LA SARDEGNA CHE NON TI ASPETTI di Gloria Salazar numero 29 agosto 2023 editore Maurizio Conte

cat-stile
cat-cultura

LA SARDEGNA 

CHE NON TI ASPETTI

 

gloria_salazar_stile_ok
i_sardi_della_brigata_sassari

oltre che per lo straordinario eroismo – che valse numerose medaglie d’oro ai combattenti (detti sos dimonios ossia i demoni per la loro furia bellica) e alle bandiere -, erano famosi per il fogu a intru, il fuoco all’interno; che non era la fiamma interiore che li animava, bensì il modo di fumare i sigari in trincea. 

Si trattava, infatti, di introdurre il sigaro in bocca dalla parte incandescente per non far capire al nemico la propria posizione.

 

Quella del fuoco occulto è anche una caratteristica della cucina sarda.


In Sardegna sopravvive, ormai quasi esclusivamente come tradizione folcloristica, un sistema arcaico di cottura che prevede l’arrostimento dei cibi attraverso una combustione latente, ovvero senza fiamma: la cottura cosiddetta
a carraxiu

Il procedimento consiste nell’utilizzare come “recipiente” una buca scavata nella terra, nella quale è stato fatto un fuoco di legna; una volta rimaste le sole braci la buca viene foderata con rami frondosi – verdi – di arbusti aromatici (lentisco, mirto, rosmarino, ginepro), sui quali si adagia la carne da arrostire (di solito l’intero animale), ricoprendola poi ancora con gli arbusti odorosi e quindi di tizzoni ardenti.

La cottura avviene molto lentamente e le essenze profumate sprigionate 

grazie al calore conferiscono alla carne – che rimane tenerissima – 

un sapore  straordinario.


Questo è uno dei metodi usati per cucinare cinghiali (
sirboni), capretti, vitelli ed il famoso e succulento maialetto sardo, a seconda delle località chiamato: porceddu, proceddu, porcheddu, pulcheddu, ed altre numerose varianti.   Una ricetta a carraxiu ancor più caratteristica è quella denominata su malloru de su sabatteri, ossia “il toro del calzolaio”, tipica del nuorese -in particolare di Villagrande -; consistente nella gigantesca farcitura di un vitello, al cui interno vengono inseriti come matrioske russe: una capra, un maialino, una lepre, una pernice ed infine un altro piccolo volatile.  

 

Il nome deriva dal fatto che un tempo era il ciabattino del paese (sabatteri o calzolaio, dallo spagnolo zapatos, cioè scarpe) a provvedere alla cucitura dei vari animali.

Quello di utilizzare la terra è un sistema che i sardi usavano anche per nascondere, seppellendole, le bottiglie di acquavite,

  

anticamente oggetto di appalto (durante la dominazione spagnola detto arrendamento de l’aguardiente – “l’acqua ardente” perché sembra acqua, ma “brucia”- monopolio di privati in ambito locale). Per ritrovare le bottiglie così occultate le munivano di un filu ‘e ferru; filo di ferro che spuntava dal suolo, da cui deriva il nome della bevanda attuale.   

 

I sardi se la cavano bene anche con la graticola (sa cardiga) e soprattutto con lo spiedo (su schidoni o schironi).

Uno spettacolo le grigliate sarde.

 

Gli spiedi o meglio gli spiedoni – che sembrano piuttosto degli spadoni (possono essere lunghi anche più di un metro e mezzo) – vengono conficcati in circolo nel terreno con infilzata la bestia intera, intorno ad un imponente fuoco di braci, e ritmicamente girati per consentire una cottura uniforme. Con questo sistema vengono cucinati principalmente i famosi maialini da latte.

 

 Nel sassarese invece vi è l’usanza dello zimino

 

– anch’essa, analogamente alle metodologie precedenti, caratterizzata da una spiccata connotazione conviviale -, costituita da una grigliata di frattaglie, per la quale ci si avvale, come “barbeque”, di una vecchia carriola (ruota compresa), riempita per metà di sabbia e per il resto di carbone di legna.  

 

L’alternativa alla cottura arrosto è quella in umido, una cottura lunga effettuata con l’ausilio di aromi, che intenerisce la carne ed elimina il gusto di selvatico; come quella della pecora in cappotto o dell’ottima capra alla vernaccia, cotta, appunto, con la vernaccia di Oristano – tipico vino sardo- e le bacche di ginepro.  

 

La cucina sarda tradizionale, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, 

non è una cucina “di mare”, ma è principalmente 

una cucina pastorale, “di terra”,


nella quale per secoli le pietanze a base di pesce sono rimaste circoscritte alle sole zone costiere. Anche la celeberrima bottarga, introdotta in Sardegna dai Fenici, che da alimento base nelle traversate e moneta di scambio di quei mercanti navigatori, divenne cibo pregiato per l’elite, ma non venne mai utilizzata nelle ricette tipiche della regione. 

 

Inside a traditional house
ghirigoro_stile

  Foto da DEPOSITPHOTOS

 

JOE PETROSINO di Luigi Vignali e Gaia Bay Rossi numero 29 agosto 2023 Editore Maurizio Conte

cat-cultura
cat-stile

JOE PETROSINO

 

operai, agricoltori, sarti, meccanici, ma anche avvocati e medici, e artisti di ogni genere. Soprattutto, gente povera che cercava fortuna oltreoceano. 

gaia_bay_rossi_cultura
luigi_vignali_cultura
decoro-cultura

Fra loro, purtroppo anche criminali, che a New York e in altre grandi città americane fondarono un’organizzazione di stampo mafioso chiamata la Mano Nera. Praticava sistematicamente l’estorsione all’interno delle stesse comunità italiane, con ramificazioni anche in Sicilia. Sin dai primi del Novecento le sue lettere, contenenti anche minacce di morte, erano firmate con due spade incrociate sotto a una mano nera.

 

L’organizzazione aveva ovviamente legami con la mafia italiana, ma anche 

con la ‘ndrangheta calabrese e americana, con la camorra napoletana.

 

Ma al tempo stesso intratteneva legami stretti con la Tammany Hall, potente macchina politica dei democratici di New York, che aveva in mano tutte le leve del potere (dal municipio alla polizia) e era disposta a tutto pur di continuare ad ottenere voti ed esercitare un controllo politico sulla città.

In questo clima malavitoso si trovò a vivere e lavorare Joe Petrosino, 


originario di Padula (Salerno) che, nel 1873 s’imbarcò giovanissimo con il padre Prospero, di professione sarto, la madre e i suoi due fratelli, con destinazione New York. Andarono a vivere a Little Italy, dove ben presto Joe, per aiutare la famiglia, si diede da fare con vari lavoretti, in particolare “strillone” di strada e lustrascarpe. Nel 1877 ottenne la cittadinanza statunitense e, pur sognando di diventare un poliziotto, iniziò a lavorare come spazzino comunale (allora i netturbini erano alla dipendenza del Dipartimento di Polizia). Era talmente in gamba che dopo un anno era già diventato capo squadra. Strinse amicizia con molti i poliziotti e col tempo divenne un prezioso informatore. Nel 1883, avendo contribuito proprio lui a sventare un colpo della Mano Nera, fu finalmente ammesso nella polizia – con distintivo n. 285.

Di statura piccoletto (circa un metro e sessanta) in mezzo ai “giganti” irlandesi – maggioritari nella Polizia newyorkese – non gli difettavano temperamento e scrupolosità, così come intelligenza e grinta. Oltretutto parlava perfettamente sia l’inglese che l’italiano. Presto si seppe che “non faceva passare nulla sotto gamba”: quando era di servizio a Little Italy, per le strade girava il passaparola sul pattugliamento di Petrosino…

 

Il suo lavoro preciso e rigoroso fu notato da Theodore Roosevelt, allora assessore 

alla polizia, (nel 1901 diventerà poi presidente degli Stati Uniti), che appoggiò Petrosino e nel 1895 lo fece promuovere sergente, destinandolo alla conduzione 

delle indagini. I gangster di Little Italy si trovavano ora di fronte a un profondo conoscitore della loro stessa lingua e dei loro metodi.


Al di là della diligenza nel lavoro, Petrosino provava comunque un rancore molto forte per i criminali che distruggevano il capitale di apprezzamento e rispetto che gli italiani avevano costruito così faticosamente. In quegli anni effettuò centinaia di arresti, sventò attentati e sganciò i commercianti dalla morsa delle estorsioni. Petrosino era perspicace, deciso, veloce e irremovibile, a volte anche rude con i criminali. In poco tempo era diventato il simbolo della battaglia alla criminalità, un mito del suo tempo. Le sue tecniche di lavoro erano assolutamente innovative: travestimenti, imboscate, assalti, disinnesco di ordigni. Nel frattempo Joe si sposò con Adelina Saulino, dalla quale ebbe una bambina, chiamata Adelina come la mamma.

 

Nel 1905 divenne tenente e fu incaricato dell’organizzazione 

di una squadra di poliziotti italiani,

l’Italian Branch (poi chiamata Italian Squad), composta da 5 agenti tra cui il successore di Petrosino, Michael Fiaschetti (nativo di Morolo, Frosinone), uno sviluppo questo che diede forte impulso alla lotta alla Mano Nera. 

Le minacce a scopo di estorsione arrivarono addirittura al grande tenore Enrico Caruso, che non cedette al ricatto e si affidò proprio a Petrosino, il quale riuscì a far arrestare due dei tre delinquenti e, grazie alle indagini, qualche anno dopo anche due importanti capi della mafia newyorkese

 

La lotta di Petrosino contro la Mano Nera ebbe u ulteriore salto di qualità nel 1906, quando Theodore Alfred Bingham divenne il capo 

del dipartimento di polizia di New York.

 

Bingham potenziò l’Italian Squad e le affiancò un’altra squadra di Brooklyn. Petrosino e Bingham dichiararono guerra alla Tammany Hall con un’incisiva azione repressiva che prese ai fianchi le due basi di controllo: l’egemonia sulla polizia newyorkese e la complicità dei malviventi italiani, soprattutto della mafia siciliana. A questo punto, Petrosino e Bingham divennero obiettivi cruciali. 

L’attentato a Petrosino fu costruito “a ragnatela”, con infiltrazioni ovunque, mentre seguiva una pista che lo avrebbe portato in Italia, per infliggere un grave colpo alla Mano Nera. L’operazione doveva essere ovviamente segreta, ma i criminali contavano sulla complicità di persone influenti, capaci di ottenere informazioni certe sulla missione di Petrosino. Persone potenti strettamente collegate con la Tammany.

La mattina del 9 febbraio 1909 Petrosino si imbarcò – apparentemente 

in gran segreto – dal porto di New York a bordo del piroscafo Duca di Genova. 

Ma nello stesso momento il New York Herald già usciva col titolo: 

“Petrosino in viaggio per Napoli e poi per Palermo per andare 

a debellare la Mano Nera e la Mafia”.


Addirittura, arrivato a Napoli, trovò una sorta di comitato di accoglienza fatto da giornalisti e poliziotti. La notizia del suo arrivo era arrivata anche a Palermo, ma Petrosino, pur consapevole dei pericoli, confidava che la criminalità non avesse il coraggio di eliminare un poliziotto. 

La sera del venerdì 12 marzo 1909, proprio a Palermo due sconosciuti gli chiesero di parlare fuori dall’albergo. A piazza della Marina, alle 20.45 tre colpi di pistola lo colpirono in rapida successione e un quarto subito dopo alla testa.

 

Il console statunitense a Palermo telegrafò al suo governo: 

“Petrosino ucciso a revolverate nel centro della città questa sera. 

Gli assassini sconosciuti. Muore un martire”.

 

Si tennero due funerali, uno in Italia e uno a New York, dove parteciparono circa 250.000 persone, un numero mai raggiunto fino ad allora per delle esequie.

 

Il feretro fu accompagnato da Theodore Roosevelt,
ormai Presidente degli Stati Uniti.


Gli indagati furono tutti prosciolti, anche perché la polizia statunitense, la cui collaborazione era stata più volte richiesta dalla procura di Palermo, rispose con un’indifferenza ai limiti del boicottaggio. È possibile che la Tammany Hall, con i suoi agganci importanti nella magistratura, volesse depistare le indagini; di certo essa aveva avuto la sua parte prima nel lasciar trapelare il viaggio di Petrosino, poi nell’evitare che notizie compromettenti giungessero agli inquirenti palermitani.   

 

Solo nel 2014, nell’ambito di una intercettazione al gangster Domenico Palazzolo, gli investigatori vennero a conoscenza del ruolo di suo zio paterno, Paolo Palazzolo – già prosciolto per l’omicidio di Petrosino: “Ha fatto lui l’omicidio del primo poliziotto ucciso a Palermo. Lo ha ammazzato lui Joe Petrosino, per conto di Cascio Ferro” (boss mafioso italiano legato alla Mano Nera). Chi e cosa ci fosse dietro a questi due personaggi non è mai stato definitivamente chiarito.

Di certo idealmente, circa vent’anni dopo, Joe Petrosino fu vendicato da Fiorello La Guardia, altro grande, straordinario italiano d’America,

 

sindaco di New York, sotto il cui impulso venne affibbiato un duro colpo alla malavita e alla Tammany Hall.

 

Joe_petrosino

 Photo: New York City Police Department, Public domain, via Wikimedia Commons

erano_gli_anni_della_grande_emigrazione

 

PROCIDA. LA SPIAGGIA DI TROISI E PABLO NERUDA di Aurora Adorno numero 29 agosto 2023 editore maurizio conte

cat-stile
cat-arte

PROCIDA. 

la SPIAGGIA DI TROISI 

E pABLO NERUDA

 

aurora_adorno_stile

a Pollara nella borgata marinara dell’isola di Salina a Malfa è possibile ammirare le Eolie e trascorrere qualche giorno di vacanza; bagnata dal cielo e circondata dal verde in quella che oggi viene chiamata “la locanda del Postino” vennero girate nei primi anni’ 90, tra genio e malinconia, le scene dell’omonimo film.

La pellicola, diretta dal regista Michael Radford e interpretata da Massimo Troisi, racconta dell’amicizia tra un postino di nome Mario Ruoppolo e il poeta Pablo Neruda; il viso dell’attore napoletano, malinconico giullare, è scavato dalla malattia, e gli occhi scuri resi ancora più espressivi dalla consapevolezza di una vita che sfugge tra le mani, proprio come la sabbia che il vento spazza via dalle spiagge di Salina. È il mare a fare da sfondo con le sue sfumature, tacito testimone della transitorietà della vita umana.

La semplice bellezza dei paesaggi marinari del Sud incornicia la storia 

del poeta Cileno che nell’isola venne esiliato nel 1948


con la consorte Matilde, e che per caso iniziò un postino, quasi analfabeta, alla bellezza della poesia e della lettura. «Mi sono innamorato di Beatrice» confessa Troisi al poeta che risponde a suon di Dante: «Le beatrici suscitano amori sconfinati, Mario. Che farai adesso?» chiede all’uomo intento a scarabocchiare qualcosa su un foglio; quando Neruda si rende conto che Mario non è capace di scrivere il nome dell’Alighieri lo aiuta. «Sono proprio innamorato» rincara il postino. 

«Ed io cosa ci posso fare» il poeta lo scruta perplesso.

«Se mi potete aiutare. La guardavo e non mi usciva neanche una parola. La guardavo e mi innamoravo.» Continua il dialogo tra i due amici, poi Mario prende coraggio: «Don Pablo, me la potete scrivere una poesia per Beatrice?»

Il film scorre tra le battute e gli scambi di vita, tra amore e amicizia, tra vita quotidiana e politica, fin quando Mario sempre più innamorato rincara la dose:

 

«Caro poeta e compagno lei mi ha messo in questo guaio e lei mi deve aiutare, perché mi ha regalato i libri, insegnato a usare la lingua non soltanto per mettere i francobolli. È colpa sua se mi sono innamorato.» 

«Ti ho regalato i miei libri, sì. Ma non ti ho autorizzato a usarli per il plagio. Se penso che hai regalato a Beatrice la poesia che avevo scritto per Matilde…» 

ribatte Neruda.

«La poesia non è di chi la scrive è di chi gli serve» si difende Mario, 

facendo intenerire il poeta.

E ancora oggi, rimanendo in silenzio, con i piedi ricoperti dai sassolini della spiaggia di Procida e l’orecchio teso tra il mare e i ricordi, è possibile udire la voce sommessa di Troisi che recita:   

 

Nuda sei semplice come una delle tue mani, 

liscia, terrestre, minima, rotonda, trasparente, 

hai linee di luna, strade di mela, 

nuda sei sottile come il grano nudo. 

Nuda sei azzurra come la notte a Cuba, 

hai rampicanti e stelle nei tuoi capelli, 

nuda sei enorme e gialla 

come l’estate in una chiesa d’oro.   

 

Nuda sei piccola come una delle tue unghie, 

curva, sottile, rosea finché nasce il giorno 

e t’addentri nel sotterraneo del mondo. 

come in una lunga galleria di vestiti e di lavori: 

la tua chiarezza si spegne, si veste, si sfoglia 

e di nuovo torna a essere una mano nuda.

 

Poesia nella poesia, le scene si intrecciano con la location del villaggio dei pescatori 

a Marina di Corricella il borgo caratteristico dall’architettura seicentesca 

dove le mura colorate sono sovrastate da archi,

 

e con la spiaggia di Pozzo Vecchio ribattezzata “la spiaggia del postino” in cui Mario incontra Beatrice per la prima volta; l’ufficio postale e la chiesa della Madonna delle Grazie finiscono per incorniciare l’intensità espressiva dei dialoghi e delle scene. Famose quelle in cui Mario pedala tra i monti costeggiando il golfo di Napoli; una delle banchine è stata appunto ribattezzata “Passeggiata Massimo Troisi” e vicino è conservata la bicicletta usata dall’attore durante le riprese del film.   

 

Sono tanti i lungometraggi girati sulle spiagge di Procida, set di “Il talento di Mr Ripley” interpretato da Matt Damon, e di “Francesco e Nunziata” con Sophia Loren e Giancarlo Giannini.

Nella parte più alta dell’isola si trova la Terra Murata, piccolo borgo sorto in posizione difensiva, mentre in quella più antica edifici storici e religiosi si affacciano sul mare:

 

ail Convento di Santa Margherita Nuova, l’Abbazia di San Michele Arcangelo patrono dell’isola  e  il Castello d’Avalos in cui è stato girato “il Detenuto” con Alberto Sordi. Tra Punta Serra e Punta del Cottimo la spiaggia di Pozzo Vecchio è ora nota come la “Spiaggia del Postino” in omaggio al testamento artistico di un attore che ha saputo mettere in risalto gli aspetti poetici e belli del Sud, e che tra quelle spiagge e le nostre memorie rimarrà impresso per sempre, come il vento che tocca le Eolie e incide le rocce.

 

 

Procida – Spiaggia del Postino a Cala del Pozzo Vecchio
ghirigo_stile

 Foto da DEPOSITPHOTOS

attraverso_la_veranda

 

GLI ABITI DEGLI ARAGONESI AL DOMA DI NAPOLI Gemme del Sud numero 28 maggio giugno 2023 Editore Maurizio Conte

cat-arte

GLI ABITI DEGLI ARAGONESI AL DOMA….     DI NAPOLI

 

 Gemme del Sud
                          Napoli

 

gemme

 

Il Museo della basilica di San Domenico Maggiore, 

nell’antico centro storico di Napoli, conserva un tesoro unico e raro:


abiti damascati, sottovesti, cappelli, scarpe, veli, cuscini di seta ed oggetti personali originari del XVI secolo appartenuti ad esponenti della casata aragonese e nobili loro contemporanei. 

 

Questi materiali sono stati rinvenuti all’interno di arche sepolcrali, bauli in legno che contenevano le spoglie mummificate dei defunti e i loro corredi. Originariamente posti nel coro della basilica, questi feretri oggi sono custoditi nella Sagrestia della chiesa sopra un ballatoio conosciuto come il passetto dei morti. 

 

In occasione di uno studio delle salme condotto negli anni Ottanta dalla Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa, tutti i reperti, tra cui il vestiario, sono stati rimossi dalle tombe e sottoposti ad un accurato restauro per poi essere esposti permanentemente al pubblico nella Sala degli Arredi Sacri del museo.

 

In questa collezione di alto valore storico spiccano l’abito in taffetà e gros 

di Maria d’Aragona, l’abito di raso ed il cappello in velluto di Pietro d’Aragona, 

il cuscino funebre in seta di Ferdinando I detto Ferrante 

e l’abito damascato con nastri di seta 

di Isabella Sforza d’Aragona.

 

Quest’ultimo è stato oggetto di studio e riprodotto fedelmente dalla bottega sartoriale di Manifatture Digitali Cinema Prato all’interno di un loro master del 2020. 

 

I pregiati vestiari sono testimoni della moda in voga presso la corte aragonese e della qualità raggiunta dalla produzione tessile di allora, la cui raffinatezza e preziosità è possibile intuire nella varia ritrattistica dell’epoca.

 

cat-storia
ghirigoro2
abiti_aragonesi

 Abito originario di Isabella d’Aragona e  riproduzione dell’abito di Isabella d’Aragona, MDC di Prato

SAN GIOVANNI BATTISTA AL ROSARIO E IL BAROCCO LECCESE Gemme del Sud numero 28 maggio giugno 2023 Ed. Maurizio Conte

cat-arte

SAN GIOVANNI BATTISTA AL ROSARIO e il BAROCCO LECCESE

 

 Gemme del Sud
                         Lecce

 

gemme

Lo spirito del XVI secolo si manifesta in una delle sue interpretazioni più suggestive nel Salento e soprattutto a Lecce che, durante la metà di tale secolo, si trasforma da severa città fortificata a splendente esempio di città d’arte.

 

Fiorisce il barocco, facilmente riconoscibile per le sue forme straordinarie ed appariscenti, sorprendenti composizioni di decorazioni floreali, animali grotteschi, figure fantastiche ed allegoriche che si mescolano tra loro e fregiano le facciate degli edifici civili e di culto, dalla particolarissima chiesa di Santa Croce, fino agli esempi più tradizionali, come la chiesa di San Giovanni Battista al Rosario, che si lasciano ammirare per le loro facciate in pietra leccese

 

Qui la luce gioca un ruolo fondamentale, illuminando i dettagli e rivelando alla vista delicate composizioni che appaiono come tenui merletti.

 

La chiesa di San Giovanni Battista al Rosario si trova nel centro storico della città e fu ricostruita a fine Seicento su una preesistente struttura medievale per volere dei domenicani. La facciata, pur nella sua magnificenza barocca, non dimentica un impianto classico ed è divisa in due ordini architettonici separati da una balaustra. Il frontespizio è un tripudio di uccelli, fiori e putti, ma non mancano le figure care ai domenicani: il portale d’ingresso, incorniciato da due giganti colonne, è sormontato dalla raffigurazione di San Domenico di Guzman, ai suoi lati San Giovanni Battista e San Francesco ed in cima alla facciata la statua di San Tommaso d’Aquino, andata per metà perduta. 

 

La pianta a croce greca soffre della mancanza della cupola progettata e mai costruita e la copertura è realizzata con un tetto ligneo. Una particolarità della chiesa è il pulpito, unico a Lecce eretto in pietra leccese (gli altri sono lignei), che raffigura l’Apocalisse di San Giovanni di Patmos, tema sicuramente adatto all’ordine dei predicatori domenicani.

 

 

 

cat-storia
ghirigoro2
baroccoLeccesa

 

IL FESTIVAL DELLA ZAMPOGNA Gemme del Sud numero 28 maggio giugno 2023 Editore Maurizio Conte

cat-arte

IL FESTIVAL DELLA ZAMPOGNA

 

 Gemme del Sud
                     Scapoli (IS)

 

gemme

Scapoli è un delizioso centro abitato circondato dalle meraviglie del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Si è sviluppato intorno ad una fortezza appartenente all’antica abbazia di Castel Volturno, fondata nell’VIII secolo d.C., oggi chiamata Palazzo Marchesale dei Battiloro. Le sue mura a strapiombo sulla roccia servivano a difesa dell’edificio e della sua popolazione da eventuali invasori.

 

Partendo dall’incantevole androne del palazzo denominato Sporto, attraverso le aperture del cammino detto “Scarupato”, si possono ammirare le cime di Monte Marrone e Monte Mare delle Mainarde.

 

Ma la particolarità di Scapoli sta in un’antica tradizione: la fabbricazione 

della zampogna, che qui si tramanda da secoli.

 

La zampogna di Scapoli è celebre ovunque ed ancora oggi: passeggiando per il borgo, si possono osservare gli artigiani al lavoro mentre ne creano nuovi esemplari. 

 

Quella di Scapoli è una vera e propria devozione. 

 

Per connettere il passato al futuro di questo prodigioso strumento è stato innanzitutto allestito il Museo Internazionale della Zampogna.

 

Ogni anno a luglio, poi, va in scena un festival che richiama gli appassionati 

di mezzo mondo, attratti dal folklore e dalla tradizione di questi suoni antichi, 

tanto da trasformare, in questo periodo, il piccolo borgo in un luogo magico, 

 

Se non vi trovaste a Scapoli in quei giorni, non vi rattristate: il Circolo della Zampogna cura una mostra permanente che raccoglie antiche cornamuse e zampogne e chissà…potreste ascoltare il suo suono passeggiando tra un vicolo e l’altro. 

 

 

cat-storia
dfsfsrts
ghirigoro2

 

I MISTERI DI CAMPOBASSO gemme del sud numero 28 maggio giugno 2023 Editore Maurizio Conte

I MISTERI DI CAMPOBASSO

 

 Gemme del Sud
                 Campobasso

 

gemme

Ogni anno, in occasione della festività del Corpus Domini, per le vie di Campobasso si svolge 

 

la processione dei Misteri, una delle tradizioni più suggestive 

e spettacolari di tutto il Molise. 


Già nel Medioevo si usava festeggiare il giorno del Corpus Domini con delle rappresentazioni sacre allestite su dei palchi collocati nei pressi delle chiese. Nella metà del Settecento, alcune Confraternite del luogo commissionarono a Paolo Saverio Di Zinno, talentuoso scultore locale, la realizzazione delle macchine processionali. L’artista ne inventò e realizzò, con la collaborazione di sapienti fabbri locali, ben diciotto, sei delle quali purtroppo andarono distrutte durante il terremoto del 1805. I “Misteri”, o “Ingegni”, sono macchine costituite da basi di legno sulle quali sono applicate strutture in ferro ramificate dove vengono posizionati dei figuranti, per lo più bambini, che rappresentano angeli, diavoli, santi e altre figure sacre. 

 

Dopo oltre duecento anni, i Misteri sono ancora funzionanti 

e vengono portati in spalla per le vie della città.

 

Il passo cadenzato dei portatori, facendo oscillare le strutture, crea l’illusione di vedere i personaggi volare: uno spettacolo che emoziona i visitatori che ogni anno accorrono numerosi a Campobasso per ammirare il passaggio di questi veri e propri “quadri viventi”. Grazie alla dedizione e all’impegno dell’Associazione Misteri e tradizioni, 

nel 2006 è stato inaugurato il Museo dei Misteri, 

situato nel centro della città

 

dove vengono custodite e conservate le Macchine, che si possono ammirare insieme a foto, vestiti d’epoca e altre testimonianze che raccontano la storia di questa tradizione straordinaria.

fine-t-storia (1)
cat-storia
cat-cultura
AADFAGAHAHAJAU

 

ELEONORA DE FONSECA PIMENTEL. INTELLETTUALE E PATRIOTA di Gianluca Anglana numero 28 maggio giugno 2023 Ed. Maurizio Conte

cat-storia
cat-cultura
 

ELEONORA DE FONSECA PIMENTEL 

INTELLETTUALE E PATRIOTA

 

Un esperimento fallito. L’eroismo di coloro che lo vollero ebbe a che fare con l’ingenuità, la purezza dell’idealismo, l’inconsistenza del sogno.

Gianluca-Anglana(2)

Utopie annichilite dalla reazione del regime, dalla rapacità francese, dall’ostilità della Chiesa e dalla diffidenza della plebe. Tra i protagonisti di questa pagina cruenta e luminosa della storia del Mezzogiorno, una donna.

 

Si chiamava Eleonora de Fonseca Pimentel, pensatrice, 

intellettuale, tra le prime giornaliste d’Europa.

 

Nacque a Roma il 13 gennaio 1752. La sua famiglia, di nobiltà portoghese, traslocò a Napoli: a causa di tensioni diplomatiche con la Santa Sede, da Lisbona arrivò l’esortazione agli espatriati lusitani a lasciare la città eterna per sottrarsi alle possibili ritorsioni pontificie. 

Durante la parentesi rivoluzionaria, le fu affidato il compito di gestire l’organo di stampa che, nelle intenzioni dei rivoltosi, avrebbe dovuto diffondere le ragioni dell’insurrezione. Accettò, sebbene con perplessità, dubbi, titubanze.   

 

Il “Monitore napoletano” ambiva a inoculare le nuove idee nel corpo stanco dello Stato borbonico, scongiurare che restassero intrappolate nei salotti degli aristocratici e dei borghesi insubordinati. Nella realtà il giornale ebbe poca fortuna e nessuna presa tra le masse incolte, che prestavano orecchio con sospettoso sarcasmo a quelle teorie bislacche sulla libertà, sull’uguaglianza, sulla fraternità. La plebe della capitale era anzi incline alla conservazione dello status quo, mentre le istanze dei ribelli faticavano a penetrare nelle remote province del regno.

Come i suoi fratelli di lotta, anche Eleonora immaginava un mondo diverso: più equo, meno oppresso, orientato dalla conoscenza e dall’emancipazione,

attraverso l’istruzione, degli strati inferiori della società.

Aveva intuito che il potere teme il dissenso colto, disinveste sul sapere per un’elementare esigenza di autoconservazione: «educare il popolo» ripeteva, ribadiva, si illudeva. Poetessa del suo tempo, sognava di trasformare i sudditi in cittadini liberi e responsabili. Sognava. 

La disillusione parlava invece la lingua scabra di Vincenzo Cuoco: «il popolo non è obbligato a sapere la storia romana per essere felice». E tradiva le divergenze e i contrasti tra i patrioti. 

Era già siderale la distanza che, come un abisso, separava un manipolo di intellettuali visionari dal popolo rassegnato a una quotidianità insozzata dal lerciume di stenti, soprusi, espedienti come all’unica opzione possibile. C’era il padre che provvedeva ai figli suoi: «viva lo re, lo pate, tata nostro». Eleonora era doppiamente straniera: per stirpe e per convinzioni.

 

Era stata una bambina dalla curiosità vorace, precoce nell’apprendere. 

Quindi una ragazza affamata di conoscere, conscia dei propri talenti 

al punto di guadagnarsi l’accesso all’Accademia dell’Arcadia 

 

e intessere un rapporto epistolare con Metastasio e con Voltaire. Infine la dama ammessa a Palazzo, dove i suoi sonetti e i suoi epitalami in omaggio alla coppia regnante furono accolti con burocratica gratitudine e il riconoscimento di un sussidio in denaro: in una Corte che concedeva credito alle novità filosofiche del Settecento, alle arti e alle scommesse della “monarchia illuminata”, i suoi meriti letterari trovarono accoglienza.

Ma poi tutto andò in pezzi.

Ogni velleità di cambiamento naufragò nell’onda di orrore e violenza vomitata su tutto il Continente dalla Francia regicida: il re di Napoli, Ferdinando IV di Borbone, si trincerò in un dispotismo torvo. Verso i Giacobini che le avevano ghigliottinato la sorella nel 1793, la regina Maria Carolina d’Asburgo sviluppò un odio implacabile, caparbio, paranoico. I progetti dei rivoluzionari, i loro entusiasmi, tutto fu travolto dalle armate sanfediste del Cardinale Ruffo e dalla caduta di Sant’Elmo. Napoli. 20 agosto 1799. Piazza Mercato. Epilogo.

 

È deciso che la sua sia l’ultima delle esecuzioni. Il sadismo della vendetta regia 

esige che Eleonora veda morire tutti prima che tocchi a lei: 

Gennaro Serra di Cassano, Monsignor Natale, 

Nicola Pacifico.

 

È ormai senza scampo, stritolata nella morsa tra l’avversione dei monarchi, che le negano il privilegio aristocratico della decapitazione, e il rancore dei lazzari e delle popolane, per i quali aveva sognato un futuro di riscatto. Nel vicolo Sospiro de ‘mpisi, sulla strada verso il patibolo incontra il dileggio, l’umiliazione, l’acredine, la rabbia. È riconosciuta: «a signora ‘onna Lionora che cantava ‘ncopp’ ‘o triato… mo la facimm’ abballà mmiezz’o Mercato».

La piazza del Mercato è ora una fiera pronta a divorarla, un palcoscenico mostruoso, un San Carlo orribilmente sconfinato. 

E l’ultimo atto è proprio il suo, fine della sua vita e di un secolo intero. 

Mentre sale sullo scaletto, guarda in faccia la città che ha amato, il microcosmo dove realtà e recita si mescolano da sempre in un intrico irresolubile. Mormora poche sillabe.  

 

Si arrende al cappio. 

E poi la spinta di Mastro Donato, boia della forca. 

E il rumore sordo della corda attorno al collo. 

E le urla festanti del popolo sulla piazza, le risate sguaiate, gli insulti, le oscenità. 

Donna Eleonora, intellettuale e patriota, poetessa e scrittrice, esce di scena così. E svanisce. 

Come al risveglio svanisce la materia effimera, e impalpabile, dei sogni.

 

 

 

 

 

 

 

 

ELEONORA_PIMENTEL
RIVOLUZIONE NAPOLETANA
fine-t-storia

 

SUD ITALIA ATTRAVERSO IL MEDITERRANEO di Federico Failla numero 28 maggio giugno 2023 Editore Maurizio Conte

cat-stile
cat-sud

SUD ITALIA ATTRAVERSO IL MEDITERRANEO

 

federico-failla
storia_di_una_gelateria_pugliese
ragusa

Val di Noto e gastronomia è un’associazione che viene naturale. La capacità di valorizzare pienamente, e spesso in maniera sorprendente, i magnifici prodotti del territorio ha reso questo scorcio di Sicilia una delle aree più interessanti da esplorare sotto il profilo culinario. In questa cornice si colloca una delle eccellenze della cucina del Val di Noto: il gelato.   

 

Cresciuto proprio in una cultura in cui le discussioni estive sul gelato possono protrarsi fino a tarda notte e creare tensioni non da poco su aspetti cruciali del prodotto (quale deve essere il colore del gelato al pistacchio? Funziona l’abbinamento cioccolato-limone? Il gelato di ricotta ha un suo perché?), ogni volta che ho affrontato una nuova esperienza all’estero sono andato sempre a scoprire le realtà locali del gelato. Per essere chiari, mai cercata la replica dei sapori siciliani, sarebbe un’ottica errata e perdente. Al contrario, l’obiettivo è stato quello di esplorare e sperimentare nuovi gusti e combinazioni, dal gelato viola di taro, al gusto di fagioli rossi, al gelato di riso, immancabile in Asia. 

 

Ma talvolta, oltre i gusti, le combinazioni e le tecniche che vengono utilizzate,

sono le storie delle gelaterie che diventano altrettanto gustose. 

E da qui parte la breve storia della gelateria “Ragusa” a Jakarta, 

aperta negli anni ’30 dello scorso secolo.


Storia dai contorni non chiari, contraddittori, avvolta da una nebbiolina che non permette di mettere a fuoco tutti i dettagli, dunque perfettamente in linea con le caratteristiche dell’Indonesia ed in particolare di Java. Nella continua scoperta di storie, cibi, persone e culture che popolano questo meraviglioso Paese, mi sono imbattuto quasi subito nella gelateria “Ragusa”, che naturalmente ha attirato la mia curiosità.   

 

Le informazioni raccolte durante e dopo la mia permanenza in Indonesia non sono state univoche: dal nome, che secondo alcuni indica il luogo di provenienza dei proprietari originari della gelateria e secondo invece la versione che ha riscontri più concreti il cognome degli stessi, al motivo stesso per cui i nostri connazionali si trovassero a Jakarta negli anni ’30.

 

La versione che presenta elementi riscontrabili in maniera più solida, anche grazie 

al materiale raccolto dal nostro Console Onorario a Bali, è che i fratelli Ragusa provenissero da Grottaglie in Puglia e che fossero arrivati a Batavia 

(il nome che aveva l’attuale Jakarta durante il periodo coloniale olandese) 

alla fine degli anni ’20.

Qui i contorni della storia iniziano a diventare meno chiari e netti: sembra che i Ragusa, di professione sarti, stessero viaggiando in nave per l’Australia e fossero stati convinti a fare una sosta a Batavia da alcuni passeggeri a bordo della loro imbarcazione. Alcune testimonianze invece asseriscono che i Ragusa fossero arrivati a Batavia per frequentare una scuola di cucito, una tesi che appare ardita e poco verosimile: perché da Grottaglie negli anni ’20 ci si sarebbe dovuti dirigere a Batavia per imparare il cucito o altre arti sartoriali?

 

All’interno della gelateria si trovano invero le foto dei quattro fratelli Ragusa, Luigi, Vincenzo, Pasquale e Francesco, foto color seppia che aggiungono autenticità alla narrazione prevalente. Stando a quanto si tramanda, Luigi e Vincenzo erano venuti in contatto con una signora olandese residente a Bandung proprietaria di una fattoria, disposta a fornire il latte per la nuova avventura commerciale dei Ragusa. La tesi che fossero pugliesi viene ulteriormente avvalorata dal fatto che i fratelli Ragusa lasciarono l’Indonesia nel 1972 e si stabilirono a Taranto. La gelateria venne ereditata dal cognato di Francesco, che si era sposato con Liliana Yo, una cinese indonesiana.

Riconosciuta nel 2012 come la più antica gelateria in Indonesia ancora in attività, 


ha avuto nei decenni alterne fortune ed ha anche offerto prodotti che sono cambiati nel tempo, dai gusti tradizionali fino ad arrivare al gelato agli spaghetti, ottenuti dalla polpa del cocco.

 

In conclusione, 

l’arrivo e la permanenza di una famiglia di sarti pugliesi in Indonesia ha lasciato un’impronta duratura nel panorama gastronomico di Jakarta, 

visto che ancora oggi la gelateria “Ragusa” 

è attiva ed operante.


Questa vicenda mi ha affascinato da sempre, perché trovare storie di italiani nei paesi con una forte presenza di nostre comunità è semplice, ma lo è meno trovarle in Indonesia, dove la nostra presenza è stata storicamente sporadica. Anche se, in verità, in Indonesia è morto Nino Bixio e Pigafetta ha fatto tappa con la nave Trinidad nella spedizione della circumnavigazione del globo nella quale rimase ucciso Magellano, senza dimenticare, inoltre, le missionarie e i missionari italiani (il primo sinologo europeo è stato padre Ruggeri, pugliese di Spinazzola), gli esploratori e gli etnologi ed etnologi come Modigliani.

 

Sono storie quelle degli italiani nell’Asia orientale e sud-orientale, molti dei quali provenienti dal Meridione, che meritano di essere meglio conosciute, 

perché testimoniano del coraggio e dell’intraprendenza 

di molti nostri connazionali

 

a costruirsi il proprio futuro anche in terre lontane e nelle quali non erano già presenti comunità di compatrioti. E mi piace pensare che il grande successo dello stile di vita italiano, del made in Italy e dell’Italia in generale in questa parte di mondo sia anche dovuto a quanto seminato dai vari fratelli Ragusa che vi hanno abitato.

 

 

 

 

 

 

ghirigo_stile

 

LA SARDEGNA DEI MISTERI di Gloria Salazar numero 28 maggio-giugno 2023 editore Maurizio Conte

cat-storia
cat-arte
gloria_salazar_storia

LA SARDEGNA DEI MISTERI

 

questa_terra_non_assomiglia

La Sardegna ha conservato più di ogni altra regione italiana una cultura antica 

e misteriosa e costumi tipici particolari;

 

a partire dagli innumerevoli abiti tradizionali (ogni centro abitato ha il suo), che il primo maggio di ogni anno sfilano contemporaneamente a Cagliari per la sagra di Sant’Efisio in una delle processioni religiose più antiche (risale al 1656) e lunghe (65 km) del mondo. Non sono da meno le maschere del carnevale sardo – ad esempio gli impressionanti Mamuthones di Mamoiada – e le giostre spericolate e spettacolari, e tra queste S’Ardia di Sedilo – un palio di Siena più sfrenato – o la Sartiglia, che si tiene ad Oristano ininterrottamente almeno dal 1546.

In Sardegna non mancano neppure retaggi di epoche arcaiche:


i “fassoni” del golfo di Cabras, imbarcazioni simili a quelle degli antichi egizi; o le launeddas, strumenti musicali a fiato identici al flauto di Pan; e le “pinnette” i rifugi dei pastori costruiti come le capanne dell’età della pietra. Tra queste peculiarità ataviche c’è anche il “Canto a tenore”, riconosciuto dall’UNESCO come patrimonio culturale immateriale.

La cultura sarda è fatta inoltre di eccellenze artigianali tramandate da tempi immemorabili, in particolare “un’arte” che ha qualcosa di magico:

la filatura del bisso – anche detto “seta marina” 


– a Sant’Antioco; un materiale prodotto dalle conchiglie, che una volta tessuto risplende (quasi) come l’oro. Così come avvolte da un’aura di magia e mistero – al di là dei celeberrimi nuraghe – sono le numerosissime “domus de janas” (le “case delle fate”), tombe preistoriche scavate nella roccia, e tra queste l’imponente Sa Rocca a Sedini, che come i Sassi di Matera è stata trasformata in abitazione. Oppure le tombe a capanna, simili a quelle etrusche, ma di qualche migliaio di anni più antiche; ad esempio: Montessu a Villaperuccio, S’Incantu a Monte Siseri e S’Anghelu Ruju (L’Angelo rosso) ad Alghero. Luoghi suggestivi già a partire dai loro nomi, come lo sono le “tombe dei giganti” – tra le quali quella di S’Ena e Thomes a Dorgali – ed i “pozzi sacri”; in particolare quello di Santa Cristina a Paulilatino, costruito con precisione da “cantiere industriale” undici secoli avanti Cristo, ed in cui il sole entra solo agli equinozi (evidenziando le conoscenze astronomiche dei protosardi).  

Misteriosi e suggestivi sono anche i tanti edifici abbandonati 

ed i villaggi fantasma della regione,

ad esempio: Gairo vecchio; il Villaggio Asproni; il villaggio di Monte Narba; Grugua con la villa Modigliani (che appartenne alla famiglia del celebre Amedeo); il borgo di Sant’Angelo a Fluminimaggiore; Tratalias vecchia; le rovine minerarie di Ingurtosu, e la chiesa di San Pantaleo a Martis. Località così numerose che è stato creato un apposito sito internet, dall’evocativo nome di “Sardegna Abbandonata”, per censirle tutte; lo stesso obiettivo che si prefigge il sito “Nurnet” per quelle nuragiche. In Sardegna ci sono anche delle specificità zoologiche: non esistono le vipere, ma in compenso vi dimorano il ragno violino, l’unico velenoso italiano, e cavallini bradi (della Giara) piccoli come pony; così come più piccole sono anche altre specie indigene, ad esempio i cinghiali.

Sotto il profilo naturalistico l’isola conta due parchi nazionali e numerose altre riserve naturali marine e terrestri di inviolata bellezza; tra queste la biosfera di Tepilora, tutelata anch’essa dall’agenzia dell’ONU.


La natura ha creato in Sardegna monumenti di notevole impatto: l’Orso di Palau, scolpito nel granito dall’azione del vento e del mare; S’Archittu nel comune di Cuglieri, un grande arco di pietra (“lunare”) bianca sul mare; Sa Preta Istampata a Galtellí, un’alta parete rocciosa forata nel mezzo; o la piscina naturale di Cane Malu a Bosa. Ed ancora: la grotta di Su Mannau a Fluminimaggiore, tra le 10 più belle d’Italia secondo il TCI; la grotta marina “Sardegna” a Masua (così detta per la sagoma della sua imboccatura che ricorda i contorni dell’isola), con un colore dell’acqua che nulla ha da invidiare a quello delle più famose della nostra penisola; e soprattutto la grotta subacquea di Nereo a Capo Caccia, con i suoi 500 metri complessivi la più grande d’Europa e del Mediterraneo. Uno dei record dell’isola, che tra l’altro è anche la regione meno sismica d’Italia.

Ma le suggestioni non finiscono qui, perché in Sardegna ci sono anche delle foreste pietrificate; scenari incantati che custodiscono tipologie differenti di alberi fossili; 

tra le più notevoli quella di Martis.


Infine l’ipotesi avanzata – non senza ragione – qualche tempo fa, interrogandosi sul motivo per il quale è scomparsa la sua più antica – ed autoctona – civiltà, quella nuragica (una civiltà straordinariamente all’avanguardia per la sua epoca): la Sardegna era forse Atlantide?

 

 

 

 

 

 

 

misteri_sardegna
fine-t-storia (1)