L’ABRUZZO NON ESISTE di Marzio Maria Cimini – Numero 10 – Marzo 2018

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L’ABRUZZO NON ESISTE

 

sarebbe piaciuto a Giorgio Manganelli (1922-1990), che all’Abruzzo ha dedicato pagine terse e solenni, forse le più belle che siano state scritte su questa regione ascosa e spigolosa. Quando l’attraversò in lungo e in largo, nel 1987, scortato dall’automedonte Pino Coscetta, entrambi al soldo del Messaggero, trovò che l’Abruzzo fosse “specializzato nella produzione di freddo” e gli abruzzesi “bizzosi, protervi”, con collane di serpenti, latori di “qualcosa di acre e insieme di angolosamente elegante” 1 e gli piacquero non poco.

 

Non era nuovo alla scoperta dell’Abruzzo, Manganelli: l’attraversò con la sua Bakunina, un motorino anarchico, scendendo direttamente da Milano, sua città natale, dalla quale fuggiva, fuggendo da una madre ebrea convertita cattivissima (“qual è la differenza tra un condor e una madre ebrea? Entrambi ti mangiano il cuore, ma almeno il condor aspetta tu sia morto”), da una moglie che non lo amava, da una figlia in fasce, da un’amante un po’ matta che rispondeva al nome di Alda Merini, andando incontro al suo destino di grande scrittore, a Roma. Allievo, a Pavia, di quel Vittorio Beonio Brocchieri che alla guida di un monomotore solcava i cieli dei due emisferi puntando dritto ai Poli, Manganelli non era neppure minimamente progettato per il viaggio: pingue e nevrotico, attraversato da milioni di incubi e manie, manderà nondimeno corrispondenze mirabolanti e straordinarie dalle sue esplorazioni di mondi lontani e paradossali. Una volta che lasciò Roma per intraprendere uno dei suoi viaggi avventurosi disse che si sarebbe recato a Teramo.
 
In effetti l’Abruzzo è un luogo lontanissimo, per arrivarci senza valicare l’Appennino – che lì tocca i tremila metri del Gran Sasso d’Italia – bisogna compiere un giro intorno alla Terra, e non è detto che non sia 
la maniera più comoda e più veloce per raggiungerlo, se pure 
Boccaccio per indicare luogo nascosto e irraggiungibile 
scrive “più là che Abruzzi”2
 
E la sua distanza dal mondo, la sua albagia un po’ cisposa e un po’ voluttuosa ne fanno un oggetto strano, non pienamente definibile e tantomeno maneggevole. Anche chi v’è nato, solitamente attraversato da un amore selvatico e belluino per questa terra di “sassi, rocce, queste cose che hanno movimenti, spasimi e trasalimenti che durano millenni, e poi brividi di un secondo che fanno strage”3, ha sovente difficoltà a capire la sua terra, che si ostina ad osservare e dalla quale viene ricambiato solo da effimeri segnali d’amicizia, strette di mano calorose e fugaci. 
 
Non stupisce dunque che i foresti facciano fatica a comprendere la natura di questa terra di orsi, camozze e lupi. 
 
Che posto ha l’Abruzzo nell’Italia del XXI secolo? Anzitutto, 
ha un problema di collocazione. La storia del Novecento, curiosamente, l’ha fatta a poco a poco avanzare verso Settentrione: quanti sono oggi 
gli abruzzesi che definirebbero loro stessi pienamente meridionali? 
 
Temo pochissimi. L’Abruzzo d’oggi ha dimenticato i suoi mille anni sotto il Regno di Sicilia, poi quello di Napoli e infine sotto il Regno delle Due Sicilie. Eppure le bizzarre costruzioni degli uomini che appartengono all’ingegneria politica dopo il 1861 non hanno mai sottratto l’Abruzzo a questo suo pristino e antico legame con il Meridione della penisola. Regione più settentrionale del Regno duosiciliano e anzi irriducibile terra di confine (Civitella del Tronto, fortezza estrema posta sul confine col Regno Pontificio, resistette alle truppe sabaude duecento giorni, fino al 20 marzo 1861, ossia fino a tre giorni dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia da parte di Vittorio Emanuele II), l’Abruzzo regnicolo ha guardato cinquecento anni a Napoli quale suo riferimento morale e politico, mentre oggi pensa solo a Roma, a cui è velocemente collegata da due supersoniche autostrade, le più alte d’Europa, le più belle del mondo secondo la scrittrice premio Nobel Alice Munro, che le attraversò nel 2008 restandone incantata. Napoli e tutto il meridione sembrano oggi lontanissimi dall’Abruzzo, e non solo a causa della congenita difficoltà e lentezza dei trasporti su gomma e su rotaia che affligge il sud d’Italia, ma per ben più radicati sentimenti: l’Abruzzo d’oggi si sente appartenente ad un indefinito “centro Italia”, più simile alle Marche, all’Umbria, al Lazio che vantano tra loro apparentamenti storici assai vincolanti e illustri. 
 
Anche l’osservatore che abbia vaghe conoscenze dei popoli e delle terre aprutini – nessuno sa con esattezza i suoi confini e la sua toponomastica è flagellata dall’approssimazione – non è pronto ad ammettere l’Abruzzo tra le regioni del Mezzogiorno.
 
Ma se l’Abruzzo, meridionale e napolitano per storia, costumi, lingua, cucina, dimentica d’appartenere al Sud, ed è negletto e trascurato dal Centro, e alieno e giustamente inaccolto dal Settentrione, cessa d’esistere. Non so se l’Abruzzo sia effettivamente un dono del Sud, ma di certo del Sud è figlio legittimo e non scapestrato: del Meridione conserva la cucina sapida e ingegnosa, fatta di cibi rituali assai legati alla terra e alle stagioni, con una sostanziale distrattezza per i frutti del mare; del Meridione parla la lingua, la cui radice partenopea si avverte ovunque, inasprita dal passaggio dei monti; del Meridione porta i costumi, impreziositi dai lavori a tombolo e da arcaici schemi geometrici; del Meridione condivide, infine e soprattutto, la storia, una lunga storia fatta di seduzioni antiche e di furori ben temperati, a cui ha fornito acute intelligenze e non poche mani d’artista, che contribuirono non distrattamente a compiere i destini pre e post-unitari del Mezzogiorno d’Italia, con esiti quasi sempre felici. 
 
Non è possibile immaginare una storia d’Italia senza considerare il suo ingombrante Meridione, non è possibile immaginare 
una storia del Meridione senza l’Abruzzo.
 
E allora perché questa Regione di un milione e trecentomila abitanti, di poco più piccola della Campania e di poco più grande della Basilicata, è così desiderosa d’affrancarsi dal Sud, pronta ad abbracciare altre storie, altre tradizioni, altre lingue? Forse è il destino di tutte le terre di frontiera, mescolarsi agli altri, non definire con chiarezza i contorni della propria appartenenza, mimetizzarsi e confondersi per il timore di vedersi un giorno assaliti dall’altrui ferocia. È forse questo anche il motivo della sua atavica ospitalità nei confronti di quanti venivano dall’altra parte del Mare Adriatico, non temibili come i Saraceni in Puglia, ma contrappunto commerciale, sponda amica, portatore di Santi Patroni, come quel San Cetteo che protegge Pescara, Porta Aprutii e sera Regni, con ogni probabilità originario dei Balcani, così come dai Balcani viene quell’uso di mangiare le pecore, le stesse pecore che davano una lana di così alta qualità da essere gelosamente protetta e richiesta dai Medici di Firenze e che hanno rappresentato per secoli la maggiore fonte di ricchezza, sulla via del Tratturo Magno, per larghe porzioni della sua popolazione. 
 
Il Tratturo Magno, questa via antichissima, “quasi un erbal fiume silente”4 nelle parole del più abruzzese dei poeti, del più italiano 
dei cuori, Gabriele d’Annunzio, che milioni di pecore e migliaia 
di pastori, per mille anni e forse mille altri ancora, 
 
hanno percorso per fuggire i rigori invernali di questo esportatore netto d’inverno e di freddo che è l’Abruzzo, dai massicci del Gran Sasso e della Majella fino alle spiagge adriatiche e poi giù, ancora, verso i tepori del Tavoliere delle Puglie. È questa la via che conduce a Meridione, è questa la via che gli abruzzesi devono tornare a percorrere per ricongiungersi con la propria storia e andare fiduciosi incontro al destino. È questa la via che, “su le vestigia degli antichi padri”5, porta all’identità più profonda, segna una collocazione nell’Italia di oggi e in un Mondo dai confini sempre più sbiaditi e mutevoli, valica i confini politici delle regioni e conduce ad una nuova concezione degli spazi, costituendo entità spirituali e amministrative nuove e antiche al tempo stesso. Senza memoria delle sue appartenenze illustri l’Abruzzo non esiste.

 

1 -Tutti gli articoli che Giorgio Manganelli scrisse per il quotidiano “Il Messaggero” nel 1987 sono oggi raccolti ne La favola pitagorica, Adelphi, Milano, 2005, da cui sono tratte le citazioni riportate in questo scritto.

 

2 – V. G. Boccaccio, Decameron, Giornata ottava-Novella terza: «Disse allora Calandrino: “E quante miglia ci ha?” Maso rispose: “Haccene più di millanta, che tutta notte canta.” Disse Calandrino: “Dunque dee egli essere più là che Abruzzi.” “Sì bene” rispose Maso “sì è cavelle.»

 

3 –  Ancora G. Manganelli, op.cit., p. 106

 

4 –  G. d’Annunzio, I pastori, da Alcyone, Fratelli Treves, Milano, 1903.

 

5 –  Ibidem.

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UN MERIDIONE MARITTIMO? di Ferdinando Sanfelice di Monteforte – Numero 9 – Dicembre 2017

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UN MERIDIONE MARITTIMO?

 

NEGLI_ULTIMI_ANNI

convinte che la loro sopravvivenza futura, nonché la speranza di mantenere il livello di benessere finora goduto dalle loro popolazioni, dipendano in parte rilevante sia dallo sfruttamento delle risorse marine, sia da un maggiore coinvolgimento nelle attività del commercio marittimo. 

La maggior parte dei governi, infatti, è giunta alla preoccupante conclusione che quanto è ricavabile dalla terra o dal sottosuolo non basta più a produrre reddito per il proprio Paese, e per questo si rivolgono al mare, come fonte di future ricchezze. Sintomatica è, a tal proposito, la dichiarazione, alcuni anni fa, da parte di un Presidente della Repubblica francese, che si meravigliava del “troppo lungo oblio della Francia sulla sua vocazione marittima”1 e aggiungeva che il Paese “doveva avere una volontà politica permanente per andare verso l’oceano, per proiettarvi un’ambizione”2

Questa corsa al mare, divenuta di recente un approccio comune 
a molti governi, inclusa la Cina, spiega perché si sia verificata un’intensificazione dei contenziosi marittimi e un riarmo navale generalizzato, che ha coinvolto, tra l’altro anche 

molte Nazioni rivierasche del Mediterraneo.

La situazione nel nostro bacino è oggettivamente difficile e, anche se non ha ancora dato luogo a conflitti aperti, non sono mancati momenti di tensione tra i vari Paesi. Basterà citare lo scontro tra un convoglio di navi turche, la Freedom Flotilla, con le forze speciali israeliane, il 31 maggio 2010 e, ancor prima, la dichiarazione del Parlamento turco, che nel 1995 approvò un documento che considerava casus belli ogni espansione delle acque territoriali greche, al di là delle 6 miglia marine.

Un tale crescente livello di contenzioso, frutto di questa maggiore attenzione alle ricchezze del mare comporta, per il nostro Paese, come e più del passato, la necessità di disporre di un “Potere Marittimo” per contenere tale conflittualità e far valere i propri diritti. Ma cosa vuol dire questo concetto? Per chi non lo ricordasse, già nel 1814 un illustre napoletano, Giulio Rocco, ne definì l’essenza, affermando che esso era “nell’ordine politico, una forza somma risultante da quella di una ben ordinata Marina Militare e di una numerosa Marina di Commercio”3.Vista con gli occhi di oggi, tale affermazione del nostro insigne conterraneo non è altro che un’applicazione all’ambiente marittimo del paradigma secondo il quale “la ricchezza è in genere necessaria per sostenere la potenza militare, così come la potenza militare è di solito necessaria per conquistare e proteggere la ricchezza”, ma possedere un “Potere Marittimo” richiede precisi requisiti, sia in campo militare, sia in quello commerciale, che non sono sempre disponibili.4

Il Meridione è la parte della penisola italiana più vicina sia alle linee 
del grande commercio marittimo internazionale, sia ai bacini alturieri 
del Mediterraneo, dove le ricchezze dei fondali marini 
sono più numerose, e pretese da molti.


È quindi necessario capire come il Meridione si collochi rispetto ai requisiti di marittimità, e cercare di stabilire quale possibilità esso abbia di sviluppare le proprie attività sul mare, che oggi, ancora più rispetto al passato, è diventato la fonte primaria di benessere per un popolo.

I requisiti che definiscono la marittimità furono analizzati, verso la fine 
del XIX secolo, da uno studioso americano, Alfred Thayer Mahan, 
il quale li chiamò “elementi del potere marittimo”. Sarà quindi 
opportuno esaminare, per ognuno di essi, come si colloca 
il nostro Meridione: 
 
Posizione geografica

 

“se una nazione è situata in modo tale da non essere costretta a difendersi sulla terra né indotta a ricercare un aumento del proprio suolo sulla terra, è per la sua stessa unità d’intenti rivolti al mare, avvantaggiata rispetto a un’altra che abbia le sue frontiere sul continente”5. Se poi questa Nazione è posizionata lungo le principali rotte commerciali, lo studioso americano notava che il suo vantaggio geografico è ancora maggiore. A proposito del Mediterraneo, Mahan aggiungeva che “le circostanze hanno fatto sì che il Mare Mediterraneo abbia giocato nella storia del mondo una parte superiore a quella di qualsiasi altra estensione di mare della stessa dimensione”6. La posizione geografica del Meridione, che, con la Sicilia, taglia il bacino in due parti, potendo controllare i transiti tra queste, è quindi particolarmente favorevole, e notevole potrebbe essere di conseguenza la possibilità di sfruttare la posizione geografica per il proprio sviluppo. Basta, inoltre, uno sguardo alla carta geografica per vedere come, dal punto di vista marittimo, il Meridione si affacci su entrambi i bacini, con la costa adriatico-jonica che guarda verso il Levante, fino al Medio Oriente, e un’altra che guarda verso il Ponente, e quindi aperta ai commerci atlantici. Non vi è un’altra regione o Paese, nel Mediterraneo, che goda di tutti questi vantaggi, dal punto di vista geografico; 

Conformazione fisica.


“La linea di costa di un Paese costituisce una delle sue frontiere e più facile è l’accesso alla regione al di là della frontiera, in questo caso il mare, maggiore sarà la tendenza di un popolo ad avere relazioni col resto del mondo per quella via. Se si potesse immaginare un Paese con una estesa linea di costa, ma interamente priva di porti, questo Paese non avrebbe, di per sé, alcun commercio marittimo, né naviglio, né Marina Militare”7. Qui sorgono alcuni problemi: il Meridione, con la sua limitata disponibilità di porti, alcuni dei quali sono ormai inadeguati a favorire il commercio, spesso per mancanza di manutenzione e di ammodernamento, è quindi fortemente svantaggiato sotto questo aspetto. La situazione dei porti turistici, i “Marina”, è in effetti migliore, anche se non ancora adeguata, per numero e capacità ad accogliere tutto il turismo marittimo che le bellezze dei nostri mari potrebbero attirare. Questo è un punto sul quale è necessario impegnarsi, se si vuole che il Meridione esca dal suo presente stato di sottosviluppo;

 

Estensione del territorio.

 

“Non è tanto il numero totale dei chilometri quadrati della superficie del Paese che deve essere considerato, quanto la lunghezza della sua linea di costa e le caratteristiche dei suoi porti. A questo riguardo occorre dire che, a parità di condizioni geografiche e fisiche, la lunghezza della linea di costa è fonte di potenza o di debolezza, a seconda che la popolazione sia più o meno numerosa”8. In teoria, quindi, con la sua costa estesa e piena di piccoli ridossi, il Meridione avrebbe tutte le caratteristiche per costituire un fattore propulsivo per incrementare la potenza economica e commerciale dell’Italia. In pratica, però, ci troviamo di fronte a un grande problema, triste retaggio della Storia, come vedremo tra breve;

 

Entità della popolazione.

 

“Per quanto riguarda la popolazione, non è solo il totale generale che deve essere computato, ma il numero di gente che prende il mare o, per lo meno, che è immediatamente disponibile per l’imbarco e per la costruzione di materiali navali”9. Purtroppo, nel Meridione, la specie umana nota come “homo maritimus” costituisce una netta minoranza, ancorché di rara qualità. Questo è dovuto sia ai secoli di dominazione straniera, sia alle minacce dal mare, che hanno indotto larghe fasce della nostra popolazione a emigrare verso l’interno del Paese: i bellissimi comuni, arroccati sulle montagne, che vediamo attraversando in auto il Meridione, non sono altro che una risposta a queste situazioni ingestibili, da parte di un popolo spesso lasciato indifeso, fino al XVIII secolo. Un altro grave problema, presentatosi negli ultimi decenni, è la progressiva decadenza della cantieristica meridionale, dato che in questo importante settore produttivo i responsabili delle decisioni economiche hanno a suo tempo deciso di spostare il baricentro della cantieristica al nord dell’Italia. Ciò ha reso il Meridione particolarmente debole sotto questo aspetto, facendogli perdere know-how e posti di lavoro;

 

Carattere nazionale.

 

“Se il potere marittimo è basato su un vasto e pacifico commercio, allora l’attitudine all’occupazione commerciale deve essere la caratteristica peculiare delle Nazioni che sono state, prima o poi, grandi sul mare”10. Ma il Mahan osservava anche che “le classi nobili d’Europa ereditarono dal Medioevo un arrogante disprezzo per il pacifico commercio, un disprezzo che ha esercitato un’influenza modificatrice nel progresso di queste, a seconda del carattere nazionale di questi Paesi”11. Questa osservazione si attaglia, in modo particolare, al Meridione: anche dopo la scomparsa della nobiltà come classe dirigente, le attività commerciali vengono sia sistematicamente oppresse dalla criminalità organizzata, sia considerate di livello inferiore rispetto ad altre professioni, specie quelle del terziario. Nel Meridione il senso di legalità è un patrimonio di meno della metà della popolazione e la criminalità organizzata, che prospera solo in ambienti dove l’illegalità è tollerata, può quindi opprimere le attività produttive e commerciali, impedendo lo sviluppo delle nostre terre e incrementando la disoccupazione;

 

Carattere del governo.

 

“La condotta del governo corrisponde all’esercizio di una volontà intelligente che, a seconda che sia saggia, energica e perseverante oppure no, causa successo o fallimento nella vita di un uomo o nella storia di una Nazione. (A tal proposito) i più grandi e brillanti successi si sono avuti quando vi è stato un intelligente indirizzo da parte di un governo interamente impregnato dello spirito del popolo e consapevole delle sue genuine inclinazioni”12. Quanto i governi regionali del Meridione siano determinati a far sì che il nostro Sud possa godere di uno sviluppo duraturo grazie alle attività marittime, è una domanda che è lecito porsi

 

In effetti, qualcosa è stato fatto, ma con una popolazione in gran parte lontana dal mare, com’è stata per secoli quella del Meridione, molto c’è ancora da fare per invertire la tendenza. 

 

Come si può notare dalle considerazioni finora elencate, esistono notevoli impedimenti a uno sviluppo della marittimità del Meridione, malgrado l’enorme potenziale, essenzialmente geografico, che la favorisce.

 

In buona sostanza, le azioni necessarie, per colmare il divario esistente, rispetto alle potenzialità in campo marittimo del Meridione, 

sono, in ordine di importanza: 

 

 Educare e abituare alla vita di mare una maggiore aliquota 

 della nostra popolazione.

 

Molti encomiabili sforzi sono stati fatti da parte di Associazioni, come la Lega Navale, ma è necessario che tali sforzi vengano non solo incoraggiati, ma anche integrati da un’azione ben più energica da parte delle Pubbliche Amministrazioni. Portare una popolazione verso il mare richiede anche una propaganda capillare per convincere l’opinione pubblica del Meridione che il mare non è più un pericolo, ma un’enorme opportunità;

Migliorare i porti.


Questo è un problema generale dei Paesi del Mediterraneo. Osservava, a tal proposito, l’intellettuale francese, Jacques Attali, che “i porti maggiori di questo mare sono al quarantesimo o al cinquantesimo posto nel mondo, (e) scadono annualmente in tale classifica”13. Un’azione decisa in tal senso, quindi, porterebbe al Meridione un benessere notevole, come mostra lo sviluppo di Gioia Tauro, che è diventato –
rara avis – uno dei porti maggiori del bacino;

 

Incentivare la cantieristica meridionale, la cui decadenza 

ha raggiunto un livello preoccupante.

 

Se è vero che la concorrenza dei Paesi asiatici è forte in questo campo, è altrettanto vero che le costruzioni navali di alta qualità e prestazioni sono un settore strategico, dove ben pochi Paesi possono competere con le qualità di noi meridionali in fatto di ingegno e di progettazione;

Dare un ulteriore impulso alle attività turistiche sul mare.


Chi sia andato sulla Costa Azzurra, da Nizza fino a Tolone, può vedere quanto indietro siamo noi meridionali, in questo campo. Con le coste e isole che abbiamo, potremmo più che raddoppiare le presenze di turisti e appassionati del mare. Servono più porti e più servizi, che generano indotto e occupazione. 

 

A monte di tutto, però, deve esserci una maggiore consapevolezza che non vi è sviluppo senza legalità. Proprio il settore dell’economia marittima è quello che necessita, come e più di altri, di legalità e di trasparenza.

 

Se la maggioranza della nostra popolazione non si convince 

che le attività economiche vanno protette dall’illegalità, dalla 

corruzione e dalla criminalità, nulla potrà consentire 

lo sviluppo di un “meridione Marinaro”.

 

Infatti, non ci vuole molto per perdere questa occasione di sviluppare le attività sul mare e altri Paesi, pur meno dotati del nostro Meridione, sarebbero ben felici di toglierci fette importanti di benessere in questo settore. Il rischio è quello di rassegnarci a vedere gli altri prosperare sul mare e, al massimo, “servire loro il caffè”! 

In definitiva, non ci si può limitare a vedere i futuri perni dell’economia del Meridione né nel turismo in genere né nella manifattura di prodotti di basso valore aggiunto, come si è pensato di fare. Una decisa sterzata verso l’eccellenza in campo marittimo, in tutti i settori di attività, è necessaria se si vuole stimolare uno sviluppo bilanciato e durevole del Meridione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Ferdinando-Sanfelice

1 Discorso del Presidente SARKOZY a Le Havre, 16 luglio 2009.
2 Ibid.
3 G. ROCCO. Riflessioni sul Potere Marittimo. Ed. Lega Navale Italiana, 1911, pag. 1.
4 P. KENNEDY. Ascesa e Declino delle Grandi Potenze. Ed. Garzanti, 1989, pag. 20.
5  A.T.MAHAN. L’influenza del Potere Marittimo sulla Storia. Ed. Ufficio Storico Marina Militare, 1994, pag. 64.
6 Ibid., pag. 68.
7 Ibid., pag. 70.
8 Ibid., pagg. 77-78.
9 Ibid., pag. 79.
10 Ibid., pag. 84.
11 Ibid., pag. 88.
12 Ibid., pag. 92.
13 J. ATTALI. La Méditerranée ou l’ultime utopie, in Défense Nationale et Sécurité collective, numero speciale dedicato all’Unione per il Mediterraneo, 2008.

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1 Campania
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2 Puglia
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3 Sicilia
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4 Puglia
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5 Abruzzo
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6 Basilicata
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LE BUFALE STRALUNATE DI PIOVENE di Francesco Ricciardi – Numero 9 – Dicembre 2017

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LE BUFALE STRALUNATE DI PIOVENE

 

 

Piovene batteva palmo a palmo lo Stivale per conto della Rai quando, giunto nelle campagne di Paestum, prendeva per la prima volta contatto con quello “strano e primitivo animale, dagli occhi spiritati”

e con il delicato rito della mungitura: “La bufala si incontra in tutta la Campania; nella zona di Paestum gli allevamenti sono fitti, ed il caso ha voluto ch’io la conoscessi qui. Vi è certo una specie di affinità poetica tra quel grande animale nero e le antiche rovine. Armato di un bastoncino dalla punta di ferro, il massaio, che regola la vita delle mandrie, mi ha condotto dentro il recinto; le bufale facevano davanti a noi quasi un muro compatto, fissandoci a muso basso con espressione stralunata; se non fosse stata la fiducia nei poteri magici del bastoncello del massaio, avrei apprezzato meno la poesia della visita. Quell’animale primitivo è però strano e intelligente. Rifiuta di lasciarsi mungere se non ha il proprio piccolo attaccato a un capezzolo; soltanto allora, per nutrirlo, rilascia il suo prezioso latte, che altrimenti può trattenere. E infatti, ad ogni mungitura, il piccolo è presentato alla madre; questa cerimonia però richiede una specie di rito.

Al momento del parto, l’unico uomo che la bufala riconosce, il massaio, le grida il suo nome all’orecchio. Il nome non consiste in una parola, bensì in una frase cantata.

 

La bufala non la scorda più; diviene per sempre il suo nome, e insieme l’appello del figlio che chiede d’essere allattato. Anche tra duecento bufale, ognuna nel branco conosce la frase modulata che la distingue”. A questo punto il lettore perdonerà una divagazione personale a chi scrive, che coltiva il vezzo di considerarsi un intenditore della materia… in fondo può vantare un consumo familiare vecchio di alcune generazioni, una sorta di Dna latticino. La famiglia di mia nonna materna, infatti, gli Alfani, nelle sue vaste proprietà, con diverse fattorie attive nella piana del Sele (tutte sulla sponda destra del fiume) tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento allevava circa 8000 bufale (e altrettanti cavalli). Furono tra i primi nel Salernitano, gli Alfani, a produrre in maniera “sistematica” mozzarella di bufala. Era una produzione destinata piuttosto all’uso familiare, per la gioia propria, dei tanti amici e clienti (nel senso latino del termine), dei contadini ecc. Le mozzarelle, infatti, per la loro deperibilità e le caratteristiche di assoluta freschezza che devono avere al momento di essere consumate, mal si prestavano ad un esteso commercio. Che la diffusione della mozzarella fosse limitatissima è provato, peraltro, dalla sua totale assenza nelle figurazioni del Presepe napoletano, dove invece fanno bella mostra di sé provole e caciocavalli appesi alla porta delle case o sulle botteghe dei salumieri.

Alimento di lusso, dunque, la mozzarella… tanto che, in epoca borbonica, la sua produzione e la commercializzazione avvenivano addirittura nella Tenuta reale di Carditello.

 

Da qui ogni giorno venivano inviati latticini freschi per la tavola del re, e il resto della produzione era venduta ai privati, costituendo una delle voci più cospicue delle rendite reali. Siamo verso la fine del Settecento e l’affermarsi del consumo dei latticini di bufala va certamente collegato con l’attività della Tenuta reale, dove venivano anche apportate migliorie agli allevamenti e alla razza mediante incroci indovinati. Re Ferdinando, infatti, se da un lato lasciò assai a desiderare quanto a doti politiche, non era per nulla scarso sul versante del bel vivere. Trascurava, insomma, volentieri i problemi pratici del suo regno ma sapeva come godersi la vita. Era anche buongustaio e i suoi latticini amava consumarli freschi, così come arrivavano sulla sua tavola. E faceva bene. È solo un parere personale ma nessuno mi toglierà mai dalla testa la convinzione che utilizzare la mozzarella di bufala in qualsivoglia preparazione di cucina sia uno spreco: se cucinata, infatti, perde quasi del tutto il suo sapore e quella consistenza inconfondibili… meglio allora usare una qualsiasi mozzarella di latte vaccino. Come si conviene a una regina della tavola meridionale, la mozzarella di bufala va consumata fresca – alcuni, tra cui il sottoscritto, la preferiscono del giorno prima – e gustata da sola.

 

La sua pasta inconfondibile, la forma e la consistenza non hanno riscontro in nessuno dei prodotti simili.

 

Perché – per dirla con Maria Rivieccio Zaniboni (Cucina e vini di Napoli e della Campania – Mursia 1975) – non solo occorre che le bufale pascolino nelle piane di Aversa e di Paestum, ma occorre che pascolino di notte quando la luna batte e illumina d’argento le pianure e gli acquitrini. È questa luna, ci ha raccontato un amico, che ne arricchisce e ne impoverisce il latte per cui, a detta degli esperti, un legame arcano passa tra il sapore della mozzarella e le fasi lunari così come altri orfici legami restano intrecciati con il colore dell’erba dei pascoli o addirittura con i venti che corrono sul litorale sul quale sciaborda quel mare su cui veleggiarono un giorno lontano Ulisse ed Enea”. È un mondo, quello descritto dalla Rivieccio Zaniboni, che purtroppo è finito per sempre, sepolto dai moderni metodi di allevamento che ospitano gli animali in stalle attrezzate e a cicli di produzione programmati che hanno tolto le bestie dagli acquitrini primordiali.

 

Le bufale che ancora si vedono oggi percorrendo le vie della Piana 

del Sele spesso sono messe lì per bellezza, magari come semplice richiamo per un caseificio che ha il proprio punto vendita 

lungo la strada.


Già dal 1993 il “Consorzio formaggio tipico mozzarella di bufala” ha ottenuto la doc (sicché può fregiarsi di questo nome solo la mozzarella prodotta al 100% con latte bufalino, confezionata in sacchetti adeguati recanti l’apposito contrassegno) ma, come avviene anche per altri prodotti, non è tutto; come le mozzarelle di bufala non sono tutte uguali. Non basta fermare la macchina ad Aversa o Battipaglia, entrare dal primo rivenditore che capita ed essere sicuri di portare a casa una buona mozzarella. Ve ne sono anche di pessime. Se il caseificio non ha un buon “casaro”, personaggio strategico che racchiude in sé esperienza, competenza e tecnica, non produrrà mai una buona mozzarella. E il “napoletano”, che tra i suoi oggetti di culto, cui non può o non vuole rinunciare (la pizza, i maccheroni, il sole, il mare, San Gennaro…), ha anche la mozzarella, sarà in grado di riconoscere al primo boccone se è buona, in barba a qualsiasi normativa.

Il nome delle bufale


Secondo Achille Bruni (Dell’Agricoltura e Pastorizia del Regno di Napoli, 1845) «la bufola figlia una volta l’anno, porta 10 mesi circa, ed ha moltissimo amore per la sua prole. È chiamata con nome e con una certa cantilena, e così essa si muove dal luogo ove pascola, e si avvicina alla persona per farsi mungere». È tutto vero: ama i suoi piccoli e risponde al richiamo. I nomi, quasi delle frasi, devono essere cantati: «È una cantilena orientale – dice Piovene – certo d’origine remota, simile a quella del muezzin dal minareto, e che il massaio invece modula all’alba davanti al branco. Successivamente le bufale escono dalla mandria e si consegnano docili ai mungitori; senza la frase magica non uscirebbero, e si ribellerebbero al tentativo di mungerle con tutta la loro furia selvaggia». Ogni annutolo, dunque, appena il massaro intonava il suo nome – diverso nelle parole e nel ritmo dagli altri – rispondeva al proprio e accorreva, seguito dalla madre che, anch’essa rispondendo al richiamo, lo raggiungeva lasciando il gruppo.

Potevano essere centinaia, le bufale, ognuna aveva il suo versetto inventato apposta per lei dal massaro.

 

Traducendo i nomi citati in italiano da Piovene, questi “in lingua” suonerebbero più o meno così: Chesta se ‘ntrica ‘ e tutto (s’impiccia su di tutto); Tu nun si’ mai cuntenta (non sei mai contenta); ‘A canzona è bella ‘a ssentì (la canzone è bella da sentire); Me piace pecché è bell’ e giovane (mi piace perché è bella e giovane); ‘Onna Rosa cumanna a tutt’ quante (Donna Rosa comanda tutte); Tu me fai ‘a presumente (Tu mi fai la presuntuosa); I’ song’ bella o’ veramente (sono veramente bella). 

Anche il poeta Rocco Scotellaro in ‘Contadini del Sud’ ci riferisce di alcuni di quei nomi magici: «Ogni bufala ha un nome che è un versetto e i nomi di una mandria di bufale sono un poema! ‘Nu turzu… ‘nu turzo t’è lassato ‘n canna (il nocciolo… ti è rimasto in gola); ‘A malatia… tiene sempre ‘sta malatia (la malattia… hai sempre la stessa malattia); ‘E cane… pure ‘e cane stanne amare (anche i cani sono tristi); ‘A cuccagna… sta cuccagna pure fernisce (la cuccagna… anche questa cuccagna finisce); A lu fine… a lu fine se sente l’addore (dal friggere… dal friggere si sente l’odore)». E mia nonna Angelica ce ne ha tramandato alcuni creati dai suoi massari, tra cui ricordo: Vac’ a Ievol’ a fa’ ammore (Ievol’ sta per Eboli), Tavernanova alloggia a tutti (a Tavernanova sorgeva la maggiore tra le aziende agricole di famiglia), ‘O signurino ‘nsisto, dove per signorino prepotente si intendeva Mariantonio, il primogenito della famiglia… Si, perché alcuni nomi potevano essere anche un pretesto, un mezzo indiretto usato dal massaro per dire la sua al padrone, perfino per insultarlo, giacché tra massaro e bufala il padrone non si poteva intromettere.

La parola mozzarella

 

Già alla fine del Seicento Antonio Latini, nella “Breve descrizione del Regno di Napoli in ordine alle cose commestibili”, indicava Acerra come luogo principe per la produzione di provole; e, poco più di un secolo dopo, lo confermava Vincenzo Corrado che nelle “Produzioni del Regno di Napoli” inserisce questi latticini tra i prodotti tipici della città che aveva dato i natali a Pulcinella: “Si fa grande industria e commercio di provole, di mozzarelle, di burrielli, e di altri freschi latticini, giacché vi sono procovj di vacche e di bufale. Parimenti – egli prosegue – per la città di Aversa…”.

Ma la prima citazione sicura del termine mozzarella, diminutivo 

di mozza, risale alla seconda metà del XV secolo quando Pietro Mattioli (“I discorsi”), parlando di latte, citava “quello di bufala di cui si fanno quelle palle legate con giunchi che chiamiamo mozze 

e a Roma provature”. 

 

Mozzarella, provatura, provola… negli antichi ricettari si parla in genere di provatura, termine usato un tempo nelle zone del Lazio meridionale, tuttora zona di bufali, per indicare i formaggi freschi bufalini lavorati come la mozzarella; provola invece era il nome usato in Campania, sostituito poi con la parola mozza e con il diminutivo mozzarella, dal verbo mozzare, chiara allusione ad uno dei momenti significativi della lavorazione. Con l’andar del tempo provatura è finito nel dimenticatoio come termine arcaico, usato solo in qualche ricetta della tradizione romana (crostini di provatura), e provola invece è rimasto ad indicare il formaggio bufalino o vaccino affumicato, un espediente, questo, usato per una migliore conservazione e un più facile trasporto e commercio. Sulla storia delle bufale e della loro presenza in Italia esistono pareri quanto mai controversi. Alcuni, basandosi su un brano di Plinio, affermano che i bufali sarebbero stati presenti già in epoca Romana. C’è poi l’affermazione di Paolo Diacono nella sua Historia Longobardorum, secondo la quale i bufali sarebbero arrivati in Italia al seguito di Agilulfo, re dei Longobardi intorno al 596 d.C.  

Nell’Ottocento, altri autori ipotizzarono che essi fossero stati introdotti 

in Sicilia dagli Arabi e, successivamente, per opera dei Normanni, dall’isola importati nelle regioni meridionali.


Nessuna delle ipotesi può vantare prove inconfutabili, nessuna storia è più vera dell’altra, anzi, è probabile che tutte abbiano un fondo di verità e che le bufale d’oggi siano un misto di tutte le razze del passato. Per la storia della nostra gastronomia la cosa è irrilevante poiché le prime testimonianze di formaggio bufalino si hanno solo molti secoli dopo. Una cosa è certa, però, due sono le localizzazioni originarie (solo in seguito si aggiungeranno il Foggiano e la provincia di Latina): una nei territori di Acerra e Capua, l’altra nella piana del Sele, dove la presenza di questi animali è abbondantemente testimoniata. Tra l’altro il bufalo, sconosciuto nel resto d’Europa, suscitava la curiosità di quei viaggiatori stranieri del Settecento così ardimentosi da spingersi fin qui. Essi, tornati in patria, raccoglievano le loro esperienze nei famosi diari di viaggio, in cui non di rado si parlava dei bufali. Così J. W. Goethe: “… attraversando canali e ruscelli e incontrando bufali dall’aspetto di ippopotami e dagli occhi iniettati di sangue…”; e così C. V. De Salis Marschlins: “… razza di bestiame alla quale si porta da alcun tempo molta attenzione… le mandrie più numerose si ritrovano sulle rive del Garigliano e nelle pianure a settentrione della Terra di Lavoro…”.

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e il suo Viaggio in Italia (1957), libro del quale l’anno appena trascorso ha festeggiato il sessantesimo compleanno, come del suo autore i 110 anni dalla nascita. Fu, quello dello scrittore vicentino, un lavoro speciale, un affresco straordinario del nostro Paese che Eugenio Montale, nel recensirlo, non esitò a definire “un viaggio di ricognizione di una completezza senza precedenti”. A mezzo secolo dalla sua pubblicazione, non è ancora apparso un altro libro di viaggio capace di penetrare così a fondo nella realtà del paese, tanto da poter essere letto con piacere e profitto anche in funzione dell’Italia di oggi.

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CAMPI CITTA’ DEL LIBRO di Gianluca Anglana – Numero 9 – Dicembre 2017

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CAMPI CITTA’  DEL LIBRO

 

Gianluca-Anglana-cultura
da carmelo bene

Novembre 2017. 

Metti una sera in Puglia. Si sente odore di autunno: è quello dei camini accesi e della carne cotta alla brace. È già il crepuscolo e le strade brulicano ancora di vita. È la folla composta e discreta di coloro che amano i libri, di chi cerca la cultura. Capannelli di gente si formano davanti all’ingresso della Chiesa di San Giuseppe. A giudicare dalla sua facciata austera non diresti mai che, all’interno, svetta un altare centrale pregevolissimo, quasi un retablo spagnolo: un piccolo capolavoro, insomma, in cui riconoscere la firma di Giuseppe Cino, architetto tra i più insigni del barocco leccese..

santa maria
Palazzo Marchesale

“Campi città aperta”, si potrebbe dire, parafrasando Roberto Rossellini:
le vie del centro sono spalancate alla milizia del sapere.
I suoi monumenti s’illuminano a festa: accolgono
i pellegrini della conoscenza.


Si va a caccia dell’evento più attrattivo. Si sfida l’imbarazzo della scelta. Gruppi di curiosi stendono davanti agli occhi, come una mappa del metrò, il programma della Città del Libro, il festival dell’editoria giunto quest’anno alla sua ventiduesima edizione. Un bel traguardo, per Campi Salentina, il paese che se ne attesta la paternità e che lo ospita sin dal 1995. Un vanto per questa terra, vero motivo di orgoglio, per lo più snobbato dalla stampa nazionale, distratta dagli schiamazzi della politica e dal sensazionalismo della cronaca nera. L’Imam di Lecce, Saiffedine Maaroufi, al quale mi presento, si chiede, mi chiede: «dove sono i giornalisti?» Mi concede parte del suo tempo prima di tornare a Lecce. È un uomo dagli occhi sorridenti, dalla barba fitta e da quella, che mi sembra, una palpabile fiducia nel futuro. Il suo intervento è inserito nella Rassegna dal titolo I cammini dell’uomo verso un nuovo umanesimo. Si compiace dell’interesse della gente e si rammarica della scarsa attenzione dei mass media: un’assenza esecrabile, a mio modo di vedere, in un periodo storico in cui invece sarebbe più saggio investire sugli incontri, piuttosto che sui presunti scontri di civiltà. Scambiamo qualche parola: scopro che è originario della Tunisia. Commentiamo insieme il dibattito appena conclusosi tra la scrittrice Simona Toma e Sumaya Abdel Qader, blogger perugina, di origine giordana, oggi consigliera comunale della città di Milano nonché autrice del libro Porto il velo. Adoro i Queen. Molta la partecipazione, soprattutto al femminile: alcune lettrici hanno fame di conoscere, sono animate dalla curiosità e pongono alla Signora Qader domande sulla religione musulmana, sulla cultura araba e sulla condizione della donna nelle aree di fede islamica.

 

C’è una bella atmosfera a Campi, c’è voglia d’incontro, c’è il desiderio 

di capire e di capirsi, c’è la curiosità di conoscere meglio altri individui, altri popoli, altre culture, altre religiosità. C’è l’aspirazione 

a cercare elementi unificanti piuttosto che divisivi.

 

E non potrebbe essere altrimenti, visto che l’Edizione numero ventidue di Città del Libro è dedicata ad Abramo – leggo sulla pagina web del Festival letterario – «il cui nome significa ‘padre di molti popoli’» e costituirà un riferimento culturale fondamentale capace di far dialogare le letterature e i popoli che abitano l’area mediterranea e africana. Una moltitudine di nomi importanti: lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun; il Direttore Generale di Treccani, Massimo Bray; il giornalista Domenico Quirico; la giurista francese Jeannette Bougrab; la scrittrice inglese Nicolette James, solo per citarne alcuni. 

 

Dicembre 2017. È un mattino di sole. Negli uffici comunali, incontro il Sindaco di Campi Salentina, il Prof. Egidio Zacheo1, cui va l’indiscutibile merito di avere dato i natali alla Città del Libro nel 1995.

Fu l’inizio di un rinascimento: Campi, che fino ad allora saliva
alla ribalta delle cronache esclusivamente per fatti di malavita, 

cominciò a mutare volto, a credere maggiormente in se stessa – fregiandosi persino del titolo di Città grazie a un Decreto della Presidenza della Repubblica2 – e a tributare maggiore rispetto 

al suo passato sfavillante e ai suoi monumenti 

sia architettonici sia umani. 

 

Pochi sanno, ad esempio, che a Campi sorge uno dei rarissimi esempi di arte gotica nel Salento: si tratta dei resti della Cappella Maremonti, rinvenuti quasi per caso all’interno della Chiesa Principale. Pochi sanno che Campi è il luogo in cui è nato uno dei massimi artisti italiani del Novecento, Carmelo Bene, cui va il merito di avere cambiato per sempre il teatro italiano.

 

Perché il Sud migliore, quello produttivo e propositivo,
fatica ancora a fare notizia?

 

«Mi meraviglierei del contrario. In tutti i campi, il Sud ha maggiori difficoltà rispetto al resto d’Italia. Molti eventi, che si tengono nel Mezzogiorno, soffrono l’indifferenza dell’informazione. È un po’ ciò che è accaduto alla Città del Libro, la quale tuttavia quest’anno ha catalizzato un’attenzione maggiore perché la formula utilizzata è stata davvero innovativa: non si poteva non tenerne conto. Il 2017 ha segnato un cambio di passo, potremmo dire un salto di qualità. La Città del Libro è stata per anni la Fiera del Libro, cioè l’incontro di autori ed editori per pubblicizzare e far vendere libri: cosa del tutto legittima e positiva, per carità, sia benvenuta ogni iniziativa volta a fare vendere più libri. Quest’anno, però, abbiamo pensato a qualcosa di diverso. La nostra rassegna non poteva più essere la Fiera del Libro: doveva avere obiettivi culturali di più ampio respiro. Abbiamo voluto un evento che avesse un ruolo strategico, che fosse uno strumento di dialogo tra le varie sponde del Mediterraneo».

 

Un ponte tra le culture e le nazioni…

 

«Noi abbiamo creato e creiamo opportunità di dialogo in una fase storica in cui invece si amplificano il contrasto, l’incomprensione, persino il timore del diverso (pensi, ad esempio, al fenomeno delle migrazioni in Europa che suscita paura e sgomento). Tutto ciò si combatte con la cultura e con il dialogo. Il nostro è un obiettivo ambizioso, che noi dobbiamo proporci di portare avanti, perché la Puglia è una regione vocata a questo compito, perché il Salento è un avamposto proiettato nel Mediterraneo, un osservatorio atto a favorire formidabili momenti di scambio. E noi abbiamo pensato di fare di Città del Libro un’occasione per intrecciare dei contatti culturali con altre genti. Abbiamo stabilito rapporti di scambio con case editrici e autori al fine di favorire la pubblicazione in Italia di opere edite nei Paesi con cui abbiamo collaborato e viceversa; è stata siglata un’intesa tra Università di Lecce, Città di Campi e alcuni Atenei del Nordafrica per un Erasmus nella direzione di quei Paesi, insomma un Erasmus verso il Sud piuttosto che un Erasmus verso il Nord3. Campi diventa lo snodo di questa intesa, che prevede iniziative di varia natura. Campi è il comune che avrà la regia di tutto questo. In questa progettualità sta la novità rispetto al passato e risultano coinvolti la Regione Puglia e l’Università di Lecce e quindi tutto il territorio. La finalità è combattere la diffidenza, i pregiudizi e la paura con il dialogo, tramite l’interazione tra culture di varia provenienza. Città del Libro aveva bisogno di trovare una sua specificità, data anche la collocazione geografica del Salento e di Campi in particolare in quanto baricentrica rispetto alle tre province4. Quest’anno, ribadisco, c’è stato il grande salto di qualità: prova ne è la partecipazione di personalità di grande rilievo e caratura».

 

Sono passati molti anni dal 1995, quando ebbe l’intuizione 

di scommettere sul suo paese e dare vita ad un festival 

dedicato ai libri. Che cosa la spinse a questa scommessa?

 

«Allora Campi era in mano alla criminalità organizzata. Ci chiedemmo: come combatterla? Scommettemmo sulla cultura: a nostro modo di vedere, la cultura poteva vincere la barbarie. I cittadini avrebbero potuto riappropriarsi della loro città (qui alle otto di sera c’era il coprifuoco!), se si fossero rammentate loro la nobiltà delle proprie radici e la ricchezza culturale della loro terra. Quell’amministrazione organizzò quindi feste, spettacoli, concerti, incontri, presentazioni di libri, mostre; costituì perfino un’orchestra comunale; esaltò il talento e la creatività e la gente cominciò a reimpossessarsi della città. E man mano che i cittadini si reimpossessavano degli spazi pubblici, arretrava la criminalità. Potemmo certo contare sul sostegno degli altri livelli istituzionali, delle forze dell’ordine, delle scuole e delle associazioni. Ma fu la cultura a dimostrarsi la carta vincente, il grimaldello con cui scardinare il meccanismo dell’illegalità. Alla fine di ogni anno scolastico, veniva donato un libro a tutti gli studenti, inondando la città di millecinquecento volumi: fu così che prese quota l’idea di Città del Libro. È stata una scommessa bella e anche difficile, perché abbiamo fatto tutto con le nostre mani. Pensi che l’anno scorso la Regione Puglia ha stanziato più di un milione di euro per la Notte della Taranta e ventunomila euro per la Città del Libro. C’è proporzione? Noi siamo riusciti a portare avanti la nostra manifestazione, perché ci abbiamo creduto e perché siamo aiutati dai cittadini e da un numero di persone straordinarie che per più di due mesi lavorano gratuitamente»

In un’intervista dello scorso Giugno, il Presidente della Fondazione della Città del Libro, Cosimo Durante, ha parlato 

di un nuovo modo di fare turismo: quello sostenibile, 

quel turismo che procede orientato dai beni e dagli interessi culturali e quindi anche da appuntamenti come Città del Libro (che vanno ad inserirsi in Puglia3655). 

Qual è la Sua idea di turismo?

 

«Consideri quello che è accaduto a Gallipoli, parlo del turismo “mordi e fuggi” e di puro intrattenimento, che nega la valorizzazione delle risorse culturali di una località. Mentre la parabola di questa forma di turismo ha toccato il suo picco massimo, a Gallipoli ha chiuso i battenti l’ultima libreria cittadina6. Ecco, noi tentiamo di muoverci nella direzione esattamente opposta. Vogliamo un turismo intelligente che valorizzi le risorse culturali, artistiche, storiche, monumentali e soprattutto umane: questa terra vanta la luce di figure straordinarie. Vede, noi abbiamo affidato l’inaugurazione dell’Edizione 2017 della Città del Libro a un concerto dell’ottima Orchestra del Salento, la quale, nella magnifica cornice della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, ha eseguito un’opera di Carmelo Bene. Carmelo Bene, un genio salentino, ha reinterpretato il Manfred di Robert Schumann sul testo di Lord Byron7. Mi sono venuti i brividi! La nostra terra ha dialogato con le espressioni più alte della cultura universale: e Carmelo Bene era di Campi! Quella sera si capiva visivamente quante potenzialità abbiamo: e invece per Carmelo Bene, per la musica e per gli artisti e i musicisti locali abbiamo fatto ancora troppo poco». 

 

Perché mancano manifestazioni teatrali di alto livello
nella città di Carmelo Bene?

 

«Il Salento è una terra che nei confronti del suo figlio illustre ha mostrato di avere una certa smemoratezza: noi abbiamo voluto farle tornare la memoria. Come? In primo luogo, nel corso del 2017 e con bando nazionale, ha avuto luogo la prima edizione del Premio Carmelo Bene: una commissione di Docenti Universitari ha premiato due tesi di laurea e una pubblicazione sull’Opera di Carmelo Bene8. Inoltre, il Teatro di Campi è stato già intitolato a Carmelo Bene: è il primo teatro a lui dedicato in Italia e nel Mondo. In più, stiamo lavorando per tenere a Campi nei prossimi mesi, spero prima dell’estate, un convegno nazionale che si riunisca magari con cadenza biennale e che faccia un po’ il punto sugli studi su Bene. Questa è la progettualità per Carmelo Bene, per la cui radicazione occorre tempo».

 

A proposito di viaggiatori e di turisti in cammino, colpisce 

la collaborazione tra Fondazione Città del Libro e Matera 2019. 

È facile fare sistema tra realtà meridionali?

«Sia nel mondo dell’impresa sia nel mondo politico-istituzionale, non siamo educati a fare sistema: questo ci rende più deboli. Noi facciamo fatica a trovare l’appoggio o la collaborazione stabile da parte del settore imprenditoriale o bancario, salvi alcuni casi. Proprio per questo, Città del Libro è un piccolo miracolo del Sud».

 

L’edizione numero ventidue di Città del Libro si è tenuta a Campi dal 23 al 26 Novembre. Proprio il 27 Novembre il Sole 24 Ore pubblicava la consueta classifica annuale del benessere socio-economico delle province italiane. Anche quest’anno le province meridionali occupano la parte bassa della classifica. Mi colpiscono in particolare le ultime due posizioni, assegnate rispettivamente a Taranto e a Caserta, territori ricchissimi di storia e un tempo gloriosi.

Fa specie vedere così in affanno l’antica Tarentum e la città 

della Reggia. Lecce è centoquattresima su centodieci. 

Secondo Lei, cosa serve al Meridione per decollare?

 

«Più civismo. Risorsa fondamentale per la qualità della vita. Civismo vuol dire legare di più il cittadino alla dimensione pubblica. Per ragioni storiche, i nostri concittadini non sentono questo legame. Quella meridionale non è solo una questione economica, bensì anche di civismo. Il civismo comporta la valorizzazione di ciò che è di tutti. Il pubblico è cosa di tutti: la nostra mentalità tende a ritenere che ciò che è pubblico è di nessuno. Dobbiamo lavorare sulla piena valorizzazione dei nostri tesori e talenti, perché il nostro meglio entri in un sistema pubblico. Lecce è una città meravigliosa: perché affonda tanto nelle graduatorie nazionali? Perché i cittadini sentono il rapporto con la dimensione pubblica in modo debole. Potenziare il civismo significa accrescere la qualità della vita. L’illusione è che si possa stare bene restando isolati: se si resta isolati, non si sta mai bene. E se manca la dimensione pubblica è difficile essere felici».

Che cos’è per Lei il Dono del Sud?


«Il Sud è ricco di doni. La civiltà moderna è nata in queste contrade: noi siamo la terra di Federico II. Qui sono nati l’arte moderna, la cultura moderna, il diritto moderno, la scienza moderna. Come? Attraverso le contaminazioni. Ecco la “Città del Libro-ponte”: la cultura araba è stata promossa da Federico, perché ai suoi tempi quello arabo era un sapere avanzato (soprattutto sul piano scientifico e filosofico), perché ai suoi tempi il Nord dell’Europa eravamo noi. Il Sud è una terra piena di doni: ha donato molto al mondo e poi ha smarrito questo ruolo, perché non ha saputo diventare comunità. Noi abbiamo bisogno della comunità, d’istituzioni e classi dirigenti credibili, di legare il cittadino al destino comune, di fargli capire che ciò che è di tutti è di tutti e non di nessuno. Gli interventi finanziari, da soli, sono inefficaci: il divario rispetto al Nord è rimasto, perché di matrice culturale».

Se lei volesse fare uno spot per Campi Salentina, 

quale slogan utilizzerebbe?


«Mi lasci partire da un esempio. Carmelo Bene non è un prodotto casuale. Tra la fine del 400 e tutto il 600, Campi è stata una comunità molto attiva dal punto di vista artistico e specialmente teatrale. C’era un humus. Questa è una città ricca di cultura e figure straordinarie. Questo consentirebbe a Campi di entrare nel futuro con più equilibrio e sicurezza. Perciò ecco lo slogan che io conierei: grazie a una cultura antica proiettarsi verso l’avvenire. Guardi, Federico II di Svevia veniva in queste terre con Pier delle Vigne per cacciare e contemporaneamente ragionare delle Costituzioni di Melfi, promulgate nel 1231. Federico è un brand della Puglia: opere straordinarie come il castello federiciano di Brindisi o la Torre di Leverano9 andrebbero messe a sistema. Federico era puer Apuliae, sicché auspicherei un percorso prettamente salentino dei luoghi federiciani: Oria, Leverano, Campi Salentina, Lecce. Dietro questo circuito dei monumenti si nasconde un circuito intellettuale, in cui la Puglia e il Salento hanno ancora molto da dire. Abbiamo creato la ricchezza materiale: va bene. Abbiamo riempito lo stomaco: va bene. Ora, è tempo di investire in cultura. Riempiamo un po’ la testa… Riempiamo un po’ la testa…». 

 

La mia conversazione finisce con la cordialità di una stretta di mano. Esco dal Municipio ed entro nella luce abbagliante di quest’autunno che muore. Sento il vento del Nord che mi annusa il cappotto: osservo l’eleganza dell’entrata laterale della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, che da quel vento ha preso il nome, la Porta della Tramontana. Procedo in direzione del Palazzo Marchesale e penso a Federico a caccia, nei boschi attorno a Campi: il fascino di questa terra ricca di storia mi riempie un po’ la testa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

decoro cultura
1  Il Prof. Zacheo è stato più volte sindaco di Campi (dal 24 aprile 1995 fino al 13 febbraio 2001: oggi è in carica dal 27 maggio 2014).
2 DPR 2 settembre 1998.

3 Si tratta di una Dichiarazione di intenti, siglata a Campi Salentina il 24/11/2017, da una parte, da Città del Libro, a firma del Sindaco Zacheo oltre che del Presidente della Fondazione “Città del Libro”, Cosimo Durante, e dell’Assessora all’Industria Turistica e Culturale della Regione Puglia, Loredana Capone; dall’altra, dall’Università di Lecce, dagli Atenei di El-Tarf e Annaba in Algeria e dall’Università Mohammed V di Rabat in Marocco.

4 Lecce, Brindisi e Taranto (nda).

Puglia365 è il piano strategico del turismo della Regione Puglia per il periodo 2016-2025.

6 Cfr. articolo del 14/12/2017 pubblicato su www.illibraio.it .

7 Il Manfred è uno spettacolo teatrale del 1978, diretto, interpretato e tradotto da Carmelo Bene, tratto dal poema drammatico di George Gordon Byron con musiche di Robert Schumann.

8 Qui: http://www.comune.campi-salentina.le.it/documenti/notizie/VERBALE.pdf, il Verbale della Commissione Giudicatrice.

9 La Torre Federiciana di Leverano, che si eleva per circa 28 metri nel centro abitato, fu voluta, secondo la tradizione, da Federico II di Svevia per monitorare la costa ionica. Monumento nazionale dal 1870, la torre presenta una forma parallelepipeda a base quadrata con i prospetti orientati secondo i punti cardinali ed è provvista di merli.

 

ORO DI PUGLIA: LA PIETRA LECCESE di Giusto Puri Purini – Numero 9 – Dicembre 2017

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ORO DI  PUGLIA:  LA PIETRA LECCESE

 

Giusto-Puro-Purini-storia

«Neglette, e quasi molli in ampia massa,
le pietre a Lecce crea l’alma Natura:
ma poiché son rescise, in loro passa virtute,
che le pregia, e che l’indura:
mirabili a vederle, ò se vi si lassa
scelti lavor la dedala scultura,
ò se ne fanno i dorici Architetti
gran frontespitij con superbi aspetti».

(Ascanio Grandi, I fasti sacri, 1635)

 

nella Puglia

esistenti sotto svariate forme e combinazioni chimiche, affioranti e non, dalla piana ai modesti rilievi, si è presto associata ai destini delle popolazioni quivi giunte da più parti, ma soprattutto dal Mediterraneo orientale. 

 

Furono Japigi, Messapi, fino alla conquista romana, a scavare
ed utilizzare queste pietre tagliate a misura, a seconda della durezza
ed impiegarle all’inizio, nella realizzazione di antichi simboli cosmici, quali Dolmen e Menhir, con lastre e colonne di grandi dimensioni.

 

Le parti più dure e compatte, di quelle tante varietà che il suolo offriva, trasformarono poi l’Habitat, dalle grotte alle costruzioni lignee ed infine alla pietra. Oggi quel materiale, estratto in cave di grande, media e piccola dimensione come nei piccoli appezzamenti contadini, marca definitivamente il territorio della Puglia ed in particolare del basso Salento. Lecce, mitica città del sud Italia, ne fu il centro: il suo nome nasce dalla sovrapposizione di una lupa (Lupia in latino) e dell’Ilex (il Leccio), entrambi raffigurati nello stemma della città, a simboleggiare l’uno la Civiltà romana, l’altro i grandi boschi di lecci che anticamente coprivano quelle terre. Lecce, anche il luogo dove i calcaridi affioravano nella piana, come una gigantesca vena. All’origine fu Sybar, città Messapica, diventando Lupiae dopo la conquista romana; ma fu solo dall’arrivo dei Normanni (nell’XI secolo), che vi trasferirono la capitale e la loro corte e ove nacque Tancredi, figlio di Ruggero III, a svilupparsi come grande centro, diventando nel tempo quella meravigliosa città che oggi vediamo. 

 

Il segreto fu, dunque, quell’immane blocco di Leccisu (la Pietra leccese), la parte più pura dei calcaridi, cangiante di tonalità a seconda della luce, in una infinita quantità di toni e sottotoni del giallo e soprattutto resistente al tempo ed alle intemperie. 

Il miracolo, quindi, di una pietra che, esposta all’aria e messa in opera, si compatta e solidifica. L’Oro di Puglia, affiorante in superficie, si estendeva da Lecce fino a Corigliano d’Otranto, Melpignano, Maglie e Cursi. Gli Aragonesi, durante il Regno di Napoli, ne fecero uno dei centri più importanti del Mediterraneo, costruendo Castelli, Infrastrutture, Palazzi, Masserie e Torri di difesa fortificate. Si diede libero sfogo all’uso soprattutto dei calcari, in dimensioni massicce, alternando nelle strutture portanti, realizzate con perizia e qualità artigianale, materiali compatti di varie gradazioni. Lo conferma, oggi, l’eccellente stato di conservazione di molte opere.  

 

Con gli spagnoli, iniziò anche la costruzione di molte Chiese, a fare
da contraltare alle imponenti architetture guerresche; ed è qui
che iniziò l’avventura di quel meraviglioso Barocco Leccese,

 

che ammiriamo oggi, ricco di fregi, balconi, estradossi, infradossi, volute, sculture grottesche, rosoni, significati esoterici, che l’infinita malleabilità della pietra leccese (Leccisu), permetteva a grandi artisti ed artigiani di scolpire e realizzare. Tutta Lecce, oggi, è un fluire di scorci barocchi, illuminati o spenti dal variare della luce solare e non, facendo ora risaltare quell’aggetto, ora quel timpano, o quella lesena, evidenziandone i chiaroscuri. Tra le opere più belle, la Basilica di S. Croce(1549-1695) disegnata da Gabriele Ricciardi e realizzata dagli architetti Cesare Penna e Giuseppe Zimbalo, che ristrutturò tra l’altro anche il Duomo dell’Assunta tra il 1659 ed il 1670.

 

La pietra leccese portò anche una rivoluzione nella costruzione 

delle volte,

 

in particolare le molte varianti di quelle a stella ed altre, che arricchivano i palazzi nobiliari; ma anche le semplici case dei salentini, data la perizia dei contadini muratori-architetti e voltaroli. E tutta l’area fu invasa da una miriade di piccoli Templi e Cappelle, i quali, pur in modo semplice e spoglio, segnavano comunque la magia del vivere salentino.

Ciò fu possibile grazie alla facilità di tagliare a misura i conci in leccisu per le volte, a seconda dell’ampiezza del fabbricato.


Una forma di progressione geometrica nell’avvicinarsi al centro della volta, già vista nelle pagliare, che oggi, nei progetti, date certe misure auliche molto ripetitive, fanno pensare ad un sistema contemporaneo di prefabbricazione. Ancora adesso, moderne aziende come la Pimar di Maglie, estraggono i preziosi conci in gigantesche cave a cielo aperto, esportando il leccisu in tutto il mondo, collaborando con grossi studi internazionali (Renzo Piano, Jean Nouvel ecc. …) e grandi Designer come Ugo La Pietra.

 

Gli artigiani scalpellini, nelle loro botteghe, sperimentano design di ogni tipo, scultori ed artisti ne fanno largo uso ed è vissuto come un vanto il possedere un pavimento, una rifinitura, un portale, un capitello, realizzato con l’Oro di Puglia.

 

 

 

 

 

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ARCHIMEDE GENIO DEL SUD di Fabio de Paolis – Numero 9 – Dicembre 2017

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 ARCHIMEDE GENIO
DEL SUD

Sebbene dai più sia ricordato soprattutto per la sua attività di ingegnere e inventore, capace di ideare macchine belliche e dispositivi meccanici di vario tipo, Archimede di Siracusa, matematico, fisico e astronomo, è il maggiore scienziato dell’antichità. Gli storici romani raccontano che il console Marco Claudio Marcello, dopo avere con la forza e uno stratagemma espugnato Siracusa, si arrampicò nei luoghi più elevati, per vedere dall’alto la bellissima città sottomessa. Una immagine questa, che lo commosse fino alle lacrime. Lacrime di gioia per una così grande vittoria, ma anche lacrime amare, dovute alla pena di vedere deturpata dal suo esercito la più bella e ornata città greca d’Occidente.

 

Siracusa nel III secolo era la capitale di un regno piccolo 

per territorio ma importante nell’ambito degli stati ellenistici 

del Mediterraneo. Grazie al suo illuminato Basileus Ierone II 

il regno aveva una salda struttura amministrativa e perseguiva, 

con i più potenti Stati dell’epoca, un’accorta politica impostata 

su equilibrati rapporti diplomatici ma, soprattutto, con l’Egitto, 

paese allora all’avanguardia in campo scientifico.

 

Non a caso Archimede fu mandato a studiare ad Alessandria nella scuola fondata da Euclide, dove strinse amicizia con il geografo Eratostene da Cirene, con l’astronomo Conone di Samo e con il matematico Dositeo di Pelusio, e dove visse gli anni fondamentali della sua formazione scientifica. Quando il nostro genio tornò a Siracusa (città dove Archimede scrisse tutte le sue opere) la città godeva di un lungo periodo di pace e di prestigio internazionale. Era divenuta uno straordinario centro culturale ove s’irradiavano intense correnti artistiche e scientifiche che la rendevano città di primissimo piano. Per la centralità della sua posizione, per il volume dei traffici, per la sua la ricchezza economica fondata sull’agricoltura e sul commercio, e soprattutto per la qualità delle relazioni internazionali, Syrakousai era un centro di cultura tecnico/scientifica in cui interagivano i migliori specialisti in circolazione. La fiorente economia di Siracusa e del suo territorio era radicata nella ricchezza della sua produzione agricola a cominciare dal grano, dalla produzione del pesce salato, dalla produzione di vasellame, dalla coroplastica, dalla raffinata toreutica e dalla impareggiabile oreficeria. Una città modello soprattutto per le straordinarie architetture civili e militari di cui era dotata (in primis il Castello di Eurialo).

La Siracusa che commosse Marcello possedeva 27 chilometri 

di mura che le garantivano una formidabile difesa sia dalla parte 

del mare, sia da quelle di terra. Era chiamata anche la Pentapoli,

 

una città che comprendeva cinque grandi quartieri, che erano a loro volta delle vere e proprie città fortificate: l’Acradina, il quartiere posto al centro, il più grande e più popolato, tutto ruotante intorno alla grande Agorà attraversato da grandi strade rettilinee secondo il modello greco; la Neapoli, un quartiere monumentale dedicato al culto e allo spettacolo, con l’Anfiteatro, la Stoà, l’Ara di Ierone, il tempio di Apollo, il teatro lineare, e nelle vicinanze il tempio di Demetra e Kore; la Tyche (così denominato per la presenza di un tempio dedicato alla dea fortuna), un quartiere bagnato sulla sommità dal famoso torrente Timbri, un quartiere fornito di templi, ginnasio, torri e mura; poi l’Epipoli, che era un nuovo vasto quartiere inaccessibile dall’esterno, concepito per scopi militari e quindi poco popolato, interamente roccioso e a picco, anch’esso completamente circondato da possenti mura e torri; ed infine Ortigia, isola volgente verso terra con le sue mura turrite. Un quartiere che viveva avulso dal resto della città e che, secondo un antico giudizio, era al tempo stesso città forte, seggio di monarchi, luogo di traffici, ricovero di navi mercantili e da guerra, con un palazzo fortificato, sede del tiranno con la sua corte, un Athenaion, vasti granai fortificati, e un piccolo porto. Questa era la Siracusa del III secolo, la grande metropoli siceliota dove nacque e morì Archimede. Una città eccezionalmente fortificata e, prima dell’arrivo delle aquile romane, una delle poche città mai espugnate. Narrano gli annalisti che quando i Siracusani videro i Romani con la loro formidabile macchina da guerra investire la città dai due fronti rimasero storditi e ammutolirono di timore. Pensarono che nulla avrebbe potuto contrastare l’impeto di un attacco in forze di tali proporzioni. 

Secondo Tito Livio “la città sarebbe stata subito presa, 

se non vi fosse stato un sol uomo, Archimede, sopra ogni altro contemplatore del cielo e delle stelle, ma più meraviglioso 

inventore e costruttore di macchine guerresche e di ordegni, 

il quale distruggeva in un momento le faticose 

opere di offesa contro la città.


Le mura della città furono da lui fortificate in modo assai vario. Contro le navi più lontane, catapulte lanciavano pesanti pietre, contro le più vicine nugoli di frecce. Opportune feritoie nelle mura permettevano ai difensori di colpire senza essere feriti; uncini di ferro (la manus ferrea), legati da catene, afferravano le navi che si avvicinavano troppo alle mura, e le sconquassavano. Dalla parte più alta delle mura, enormi massi lanciati rotolavano con violenza lungo il pendio naturale delle colline esterne, contro gli assalitori”. Fonti più tarde attribuiscono ad Archimede anche l’invenzione degli specchi ustori, mediante i quali avrebbe incendiato molte navi romane che dal mare assediavano Siracusa. Specchi a parabola ove i raggi del sole, essenzialmente paralleli, si concentravano in un punto chiamato fuoco, e proiettavano con precisione il calore sul legno e sulle vele delle triremi. Racconta Plutarco che le macchine costruite da Archimede (tra cui la Coclea, una pompa a spirale per il sollevamento dell’acqua, dispositivo noto come vite di Archimede; o il Planetario, da lui creato con lo scopo di predire il moto apparente del sole, della luna e dei pianeti; o l’orologio ad acqua, frutto di studi di pneumatica antica) non costituivano per lui oggetto di profondo studio, ma egli si occupava di fabbricarle e studiarle per le insistenti richieste del re Gerone (suo parente), il quale lo aveva persuaso della necessità di volger la sua attenzione dalle cose speculative a quelle materiali, per i bisogni più concreti e più sentiti dalle moltitudini. 

 

Gerone aveva visto lungo, all’impressionante peso dei suoi scritti, che spaziano dalla geometria all’idrostatica, dall’ottica alla matematica, dall’idraulica all’ astronomia, fanno da contraltare le eccezionali intuizioni che, nel campo della tecnologia meccanica, ci consegnano Archimede come il genio assoluto e erga omnes l’inventore per antonomasia. 

Dopo ventitré secoli il nome di Archimede è sinonimo di invenzione e innovazione nel campo della produzione e del design.

L’elenco sarebbe lunghissimo, basti ricordare che, il 14 marzo si festeggia in tutto il mondo il PI greco day (il 3,14 dei paesi anglosassoni, conosciuto anche come costante di Archimede) ove vengono organizzati concorsi di matematica, un momento planetario in onore di Archimede, che viene citato e commemorato. Sempre in onore del nostro genio sono stati nominati sia il cratere lunare Archimede, che l’asteroide 3600 Archimede. Nella medaglia Fields, la massima onorificenza per matematici, in un verso della medaglia c’è il ritratto di Archimede con iscritta una frase a lui attribuita “Transire suum pectus mundoque potiri” (Elevarsi al di sopra di se stessi e conquistare il mondo). Nell’arte Archimede è stato onorato soprattutto da Raffaello nell’affresco vaticano della scuola di Atene, il divino pittore lo rappresenta intento a studiare la geometria, e le sue sembianze sono di Donato Bramante. Anche all’interno della colonna Traiana, costruita da Apollodoro di Damasco, la struttura ad elica dell’interno è visibilmente un preciso richiamo alla vite idraulica ideata da Archimede.

 

Nel corso della propria esistenza anche Leonardo da Vinci dimostrò più volte ammirazione per Archimede, soprattutto per le sue capacità di affrontare proficuamente problemi di statica e di geometria
da cui trarre applicazioni pratiche.

 

Leonardo lavorò a un particolare cannone a vapore (l’architronito) che attribuì al genio di Archimede. Anche Galileo cominciò molto presto a studiare Archimede, che definiva il suo maestro. Particolarmente apprezzati da Galileo furono i trattati “Sui galleggianti e Sull’equilibrio dei piani “. “Voi aspettate io invento; se c’è gente che proprio non sopporto sono gli inventori; il cliente ha sempre ragione” non sono motti del nostro genio siracusano ma di Archimede Pitagorico (Gyro Gearloose) un gallo con i piedi antropomorfizzati e con fattezze umane. Nato nel 1952 dalla penna di Carl Banks con le caratteristiche del nostro eroe, Archimede Pitagorico è un papero da laboratorio straordinariamente intelligente e creativo, che trascorre ore nella sua disordinata officina. Perennemente scapigliato, è apparentemente avulso delle cose terrene, ed è sempre circondato da fogli stracolmi di calcoli e geometrie, papiri da cui difficilmente si separa per distrarsi a parlare col prossimo. Nonostante tutte le stravaganze, l’amatissimo Archimede Pitagorico è destinato a non morire mai, a differenza di Archimede da Syrakousoi, a cui questo lato del carattere risultò fatale. 

 

Seguendo il racconto degli storici proviamo a immaginare 

i suoi ultimi momenti.

 

Siracusa era in festa per il giorno di Artemide quando le legioni di Marcello penetrarono nella città abbandonandosi al saccheggio. Un legionario romano entrò nella casa di Archimede, che probabilmente abitava nell’Acradina. La sua era una tipica casa siracusana del tipo a peristilio, con accesso sulla via principale, dotata di un corridoio d’ingresso che conduceva in un cortile intorno a cui erano disposte le camere. Penetrò in quella di Archimede, che nel frattempo non si era accorto che la città era caduta, con i Romani penetrati all’interno. Il soldato lo trovò con la barba folta, le sopracciglia contratte e la capigliatura scompigliata. Indossava un mantello ed era probabilmente chino su di un tavolo mentre studiava con in mano il suo bastone per tracciare figure. Il legionario gli si avvicinò ordinandogli più volte di seguirlo, ma Archimede lo ignorò completamente, provocando l’ira del soldato che con la daga lo trafisse sul posto.

 

Questa fu la fine di un uomo semplice e puro, con una straordinaria capacità di attenzione e di lavoro, uno spirito di concentrazione 

che spesso gli faceva dimenticare di mangiare, di dormire.

Che gli faceva trascurare la sua persona, a tal punto che si racconta che anche quando si ungeva il corpo con l’olio, con il dito vi conduceva linee e geometrie. Si dice che Marcello fosse afflitto per questa morte, allontanasse l’uccisore, facesse ricerca dei parenti di Archimede rendendo loro onore. Nel 75 a.C., Marco Tullio Cicerone, questore in Sicilia, cercò e scoperse la tomba di Archimede finita nel dimenticatoio, sulla lapide erano scolpiti un cilindro circoscritto ad una sfera con un iscrizione indicante il rapporto tra i volumi e le superfici dei due solidi.

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PREZIOSA MEMORIA. CULTURA DEL SUD di Grazia Francescato – Numero 9 – Dicembre 2017

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PREZIOSA MEMORIA. CULTURA DEL SUD

 

intervista a
di grazia francescato
un sacerdote della natura

Esagero? Affatto. Giampiero Indelli, fotografo e naturalista di rango, grande esperto di zone umide e wildfowl, si è sempre considerato, innanzitutto, un “officiante” dedito a celebrare la bellezza e la sacralità della natura. Il suo obiettivo si è puntato principalmente sulle sue terre d’origine, quel Sud nascosto e dimenticato, dove non crescono solo i limoni cantati da Goethe, ma anche i faggi del Cilento e i salici in riva al verde Sele.

Uno sguardo al di là degli stereotipi, quelli romantici ma anche quelli moderni dello sviluppo e della crescita, come medicine
per gli antichi mali del Meridione.

 

Lo sguardo di un artista del Sud che ha saputo conquistare un primato ragguardevole nel raccontare, con professionalità e amore, lo splendore ignorato ma anche la metamorfosi dei territori meridionali, intento a cogliere quel di più di valori naturalistici, artistici, storici e culturali che rappresentano la vera ricchezza di questa vasta parte d’Italia.

 

Ti definisci “uno che entra in un bosco in punta di piedi, come se entrassi in una chiesa”. La fotografia naturalistica, dunque,
non solo come professione ma come vocazione?

 

Esattamente. Fin da bambino, quando accompagnavo mio nonno Federico a caccia negli oliveti del Cilento o mio zio Antoniuccio a pesca lungo il fiume Sele, mi sono subito reso conto, istintivamente, della bellezza e maestosità del paesaggio meridionale. La mia prima foto pubblicata su una rivista, quando avevo quindici anni, ritrae appunto mio zio a pesca sul Sele. Ancora una foto di mio zio campeggia sulla mia prima copertina di una rivista a tiratura nazionale: “Pescare”. Nei primi anni della mia carriera di fotografo mi sono dedicato esclusivamente alla caccia fotografica. Anatre, aironi, beccaccini, limicoli erano i miei soggetti abituali. Immagini pubblicate sulle riviste di caccia, perché all’epoca non c’erano ancora le riviste di natura. Quando queste ultime hanno fatto la loro comparsa, ho cominciato a fotografare anche fiori, alberi, paesaggi e a pubblicare su “Airone”, “Oasis”, “Gardenia”, “Bell’Italia”. In seguito mi sono dedicato a fare libri fotografici: Le Oasi del WWF, Cilento, Persano. Recentemente ho pubblicato un libro, La prima luce del giorno, che racconta questo mio percorso esistenziale e professionale. 

 

Dagli animali al paesaggio. Quali le motivazioni di questo cambiamento?

 

Sostanzialmente due. Da un lato ho fatto tesoro delle indicazioni di Fulco Pratesi, mio maestro, il quale sosteneva che i veri fotografi dovevano vendere alle riviste non le foto singole ma l’intero servizio. Dall’altro, è maturata in me la consapevolezza che la foto di paesaggio è un genere fotografico più colto, complesso ed espressivo del ritratto di un’anatra o di un beccaccino. Per fare una buona foto di uccelli, devi conoscerne le abitudini, sapere dove cercarli, costruire un capanno adatto, avere molta pazienza. Nella foto di paesaggio confluiscono invece molti motivi d’ispirazione: dipinti, fotogrammi di film, brani di libri, foto di altri autori. La foto di paesaggio costituisce, secondo me, un’evoluzione culturale e professionale rispetto a quella degli uccelli.

 

E la tecnica? Conta davvero tanto, come molti credono?

 

Fino a un certo punto. Ovviamente è necessario imparare a usare al meglio l’attrezzatura, affinare la tecnica… Ma è lo sguardo che conta. La fotografia di paesaggio è fondamentalmente inquadratura. Così come si nasce con un orecchio per la musica, si nasce con un occhio per l’inquadratura. E’ un talento naturale, che permette di riconoscere automaticamente, tramite un processo inconscio, i rapporti tra i volumi, l’armonia dei colori, l’equilibrio tra le linee. Insomma, aveva ragione Picasso che affermava: “Io non cerco, trovo”.

 

Il Sud è spesso protagonista delle tue immagini. Una vera passione, 

nel senso etimologico del termine: estasi di fronte alla bellezza, sofferenza per gli scempi e le ferite.

 

La spinta originaria a diventare fotografo naturalista è stata proprio innescata dal fatto che mi sono subito reso conto di avere a disposizione, vivendo a Salerno, un enorme patrimonio di natura e di paesaggi, quasi del tutto sconosciuto agli italiani e sottovalutato dai residenti. Un patrimonio ancora sostanzialmente intatto, quando ho cominciato a fotografarlo. Ho fotografato quasi sempre luoghi a me cari, che mi parlavano, con cui scattava una risonanza affettiva, emotiva, un legame con la mia infanzia e adolescenza. Luoghi con cui c’era una simbiosi, un’identificazione profonda: il Cilento interno, il fiume Sele, l’Oasi WWF di Persano. Il mio nome è ormai associato automaticamente a queste aree, che sono diventate così il mio ubi consistam artistico. Questa identificazione tra un artista e un luogo si è verificata spesso nel mondo della fotografia e dell’arte. Basti pensare ad Ansel Adams e al Parco di Yosemite, a Fulvio Roiter e a Venezia, a Shinzo Maeda e la catena montuosa chiamata Kamikochi, ma anche a Theo Angelopoulos e alla Grecia interna, a Fellini e Rimini… l’elenco potrebbe continuare a lungo. Quanto alla passione, intesa come sofferenza di fronte alla devastazione di tanta parte del paesaggio meridionale, in particolare le coste e le pianure, ho vissuto con dolore queste alterazioni di luoghi a me cari, ma ho anche combattuto, insieme al WWF, per arginare gli scempi. Per questa ragione ho scelto di non tornare, negli ultimi anni, in alcuni luoghi a me cari, particolarmente segnati dall’urbanizzazione dilagante. Comunque non dobbiamo trascurare le evoluzioni positive: molte zone interne sono migliorate, in seguito allo spopolamento delle campagne e alla diminuzione delle capre, formidabili divoratrici di piante e arbusti. Sull’Appennino meridionale i boschi si sono estesi notevolmente e molti paesaggi hanno ritrovato un’arcaica bellezza.    

 

A parte la visione del paesaggio, cosa distingue le tue immagini 

da quelle di altri fotografi che hanno fotografato il sud?

 

Io mi sono sempre considerato, più che un fotografo-naturalista, un naturalista-fotografo. Non è un semplice gioco di parole. Essere un naturalista vuol dire conoscere intimamente gli ambienti naturali. Significa saper dare un nome agli alberi, ai fiori, agli animali, a tutto ciò che compone un paesaggio, al di là della sua semplice apparenza. La bellezza, intesa come armonie di linee e di volumi, è la patina superficiale di un paesaggio. E’ forma. Il contenuto di quel paesaggio ha un valore, un’importanza che solo un occhio esperto sa riconoscere. Le mie foto raccontano di quel contenuto di natura, racchiuso in un involucro accattivante. Parlando di un altro ambito, non ci sono descrizioni dei paesaggi meridionali scritte da naturalisti. Se uno vuole conoscere com’erano certi luoghi del sud, deve leggere i racconti di caccia ambientati in quei posti. Fra i pochi autori che hanno descritto il sud, con l’occhio del naturalista, ricordo soltanto i libri di Edwin Cerio su Capri e quelli di Norman Douglas sulla Calabria e la Penisola Sorrentina.

 

Quale importanza attribuisci al tuo archivio d’immagini del sud?


In molti casi le mie foto raccontano com’erano i luoghi prima delle trasformazioni degli ultimi decenni. Penso, per esempio, al fiume Sele, che ho fotografato per trent’anni, dagli anni ’70 agli anni ’90. Il paesaggio lungo le sue rive era ancora in buone condizioni. Poi è successo di tutto. E’ stata realizzata la terza corsia sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, sostituendo molti tratti curvilinei con tracciati rettilinei. In realtà è stato costruito un nuovo tracciato, parallelo al primo, a breve distanza dalle rive del fiume. Una miriade di pale eoliche segna il profilo di ogni collina. Edifici e capannoni si sono moltiplicati a dismisura. L’elenco potrebbe continuare a lungo…

 

Tu lamenti spesso la scomparsa della “grande luce del Sud”, 

elemento chiave per una professione che significa proprio 

“scrivere con la luce”…

 

Il mutamento della luce, nel Sud e ovunque, è un vero dramma. La cappa di smog si estende, sale in quota e ormai si ritrova anche sopra i mille metri. La luce che sfolgorava nei quadri dei vedutisti del ‘700 è ormai un remoto ricordo.

 

Negli ultimi anni, ti stai orientando sempre più verso la foto astratta. Perché?

 

Infatti oggi mi sento più attratto dalla foto astratta. Negli ultimi anni ho fatto più di 15.000 foto di nuvole. Quest’anno ho fatto molte foto di licheni. E’ una mia personale ricerca sul colore e sulle armonie presenti in natura. La vivo anche come una forma di ricerca spirituale. E’ un percorso comune a molti pittori, che iniziano con il figurativo e approdano all’astratto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Credit foto Giampiero Indelli 

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COSENZA E IL PARCO DELLA SILA di Helene Blignaut – Numero 9 – Dicembre 2017

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COSENZA E IL PARCO DELLA SILA

 

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Sono in giro a Cosenza di sotto, un quadrato tagliato in diagonale dove faccio la spesa di cipolle e origano e scivolo tra moda, gioielli e sculture e poi me ne vado laggiù, oltre un fiume che non manca di ricordarci quanto i Goti piansero Alarico.

E m’infilo su per una strada stretta dove severi edifici di pietra antica
mi scortano ai fianchi, interrotti da vicoli e scalette storte
che salgono verso un non si sa dove.

 

E passo la cattedrale sonnolenta a ogni ora. Arrivo in cima, sulla piazza dei nobili palazzi e del Teatro Rendano e il verde di un giardino che mi porta più su, lungo la strada di curve a S e giunge al gran Castello Svevo. E poi scendo e riscendo.

 

Da sotto, mi volto a guardare questo agglomerato a cono, un insieme di elementi scuri intrecciati come dita di mani giunte in preghiera, ma dalla modernità del quadrato, siamo pronti per risalire ancora. Si va “in Sila”. E’ un giugno talmente verde che ci colora pelle e pensieri. Andiamo con la macchina e mi prende un profondo senso di colpa:

 

 tra queste foreste eterne e silenziose, tra i cespugli dove occhieggiano bonari i lupi e una fauna timida, e i fiori di ginestra 

vibrano ovunque in macchie gialle,

mi domando perché non siamo saliti a cavallo. Il rumore di zoccoli potrebbe essere gradito ai padroni del parco. Il rombo dei motori del progresso suona come una violazione, così tento di compensare parlando a bassa voce. 

 

I boschi, i laghi e le pianure sterminate dove riposano mucche e buoi e passeggiano greggi di pecore, mi fanno apprezzare quanto la lingua italiana sia esatta: 

il participio passato del verbo splendere non esiste. E’ un verbo difettivo e dice tutto nel suo participio presente: splendente.
Da sempre e per sempre. Niente di compiuto e tutto in divenire.


Molto più alto, tra dirupi vertiginosi, mi aspetta un borgo antichissimo, Longobucco, dove donne pazienti tessono le fibre di ginestra e c’è qualcuno che tinge le pezze con frutta e liquirizia, e tra i vicoli sono stesi copriletti e tovaglie, sipari multipli che mi portano a un belvedere. Da qui, la maestosità della natura si offre alla vista e ancora m’impone il silenzio, mi rallenta l’anima in pensieri leggeri. Ma è impossibile fermarsi. La macchina è già stata messa in moto. Mi arrendo. Scendiamo alle porte del parco, a Camigliatello, per comprare funghi profumati da svenire di fame e, già che ci sono, tovaglie e tappeti dal tatto rustico come una franca stretta di mano.

 

Ora, di nuovo giù, nel quadrato di Cosenza moderna, voglio comprare ancora origano e liquirizia che, nonostante l’accurata confezione, lasceranno per sempre nella mia valigia
un ineffabile profumo di Calabria.

 

 

 

 

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DE SICA: UNA LEGGENDA DAL SUD di Fernando Popoli – Numero 9 – Dicembre 2017

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DE SICA:  UNA  LEGGENDA DAL SUD

 

 

testimonianza delle arti e delle scienze, insieme con altri preziosi documenti, nell’ipotesi che altri popoli, di altri mondi, possano raccogliere, studiare e capire la genialità di noi italiani. Questo è il più importante tributo a Vittorio de Sica, regista e attore, tra i più grandi del Novecento. Pietra miliare del cinema italiano, genialità del Meridione, 

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“Napoletano de fora”, come amava definirsi, essendo nato a Sora 

nel 1901, da padre impiegato della Banca d’Italia, trasferito lì 

per qualche anno, e da madre napoletana. Sora, in quegli anni,
faceva parte della provincia di Caserta, Terra di Lavoro, 

e risentiva dell’influenza culturale del Napoletano. 

Dopo alcuni anni la famiglia tornò a Napoli, dove Vittorio adolescente crebbe, formò il suo carattere e acquisì la cultura che ha sempre caratterizzato la sua opera d’artista. “Ladri di biciclette”, scritto da Cesare Zavattini, è uno dei capolavori del Neorealismo italiano di De Sica regista, insieme a sciuscià, Miracolo a Milano, Stazione Termini e Umberto D. Il film vinse oltre cinquanta premi internazionali, compreso l’Oscar come miglior film nel 1949. E’ lo stesso De Sica, in un’intervista, ad affermare che: “Dopo alcuni film commerciali, colsi subito la proposta di Zavattini per un film che affrontasse la dura realtà del dopoguerra italiano con le sue paure, la sua povertà, la mancanza di solidarietà umana”. L’originalità della storia si esprime attraverso il dramma dell’attacchino al quale rubano la bicicletta, mezzo di trasporto indispensabile per il suo lavoro, con tutte le conseguenze che ne derivano. 

Tutto era diverso in quel film: l’ambientazione nelle strade di Roma,
gli attori presi dalla strada, il tema sociale, le facce vere della gente. Tutto era diverso dai “telefoni bianchi” che sino allora avevano addormentato le coscienze. Era uno sguardo su una realtà
ignorata che apriva nuovi scenari, nuove forme espressive
e dava spazio ai veri sentimenti dell’uomo.

Alla prima al Barberini di Roma, c’erano tutti i grandi di quegli anni: Visconti, Fellini, Amidei, Rossellini, e fu un vero trionfo. Dopo una navigazione non entusiasmante nelle sale italiane sotto il profilo economico, il film cominciò a mietere premi in tutto il mondo, uno dopo l’altro, sino a essere consacrato come un capolavoro assoluto. La rivista cinematografica britannica Sight & Sound lo considerò il più grande film di tutti i tempi. Nel 1958 fu dichiarato il secondo miglior film di sempre alla Confrontation di Bruxelles; fu classificato in quarta posizione ne I cento migliori film del cinema mondiale, dalla rivista inglese Empire. Sciuscia, Miracolo a Milano, Stazione Termini e Umberto D seguono gli stessi stilemi, i temi sociali, le problematiche di quegli anni, e furono altri riconoscimenti internazionali con premi Oscar. Charlie Chaplin, dopo aver visto Umberto D, affermò di aver pianto e singhiozzato per quindici minuti. Umberto D è considerato il miglior film di De Sica; era dedicato al padre, alla sua vita difficile, spesso al limite della povertà, ma sempre dignitosa, come lo stesso De Sica affermava: “La mia famiglia viveva in tragica e aristocratica povertà”. Anche in questo caso la risposta del pubblico fu modesta, ma ebbe successo all’estero e diventò una pagina straordinaria del Neorealismo. Mentre de Sica conquistava il mondo con i suoi film, c’era in patria chi lo denigrava, lo ostacolava e definiva il suo cinema: “Stracci, panni sporchi da lavare in famiglia”. Capitano di questa denigrazione un politico italiano, in quegli anni Sottosegretario allo Spettacolo, che faceva di tutto per ostacolare la genialità dei nostri più grandi autori: 

 

De Sica, Rossellini, Amidei, Zavattini, perché, a suo dire, rappresentavano un paese appena uscito dalla guerra
con le sue miserie, le sue povertà, i suoi bisogni,
tutte cose che quel politico voleva nascondere
e che, per fortuna, non gli riuscì di fare.

 

Prima della grande stagione del Neorealismo, c’era stato un altro De Sica, attore di un cinema da commedia piccolo borghese dei film di Mario Camerini, come Gli uomini che mascalzoni e Parlami d’amore Mariù, che gli dettero una grande notorietà, e regista poi di Maddalena zero in condotta, Teresa venerdì e I bambini ci guardano, che anticipavano la stagione successiva. Fu un lungo periodo di successo che mostrò le qualità dell’attore e del regista, ben presto diventato un beniamino del pubblico. In precedenza, una lunga gavetta aveva formato De Sica nel mestiere dell’attore, insegnandogli i segreti della recitazione. Aveva fatto parte della compagnia teatrale di Tatiana Pavlova, di Italia Almirante e di quella di Sergio Tofano e Giuditta Rissone. Negli anni Trenta diventò primo attore nella Compagnia Za-Bum di Mario Mattoli e, da lì in poi, fu un susseguirsi di successi assurgendo a una notorietà nazionale. Nel dopo guerra lavorò con Luchino Visconti e Mario Chiari, sino ad abbandonare per sempre la recitazione teatrale e a dedicarsi unicamente al cinema. Della stagione neorealista abbiamo detto, diamo uno sguardo alla sua bonomia, alla sua spiccata simpatia, alla sua inconfondibile comunicativa di attore popolare che ha rappresentato nel meglio la personalità dell’italiano. Penso sopratutto alla serie dei Pane, Amore e Fantasia di Comencini e poi di Risi. Qui il maresciallo Carotenuto è amante delle belle donne, alle prese con i pregiudizi dell’epoca e con le reprimende di un fratello prete. 

 

Al suo fianco, grandi attrici come la Lollobrigida e la Loren,
icone meravigliose dell’Italia che risorgeva dalla guerra
e vedeva realizzato nelle “maggiorate” il proprio sogno erotico. Esilarante i duetti con Tina Pica, la governante, la quale ripeteva
al maresciallo: “La gente mormora… mormora… “, mettendolo
in guardia per il suo comportamento libertino.

 

Alla serie di Pane e Amore seguirono altro straordinari successi di De Sica attore, quali Peccato che sia una canaglia, Il conte Max e Il vigile, con Alberto Sordi; memorabili le sue scene con Albertone, vigile testardo, che multa anche il proprio sindaco – De Sica. E in seguito: Il generale della Rovere, di Roberto Rossellini, nel personaggio di un truffatore che assurge a un’inaspettata dignità umana e subisce le torture dei tedeschi. Una pagina bellissima di recitazione di De Sica e di regia di Rossellini. E ancora, I due marescialli, Un italiano in America e tanti, tanti altri film ai quali dà un tocco di stile e di eleganza. E poi c’è il De Sica regista in questi anni, che consolida la sua fama internazionale ed è premiato in tutto il mondo. Basta ricordare

 

La ciociara, dal romanzo di Moravia, con Sophia Loren e Jean Paul Belmondo, ambientato nei luoghi in cui si svolsero le terribili Marocchinate, gli stupri di donne per opera dei soldati guidati
dal generale Alphonse Juin. Il film valse un Oscar
alla Loren per l’interpretazione. 

 

E quindi, Matrimonio all’italiana, con la Loren e Mastroianni, tratto dalla commedia di de Filippo Filomena Marturano, ancora un Oscar come miglior film straniero. E poi Ieri, oggi e domani, con Mastroianni e la Loren, prodotto da Carlo Ponti, con il celebre spogliarello di Sophia di fronte a un Marcello intimidito, altro premio Oscar nel 1965. Sino ad arrivare al Giardino dei Finzi Contini, dal romanzo di Bassani, Oscar nel 1972 come miglior film straniero.

 

La fama di de Sica è ormai leggendaria, il suo nome è garanzia
di successo internazionale. Il produttore Carlo Ponti ha costruito
con lui e la coppia Loren – Mastroianni un trio imbattibile nel cinema mondiale, espressione della genialità italiana e, specificamente,
del Meridione d’Italia; De Sica nativo di Sora, la Loren napoletana, Mastroianni di Fontana Liri.

 

L’ultimo progetto al quale stava lavorando insieme a Zavattini era I due vecchietti, una disamina della loro esperienza di vita e di arte; loro due, uniti negli anni da una grande amicizia, che si raccontano. Un tumore ai polmoni gli tolse la vita a seguito di un’operazione e morì all’età di 73 anni nel 1974 a Neully sur Seine, vicino a Parigi, lasciando dietro di sé una scia di leggenda. I film di Vittorio de Sica, oggi, sono studiati nelle università di tutto il mondo.

 

Il ragazzo nato a Sora, di spirito napoletano, assurse con la sua sensibilità alle vette più alte del cinema internazionale, portando
nel mondo il nome dell’Italia e consolidando
la genialità della gente del Sud.
 

 

 

 

 

 

 

 

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 Le foto sono state gentilmente concesse da Arturo e Marco Zavattini

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E’ SAGGIO? TOTO’: “NO, IO SONO NAPOLETANO”. Cinzia Terlizzi – Numero 9 – Dicembre 2017

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E’ SAGGIO? TOTO’: “NO, IO SONO NAPOLETANO”.

 

 

“Totò è irripetibile, indefinibile, inimmaginabile… Non è un grande attore, è molto di più… è come una maschera, un Pinocchio…”Così Carlo Croccolo, che ha lavorato con Totò in diversi film ma soprattutto ha condiviso con lui vita professionale e personale, set ed amicizia… “Mi considerava suo figlio adottivo, il maschio che non aveva avuto… …io giovane e ribelle, lui severo ma affettuoso… in più Totò era l’asso dei tempi comici ed io gli stavo dietro… fra noi c’era una intesa perfetta”. Al punto che Croccolo è stato anche l’unico doppiatore che Totò, provato dalla malattia agli occhi, accettava… nelle scene esterne di film ad esempio I Due Marescialli con Vittorio De Sica. Incontriamo l’attore che ha da poco compiuto 90 anni a Castelvolturno, dove vive con la moglie Daniela… parlare con lui significa tornare indietro di 50 anni e più, da quando cioè il principe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Pofirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio in arte Totò ci ha lasciato il 15 aprile 1967, unico al mondo ad aver avuto tre funerali, due a Napoli e uno a Roma dove è morto.

 

E tante sono le manifestazioni, iniziative, incontri e spettacoli in tutta Italia che si svolgono in diversi mesi per rendere omaggio
al personaggio e all’uomo Totò.

 

Ovviamente Napoli la fa da padrona con Totò Genio la grande mostra antologica, recentemente allestita a Napoli in tre luoghi, il Maschio Angioino, la sala dorica di Palazzo Reale e San Domenico Maggiore …moltissimi materiali, anche inediti fra foto, disegni, scritti, abiti, il suo baule per far sentire ancora più – semmai ce ne fosse bisogno – Totò vicino a noi e noi vicini a Totò.   “È un sentimento viscerale, un amore fra Napoli e Totò, e Totò e i napoletani – sottolinea Valerio Caprara, storico e critico di cinema – anche se Totò è stato un personaggio universale, profondamente napoletano ma aperto al mondo… La sua grandezza si trova nel meglio della napoletanità, la napoletanità beffeggiatrice… Nessuno dei nuovi comici ha provato a imitare Totò – aggiunge – ce ne sono tanti ma tutti sono costretti a confrontarsi con lui senza poterne mai avvicinare l’eccezionalità, altrimenti si brucerebbero e farebbero brutte figure. 

 

Si può accogliere il testimone di Totò ma non si può replicarlo.”

 

Totò talmente grande e unico che c’è chi vorrebbe portarlo nelle scuole…è Giacomo Poretti del trio Aldo Giovanni e Giacomo… “Balbetto quando parlo di Totò – dice – è unico per l’uso straordinario del corpo proprio del comico e perché è un dinamitardo della lingua… Basti solo pensare alla lettera che detta a Peppino De Filippo in Totò Peppino e la Malafemmina. Lo porterei nelle scuole perché è l’enciclopedia della comicità, perché dobbiamo avere l’aggancio con la storia, conoscere da dove proveniamo e quindi conoscere Totò Charlie Chaplin e Buster Keaton che sono i caposaldi”. Conoscere l’artista, dunque, ma anche l’uomo… Fuori dal set schivo ma generoso… è nota la sua passione per i cani che, come gli aveva un giorno detto un americano, considerava a metà fra un angelo e un bambino. E frequentemente, come racconta Carlo Croccolo, la sera usciva per le strade di Roma con l’attore Francesco Mulè per raccogliere i randagi e portarli nel canile che aveva rilevato da un’anziana signora dove venivano ospitati duecento animali. Generoso anche con le persone “Per me è stato come un padre, un fratello maggiore – confida Ninetto Davoli – sul set mi insegnava alcuni trucchetti per stare davanti alla cinepresa. Era un uomo sensibile, semplice, buono”. L’attore ha iniziato la sua carriera con Totò, che Pier Paolo Pasolini aveva voluto come protagonista di Uccellacci uccellini prima, poi La terra vista dalla luna episodio del film Le streghe e di Che cosa sono le nuvole?, episodio del film Capriccio all’italiana, girato nel 1967 poco prima che Totò morisse e uscito postumo.

 

Con Pierpaolo non sono mai riusciti a darsi del tu – racconta Davoli –
e Totò all’inizio si è trovato in difficoltà perché lui improvvisava, con Pasolini questo non era possibile. Ma come ti vengono tutte ’ste parole? diceva Totò a Pasolini, e lui rispondeva…
ma non sono parole!”.

 

La generosità di Totò viene evidenziata anche dalla nipote Elena Anticoli de Curtis che non ha mai conosciuto il nonno, ma ha vissuto con la nonna Diana, la prima moglie di Totò. Racconta che tra i due l’amore è stato grande lui la adorava ma era molto geloso, eccessivamente geloso… E quando lei se ne è andata Totò ha scritto la canzone Malafemmena, dedicata appunto a colei che gli aveva fatto del male… Fu un grande successo e con i proventi ottenuti regalò una casa a Diana “perché – le disse – questa canzone è tua!”. Ma la generosità più grande, che certo non si è esaurita con la sua morte, è stata quella rivolta al suo pubblico che continua ad amarlo, a ridere e sorridere, a riflettere e ad emozionarsi ogni volta che vede un film, una sua partecipazione o intervista televisiva, o si ascoltano le sue poesie e le sue canzoni. Totò principe della risata, ma non solo, potremmo dire principe della gioia che

 

“ha unito il paese quando c’erano spinte alla divisione, ci ha consolato dopo il dramma della seconda guerra mondiale… ha consolato tutti,
il ricco e il povero, il Nord e il Sud”…

 

Sono parole di Renzo Arbore dette in occasione del conferimento della laurea ad honorem a Totò. Alla cerimonia che si è svolta ad aprile all’Università Federico II di Napoli, era presente anche la nipote Elena: “Nonno avrebbe detto alla faccia del bicarbonato di sodio”… Poi ha aggiunto commossa “Oggi gli viene restituita un po’ della gioia che lui da mezzo secolo regala a noi.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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