchi fissi, dotati di sipari, che vengono aperti più volte, per circa un minuto, al cospetto di un pubblico assai nutrito, capace di restare anche per ore in attesa del magico momento dell’esibizione.

La realizzazione delle scenografie, dei costumi, delle acconciature, degli sfondi, degli oggetti, delle luci e dei tanti dettagli esecutivi richiede un lungo ed accurato lavoro artistico preparatorio, finalizzato a rendere la scena finale perfettamente aderente al capolavoro artistico da cui è tratta.

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PERCHÉ UN MUSEO?

 

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In origine tali rappresentazioni venivano eseguite, in occasione delle festività religiose estive più importanti, su carri a traino animale, che sfilavano lungo il corso principale del paese nel corso delle processioni popolari. Su tali carri i figuranti, ad ogni sosta, assumevano le caratteristiche pose fisse delle immagini artistiche che intendevano rappresentare. Le scene, corporee e tridimensionali, davano luogo ai caratteristici quadri viventi, detti anche quadri plastici.

Per un lungo periodo la manifestazione si è svolta nel corso dei festeggiamenti della Madonna del Carmine, protettrice del paese, che si tengono ogni anno il 16 luglio. Da qualche anno, però, sotto la crescente partecipazione del pubblico, si è preferito rendere autonoma la kermesse, spostandola nel mese di agosto.
In genere, le rappresentazioni dei quadri plastici sono realizzate da due/tre gruppi di giovani artisti, prescelti dall’Associazione Pro Loco, appartenenti ad associazioni dei vari quartieri del paese, che fanno a gara nella più fedele riproduzione delle opere d’arte da essi prescelte.
Il palco, allestito nella piazza più capiente del paese, è diviso in vari box, ciascuno separato fisicamente dagli altri e dotato di un sipario, all’interno dei quali gli scenografi, i falegnami, i pittori, i truccatori, i parrucchieri, i sarti, i costumisti, i tecnici delle luci e della fotografia, ecc., nascosti alla vista del pubblico, sotto la guida di direttori artistici altamente qualificati, allestiscono le scene e preparano gli attori per l’esibizione.

La visione dei quadri plastici, resa possibile della contemporanea apertura dei sipari, più volte, per la durata di circa un minuto, avviene al buio e con suggestivi sottofondi musicali, in modo che le luci sceniche, sapientemente calibrate, restituiscano allo spettatore l’emozione di trovarsi al cospetto di meravigliosi ed imponenti quadri tridimensionali, carichi di pathos e di sublime bellezza.
Al termine della manifestazione, una giuria altamente qualificata ed imparziale proclama il gruppo vincitore, al quale viene assegnato un premio. La manifestazione ha assunto rilievo nazionale nell’aprile del 2016, quando, nel corso di un talent show mandato in onda da un importante network televisivo, un nutrito gruppo di giovani aviglianesi ha riprodotto le maestose opere del Caravaggio.

 

LA CUCINA DEI BORGHI MEDIEVALI. VICO DEL GARGANO RIVENDICA IL PRIMATO di Michele Agelicchio – Numero 5 – Luglio 2016

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Michele-Angelicchio
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apre interessanti spazi di captazione come dimostra una recente indagine “Pangea” effettuata in Spagna, Germania, Regno Unito, Italia e Francia. 
Il turista gastronomico è un attento viaggiatore che sceglie la località sulla base di precisi indicatori e diventa sostegno economico, più e meglio del turista culturale. Si prevede una considerevole crescita, a breve, intorno al 40%. Sono questi dati che hanno messo in moto il mondo della gastronomia e dei cibi di nicchia, legati al cordone ombelicale del territorio e dei piccoli borghi antichi, alla loro cucina, ricette, cibo sano.

LA CUCINA DEI BORGHI MEDIEVALI. VICO DEL GARGANO RIVENDICA IL PRIMATO

 

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Il recente viaggio di raffinati golosi, nei Borghi medievali d’Italia, alla scoperta delle antiche e gustose ricette, di antiche pietanze e vini da palati esperti, ha costruito un rosario di dieci tappe, da Nord a Sud;

interessante ma non esaustivo, soprattutto se viene saltata o dimenticata la cucina del borgo medievale per eccellenza, Vico del Gargano, nei Borghi più Belli d’Italia.
Si parte da Taggia, in provincia di Imperia, con l’oliva taggiasca, per raggiungere Cortemilia, in provincia di Cuneo, borgo della nocciola piemontese, prodotto IGP. Poco distante, per assaggiare i vini delle cantine di Nieve. Si raggiunge Arquà Petrarca, Padova, dove emana il profumo del “brodo di Giuggiole”. Ad est verso Venzone, Udine, con la “zucca di Venzone” e poi nel borgo di Bobbio, Piacenza, per la “zuppa del Pellegrino”. 
Si inizia a scendere, San Gimignano, nella Valdelsa, per lo zafferano. San Gemini e le acque. Gli stringozzi di Casperia, in provincia di Rieti e si chiude con il pane di Altamura in Puglia. Un po’ poco, per la verità.

Si inalbera l’orgoglio ferito di Vico del Gargano, il borgo antico per eccellenza, che fece innamorare Gae Aulenti, la grande archistar che lo percorse in lungo e largo.

Nel cuore e nei pensieri della Regione Puglia che l’ha voluto nei 20 comuni selezionati per il Progetto Hospitis.
A difesa dell’onore e della cucina, il borgo garganico chiama un suo illustre concittadino, Giovanni Nino Arbusti, ricercatore e studioso di enogastronomia, “Cordon d’oro” e membro dell’Accademia Gastronomica Italiana, autore del libro Cucina del Gargano, per la collana Cucine regionali, prefazione di Guido Pensato, editore Franco Muzzio:

“…Una cucina schietta e pastorale, quasi rude all’inizio come tutte le altre cucine primitive, ma poi incline alle preziosità degli aromi, della menta e dell’origano, del finocchietto selvatico, della rucola, del rosmarino, così copiosi e di fragranza unica all’interno e lungo la costa, da Rodi a Monte Pucci e da Peschici a Mattinata…”

Gli studiosi della nutrizione si azzuffano ancora oggi; non è pane, non è pizza e neanche focaccia, è tutte queste cose insieme, è la Paposcia di Vico del Gargano, semplice, comune, essenziale.

Il lievito e il fuoco vivo fanno il miracolo di gonfiarla, quando il colore raggiunge il paglierino e il vapore sbuffa dal di dentro, allora è pronta.

Questa è la Paposcia: pane nostrum che, per secoli, ha accompagnato la nutrizione e i palati semplici.
Nel 1996 nasce il primo Club della Paposcia. Chi passa per via Giovanni XXIII lo trova al numero 95. Qui ogni socio si inventa una farcia a piacere, sempre diversa, ma i canoni tradizionali della paposcia restano immutati da secoli: sale e olio extravergine di oliva; oro verde degli ulivi monumentali del Gargano; qualcuno preferisce il cacio-ricotta nostrano con una fogliolina di rucola e poi, via via, tutti i gusti della globalizzazione accompagnati da un bicchiere di rosso Zagarese o Macchiatello, due eccellenti vini delle nostre assolate colline, nella valle del Melaino.

Non c’è nulla da chiedere: segreti, tecniche, ricette, intrugli. È un processo semplice, un artigianato silenzioso, solitario, nessun mistero per gli ingredienti, le dosi, i tempi, la pazienza, i gesti, il fuoco e, poi, il profumo nell’aria.

Nelle 220 pagine di ricette ci spiega l’incontro con lagane e ceci; le seppie con gli “ntroccioli”; le manteche e i “plus”; celatelli e curatoli; taralli annaspati.
Ma ogni tappa si ferma, obbligatoriamente, davanti al profumo della Paposcia, pane nostrum, e alla sconfinata mappa degli intingoli.

Si ricava da una noce di pasta di pane lievitata, schiacciata, allungata e subito passata al fornaio per la cottura a fuoco vivo. 
Gli ultimi fornai, prima dell’arrivo dei forni elettrici, dicono che la cottura della paposcia è un’anteprima per verificare la lievitazione della pasta e la temperatura del forno a legna.

Per difendere e conservare questa prelibatezza, nel 2009, l’Amministrazione comunale del sindaco, Luigi Damiani, e il suo Assessorato all’Agricoltura e Ambiente, chiese ed ottenne il riconoscimento quale “prodotto tradizionale da forno” con denominazione “La Paposcia di Vico del Gargano”, con Decreto Ministeriale n. 8663 del 5 giugno 2009.
Un intelligente lavoro di équipe: Roberto Budrago, Assessore comunale al ramo; Enzo Russo, Assessore all’Agricoltura della Regione Puglia e Leonardo Capuozzo dell’Ispettorato all’Alimentazione hanno consacrato, e dato il via libera, certificando la prelibata Paposcia di Vico.

 

COSA VUOI DI PIÙ PER LA VITA? UN LUCANO di Maurizio Campagna – Numero 5 – Luglio 2016

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ma un vero e proprio fenomeno sociale: nell’Unione Europea nel 2013 è stato responsabile della morte di quasi 1,3 milioni di persone, più di un quarto di tutte le morti (dati Eurostat presentati nel 2016). Le malattie oncologiche impegnano moltissime risorse finanziarie tra costi diretti e indiretti: sono ben 126 i miliardi di euro spesi dai Paesi dell’Unione Europea nel 2009 a causa dei tumori. Il dato, già pubblicato nel 2013 su “The Lancet Oncology”, riporta i risultati di uno studio condotto dall’Health Economics Research Centre dell’Università di Oxford, in collaborazione con il Cancer Centre and Institute for Cancer Policy del King’s College di Londra.

COSA VUOI DI PIÙ PER LA VITA? UN LUCANO

 

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 Alla cronicizzazione della malattia, dovuta anche all’impiego di farmaci innovativi e al conseguente allungamento dell’aspettativa di vita, non corrisponde ancora un’adeguata risposta istituzionale per la presa in carico del malato cronico e del paziente guarito. Tale insufficienza genera costi ulteriori a carico della comunità.

Nel 2015, nel corso dell’ultimo congresso annuale dell’ASCO (l’Associazione Americana di Oncologia medica), è emerso che il costo globale dei farmaci anti-cancro aveva raggiunto, nel 2014, la cifra record di cento miliardi di dollari, facendo registrare un incremento annuale del 10%. I dati, però, sembrano già di un’epoca fa, quando, cioè, la diffusione delle nuove terapie, soprattutto di quelle di tipo immunologico, era solo dietro l’angolo.

Per quanto riguarda l’Italia, pochi dati sono sufficienti a rappresentare il fenomeno: il 30% dei decessi è causato dal cancro, la spesa per i farmaci antineoplastici nel 2014 si è collocata per la prima volta al primo posto,

seguita dai farmaci antimicrobici e dai farmaci del sistema cardiovascolare. Gli interventi chirurgici per tumore sono il 12% del totale (fonte: VIII° Rapporto F.A.V.O. sulla condizione assistenziale del malato oncologico). 
L’emergenza finanziaria sarebbe addirittura destinata a crescere se la direttiva sulla mobilità sanitaria transfrontaliera n. 24/2011/UE trovasse concreta attuazione nei Paesi membri in ragione dell’incremento dei flussi di pazienti che si spostano per ricevere cure nello spazio UE, rimborsati dal proprio Stato di affiliazione.
È infatti noto che il cancro rappresenta una delle principali determinanti della mobilità sanitaria, mobilità che costituisce sempre una scelta eccezionale dei malati che, ovviamente, preferirebbero curarsi nel luogo dove abitualmente risiedono e in un contesto familiare. Più degli altri servizi alla persona, la sanità non è un’industria che possa essere facilmente delocalizzata. Nel 2015, il sondaggio curato da Eurobarometro sull’effettivo esercizio dei diritti dei pazienti nell’Unione europea ha rilevato come le ragioni della scelta di curarsi lontano da casa sono essenzialmente due: (1) ricevere un trattamento non disponibile nel proprio paese; (2) ricevere un trattamento di migliore qualità.

È dunque la mancanza di risposte o di risposte di qualità prossime ai malati che spinge questi ultimi alla dolorosa migrazione sanitaria, anche al di fuori dello spazio nazionale.

Il Servizio sanitario nazionale, a fronte di questi numeri, dovrà elaborare una risposta decisa che garantisca non soltanto la sostenibilità economica della malattia e delle cure necessarie, ma anche la sostenibilità politica e sociale.

In Basilicata, la risposta è il Centro di Riferimento Oncologico della Basilicata in Vulture (PZ), un’eccellenza della sanità del Sud, una speranza possibile, accessibile e a portata di mano per i lucani.

Il CROB è un IRCCS (Istituto di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico) di diritto pubblico riconosciuto con Decreto del Ministro della Salute del 10 marzo 2008 nella specializzazione oncologica. Il carattere scientifico, riconosciuto alla struttura, sulla base degli specifici requisiti stabiliti dal d.lgs. n. 288 del 2003 che ha provveduto al riordino degli IRCCS pubblici, consente alla stessa di accedere a un finanziamento statale finalizzato alla ricerca che si aggiunge a quello già erogato dalla Regione di appartenenza. Il CROB è stato confermato IRCCS con decreto del Ministro della Salute del 9 dicembre 2015. 
La struttura ha 118 posti letto per acuti e 8 posti per cure palliative/hospice. Il volume di attività fa registrare circa 5000 ricoveri in un anno. Il CROB è il polo hub della rete oncologica regionale (centro di riferimento) e dall’11 giugno 2015 è stato accreditato dall’Organizzazione Europea degli Istituti contro il Cancro (OECI) come Clinical Cancer Center. Non finisce qui.

L’Osservatorio Nazionale sulla salute della Donna (O.N.Da.) ha attribuito all’Istituto il massimo riconoscimento dei tre bollini rosa come ospedale women friendly. Da ultimo, il CROB è stato insignito di un prestigioso riconoscimento: il Premio Nazionale “Amministrazione, Cittadini, Imprese”,

assegnato ogni anno dall’Associazione per la qualità delle politiche pubbliche con il patrocinio del Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione.
Per l’anno 2016, il Premio “Amministrazione, Cittadini, Imprese” era riservato a un Presidio ospedaliero (o Azienda ospedaliera) che, nelle proprie attività ordinarie, fosse riuscito a combinare un alto livello di efficacia delle prestazioni cliniche erogate, di efficienza gestionale e di umanizzazione del rapporto con i pazienti. Pur essendo di piccole dimensioni, la struttura “è assolutamente simbolica come efficacia, impegno e risultato. Ha una significativa incidenza di ricercatori e una grande e avanzata attenzione al paziente […]”.
Il riconoscimento ottenuto dal CROB significa che l’eccellenza nell’amministrazione pubblica è possibile quando si condivide una strategia di lungo periodo che riporti di nuovo al centro la persona destinataria dei servizi. In particolare, l’eccellenza nella sanità può aversi solo se il paziente torna ad essere il perno dell’azione e quando si progettano le risposte a tutti i suoi bisogni complessi.

L’adeguata considerazione delle differenze legate all’età, al genere, alle specificità della malattia consentono una risposta, sempre più personalizzata e quindi più efficace, che permette alla struttura di essere al passo con i tempi.

La personalizzazione delle cure rappresenta un nuovo orizzonte dell’assistenza. Non a caso, tra le quattro linee di ricerca del CROB vi sono anche studi per la definizione di tailored therapies nelle emopatie neoplastiche e su nuovi target e biomarcatori per la personalizzazione dei trattamenti medici e chirurgici. 
L’Istituto, in altre parole, propone una sanità moderna e adeguata alla complessità attuale.
Il recente accreditamento da parte dell’AIRTUM (Associazione Italiana Registri Tumori) del Registro Tumori della Regione Basilicata, curato dal CROB, dimostra lo sforzo dell’Istituto per un monitoraggio costante del cancro e delle sue evoluzioni. Il Registro della Basilicata è di tipo generale e riferito a tutta la popolazione assistita e i dati sono raccolti con metodologia coerente con quella adottata per il Registro nazionale.

Il CROB, dunque, contribuisce alla conoscenza del cancro attraverso l’impegno costante per la raccolta di dati di qualità. E la corretta allocazione di risorse in sanità non può prescindere dall’informazione.

 Per un uso corretto delle risorse pubbliche, tuttavia, non è sufficiente una scelta tecnica, ma occorre un’azione etica.
Il CROB opera nella totale condivisione dei dati, dei saldi e delle cifre. In altre parole,

l’Istituto è un’amministrazione trasparente come rilevato dall’Autorità Nazionale Anticorruzione. Un altro scacco al luogo comune.

Il Centro di Riferimento Oncologico della Basilicata CROB è, dunque, un contenitore di buona amministrazione sanitaria che riesce a coniugare tutte le azioni necessarie per fornire una risposta appropriata alle nuove esigenze di salute, ma anche un modello per la preparazione necessaria a quella tempesta perfetta – come è stato efficacemente definito il prossimo futuro della sanità – che sta per abbattersi sui Servizi Sanitari Nazionali.