TRANI – LA BELLA ADDORMENTATA SUL MARE di Giannicola Sinisi – Numero 7 – Aprile 2017

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TRANI
LA BELLA ADDORMENTATA SUL MARE

 

 

 

Negli Stati Uniti d’America, Walt Disney ha materializzato questo binomio realizzando, dal nulla, luoghi incantati, costruendo parchi di divertimento nei quali la magia immaginaria delle fiabe diventava una realtà possibile.

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 In Italia e, più in particolare in alcune città del Sud, una millenaria attitudine alla bellezza, ed una ricca sovrapposizione di vicende epiche,
sono state artefici della costruzione, 
quasi come se fosse opera
di un unico grande architetto senza tempo,
di luoghi egualmente fantastici, 

ma assai meno noti.

 

 

La città di Trani ne è un esempio, adagiata sul mare con architetture realizzate dalla mano dell’uomo che, viste dal mare, competono con la bellezza e la grandezza della natura. Ma la stessa umanità che ha lanciato questa sfida al Creato, non ha saputo mettere il suo genio al servizio dei bisogni di questo tempo, e non è stata capace, fino ad ora, di trasformare questo grandioso patrimonio collettivo in benessere al servizio di tutti. Alcuni dei suoi monumenti potrebbero essere alla base di una nuova economia, se le timide iniziative di oggi potranno diventare un’impresa sfacciata come quella del principe che baciò la bella addormentata, destandola dal suo lungo sonno. 

  

La Cattedrale di trani. Un piccolo gruppo di imprenditori turistici di Trani
si sta organizzando per ottenere, con il consenso della Curia,
il riconoscimento della Cattedrale di Trani quale
“patrimonio UNESCO dell’umanità”.

 

Nel Mediterraneo, e probabilmente nel mondo intero, non esiste un’altra Cattedrale medievale edificata sul mare. Nel XII secolo dovette sembrare quanto meno azzardato costruire un imponente edificio religioso sul mare. Il mare, infatti, in quell’epoca costituiva più una fonte di pericolo per le invasioni e le guerre, che le religioni ispiravano ed alimentavano, piuttosto che un’opportunità di pace e di coesione tra i popoli. Eppure quella sfida coraggiosa, ed in qualche misura fondata sulla capacità della sua gente di costruire legami attraverso il mare, piuttosto che conflitti, ha retto per quasi un millennio ed oggi rappresenta un esempio meraviglioso di purezza di stile, oltre che un inimitabile simbolo di pace. Oggi che il mare Mediterraneo assiste ad una nuova epopea di migranti, armati solo della loro disperazione, muovendo da terre attraversate da mille conflitti, e dove le religioni vengono ancora prese a pretesto per saziare l’avidità di potere di qualcuno, la Cattedrale di Trani, che su quel mare si affaccia, può essere una testimonianza viva di come questo mare, il nostro mare, ci consente di prosperare solo se siamo capaci di vederlo come una ricchezza, e non come una minaccia.

 

Il Polo MusealeNella stessa piazza della Cattedrale, all’interno di palazzo Lodispoto (sec. XVIII), è stata realizzata la sede del Polo Museale di Trani. Già l’edificio, per l’eleganza della sua architettura e la spettacolarità
del suo affaccio sulla piazza e sul mare,
è un’inaspettata sorpresa.

 

Un’accorta trasformazione dei suoi spazi interni ha consentito di realizzare una struttura efficiente che ospita il museo della macchina da scrivere ed il museo diocesano, oltre a degli efficienti e moderni servizi per conferenze e convegni. È una rara quanto apprezzabile sinergia tra un privato collezionista e la diocesi di Trani, proprietaria dello stabile. Lì si trovano esposti il patrimonio capitolare ed i reperti lapidei di cui è titolare la diocesi, ed una rara collezione di 400 macchine da scrivere appartenenti ad un imprenditore locale, che ha costituito la fondazione SE.CA. che gestisce questa interessante impresa culturale. Va apprezzata non solo l’originalità del progetto, ma anche la straordinaria qualità espositiva, in teche e supporti ben realizzati, che formano percorsi culturali di grande effetto.

 

Il Monastero di Colonna. Su un altro promontorio della città di Trani,
a poca distanza, si erge, anch’esso affacciato sul mare, un monastero
dell’XI secolo che ospitò i benedettini fino al XV secolo
ed i francescani fino al XIX secolo.

 

 

Oggi è di proprietà del comune di Trani che ha in animo di realizzarvi un museo archeologico, sotto l’egida della competente soprintendenza, per ospitare i reperti frutto dei ritrovamenti della civiltà dei Iapigi che abitarono questi luoghi sin dall’età del ferro. Una consistente opera di restauro, appena terminata, ha consentito all’ente locale di deliberare un indirizzo per un bando di gara che ne stabilisce la destinazione come museo archeologico, prevendendone la concessione in gestione da parte di privati, che potranno realizzare delle economie non solo dai biglietti d’ingresso, ma anche da ogni altra forma di utilizzo compatibile.

 

 

La città gode di innumerevoli ulteriori risorse artistiche, storiche, culturali, che possono essere al centro di una nuova economia, aperta verso flussi di viaggiatori che cercano la bellezza, ed amano la storia

 

 

LE MINNUZZE DI SANT’AGATA di Hilde Ponti – Numero 7 – Aprile 2017

LE MINNUZZE DI SANT’AGATA

 

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È indiscusso il coraggio dimostrato dalla giovane Agata – nata a Catania nei primi decenni del III secolo – che, eludendo ogni lusinga del prefetto romano Quinziano, non si concede, fedele ai suoi convincimenti, e viene, quindi, torturata nelle parti negate, fino a staccarle i seni, per, infine, perire, martire annoverata del cristianesimo primitivo.

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Il suo è un esempio unico che ci perviene da fonti storiche, intrecciate a una forte tradizione popolare. Tuttavia, la dedizione per la strenua fanciulla – eletta più tardi patrona di Catania –  si è espressa quasi subito. Prova ne danno gli Atti dei Martiri.

   

Quinziano, respinto, ordina di far rotolare Agata nuda, su lapilli incandescenti. Proprio in quell’istante un violento terremoto
scuote la città. La popolazione, convinta che il sisma fosse punizione divina, si precipita inferocita al pretorio,
costringendo Quinziano a sospendere l’esecuzione. 

Ad Agata sono rimaste solo poche ore.

 

“Sant’Aita, Sant’Aituzza bedda”, presero a invocarla subito, in quell’idioma musicale, i suoi concittadini: a tutt’oggi, più che mai, presente nella memoria collettiva di Catania e della Sicilia; supplicata, persino, dai Giudei e da altre confessioni. I miracoli attribuiti per Sua intercessione sono davvero tanti: il primo si verifica a un anno dalla sua morte, il 5 febbraio 252 d.C. L’Etna, l’imponente vulcano che circonfonde Catania e la pianura sottostante, emette una forte eruzione. 

   

Gli abitanti – sapendo che l’avanzare della lava significa sempre distruzione – tentano il tutto, invano, e, non rassegnati, si avviano incontro a quell’inferno con il Velo della Santa: e il prodigio avviene. La colata, molto vicina alla città, si arresta
solo davanti all’antico cimelio di Agata.

 

Da questo evento, ha inizio l’inestinguibile devozione di Catania verso la sua Santuzza. E così, dalla storia –leggenda testé evocata, l’Etna, Sant’Agata, Catania e i suoi cittadini si sono accomunati in parallelo per sempre. Tanto che, per ricordarla, hanno istituito due feste annuali: una di tre giorni in febbraio, l’altra in agosto. Nel 2002, l’Unesco ha dichiarato queste festività “Patrimonio dell’umanità”.

 

Inoltre, proprio per non smarrire l’umano senso del possesso, 

i siciliani hanno arricchito il loro pregevole valore gastronomico con un dolce ormai classico, proprio in onore della loro beniamina: le cassatelle di Sant’Agata (Minne di vergine).

 

Per delineare verità remote e leggenda ci rifaremo ai racconti degli storici: l’eruzione del 1669. Lava e lapilli incandescenti erodevano i fianchi della montagna, devastando ogni dove: migliaia senzatetto. La colata arrivò, via via, fino alla città: Catania si spopolò. Eppure, anche allora, avvenne qualcosa di straordinario: la lava, arrivando nei pressi della Cattedrale, scansò luoghi ritenuti tappe del martirio di Agata. Dopodiché, il magma raggiunse il mare, proseguendo la corsa per altri tre chilometri. Anche oggi è visibile quel reperto pietrificato dai secoli: va da Catania a Acireale, ed è chiamato La Costa dei Ciclopi, riferendosi al litorale descritto svariati secoli prima da Omero nell’Odissea.
 

Altra cronaca riguardante Sant’Agata, evocata nel tempo per via orale, narra quando Papa Innocenzo III nominò re di Sicilia l’imperatore di Germania, Federico II e buona parte 

degli isolani non si trovò d’accordo.

 

Allorché lo svevo ne venne a conoscenza, decise di stabilire, in qualsiasi modo, la sua sovranità. Com’era solito fare – stupor mundi: voleva stupire sempre – prima di passare ai fatti meditava. Capitando in una chiesa a Catania, diede inizio alla sua riflessione pubblica, e, in barba alla prosopopea, dovette lui meravigliarsi: all’istante, sotto i suoi occhi, vide materializzarsi alcune lettere: N.O.P.A.Q.V.I.E. – frase in latino, il cui acronimo riferiva “Noli offendere Patriam Agathae quia ultria iniuriarum est” (non offendere il paese di Agata, perché vendicatrice di ogni ingiustizia). L’episodio fece desistere Federico II dal vendicarsi. A tutt’oggi, sulla facciata barocca della cattedrale, nella finestra ovale – lato sinistro di chi guarda – si può leggere l’acronimo in una formella, mentre alla destra se ne trova un altro oggetto di culto, menzionato negli Atti del Martirio.
 

Ma i segni barocchi di Catania sono sparsi un po’ ovunque.

 

Seguendo, per esempio, il tracciato delle mura, si arriva a Palazzo Biscari: come non ci si può soffermare davanti alla fastosa facciata? Essa è movimentata da decorazioni: putti, cariatidi grottesche e altri fregi inneggianti al barocco. Palazzo Biscari si affaccia anche su via Museo Biscari, da cui si accede a Palazzo Platamone: i cortili all’interno sono teatro di luoghi magici, illustrano magistralmente le varie stratificazioni storico-architettoniche di Catania, dove la tradizione riconosce, nei resti sotterranei di domus romane, la casa natale di Sant’Agata, della quale, sulla via adiacente, un’edicola settecentesca rievoca proprio il culto. Il palazzo, in epoca Medievale e Rinascimentale, era residenza dell’importante famiglia Platamone, che – in età aragonese e fino a Carlo V – ricoprì importanti incarichi politici. Distrutto dal terremoto del 1693, venne ricostruito nel ‘700 da architetti che facevano rivivere la città rappresentando rari esempi di barocco. E poi il castello Ursino, fatto edificare da Federico II, su un magnifico promontorio circondato dal mare, simbolo della città. Obbligatorio non tralasciare la visita al magnifico quartiere liberty, un po’ dismesso, testimone di splendori epocali. 
 

Edifici monumentali, vestigia storiche, attestanti culture 

di varie età, ma anche devozione per Sant’Agata 

della sua città e della Sicilia, condivisa anche 

dalle nuove generazioni.

 

E fa davvero meraviglia, pur non trovando motivazione unica: curiosità? Tradizione? Folclore? Fede? Diventa per tutti un collante quando  si tratta di gusto e squisitezze. La preparazione dalle forme morbide – gonfie di ricotta di pecora, zucchero, gocce di cioccolato miste a canditi profumatissimi – incanta.
 

E l’accostarsi alle Cassatelle di Sant’Agata 

(Minne di vergine) è, per tradizione, l’interloquire tacito trasformato in realtà, Epifania per i fedeli 

e i cultori del gusto.

 

 

TARTUFI E RICERCA ALL’UNIVERSITÀ DELL’AQUILA Di Giovanni Pacioni – Anna Maria Ragnelli – Numero 7 – Aprile 2017

Confezioni di tartufo bianco trattato con film edibile

Tartufi
e ricerca
all’università
dell’aquila

 

 

Tomografia del suolo effettuata con uno speciale georadar.
Tartufi bianchetti, Tuber borchii, nel loro habitat naturale
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I tartufi sono i corpi fruttiferi sotterranei di alcune specie di funghi appartenenti al genere Tuber (Ascomiceti) che vivono in simbiosi con gli apparati radicali di piante ospiti, principalmente alberi quali noccioli, querce, carpini. Tale simbiosi è detta “micorriza” (dal greco mico= fungo e riza= radice) ed è fondamentale per la sopravvivenza della quasi totalità delle piante. Dal punto di vista biologico, i corpi fruttiferi dei funghi sono strutture deputate ad assicurare la sopravvivenza e la diffusione della specie tramite la produzione di spore, un po’ come i semi per le piante 

 Sviluppandosi tuttavia in maniera sotterranea, i tartufi sono impossibilitati a disperdere nell’aria le loro spore, 

come fanno la maggior parte dei funghi. 

Nel corso della loro evoluzione – che dovrebbe 

esser durata oltre cento milioni di anni – hanno però sviluppato complessi meccanismi per relazionarsi con l’ambiente 

ed anche risolvere il problema della dispersione 

delle spore.

I tartufi, infatti, producono moltissime sostanze volatili (VOCs, Volatile Organic Compounds) che regolano la loro vita sociale nei confronti dei microrganismi del suolo e delle piante, ed alcune di queste sostanze, che noi percepiamo come odore, svolgono il compito di attirare animali (insetti e mammiferi) per farsi mangiare e, in questa maniera, poter disperdere le spore. Esse, infatti, sono estremamente resistenti e possono attraversare indenni gli apparati digerenti degli animali, che in questa operazione vengono ricompensati, oltre che da cibo, da uno stato di grande benessere dovuto a sostanze, biologicamente attive, prodotte dai tartufi stessi: questi, dunque, sono nati per essere mangiati e perciò non ne esistono, di per sé, di velenosi. La raccolta del prodotto naturale è affiancata dalla coltivazione di piante arboree con gli apparati radicali opportunamente infettati dal tartufo. Diverse specie, infatti, sono coltivabili e ciò ha esteso la produzione delle specie europee in altri continenti nelle aree con clima mediterraneo, ovvero con inverni miti e primavera ed autunni piovosi. Non a caso, oggi, accanto a Italia, Francia e Spagna, abbiamo l’Australia come quarto produttore mondiale.

È noto che alcuni tartufi, come il bianco Tuber magnatum 

od il nero pregiato Tuber melanosporum, sono tra gli alimenti più costosi al mondo.

Le loro qualità risiedono nella emissione, a piena maturità, di un complesso di sostanze volatili che vengono prodotte in condizioni di microaerobiosi, ovvero di scarsa presenza di ossigeno data la crescita sotterranea, ed alla loro produzione partecipa anche la microflora (batteri e funghi lievitiformi e filamentosi), estremamente ricca ed abbondante, che vive in maniera asintomatica al loro interno. La cultura gastronomica del tartufo ha una storia millenaria ed è strettamente legata all’Italia, dalla quale è passata in Francia per diffondersi a livello planetario.

Per molti secoli, fino al Novecento, L’Aquila, insieme a Norcia, è stata la capitale del tartufo nero, il centro di raccolta e di una rete commerciale che nel Rinascimento arrivava sino in Germania. 

Oggi, la sua Università ospita uno dei gruppi di ricerca sulla biologia del tartufo maggiormente apprezzati a livello internazionale. Attivo dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso, ha iniziato ad occuparsi della biologia dei tartufi in maniera totale, dalla ecologia, biochimica, fisiologia fino alle attuali scienze “omiche”, una neonascente classe di discipline legate alla biologia molecolare e alla genetica, nell’ambito delle quali a L’Aquila si studiano la genomica, la trascrittomica ed a breve la metabolomica. 

È stato il primo laboratorio nel mondo, a studiare: 

– la composizione dell’odore di diverse specie dei tartufi neri e la composizione dei prodotti aromatizzati al tartufo; –  gli effetti delle sostanze volatili sulla flora microbica del suolo, sulla germinazione dei semi delle piante erbacee e sulla attrazione degli animali deputati alla dispersione delle spore; 

 –  il processo di melanizzazione e di morte cellulare programmata durante lo sviluppo dei corpi fruttiferi; 

 – a seguire le fasi di sviluppo dei tartufi nel suolo attraverso uno speciale georadar; 

 – ad evidenziare la presenza di una ricca microflora batterica e fungina (microbioma) all’interno dei tartufi sani; 

 – ad ottenere la prima fase embrionale della formazione del tartufo; 

 – a scoprire che i tartufi maturi contengono cannabinoidi, tra i quali l’anandamide, il cosiddetto “ormone della felicità”. Ha, inoltre, fatto parte del consorzio internazionale che ha sequenziato il genoma di Tuber melanosporum, pubblicato nel 2010 su Nature, ed ha organizzato nel 1992 un Congresso Internazionale sul Tartufo, presso il Forte spagnolo della città, che ha visto la presenza di oltre 650 partecipanti provenienti da tutti i continenti.

Nel corso della sua attività ha ottenuto tre brevetti, due dei quali sulla produzione vivaistica di piante micorrizate che danno lavoro da più di venti anni ad una cooperativa, ed uno per la conservazione dei tartufi freschi, che è stato oggetto di ripetute presentazioni nel corso dell’EXPO2015 ed ha permesso la nascita di una start-up di successo sul territorio aquilano.

L’interesse suscitato da quest’ultima ricerca risiede nell’aver superato le difficoltà finora incontrate in campo scientifico nel migliorare la qualità e la conservazione del prodotto fresco. Numerosi sono, infatti, i problemi che si rilevano in proposito, ascrivibili a molteplici fattori: brevi periodi di maturazione per le diverse specie commerciali; stagionalità della produzione; limitata possibilità di conservazione; perdita della capacità di produrre gli aromi in conseguenza dei cambiamenti metabolici; perdita di acqua e di peso; controllo della microflora ospite all’interno del tartufo; differenziazione della conservazione a seconda della pezzatura e dell’integrità del corpo fruttifero. 

A L’Aquila, abbiamo sviluppato un sistema di conservazione basato su un film edibile specificatamente realizzato per questi scopi.

“Film edibile” significa che il tartufo viene rivestito con un sottilissimo strato continuo di materiale, composto da sostanze commestibili, e che quindi può essere consumato così com’è. Nel nostro caso, si è ricorsi ad una proteina vegetale purissima, alla quale sono state aggiunte diverse altre sostanze, che hanno permesso di ottenere un prodotto, invisibile e insapore, estremamente efficace per ovviare a tutti i problemi sopra esposti. Una volta estratti dal suolo, infatti, i tartufi subiscono un cambiamento di condizioni (aria ed ossigeno) che porta ad una perdita progressiva della capacità di produrre VOCs e ad un cambiamento della stessa composizione dell’aroma, data la presenza di ossigeno e la diminuzione dell’attività metabolica. Gli aromi dei tartufi vengono infatti prodotti solo da esemplari vivi e mantenuti quanto più possibile nelle condizioni originarie. Le diverse forme di condizionamento (inscatolamento o surgelazione) uccidono il tartufo ed alterano completamente le sue qualità organolettiche. Chiudendoli in contenitori, il loro ricchissimo microbioma non è più sotto controllo ed i batteri e funghi ospiti innescano fenomeni putrefattivi. Accanto ai metodi tradizionali ed empirici per prolungare la vitalità dei tartufi, negli anni più recenti sono stati proposti diversi sistemi innovativi, oggetto anche di alcuni brevetti, come immersione in olio, irradiazione, rivestimenti plastici o atmosfera controllata, ma che non rispondono pienamente agli obiettivi. 

La globalizzazione imperante, che non ha risparmiato neanche la produzione tartuficola, ha imposto una riflessione ancor più attenta sul problema della conservazione del prodotto fresco, quanto mai sentito al giorno d’oggi anche per l’uso del tartufo nella cucina internazionale. Ed il nostro film edibile sembra attualmente rappresentare la soluzione più idonea.

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LA FABBRICA SALERNITANA DELL’INNOVAZIONE: di Maurizio Campagna – Numero 7 – Aprile 2017

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Il settore farmaceutico costituisce un motore trainante dell’economia nazionale: nel 2015 l’Italia è stata il secondo produttore nell’area UE, preceduta di misura soltanto dalla Germania e staccando la Francia per oltre 6 miliardi di euro nel valore della produzione totale. Quest’ultima ha superato i 30 miliardi. Secondo la Banca d’Italia, dopo la doppia recessione, il settore farmaceutico è l’unico ad aver aumentato la propria capacità produttiva1. Gli addetti superano le 63.000 unità alle quali devono essere aggiunti i 66.000 lavoratori dell’indotto.

LA FABBRICA SALERNITANA DELL’INNOVAZIONE

 

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Nel periodo compreso tra il 2010 e il 2015 l’export italiano del settore ha fatto registrare una crescita del 57% a fronte del valore medio UE del +33%. Anche il Sud fa la sua parte. L’industria farmaceutica, infatti, è presente in modo significativo anche nelle regioni meridionali: in Abruzzo, Campania, Puglia e Sicilia si contano complessivamente più di 13.000 unità tra addetti diretti e nell’indotto. In alcuni distretti, come ad esempio a Bari, Brindisi e Catania, l’industria farmaceutica copre un’elevatissima percentuale dell’exportcomplessivo. Tra le ragioni di questo “miracolo italiano”, un ruolo di primo piano deve essere riconosciuto agli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) che, negli ultimi due anni, sono aumentati del 15%.

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Lo sviluppo e la crescita del settore pharma, infatti, favoriscono virtuose sinergie tra comparti produttivi: si pensi, infatti, alle ricadute positive, anche in termini occupazionali, principalmente nell’ambito della meccanica o del packaging.

L’industria del farmaco è terza per spesa totale in R&S,

dopo quella dei trasporti e quella meccanica, e prima per volume di investimenti in rapporto agli addetti. Le domande di brevetto sono cresciute del 54% e sono più di 300 i prodotti biotech in sviluppo. Il settore farmaceutico ben rappresenta, dunque, quel modello di produzione che, da più parti, è indicato come l’unico in grado di traghettare la stanca economia italiana, al di fuori delle secche di una crisi ormai duratura. Si tratta, infatti, di una crescita economica basata sull’elevata professionalità dei lavoratori: il 53% del totale degli addetti nel settore è costituito, infatti, da personale laureato2. Il pharma, inoltre, più di altri comparti della produzione, vive e si alimenta di ricerca e innovazione. Il buon rapporto con l’Università è quindi cruciale, non soltanto perché gli atenei formano i professionisti che saranno impiegati nelle diverse realtà aziendali del Paese, ma anche perché l’innovazione farmaceutica non può fare a meno della collaborazione con l’industria se si vuole assicurare l’immediata trasferibilità dei risultati della ricerca sul mercato.

In questo contesto si inseriscono le attività del Dipartimento di Farmacia dell’Università degli Studi di Salerno (DIFARMA).

Istituito nel 2010 in applicazione della riforma universitaria Gelmini (l. n. 240 del 2010) che, come è noto, ha sostituito le Facoltà con i Dipartimenti, il DIFARMA riunisce l’esperienza e il lavoro della Facoltà di Farmacia e del Dipartimento di Scienze Farmaceutiche e Biomediche, oggi disattivati, e costituisce la sola struttura scientifica e didattica di riferimento sul “Farmaco”nell’Università di Salerno. Il Dipartimento può contare su una dotazione strutturale e strumentale competitiva e all’avanguardia: 3000 mq di laboratori e attrezzature per un valore superiore agli 8 milioni di euro. Per il completamento della ricerca biologica, farmacologica, medica e farmaceutica è stato creato un moderno stabulario per il mantenimento e l’utilizzazione degli animali da laboratorio per la ricerca in vivo. Il suo funzionamento risponde ai criteri della Good Laboratory Practice e le attività di ricerca al suo interno sono condotte nel rispetto delle disposizioni recate dal d.lgs. n. 116 del 1992 di attuazione della direttiva (CEE) n. 609/86 in materia di protezione degli animali utilizzati a fini sperimentali o ad altri fini scientifici.

Le attività di ricerca del DIFARMA non sono limitate al farmaco, ma si estendono anche ai medicinali di origine biotecnologica e ad altri prodotti salutistici.

Istituito Gli oggetti degli studi condotti dai ricercatori salernitani spaziano dai meccanismi fisiopatologici alla base della malattie acute e croniche, alla loro epidemiologia e prevenzione; dai meccanismi di azione dei farmaci, alle nuove metodologie di valutazione dei medicinali. La ricerca, tuttavia, non è volta soltanto ai prodotti, ma anche all’innovazione dei processi tecnologici di produzione dei medicinali nonché alla scoperta di nuovi metodi intelligenti di somministrazione dei farmaci. Di assoluto rilievo è la produzione di pubblicazioni scientifiche che ha permesso al DIFARMA di ottenere un’ottima valutazione da parte dell’Agenzia Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR).

L’innovazione e la sperimentazione investono anche la formazione: di recente è stato proposto e attivato un nuovissimo Corso di Laurea di primo livello in Gestione e Valorizzazione delle Risorse agrarie e delle aree protette.

Si tratta di un’offerta formativa multidisciplinare che si avvale della collaborazione di altre strutture dell’Ateneo salernitano che fornisce “strumenti tecnico-scientifici tesi a massimizzare l’efficienza delle agrotecniche, migliorare e valorizzare la qualità delle produzioni ottimizzando i costi, intervenire nella compatibilità ambientale delle produzioni e dell’agrosistema, con riduzione degli sprechi e dell’impatto ambientale”. Il nuovo Corso di Laurea è stato pensato e costruito in un’ottica di sviluppo del territorio locale mediante l’inserimento di professionisti agronomi dotati di competenze tecnico-scientifiche, ma anche gestionali e, per questo, in grado di valorizzare le ricchezze paesaggistiche e agricole. L’attenzione al mondo del lavoro e al futuro placement dei neolauereati è testimoniata dal lunghissimo elenco di aziende convenzionate con il DIFARMA per il tirocinio pree post lauream. L’eccellenza nella formazione e nella ricerca rappresentano la via d’uscita da una crisi ormai di lungo corso. L’elevata preparazione dei lavoratori di domani è la soluzione concreta alla fine del lavoro e al lento declino di un sistema di produzione superato e obsoleto. Il DIFARMA rappresenta un esempio di come l’università possa cambiare e adeguarsi alle esigenze del nostro tempo. Il successo di questa realtà, però, sta anche e soprattutto nei valori che ne ispirano l’attività. Il Dipartimento si presenta al pubblico come idealmente collegato alla Scuola Medica Salernitana di cui condivide i principi ispiratori, moderni e attuali:

il laicismo, la tolleranza e l’internazionalità, la collocazione non solo geografica, ma anche culturale, al centro del Mediterraneo, la tutela della salute dell’uomo intesa anche come promozione di uno stile di vita sano, la centralità dell’insegnamento e del rapporto tra docenti e studenti, la tutela delle pari opportunità.

Come non vedere in questo manifesto dei valori non solo una ricetta valida per un Dipartimento universitario, bensì il programma per il rilancio di una società stanca e afflitta dalle sue paure che proprio nella conoscenza potrebbe trovare la sua salvezza?

1 Cfr., L. Monforte, G. Zevi, Un’indagine sulla capacità manifatturiera in Italia dopo la doppia recessione, Questioni di economia e finanza, Occasional Papers, 302, Banca d’Italia, 2016 

2 La fonte dei dati riportati nel testo è il Rapporto Annuale curato dal Centro Studi di Farmindustria Indicatori Farmaceutici, giugno 2016, consultabile al sito www.farmindustria.it

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Bottles of medications and a bowls of weights. Manufacture of me

 

APULIA LANGOBARDURUM di Gianluca Anglana – Numero 7 – Aprile 2017

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L’epoca delle grandi migrazioni in Europa colmò un ampio arco di tempo, divaricatosi tra il III e il IX secolo. Fu come una slavina, appena annunciata da pochi grani di neve: dapprima si trattò di semplici razzie e scorribande, successivamente di vere e proprie trasmigrazioni di popoli. Con il progressivo indebolimento dell’Impero Romano in Occidente, queste ondate di oceani umani divennero sempre più frequenti e massicce fino a cristallizzarsi in apparati amministrativi e addirittura in regni associati1.

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APULIA LANGOBARDURUM

 

Dal caos liquido del Medioevo emerse una civiltà tuttora avvolta in una foschia di mistero e per questo affascinante: la civiltà dei Longobardi.

Nella sua Historia Langobardorum Paolo Diacono, monaco longobardo cui fu affidato il compito di narrare l’epopea della propria gente, ne dipinge in maniera plastica e protoromantica il momento del primo ingresso in Italia: “Quando dunque re Alboino giunse ai confini dell’Italia con tutto il suo esercito e con una moltitudine di popolo promiscuo, ascese un monte che si innalza in quei luoghi e lì contemplò quella parte d’Italia fin dove poté spingere lo sguardo”2.

Di certo, essi avvertirono il magnetismo esercitato sulla periferia europea dai fasti e dalla grandezza dei gangli centrali dell’Impero. Nel contempo, essi erano però divorati dall’ansia di distinguersi rispetto alle massime autorità del tempo, cioè rispetto al Papa di Roma e all’Imperatore di Costantinopoli4: lo fecero rivendicando a lungo il loro credo ariano e issando i vessilli del proprio indomito orgoglio germanico. Tra le loro icone più rappresentative scelsero San Michele, il milite per eccellenza, il vendicatore incaricato di punire il Diavolo che osò paragonarsi a Dio. La smania di tutelare il Simbolo e di aggiudicarsi il prestigio di uno dei più noti luoghi micaelici del mondo cristiano spinse il Duca longobardo Romualdo, nella seconda metà del settimo secolo, a muovere da Benevento verso il Gargano, per mettere il Santuario dell’Arcangelo al riparo dai frequenti saccheggi di profanatori provenienti da Est: fu allora che quei luoghi sacri volsero le spalle a Levante ed entrarono nella sfera di influenza germanica.

creature entrambe di natura divina e dal caratteristico equipaggiamento militare (la prima munita di una spada, la seconda di una lancia denominata Gungnir).Galvanizzati dai loro stessi successi militari, i nuovi conquistatori si avventurarono più a Sud, quasi seguendo la Linea di San Michele, quella retta immaginaria che l’Europa tatua su di sé tra punti talvolta equidistanti e sempre corrispondenti a Santuari dedicati al Monarca degli Angeli.

A testimonianza della presenza longobardica a Trani si citano oggi alcuni ritrovamenti funerari in pieno centro storico e l’antichissima Chiesetta di San Martino. La rapacità dei Duchi di Benevento ispirò, negli anni settanta del settimo secolo, un’altra difficile spedizione, destinata a culminare nella conquista del Salento settentrionale. Di queste turbolenze si trova cenno, ancora una volta, nell’Historia Langobardorum: “Romualdo, duca di Benevento, messo insieme un grande esercito, espugnò Taranto, e nello stesso modo conquistò Brindisi, sottomettendo al suo potere tutta la vastissima regione circostante”9. Si direbbe quasi che, col tempo, i Salentini abbiano rimosso il ricordo di Signori germanici e delle loro insaziabili truppe (forse perché la fede di costoro era in definitiva un’eresia e quindi una devianza rispetto all’ortodossia romana).

Il loro territorio fatica invece a scrollarsi di dosso il proprio passato.

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Ai Longobardi, figli bellicosi delle gelide lande del Nord, la Penisola, fertile e ricca di auree città, dovette forse apparire una sorta di Terra Promessa3.

Monte Sant’Angelo è un sito di notevolissima rilevanza di ordine storico-artistico, tanto da essere annoverato nella lista dell’Unesco.

La sua struttura colpisce per una peculiarità: nelle viscere del Santuario vero e proprio si apre una cavità rupestre, dove la fede attesta un’Apparitio dell’Arcangelo. È questo il dettaglio che desta maggiore interesse e che potrebbe avere agganciato la memoria genetica dei guerrieri dalle lunghe barbe; il tema della “grotta”, come luogo sacro, infatti, rinvia al prodigio di cui parla ilDiacono: “Negli estremi territori della Germania, verso nord-est, sulle rive dell’Oceano, sotto un’alta rupe si scorge un antro nel quale sette uomini, non si sa da quanto tempo, riposano assopiti in un lungo sonno, così integri non solo nei corpi ma anche nelle vesti, che (…) sono oggetto di venerazione per quelle genti incolte e barbare (…)”5.

Insomma, Monte Sant’Angelo era, in Italia, ildove in cui replicare l’ancestrale immaginario norreno6, sia per la sua morfologia sia per le analogie iconografiche tra l’Arcangelo Michele e il Dio germanico Wotan7,

L’antica Tarenum, il municipio romano oggi noto come Trani, fu strappata a Bisanzio dai Longobardi, che ne rinforzarono le strutture difensive e ne ampliarono il perimetro8.

Muovendosi ancora più in giù, lungo la Linea di San Michele, si arriva a Crepacòre, nel brindisino. Una terra la cui avvenenza si apprezza anche quando il sole latita e grossi nembi fluttuano bassi,

quando le nubi sembrano un battaglione lanciato all’attacco contro un nemico invisibile e si muovono minacciose, di quella rapidità con cui si compone e si disfa il mutevole cielo invernale di Puglia. Rotolano, rimbalzano, si avvinghiano l’una all’altra e si accalcano vorticosamente, gettando di quando in quando occhiate violente sull’erba e sulla terra bagnata. In simili giornate, bave di luce trafiggono le masse d’aria come lunghe spade, al punto da quasi poter vedere il braccio dell’Arcangelo fendere le nuvole come un missile, allungarsi sul mondo degli umani e puntargli contro lame incandescenti. Crepacòre ha già solo nel nome l’evocazione di una bellezza tagliente. Quella che un tempo fu la Messapia ha, qui, conservato il suo aspetto più selvaggio e autentico. Qui, la monotonia della sonnolenta pianura salentina si perde, il terreno si arriccia in declivi e si solleva in alture inaspettate, le coltivazioni fanno posto a piccole selve.

Nel notoriamente assetato Salento fa un certo effetto scorgere un rio, il cui timido serpeggiare tra le campagne è tradito dal nastro verde della vegetazione e dall’ondeggiare dei canneti. É il canale di Galesano.

Volendo prestare fede ad alcune teorie, questo rigagnolo, assieme ai terrazzamenti circostanti, potrebbe essere una delle prove dell’esistenza del Limitone dei Greci, ovvero il mitico Limes tra i territori bizantini e i possedimenti longobardi. L’ipotesi ottocentesca di un confine fisico tra i due domini in perenne e cangiante frizione tra loro è in verità di recente avversata, soprattutto a causa di un’endemica mancanza di riscontri oggettivi. Da più parti si sostiene ormai che il Limitone dei Greci, come enorme muro di confine, non sia mai realmente esistito: in caso contrario, esso avrebbe avuto la stessa imponenza del Vallo di Adriano. Non pare plausibile che il cosiddetto Paretone fosse un mastodontico sistema di muraglie. Per spiegarne la natura è forse opportuno ricorrere al concetto che i Romani avevano di Limes: un complesso sistema di mura e palizzate con scopi dichiaratamente difensivi. Si pensi ad esempio al Limes Germanico-Retico che era nulla più che una palizzata alta circa tre metri e che, con fortificazioni e torri, correva lungo un fossato per oltre cinquecento chilometri. Di questa struttura, in Germania, non resta quasi più nulla, ma nessuno si arrischia per questo a giurare che essa non sia mai esistita. A sostegno di questa tesi, taluni segnalano in particolare che“a proposito dei fondi militari romano-bizantini, si è studiato di dimostrare che nelle provincie greche dell’Italia meridionale persistette il sistema adottato dai primi tempi dell’Impero romano a difesa dei paesi di confine, ponendo fra l’altro in risalto che dove mancavano ripari naturali (fiumi, monti, clusurae), se ne costruivano di artificiali, indicati a preferenza con la parola limes”10. Altri propugnano che“in conclusione, la frontiera bizantino-longobarda pugliese appare come una zona di fluttuazione, di integrazione o di contiguità di influenze, che non sembrano arginate da frontiere stabili e durature”11.

Questa reciproca compenetrazione culturale ha dato i suoi frutti, come la splendida Chiesetta di San Pietro in Crepacòre, rarissimo punto di sintesi tra le due culture antagoniste: quella greca e quella longobarda.

Circondato da una natura più sensuale che mai e da una minuscola necropoli, il tempietto di San Pietro colpisce in primo luogo per le sue cupole in asse, caratteristica tipica delle costruzioni sacre di matrice longobardo-beneventana L’interno, un tempo completamente affrescato, conserva oggi solo una parte delle sue pregevoli raffigurazioni agiografiche. Ciò che ne resta è comunque di straordinaria fattura. Tra gli affreschi si legge, in greco, un’iscrizione votiva: “Questo tempio è stato edificato per la remissione dei peccati del servo di Dio … e della sua consorte Veneria e dei loro figli. Amen”. L’identità dell’agiato committente è rimasta a lungo ignota: grazie a recenti studi, si è potuto ipotizzare che il misterioso VIP fosse un certo Gaiderisio, principe beneventano e quindi di alto lignaggio longobardico, chiamato ad amministrare la città di Oria, “nodo strategico nei collegamenti via terra fra Jonio e Tirreno e “porta” del Salento per chi provenisse da Settentrione”12. Accedere in questi luoghi, farsi largo nella boscaglia, risalire o discendere queste alture seducenti è un po’ come varcare unoStargate aperto su una dimensione temporale semignota, gettarsi a capofitto nella cisterna del passato e naufragare sui lidi di altre ere, quando sentinelle di popoli in stato di costante belligeranza si scrutavano l’un l’altra sui terrapieni di confine e sul ciglio dei tempi.

 

1 Cfr. Federico Zeri, Dietro l’immagine, TEA (1987), p. 36.

2 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, BUR, p. 243. Questa evocazione, quasi cinematografica, è carica di atmosfere oniriche, come alcune opere del pittore tedesco Caspar David Friedrich, e tradisce il pulsare di alcune peculiarità della Germanitas, che in fondo non sono mai del tutto scomparse.

3 Bruno Luiselli, La Società longobardica del secolo VIII e Paolo Diacono storiografo tra romanizzazione e nazionalismo longobardico, BUR, p. 18.

4 Si ricordi che lo Scisma d’Oriente avvenne nel 1054. 

5 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, BUR, p. 151. 

I Longobardi, che in origine si sarebbero chiamati Vinnili, originerebbero dalla Scandinavia (v. UTET, 1967, XI – p. 445.). 

7 Wotan, alias Odino, è la divinità principale della mitologia germanica. 

8 Si tramanda che furono proprio i Longobardi a inglobare nel tessuto urbano di Trani la zona ebraica, prima di essi fuori le mura. 9 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, BUR, p. 485.

10 G. Antonucci, Note critiche di Japigia, a. IV, pp. 78-80.

11 G. Stranieri, Un Limes bizantino nel Salento? La frontiera bizantino-lomgobarda nella Puglia meridionale. Realtà e mito del Dzlimitone dei grecidz, p. 7. In questo interessante studio si assume che Dzperfino qualora la consistenza storica del limitone dei greci dovesse essere provata, in definitiva, esso dovrebbe essere visto piuttosto come una linea di delimitazione o di dissuasione che non come una muraglia confinariadz.

12 Dizionario biografico Treccani.it. 

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QUANDO LA TRECCANI NON CONOSCEVA LA MOZZARELLA di Francesco Festuccia – Numero 7 – Aprile 2017

QUANDO LA TRECCANI NON CONOSCEVA LA MOZZARELLA

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Scrivere una possibile o impossibile storia della mozzarella è come addentrarsi in una materia molle che ricorda proprio la consistenza della mozzarella stessa. Pochi i testi certi, come incerta è la “certezza” del nome, anche se “mozza” deriva sicuramente da mozzato, tagliato.

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     e ricerche, sia sui testi che nello sterminato mondo di Internet, danno risultati contraddittori e, a volte, sorprendenti. Basti mettere a confronto due totem del  passato e del presente.

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Andando a sfogliare le polverose pagine della Bibbia delle definizioni, cioè l’enciclopedia Treccani – che ha fatto bella mostra in tante case importanti, nel suo mobile dedicato – nell’edizione del 1934, alla voce Mozzarella, non si trova nulla. Incredibile a pensare: non esiste nella Treccani di quegli anni – summa di tutto lo scibile umano – la voce “mozzarella”. Insomma, la mozzarella proprio non sembrava aver cittadinanza: anzi, solo cercando più a fondo, alla voce “bufalo”si trova: “La femmina produce 1200/2000 litri di latte all’anno che viene trasformato in mozzarella”. Un po’ meglio se si va al dizionario enciclopedico della Treccani del 1958, nel quale testualmente si legge: “voce meridionale diminutivo di mozza, tipo di formaggio, latticino magro tipico della Campania, prodotto con latte di bufala. La cagliata viene cotta nel siero finché diventi filante poi è tirata in cordone e tagliata a pezzi di circa mezzo chilo da consumare fresca e cotta”. E aggiunge, come “figura regionale”: “essere una mozzarella, persona fiacca e lenta”.

Non solo la mozzarella viene citata poco o niente, ma più che altro passa, anche, come termine derisorio. Se ci pensiamo bene non a torto.

Chi non ha avuto un compagno di scuola o, magari, un parente a cui è stato affibbiato il termine “mozzarella”, perché era un tipo moscio, giusto come una mozzarella. Moscio, diremo morbido, che per una mozzarella vera è una bella cosa, perché si taglia facilmente e altrettanto morbidamente si scioglie in bocca; mentre, certo, per una persona, non è un granché di qualità. Così come si usa nello slang della pallavolo, sinonimo di tiro senza energia… e poi quante volte pensando al colorito di una persona in costume sulla spiaggia abbiamo detto: “è una mozzarella”. A dire il vero, questa ultima derisione sta passando di moda, visto che la tintarella ora è un po’ meno trendy, mentre, per la mozzarella stessa, il bianco è un bel complimento dal momento che se vira al giallastro non è un buon segno di conservazione e se vira al blu, addirittura, va a finire sui giornali come emblematico e, forse, fin troppo rumoroso caso di “avvelenamento”.

Secondo l’enciclopedia internettiana, le prime notizie si hanno in un documento longobardo. Secondo queste fonti, già nel XI secolo, la principessa Aloara, vedova del principe di Capua, Pandolfo Testadiferro, distribuiva una “mozza” – un pezzo di pane – ai monaci dell’abbazia di San Lorenzo ad Septimum, alle porte di Aversa. Secondo altri, la mozzarella l’avrebbero inventata i monaci stessi. Mentre le bufale si trovavano nelle vallate acquitrinose, i conventi erano invece sulle alture; per trasportare meno peso, il latte veniva lavorato con un procedimento veloce direttamente sui pascoli, concentrandolo in un latticino che poi veniva portato su in convento. Secondo altri, invece, gli inventori della mozzarella sarebbero stati i Normanni la cui contea-città era Aversa. Dell’uso della lavorazione e del consumo dei prodotti derivati dal latte di bufala (il casicaballus, il butyrus, la recocta, il provaturo) abbiamo attestazioni in documenti del XII secolo conservati presso l’archivio episcopale di Capua.

Ognuno sembra voler prendere una primogenitura e, allora, prima del famoso cuoco della corte papale Scappi, a cui si deve il primo uso ufficiale nel 1570, ecco ritrovata, nel 1481, una denominazione di “mozza” del fiorentino Paolo Rucellai.

E, allora, andiamo per altre doverose citazioni: prima di t
utte, a fare da
contraltare alla Treccani, quella su Internet di wikipedia che,
anche qui, poco ci
aiuta e, per approfondire, ci rimanda alla voce
mozzarella di bufala campana
.
E qualche cenno sulla storia c’è, anche se la certezza manca.

 

Anche se le denominazioni (mozza-provatura) variano a seconda dell’epoca, in tutte le fonti citate, una sola cosa sembra certa: tutte queste denominazioni hanno voluto indicare sempre quella che oggi viene chiamata mozzarella. E allora, vista la varietà e anche la contraddittorietà delle fonti, andiamo a scomodare illustri dizionari. Dagli Accademici della crusca, che parlano di Mozza come “sorta di cacio fatto con il latte”, al vocabolario della lingua italiana di Scarabilli, secondo cui “così chiamavansi certi piccoli caci chiusi in una vescica e legati a mezzo. Usano massimamente nel napoletano dove la chiamano mozzarella”; dal dizionario Palazzi che, alla voce provatura, dà “formaggio molle fresco che si prepara nel napoletano con latte di bufala” al vocabolario Basilio Puoti napoletano-toscano, che la definisce “qualità che si fabbrica col latte di bufala”; al vocabolario napoletano-italiano di R. Andreoli, che dice “latticino che non usa in Toscana ed al quale dovrà mantenersi il nome di mozzarella derivato da mozza”. E qui, in questa complessa e fumosa storia di definizioni e primogeniture, ci vengono in aiuto le parole di un medico senese – autore di una monumentale opera di divulgazione più volte ripubblicata nel XVI secolo – che dice del latte di bufala “di cui si fanno quelle palle legate con giunchi che si chiamano mozze e a Roma provature” per far comprendere il rapporto mozza provola.

In qualsiasi dizionario della lingua italiana – recente o meno – provola viene fatto derivare da provatura, mentre, a definire il legame mozzarella/provatura, c’è un documento del 1873 – ancora un vocabolario napoletano-toscano domestico – che definisce la mozzarella “piccola forma poco più poco meno di un uovo di provatura fresca”.

A questo punto, vale la pena di citare lo storico Migliorini che descriveva cosa succedeva nella Piana del Sele intorno alla metà dell’800: “le mozzarelle non erano destinate al commercio, ma si confezionavano per uso familiare e il latte bufalino serviva per la lavorazione di provole affumicate per salvaguardare la crosta dal deterioramento”. E qui, continuiamo ad attingere ai pochi dati storici arrivati a noi. Se nel mercato di Capua sembra che fin dal 1500 ci siano tracce di mozzarelle accompagnate dalle provole, i dati archivistici sembrano dimostrare come, nella non lontana Castelvolturno, pervenissero solo provature, Le Assise di Napoli, poi, confermano, per quello stesso periodo, la presenza su quel mercato solo di provature affumicate e fresche; invece, la mozzarella, accompagnata da provole, sembra comparire solo dal 1720, per diventare più frequente dal 1780 in poi. Insomma, chi faceva mozzarella lo faceva ad uso e consumo privato: cibo non povero, ma poverissimo, tanto da non poter essere nemmeno commercializzato e che avrà una trasformazione in prelibatezza solo tanti anni dopo.

E, allora, andiamo per altre doverose citazioni: prima di tutte, a fare da contraltare alla Treccani, quella su Internet di wikipedia che, anche qui, poco ci aiuta e, per approfondire, ci rimanda alla voce “mozzarella di bufala campana”. E qualche cenno sulla storia c’è, anche se la certezza manca.

E, allora, andiamo per altre doverose citazioni: prima di t
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contraltare alla Treccani, quella su Internet di wikipedia che,
anche qui, poco ci
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E qualche cenno sulla storia c’è, anche se la certezza manca.

 

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A TRANI SI RESPIRA IL SUD CHE TI AMMALIA di Giorgio Salvatori – Numero 7 – Aprile 2017

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Ciò che, per brevi cenni, qui raccontiamo è la bellezza, il fascino intatto di una città che, per armonia architettonica del suo centro storico, giacimenti culturali ed artistici e ordine urbano, si presenta al visitatore come uno straordinario esempio di Sud da conservare ed imitare.

 

Non soltanto da quell’altro, opaco Meridione, urbanisticamente e socialmente degradato, che ci viene quotidianamente offerto in pasto da impietose cronache televisive e articoli di giornali, ma anche da molte città del più prospero e celebrato Nord italiano.

 

Abbiamo scoperto Trani, l’antica Turenum, grazie all’incontro, organizzato nel suo splendido polo museale, per presentare la sesta edizione del nostro trimestrale. 

 

Non vogliamo autoincensarci descrivendo nei dettagli la cronaca del successo di una manifestazione che ha avuto la regia, questo va detto, di un autorevole personaggio della terra che ci ospitava, il magistrato Giannicola Sinisi. 

 

Va ricordata con calore, invece, la lieta memoria che tutti custodiamo dell’apparire improvviso di una visione stupefacente: il porto incastonato in una cornice impeccabile, il mare luminoso che lo bagna, le mura e il castello federiciani, la chiara cattedrale, l’allegro sciamare di visitatori di ogni lingua e nazionalità, la disciplinata attesa dei pescatori, sul molo, intenti a sciorinare, senza fretta, la propria merce.

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Trascuriamo volontariamente le crude cifre che mostrano come anche Trani (perché è di lei che stiamo parlando) non sia stata risparmiata dalla recente crisi economica internazionale e dal più antico, lento declino del nostro Meridione. 

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L’UTOPIA POSSIBILE DI GIBELLINA di Nicolò Stabile – Numero 1 – Luglio 2015

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È un’opera che si sottrae a qualsiasi tentativo di catalogazione. Letteralmente costruita con le pietre e le cose che furono strade, piazze, case, stalle, negozi, laboratori, scuole, chiese, ma anche un teatro all’italiana, un castello chiaramontano del XIV secolo… è il sepolcro e la matrice perduta di un piccolo paese del Sud, ricostruisce percorsi ideali, spaziali e temporali tra la memoria e il presente, tra i vivi e i morti. La sua storia è complessa. Iniziata nel 1979, non è ancora conclusa. Ha avuto un deus ex-machina, Ludovico Corrao, sindaco di Gibellina dal 1970 al 1994, che come Fitzcarraldo sapeva che chi sogna può muovere le montagne. Siamo alla fine degli anni Settanta. Mentre stiamo scontando un surplus di pena che dura da un decennio in baracche gelide d’inverno e roventi d’estate, i nuovi centri urbani (alcuni, come Gibellina, lontani dai vecchi centri) cominciano a prendere forma. Sono stati disegnati a tavolino in un ufficio romano da un manipolo di urbanisti che pensavano (come hanno scritto nella relazione di progetto) di sradicare la mafia costruendo strade larghe per mettere distanza tra gli abitanti. Nessun ascolto delle istanze e delle esigenze delle comunità locali, anzi: per legge i Comuni vengono esautorati da qualsiasi potere decisionale.

Ludovico Corrao, impotente sulle scelte urbanistiche imposte dallo Stato, ma consapevole della loro bruttezza, e convinto che le case da sole non bastino a far rinascere il senso di comunità e di attaccamento, e che alla ricostruzione bisogna dare un senso alto in cui la bellezza sia motore e legante, chiama a raccolta artisti, intellettuali e uomini di cultura, per cercare di renderla più bella di prima.

La mattina del 23 maggio 1987 Burri vede per la prima e ultima volta il suo Cretto: sembra deluso, non dice quasi nulla. Gli manca probabilmente il punto di vista dall’alto a cui l’aveva abituato la maquette. Gli manca, malgrado le dimensioni, quel senso di grandiosità che aveva immaginato. La visita dura meno di un’ora, appena in tempo per immortalare in uno scatto l’incontro tra l’artista e la sua opera. 

Nell’89 si fermano i lavori, all’80% del totale, per mancanza di risorse. Corrao riesce a farsi finanziare dalla Regione il completamento, ancora una volta presentando il progetto non come opera d’arte, ma come sedicente «parco urbano». Ma non fa in tempo a far partire la macchina burocratica. Dopo più di vent’anni, la gente di Gibellina non lo vuole più sindaco, e nel 1994 Corrao non sarà rieletto. Chi verrà dopo di lui, scientemente, riuscirà a far perdere quel finanziamento e da allora per il Cretto inizia un lento abbandono. 

Passano gli anni e il bianco diventa grigio. I ferri sotto la superficie arruginiscono facendo staccare pezzi di cemento. Qualche piccolo crollo, distacchi, crepe. Nessuna manutenzione, a parte qualche pulitura dalla vegetazione che inizia a infestarlo. Ai Ruderi nessuno va quasi più, sempre meno le occasioni di riunirsi lì. Del Cretto quasi ci si dimentica. Anche Burri non ne parla volentieri. Come aveva previsto, morirà (nel 1997) senza averlo visto ultimato. 

Poi sulle corona di colline che lo circondano, laddove fino a qualche anno prima c’erano giovani boschi, appare una batteria di pale eoliche. Il Comune pensa bene ci sia bisogno di un parcheggio, e lo realizza, a ridosso dell’opera, dello stesso cemento bianco: da lontano sembra una metastasi del corpo quadrangolare del Cretto. Con lo stesso materiale si ripavimenta il pezzo di strada provinciale che ne lambisce un lato, slabbrandone la forma. Nessuna levata di scudi contro questi macroscopici interventi pubblici che violentano l’idea di Burri. Vandalismo istituzionale. 

L’idea di lanciare un appello in favore del Cretto, perché “si restaurasse e completasse e se ne assicurasse la conservazione a futura memoria”, mi venne un pomeriggio di inizio estate del 2010 parlando con Ludovico Corrao, già molto malato, ma non per questo rassegnato. Non poter vedere il Cretto finito era per lui motivo di grande tristezza. L’appello viene firmato da un centinaio di personalità dell’arte e della cultura e inviato al Ministro e all’Assessore regionale. Neanche due mesi dopo, in una nota congiunta del Ministero, il sottosegretario e l’assessore dichiarano che l’appello non rimarrà inascoltato. Il Ministero mette subito dopo a disposizione per il restauro 1.100.000 euro dei fondi del lotto. La Regione prende tempo per quanto riguarda il completamento, l’assessore insiste perché si ricorra ai privati. Non riesco a farlo ragionare. Comincio a pensare che bisognerà inventarsi qualcos’altro… 

Poi, il 7 agosto del 2011, Ludovico Corrao muore ucciso dal suo badante con un’esecuzione che sa di tragedia greca. Tre giorni dopo, sul sagrato della Chiesa Madre di Gibellina, mentre stiamo dando l’estremo saluto al Senatore, l’assessore Missineo mi prende sottobraccio e sull’onda dell’emozione mi dice che troverà i fondi necessari per il completamento, che lo deve anche a Corrao (e manterrà la promessa). 

L’ultima montagna il Senatore l’ha spostata con la propria morte. 

I lavori del Cretto sono stati completati qualche settimana fa. La parte nuova, del bianco candido voluto da Burri, evidenzia ancora di più il grigiore della parte vecchia, creando una stridente dissonanza. 

Cosa fare per assicurarne “la conservazione a futura memoria”? Come uniformare la parte vecchia con la nuova?

Della necessità che la manutenzione di quell’opera straordinaria avesse bisogno di un approccio altrettanto straordinario ne avevo parlato con Corrao. Per lui era 

chiaro che

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1 Stefano Zorzi, Parola di Burri, U. Allemandi & Co, 1995; p. 59.
2 idem
3 idem, pag 60

 

L’UTOPIA POSSIBILE DI GIBELLINA

 

Scrive Sciascia nel discorso che pronunciò a Gibellina il 15 gennaio 1988 per il ventennale del terremoto: «Lo Stato italiano – bisogna pur dirlo – non era pronto né incline ad accogliere un’istanza di ricostruzione che non fosse una ricostruzione della miseria: si sperava forse, appunto, nella fuga, nell’abbandono, “nell’aprir bottega altrove”; e ne è dimostrazione il fatto che la cosiddetta legge del due per cento, la legge che devolve il due per cento della spesa per le opere pubbliche agli abbellimenti artistici, sia stata sospesa e invalidata per la ricostruzione di questi paesi. Vietata l’arte, vietata la bellezza: quasi si volesse che tutto fosse più brutto di prima, che la gente non riconoscesse e non si riconoscesse. Intenzione o inconscio desiderio o semplicemente carenza, nella classe di potere, di una sia pur vaga idea di ciò che abbellisce la vita e la fortifica, che più volte, qui intorno, è andata a segno; ma che qui a Gibellina ha trovato un centro di resistenza. [Ludovico Corrao] ha dato insomma il senso che la vita non è altrove, ma che può essere anche qui».

Gli artisti rispondono all’appello di Corrao e la nuova Gibellina, che lo Stato voleva più brutta della vecchia, si anima d’arte. Negli anni Ottanta diventa un laboratorio permanente delle arti, un crocevia di artisti, e un museo a cielo aperto. Corrao riesce a convincere anche il non facile Burri a venire a Gibellina. Succede nell’estate del 1979.

L’idea gli viene la sera stessa: «Io farei così: compattiamo le macerie, che tanto sono un problema anche per voi, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti un perenne ricordo di questo avvenimento»2.

Per poter realizzare i lavori, Burri sogna la partecipazione attiva e fattiva dei gibellinesi (solo molto tempo dopo gli arriverà all’orecchio, e sarà motivo di grande tristezza, che a molti il Cretto non solo non piace, ma da più d’uno è vissuto come una violenza).

Per reperire fondi, materiali, forza lavoro, Corrao s’inventa mille stratagemmi. Coinvolge persino l’esercito che presta cinque ruspe e forza lavoro. Opera una sorta di geniale e benevola concussione ai «danni» dei costruttori che in quegli anni realizzano opere pubbliche a Gibellina Nuova: chiede loro di donare la costruzione di un po’ di Cretto. E accettano, contenti e orgogliosi di farlo. Allo Stato non può chiedere aiuto: e lui dà incarico ai tecnici del Comune di preparare un progetto in cui i lavori per il Cretto siano camuffati da «opere di sistemazione idrogeologica del vecchio sito urbano». Lo Stato ci casca e, raggirato dal genio di Corrao, diventa inconsapevole cofinanziatore del Cretto.

Nel 1985 la cosa inizia a prendere forma, a farsi spazio tra le macerie. Burri segue da lontano, attraverso l’amico Alberto Zanmatti. Zanmatti sarà il legame tra Burri e il Cretto di Gibellina. Ai tecnici e agli operai il compito di inventare soluzioni tecnologiche per tradurre quelle raccomandazioni in forma.

Qualche anno dopo, alla domanda se nel bozzetto fossero riportate anche le ondulazioni che caratterizzano le pareti del Cretto, Burri risponderà «no, quelle devono crearle di volta in volta con le tavole e le lamiere…. ma dico, devo insegnarglielo io il mestiere?»3.

Misura 270 per 310 metri. Ricopre come un sudario di cemento bianco le macerie del paese distrutto dal terremoto del 15 gennaio 1968. Al centro della Sicilia occidentale, in un territorio ad alta stratificazione culturale, sta a metà strada, in un ideale dialogo senza tempo di assoluta bellezza, tra le imponenti colonne della greca Selinunte, e la magnifica solitudine del tempio dell’elima Segesta. 

Burri arriva con tutti i suoi preconcetti sul Sud e i suoi abitanti. La nuova città non lo ispira, e non lo tenta l’idea di lasciare un’opera accanto a quelle di artisti che non ama: «Qui non ci faccio niente di sicuro»1. Ma poi visita i Ruderi – deve aver sentito quel silenzio rotto solo dal gracidare dei corvi, in quel paesaggio di colline che sconfinano fino al mare d’Africa – e quasi si commuove.

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il Cretto di Gibellina non era un’opera d’arte come le altre e che oltre l’idea c’è il dato oggettivo: è il sepolcro del vecchio paese, sotto la sua superficie di cemento realizzate non dalla mano del Maestro ma da muratori e carpentieri, ci sono i ricordi, la storia e le radici di tutta la comunità gibellinese.

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E’ un’opera attraversabile. Più che una scultura è architettura. Ed è stata pensata e voluta da Burri bianca, di un bianco talmente squillante da essere quasi disturbante. 

Burri, come già ricordato, avrebbe voluto che fosse la comunità di Gibellina a realizzarlo. D’altronde, la sua opera è stata donata alla cittadinanza, e la cittadinanza, sebbene espropriata del titolo di proprietà delle proprie case non più esistenti, ne è moralmente proprietaria e quindi custode. Anche su queste basi si ragionava con Corrao, e l’idea che il Cretto andasse ripulito e imbiancato periodicamente dalla comunità (con la calce, materiale povero che disinfetta e disinfesta, facile da usare, e che ci riporta a una tradizione di tutta l’aerea del Mediterraneo) ci sembrava l’unica strada percorribile. L’alternativa sarebbe un restauro conservativo di ispirazione brandiana, un modello giustamente diventato prassi nelle soprintendenze italiane, ma che ha i suoi limiti oggettivi e nessuna ragione valida che impedisca la sua revisione in presenza di opere contemporanee e inclassificabili qual’è il Cretto. Un modello che proprio partendo da una discussione sul caso specifico del Cretto potrebbe trovare validi e utili spunti per fare il punto, rinnovare, superare, anche attingendo da visioni e prassi diverse, prime fra tutte quelle di scuola anglosassone. 

Un’altra considerazione credo vada fatta, senza per questo volere piegare la filosofia che sta alla base di un intervento di questo tipo a ragioni puramente economiche. Non possiamo però far finta di non considerare i costi insostenibili di un restauro conservativo, e la necessità che esso venga ripetuto spesso. Chi dovrebbe sostenere tali costi? Il Cretto non deve morire, ma non può neanche trasformarsi in un buco nero di soldi pubblici. Anzi, dovrebbe diventare, grazie ad azioni mirate che ne assicurino la promozione e la visibilità, un bene culturale comune capace di attirare turisti e di conseguenza, se ben gestito, produrre economia. 

Ma il vero nodo da sciogliere per assicurare al Cretto un futuro sta nel rapporto tra il sito dei Ruderi e la sua gente. Il Cretto è stato vissuto all’inizio come un corpo estraneo, una violenza contro quelle macerie che nella loro povera fisicità erano però capaci di alimentare un rapporto fortemente sentimentale. L’iniziale rifiuto di quell’opera ha come aumentato la distanza fisica (18 km) tra la Nuova e la vecchia Gibellina, una distanza poi cresciuta per l’indifferenza verso un’opera lasciata a metà. 

La necessità di un restauro partecipato e attivato dalla Comunità parte prima di tutto come necessità di creare un nuovo rapporto con l’opera di Burri e con l’intero sito dei Ruderi. Ed è partendo da questa necessità che dovrebbe essere progettato e messo in atto. Dovrebbe prima di tutto essere un’opportunità per ritrovarsi in un momento di festa e rituale in cui la popolazione si riappropria del luogo e dei simboli a esso riconducibili. Dovrebbe essere non solo economicamente sostenibile, ma capace di produrre economia e quindi vantaggi diretti. E deve chiaramente servire a mantenere costantemente visibile l’idea di Burri, nella sua originale e fondamentale cromia.

Per la gente di Gibellina sarebbe un modo per rompere l’incantesimo dell’umana nostalgia di un passato mitizzato dall’evento tragico del terremoto e di quello che ne è seguito, per finalmente accettare il presente, e cominciare a investire nel futuro.

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Un restauro fatto in tale modo, coinvolgendo i molti artisti che hanno già dato disponibilità a partecipare, diventerebbe un evento perfetto per la comunicazione, uno strumento straordinario di promozione mediatica, estremamente efficace per attrarre volontari, pubblico, flussi turistici, e sponsor privati. 

Questi ultimi tre anni ho avuto modo di condividere quest’idea con restauratori, esperti di materiali del contemporaneo, storici dell’arte, curatori. Con artisti, musicisti, performer. Con le persone che più di tutte sono state vicine e hanno collaborato con il Maestro negli anni in cui si costruiva il Cretto. Con la gente di Gibellina. E con le istituzioni che devono decidere, Comune di Gibellina e Soprintendenza di Trapani. A parte queste ultime, legate all’idea di restauro conservativo, tutti hanno accolto con entusiamo l’idea e il suo senso profondo. 

Il progetto di Corrao incarnato da Gibellina, esemplarmente sintetizzato dal Cretto di Burri, fondato sull’idea mediterranea che la bellezza rigeneri in un approccio maieutico, sulla necessità di rivivere, riattivandoli, i miti fondanti della nostra civiltà, è stato finora, non a torto, considerato un’utopia.

Il restauro partecipato segnerebbe il passaggio tra l’utopia e il presente, e il Cretto, finalmente, diventerebbe l’opera d’arte totale che Burri sognava di realizzare.

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SANDRO RUOTOLO di Gaia Bay Rossi – Numero 1 – Luglio 2015

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e nella denuncia delle illegalità in Campania, sua terra d’origine.
Recentemente i suoi importanti servizi sulla terra dei fuochi hanno fatto infuriare il boss camorrista Michele Zagaria che è arrivato a minacciare di morte il giornalista. Per questo, dal mese di maggio 2015, il prefetto di Roma, Franco Gabrielli, ha deciso di assegnargli un servizio di scorta.

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Chiediamo a Sandro Ruotolo un punto di vista, dalla sua esperienza, sulla situazione di Napoli e del sud Italia.

Napoli mi ha trasmesso tutto, soprattutto dal punto di vista professionale: ho infatti iniziato lì la miacarriera e la cosa straordinaria è stata la cronaca, nel senso che tu potevi seguire l’efferato omicidio di camorra e poi avere il summit dei ministri della cultura europei. Quindi è stata una formazione che mi ha consentito di spaziare a 360 gradi. Mi ricordo quando ci fu il colpo di Stato in Libia, con gli americani che intervennero con la portaerei Nimitz, una delle imbarcazioni di guerra più imponenti mai costruite, e questa, dal Golfo della Sirte, passò poi per Napoli e noi ci occupammo dell’avvenimento. Napoli è una città che professionalmente ti dà tante occasioni. Abbiamo avuto l’opportunità di seguire la cronaca ma anche tutti i processi importanti, Enzo Tortora, Elena Massa, che era una giornalista del Mattino, e poi tutti i processi alla camorra. Però, differentemente da tutta quella generazione di giornalisti che oggi sono i “giornalisti per eccellenza”, come Luigi Ferrarella del Corriere della Sera o Peter Gomez che è diventato direttore del Fatto Quotidiano.it, noi abbiamo avuto una formazione più a 360 gradi, e questa è stata la scuola di Napoli.

Napoli certamente dà delle opportunità, anzi proprio in una realtà del genere il talento è piùvirtuoso, cioè emerge di più. Il problema di Napoli, ma non solo di Napoli, è che oggi le intelligenze espatriano, per cui hai ricercatori straordinari che girano il mondo, anche se questo è un problema che riguarda tutto il Paese Italia. Poi, certo, ci sono delle eccellenze: pensa al marchio Marinella nel settore della moda, ma anche all’importanza del settore industriale. Napoli ti dà la possibilità di emergere anche nella complicazione dello stato di fatto. Ricordo Luigi Compagnone, che era uno scrittore e giornalista napoletano, che dava questo quadro di Napoli: un grande arcipelago di isole, dove però non c’è la connessione. Quindi ci sono delle eccellenze che però o emigrano o restano isolate perché non c’è un tessuto industriale. Nel dopoguerra c’è stato al nord lo sviluppo industriale, poi negli anni ’60/’70 qui si è pensato di realizzare le famose cattedrali nel deserto senza valorizzare il territorio meridionale. Si pensava che l’industrializzazione portasse benessere e poi, invece, abbiamo visto i suoi effetti tipo l’acciaio a Taranto e a Bagnoli. Abbiamo visto anche che cosa significa l’industria pesante per l’ambiente, per lo sviluppo e l’ecologia. Oggi c’è una sensibilità completamente diversa anche nel sud Italia. Però, sicuramente, delle eccellenze ci sono e sono molto più diffuse di quello che non traspare dai mezzi di informazione.

Come si può descrivere Napoli senza rimanere intrappolati negli stereotipi?

Andando nella sua periferia. Perché sicuramente Napoli è Piazza Plebiscito, il Maschio Angioino,Mergellina e tutte le altre bellezze mozzafiato che costituiscono il patrimonio di Napoli. Però la bellezza vera di Napoli la devi avere risolvendo le problematiche che ci sono in periferia. Non dobbiamo più pensare che tutto si risolva nei vecchi centri urbani, oggi le città si sono allargate e nelle periferie vive quello che definiamo il ceto popolare, che una volta era anche il ceto operaio. Beh, anche quella è la vera Napoli e solo risolvendo i problemi di quelle persone puoi risolvere una città e farla progredire.

Chi e quali sono le eccellenze di Napoli e della Campania?

Sei nato a Napoli, cosa ti ha trasmesso questa città durante la tua crescita e formazione?

Braccio destro di Michele Santoro a “Servizio Pubblico”, Sandro Ruotolo è un giornalista napoletano di grande esperienza. Ha iniziato la sua professione nel 1974 per il quotidiano Il Manifesto, entrando poi alla RAI e passando successivamente a Mediaset e a La7. Ha collaborato con numerosi programmi televisivi d’inchiesta tra cui Samarcanda, Il rosso e il nero, Tempo reale, Moby Dick e Anno Zero. Giornalista vero a 360 gradi, è stato spesso impegnato in prima linea nelle indagini 

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Quindi Napoli dà delle possibilità ai giovani che vogliono in qualche modo emergere?

Cosa sta facendo Napoli per risolvere i problemi delle periferie?

Il punto è che noi stiamo vivendo la peggiore crisi del dopoguerra. Dalla crisi finanziaria americana del 2007 i segnali di crescita sono minimi e, quindi, sono necessari nuovi forti investimenti. Dopo la grande depressione del 1929 ci fu Roosevelt e il New Deal. Oggi abbiamo bisogno di un altro New Deal. Abbiamo bisogno di investire sul territorio. Si dice che l’edilizia sia il volano dell’economia: quindi ristrutturando i centri storici, ridisegnando l’assetto idrogeologico, potremmo creare lavoro e risolvere ancora altri problemi. Alla base del boom economico degli anni Sessanta ci fu proprio il settore edile. Oggi, come allora, potremmo programmare l’impiego del lavoratore edile per risanare il territorio e ridurre i costi e l’impatto delle emergenze.

Io un’eccellenza la vedo nella risposta dei cittadini al tema della salute e dell’ambiente, sia per quanto riguarda la terra dei fuochi sia per questo movimento Rifiuto Zero. Quella per me è un’eccellenza, con questa idea della salute, del ripristino dell’ambiente e della bonifica del territorio. Questa che protesta e si attiva è una vera eccellenza. In ogni caso, le industrie del nord che per risparmiare soldi hanno interrato i rifiuti nella mia terra, in Campania, lo hanno fatto in ben 19 regioni italiane. Ma noi abbiamo altre eccellenze, sia nei segmenti industriali, sia nelle intelligenze: pensiamo all’università di Napoli che è un polo straordinario. Poi abbiamo anche il settore aerospaziale e l’agricoltura. Esperienze di eccellenza le abbiamo noi, ma ci sono anche in Puglia, in Calabria, in Sicilia. Una nostra eccellenza è anche il turismo, con i territori strepitosi che abbiamo, perché dobbiamo finirla con questa idea malsana dell’industrializzazione e del PIL che deve aumentare a tutti i costi. Oggigiorno l’industria pesante ce l’hai in India piuttosto che in Indonesia: oggi non ha senso fare qui un’acciaieria con le materie prime che debbono arrivare da fuori per nave ecc.; ormai ci si deve specializzare nella qualità e nel recupero energetico.

Papa Francesco, andato a Scampia, ha detto: “La vita a Napoli non è mai stata facile ma non è mai stata triste. È questa la vostra grande risorsa: il cammino quotidiano in questa città produce una cultura di vita che aiuta sempre a rialzarsi dopo ogni caduta”. Quali valori insegna Napoli ai giovani?

La mia immagine di Napoli è Scampia: se io vinco la battaglia di Scampia, che è il famoso quartieredi Gomorra, allora avrò l’immagine vera di Napoli, perché solo lì vivono oltre 100 mila persone.Napoli è sempre stata una città che ha sofferto, dai bombardamenti della guerra al dopoguerra, però ha avuto sempre una grande risorsa, che io sto ritrovando ora: una sua straordinaria identità. Napoli si è ammalata poi con il terremoto – cioè l’identità della città è venuta meno – i napoletani sono cambiati. E’ stata traumatizzante quella scossa di terremoto il 23 novembre dell’80 anche se oggi ci sono stati due avvenimenti che invece hanno ridato a Napoli una certa identità. Che non è folkloristica, non è neo borbonica. Sono la morte di quel tifoso napoletano a Roma, Ciro Esposito, e anche la morte di Pino Daniele: sono stati due shock che hanno messo al centro non la “napoletanità”, ma questa idea di identità, di colleganza, di solidarietà, di stare insieme e di riscoprire questi valori.

Per te sempre ‘Forza Napoli’? Il calcio a Napoli aiuta a dimenticare i problemi che ci sono o è un motivo di orgoglio cittadino?

Il calcio è un motivo di divertimento. Il calcio non è l’oppio dei popoli, ma è un elemento di comunità, è divertente. Io in realtà non sono mai stato tifosissimo di calcio, ne capisco ad un livello minimo, ma devo dire che soprattutto per chi vive fuori, è un legame che hai con la tua città. Io ho i figli che purtroppo non parlano il napoletano, però sono tifosi del Napoli, per cui c’è un elemento che ci unisce. Non è che si recupera l’identità della città attraverso il calcio però è un elemento di coesione. L’identità si recupera attraverso la cultura che a Napoli c’è ed è molto forte. Che piaccia o no Napoli ha un posto importante nella storia d’Italia.

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LE RAGIONI DI UNA SCELTA. PRESENTAZIONE DEL DIRETTORE RESPONSABILE di Giorgio Salvatori – Numero 1 – Luglio 2015

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Perché mai, come oggi, si vedono giovani e meno giovani, studenti e imprenditori, affermare, apertamente, la volontà di affrancarsi dalla palude del fatalismo e dai luoghi comuni che essa ha generato. La strada è ancora piena di ostacoli, ma il traguardo non è mai stato così manifesto e condiviso. 
Non è una fuga dal passato – opprimente e, fino a ieri, vincente – è la riconquista di un primato: quello di uno stile ed un modello di vita che hanno attratto e affascinato, fino ad epoche non molto remote, i protagonisti del Grand Tour. E che in tempi recenti hanno fatto pronunciare, al protagonista di un film, la frase, poi diventata un biglietto da visita dell’orgoglio meridionale, “quando un forestiero 

LE RAGIONI DI UNA SCELTA. PRESENTAZIONE DEL DIRETTORE RESPONSABILE

 

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Depurata della triplice tenaglia – feroce – delle mafie, della disoccupazione e della rassegnazione, la vita, al sud, appare – ancora per molti, e sotto diversi aspetti – appetibile. 
È un “dono”, come recita il nostro sottotitolo, per la qualità e l’intensità dei rapporti umani, per ambienti naturali straordinari (e che vanno preservati dall’inesorabile accerchiamento del degrado e dell’abusivismo), per sapori, profumi, colori – che altrove è raro trovare, per i piaceri conviviali, il culto delle tradizioni popolari, religiose e gastronomiche, scomparse o rarefatte se si risale più a nord, lungo lo Stivale. 
A tutto ciò si aggiunge una voglia nuova di “fare impresa”, di riscoprire il sottile piacere della cultura e quello, altrettanto crescente, della tutela delle tradizioni e del paesaggio, con spirito di iniziativa e con coraggio degni di maggiore attenzione e, spesso, invece, trascurati dai media, patologicamente attratti da ciò che, al sud, fa facile cronaca, densa di logori pregiudizi. 
Myrrha intende rivolgere la sua attenzione verso l’altra faccia del Sud, quella che fa impresa, primato, eccellenza, in tutte le direzioni. Insieme, scopriremo che sono molte e, a volte, sorprendenti. 
Convinti, come siamo, che nel nostro Meridione e nel Mediterraneo si stia oggi giocando una partita che non ci può lasciare indifferenti né vedere distratti. Sta a noi comprendere e interpretare gli sviluppi di queste tendenze, perché è anche con questa partita che si gioca il nostro destino futuro di popolo mediterraneo nell’Europa del pianeta globale.

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viene al sud piange due volte: quando arriva e quando parte”.