INCONTRI RAVVICINATI di Sergio Lambiase – Numero 10 – Marzo 2018

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INCONTRI RAVVICINATI

 

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a Napoli, c’è una stretta scala che porta al ballatoio dove sono allineate le arche degli Aragonesi. Impossibile accedervi. Prima sì, era lecito, i padri domenicani chiudevano volentieri un occhio, anche se era raro che qualcuno si avventurasse lassù.

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I bauli, ricoperti di sete e broccati, non avevano serratura. Si potevano sollevare i coperchi e guardare i corpi adagiati su letti di resina, foglie, argilla. Da ragazzo ho avuto più volte il privilegio di contemplare la mummia di Ferrante, di Isabella d’Aragona, di Fernando Francesco d’Avalos vincitore della Battaglia di Pavia, dei principi bambini, senza che nessuno m’abbia fermato o abbia gridato all’effrazione. Privilegio assoluto. La luce scialba del lucernario non impediva di osservare profili e velluti. Incontri ravvicinati. Corpi di marziani rivestiti di una leggera patina verde, come di muffa o di licheni affioranti. C’erano elementi di attrazione, seduzioni che non si possono dimenticare.

Lunghi abiti di velluto, cinture con pietre preziose incastonate, 

gorgiere, scarpine di raso,


cappelli eleganti qualche volta calati su volti ossificati. Molti di questi reperti sono da alcuni anni nelle bacheche del museo attiguo alla sagrestia, prima fasciavano i corpi di oro, di rosso e di verde cupo. Li ingentilivano. Li carezzavano. Li rendevano presentabili per l’Ade. 

 

A San Domenico gli Aragonesi ci sono tutti. Manca all’appello solo il capostipite, Alfonso I il Magnanimo, la cui mummia fu portata nel 1667 a Santa Maria di Poblet, in Catalogna. 

 

Una ventina di anni fa scrivevo per un giornale di Roma anch’esso defunto. Si chiamava “Reporter” ed era diretto da Enrico Deaglio. Un giorno telefono al caporedattore (che era Adriano Sofri) per dirgli: “Caro Adriano, mi piacerebbe fare un articolo su San Domenico, perché nel convento ho scoperto che c’è uno di Lotta continua che ha deciso d’indossare il saio”. “Vabbè” dice Sofri sbrigativo e mi manda un bravissimo fotografo di Salerno per corredare il testo di immagini. Ma al convento l’ex Lotta continua si mostra subito reticente nei miei confronti, proprio non gli va di raccontare la sua storia e le sue lotte, adesso premono gli studi tomistici; i giorni dei cortei, delle parole scarlatte, degli scontri con la polizia sono acqua passata. Scornato, mi rifugio col fotografo nella sagrestia. Ma qui mi attende una sorpresa!

Il consueto silenzio del luogo è rotto infatti dall’andirivieni di due medici al lavoro con tanto di guanti e mascherine.   

 

Salgono e scendono la scaletta che porta al ballatoio con le arche. Sono affannati, sudati, i camici sporchi, come in ‘Medici in prima linea’. Nella sagrestia c’è una luce ancora più scialba perché fuori piove. Ad un certo punto m’arrampico anch’io sul ballatoio col fotografo. I due m’accolgono con iniziale diffidenza, ma poi mi accompagnano in una stanzetta di fianco alle arche dove scorgo un tavolo anatomico con una lunga massa spugnosa al cui centro intravedo una chiostra di denti neri!

 

“Sa cosa è?” mi dice con enfasi uno dei medici (il più affabile) 

che corrisponde al nome di Gino Fornaciari. Il fotografo spara più volte col flash. “Sono i resti di Maria d’Aragona, duchessa del Vasto”. 

 

Mi giro intorno. Su di un tavolino vedo un microscopio, un’ampolla, delle boccette, pinze e bisturi da sala operatoria. Una sedia ai piedi del tavolo ospita una collana di pietre scure, delle bende, qualcosa come un abito stropicciato, tra il giallo e l’avorio, con un cuoricino rosso “Vuole sapere di cosa è morta la nostra Maria? Quasi certamente di sifilide. In una piega del corpo abbiamo trovato infatti tracce certe di treponema pallidum, anche se aveva un principio di tumore all’utero!” 

 

Gino Fornaciari, l’ho scoperto dopo, è il più grande esperto italiano (o al mondo?) di archeologia funeraria. Nel Sud d’Italia ha lavorato spesso: a lui si deve lo studio a Venosa dei resti di Alberada di Buonalbergo, moglie di Roberto il Guiscardo, quello di Iolanda di Brienne e Isabella di Inghilterra nella Cattedrale di Andria, il rilievo paleopatologico degli scheletri della “Casa di Polibio” a Pompei, l’indagine nel Duomo di Salerno del corpo di Gregorio VII (quello che costrinse l’imperatore di Germania Enrico IV a prostrarsi, il capo coperto di cenere, dinanzi alla rocca di Matilde di Canossa, in segno di sottomissione).

Fornaciari ha studiato anche ciò che rimane della stessa Matilde, dell’Uomo di Similaun, dei duchi di Montefeltro, di Sant’Antonio 

da Padova, dei soldati uccisi a Marengo, del conte Ugolino,

 

delle mummie precolombiane, del musicista Luigi Boccherini a cui Fornaciari ha diagnosticato post mortem la scoliosi del violoncellista. Ricordate il film Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo? Ebbene il nostro paleopatologo tratta le mummie con la stessa disinvoltura di Harrison Ford. A Napoli la sifilide è portata dalle truppe di Carlo VIII e qui si scopriranno i primi casi. La città s’infranciosa, come accadrà tra il 1943 e il 1945 con le truppe alleate. È una malattia “alla moda” per il XVI secolo, come l’Aids quattro secoli più tardi. Girolamo Fracastoro le dedicherà un poema in latino: Syphilis seu de morbo gallico, Pietro Rostinio il primo trattato medico sull’argomento – è il 1556 – avvertendo: 

“’l mal francese è male nuovo, di cui niuno giamai fece mentione”, anche se sono passati circa sessant’anni dall’arrivo 

dei soldati di Carlo a Napoli. 


La sifilide fa strage a corte, come testimonia il lungo, appassionato studio dedicato da Fornaciari ai corpi degli Aragonesi, frutto appunto dell’intensa esplorazione compiuta fra il 1983 e il 1987. Per difendersi dall’assalto del morbo gallico tutti i rimedi sono buoni. Ad esempio strofinarsi l’unguento di mercurio sui denti (“Una notte con Venere, tutta la vita con Mercurio” si diceva allora); ma il mercurio a furia di usarlo annerisce i denti, e invano si cerca di togliere via la patina scura che si forma, usando stuzzicadenti metallici o d’avorio, come farà Maria d’Aragona, ma anche Isabella d’Aragona duchessa di Milano, deceduta quasi sicuramente di mal francese.

Ricordo ciò che mi disse Fornaciari: “La sifilide ha risparmiato 

nessuno nella Napoli del ‘500, sa, né ricchi né poveri!”.


Con la differenza che i poveri finivano all’Ospedale degli Incurabili, mentre i ricchi restavano tra le lenzuola ricamate dei propri letti. Ma di quali altri malattie soffrivano gli Aragonesi? Ferdinando Orsini, duca di Gravina in Puglia, “aveva un tumore maligno nella regione naso-orbitaria destra” (leggo nel gran romanzo-rapporto di Fornaciari); Ferrante d’Aragona, re di Napoli, “un adenocarcinoma della prostata”; il vaiolo aveva ucciso un bimbo di due anni (a San Domenico vi sono arche piccole come culle); Luigi Carafa, principe di Stigliano, soffriva di una “iperostosi idiopatica scheletrica diffusa”; Antonello Petrucci, decapitato per la sua presunta partecipazione alla congiura dei baroni, presentava “voluminosi calcoli della colecisti”.

E poi “un ignoto gentiluomo deceduto nella prima metà del XVI secolo reca una ferita mortale da punta, verosimilmente di spada, fra l’ottava 

e la nona costa di sinistra, sulla linea emiclaveare”. 


Per tutti, o quasi tutti, abusi di zuccheri, carni, vino, grassi di origine animale, con tendenza a sviluppare obesità, gotta, diabete, cirrosi, denti guasti, tumori dell’intestino. Sullo sfondo la tentazione dell’alcova, ma lasciando che il
treponema pallidum compia la sua opera distruttiva. 

 

Ma ai ragazzi e alle ragazze di scuola che, coi loro insegnanti, vengono in visita a San Domenico non si possono raccontare queste tragedie e miserie umane, anche se lo sguardo è rivolto in su, alle arche allineate come i vagoni di un treno in miniatura. O, per lo meno, non si possono raccontare interamente, benché film e videogame li abbiano abituati al genere horror; ma qui non si tratta di finzione.

Grazie alle auscultazioni di Fornaciari sappiamo tantissimo
degli Aragonesi e delle loro terribili malattie. Non sapremo mai, 

invece, di cosa è morto il padre domenicano Richard Luke Concanen, primo vescovo cattolico di New York, il cui corpo è sepolto nella sagrestia di San Domenico sotto una lapide del pavimento.


Concanen nacque in Irlanda nel 1747 e morì a Napoli nel giugno del 1810, nella vana attesa di imbarcarsi per prendere possesso della sua carica, perché il blocco continentale impediva alle navi di prendere il largo verso i porti americani. Sulla tomba dello sfortunato vescovo di New York i ragazzi di solito accumulano i loro zainetti. 

 

 

 

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LA BARCA DI ISIDE IL PAPIRO E LA SCRITTURA di Gaia Bay Rossi – Numero 10 – Marzo 2018

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LA BARCA
DI ISIDE 

IL PAPIRO E 

LA SCRITTURA 

Cosa non può l’ingegno? 

Ecco che il palustre papiro, 

ridotto dalla lama in strisce larghe e sottili, 

dà ai mortali lo strumento della carta. 

Allora per la prima volta gli amici lontani 

poterono mandare e ricevere dolci messaggi. 

Vennero poi i codici in onore: 

allora tutti ad esercitare l’animo con gli studi, 

a dirozzare le menti incolte: 

il papiro raffinò il cuore dell’uomo 

e tanta scienza si dispiegò in tanti libri”. 

(Jean Imberdis, 1693)

Quest’antica scritta accoglie i visitatori del Museo del Papiro di Ortigia (Siracusa), un piccolo gioiello incastonato nell’ex convento di Sant’Agostino fondato dai professori Corrado Basile e Anna Di Natale nel 1987, unico museo esistente interamente dedicato al papiro e ai suoi usi, che nel 1995 per la sua importanza scientifica e didattica, è stato inserito nell’elenco finale dei musei selezionati per il prestigioso premio European Museum of the Year. L’ignaro visitatore che si appresta ad attraversare il portone dell’ex convento non può minimamente immaginare quale universo gli si stia per aprire davanti,

 

un mondo incantato di reperti in papiro che riportano 

agli albori della civiltà.

 

Sì, perché il papiro Cyperuspapyrus L. non è solo la pianta da cui si traeva il materiale per gli antichi fogli ad uso scrittorio ma è una specie erbacea perenne che consente la produzione – e così è stato in Egitto sin dal 3.000 a.C. e poi in Palestina e in tutto il mondo greco-romano – di particolari corde, vesti, calzature, recipienti e anche piccole imbarcazioni. Sono proprio tre leggere barche in papiro uno dei fiori all’occhiello del Museo del Papiro.

 

Nei suoi viaggi di ricerca in Africa, il professor Basile si recò prima 

in Etiopia, dove recuperò due delle tre barche presenti al museo costruite nei laghi Tana e Zwai, 

 

e dopo nel lago Ciad, dove andò sia per studiare l’origine della pianta e i tassi di crescita nelle diverse condizioni ambientali, sia per documentare i processi di costruzione delle barche con la tecnica usata dai pescatori Buduma, e dove riuscì ad ottenere una delle ultime “kedeje” con la poppa tronca e la prua rialzata. Le tre barche gli furono anche richieste da un importante museo all’estero, ma lui le ha sempre custodite, rendendole parte integrante dei beni stabili del suo Museo del Papiro. D’altra parte, oltre ad essere degli esemplari rarissimi, rappresentano secoli di storia, tradizioni e leggende. Le barche in papiro, infatti, hanno una storia antichissima, basti pensare che ne abbiamo testimonianze da autori antichi e anche nei passi biblici. Come ci ricorda il prof. Basile, Isaia descrive i viaggi degli ambasciatori etiopi dall’Egitto alla Palestina su barche di papiro, e nell’Esodo è scritto che la madre di Mosè mise il figlio in un cestello di papiro. 

 

Altre testimonianze antiche narrano la leggenda secondo cui 

in nessun caso un coccodrillo avrebbe attaccato chi navigava 

su un’imbarcazione in papiro per rispetto alla dea Iside 

che ne aveva utilizzata una lungo il Nilo alla ricerca 

del corpo straziato del marito Osiride.

 

Ma questo è solo un tassello della ricca collezione del Museo. Oltre alle imbarcazioni,

 

il museo espone la collezione di papiri faraonici del XV sec. a.C., 

ieratici, demotici, greci, copti e arabi, poi alcuni manufatti in papiro, 

come corde, che fabbricate nell’antico Egitto venivano esportate 

in tutto il Mediterraneo,

 

sandali, fabbricati sin dall’epoca faraonica, e recipienti utilizzati per conservare cibo o altri materiali; infine anche i papiri prodotti a Siracusa dal XIX secolo, con la manifattura della carta di papiro e i materiali e strumenti scrittori, come pigmenti di alcuni colori, penne e palette. Il ruolo svolto dal Museo del Papiro non è solo quello riguardante la parte museale vera e propria, ma è anche tutto ciò che concerne la ricerca scientifica e storica, gli studi sulla pianta, sul trattamento della carta papiracea e sulla conservazione dei papiri antichi. Non meno importanti gli studi sull’origine del papiro in Sicilia e l’uso della pianta nelle varie culture.  

 

Nel 2017 il Museo del Papiro, attraverso i due soci fondatori, è stato premiato dal Museo Egizio del Cairo per essere stato promotore 

sin dal 1998 del “Progetto di restauro dei papiri in Egitto” 

 

in collaborazione con istituzioni culturali e scientifiche egiziane, con lo scopo di favorire l’attività di ricerca e di studio nel campo del restauro dei papiri antichi, nonché per la creazione del più grande “Laboratorio di restauro dei papiri” all’interno del Museo Egizio del Cairo, che è operante dal 2005. Il Museo del Papiro di Siracusa è l’unica istituzione ad aver ricevuto dal Museo Egizio del Cairo un così importante riconoscimento, cui si aggiunge il decreto governativo che nomina Corrado Basile consulente per tutti i progetti di restauro dei papiri in Egitto.

 

Poiché le radici ci riportano spesso a casa, tra i vari rami di studio, 

il professor Basile si dedica anche all’indagine storica del papiro 

in Sicilia e alla tutela della pianta nell’ambiente fluviale 

del fiume Ciane e dei papiri della Fonte Aretusa di Siracusa. 

 

Il papiro è presente lungo le sponde del Ciane, il fiume di mitologica e storica fama che scorre a pochi chilometri da Siracusa. La caratteristica che rende unica quest’area protetta è che, se si esclude la piccola colonia di Fiumefreddo di Sicilia (Catania), il papiro del fiume Ciane è considerato l’ultimo superstite di una maggiore presenza in Sicilia nel versante orientale e in quello meridionale, ed è in assoluto la più grande colonia europea di Cyperuspapyrus L. Ma i papiri sono presenti fino nel cuore di Siracusa, a Ortigia, all’interno della Fonte Aretusa, uno dei monumenti più importanti e visitati della città, le cui piante sono state affidate alla cura e al mantenimento del Museo del Papiro, che peraltro possiede un’ampia documentazione archivistica delle piante della Fonte. Di questa fonte con i suoi papiri rimase affascinato anche Orazio Nelson che, quando sostò a Siracusa nel 1798, prima di affrontare Napoleone ad Abukir scrisse: “Grazie ai vostri sforzi noi ci siamo riforniti di viveri ed acqua, e sicuramente avendo attinto alla Fonte Aretusa, la vittoria non ci può mancare”. Nei secoli il papiro è stato utilizzato dai pescatori siracusani per intrecciare corde o dai contadini per legare covoni,

 

mentre le ampie chiome verdi erano impiegate come decorazione 

per ricoprire pavimenti di strade e chiese durante le festività.

 

Inoltre grazie alla vasta presenza della pianta, Siracusa sviluppò la produzione di carta di papiro sin dall’antichità per arrivare ai giorni nostri con alcune piccole eccellenze. Il prof. Basile ha iniziato a occuparsi negli anni Sessanta delle antiche tecniche di fabbricazione della carta di papiro e del restauro conservativo dei documenti papiracei antichi e oggi, all’interno del suo museo, spiega ai visitatori e agli studenti la manifattura della carta papiracea. Per riassumere in poche parole 

 

come sia possibile da una pianta arrivare a un foglio ad uso scrittorio,

 

si utilizza la porzione mediana del fusto raccolto nel momento di più idonea maturazione. Il fusto è liberato dalla scorza e tagliato in strisce (lunghe anche 40 cm). Dopo il pretrattamento con particolari soluzioni, le strisce vengono appoggiate su un panno e sovrapposte di qualche millimetro, formando un unico strato. Si procede poi con un secondo strato disposto perpendicolarmente al primo. Il tutto viene poi pressato con un torchio o un rullo. Traslando un nostro modo di dire molto conosciuto, possiamo in conclusione affermare che “del papiro non si butta via niente”. Abbiamo visto la vasta quantità di oggetti che venivano prodotti con questa pianta, ma non è finito: le ombrelle infatti erano usate anche nelle feste e nei riti funebri, i germogli più teneri venivano mangiati, lessi, arrosto o crudi, succhiando la parte più liquida e gettando la polpa, i rizomi erano utilizzati come ottima legna da ardere.

 

Così lo studio, la cura e la conservazione di questa straordinaria pianta hanno trasformato un piccolo museo di una città del sud 

in un’eccellenza internazionale,

 

con i suoi fondatori chiamati a partecipare a campagne di scavo in Egitto, convegni internazionali, inaugurazioni di biblioteche e musei in Egitto, pubblicazioni su riviste scientifiche, cattedre universitarie e riconoscimenti pubblici.

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IL SOGNO MEDITERRANEO DI FEDERICO II di Fabio De Paolis – Numero 10 – Marzo 2018

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IL SOGNO MEDITERRANEO DI FEDERICO II

 

E anche se questo nome non fu più usato nel battesimo egli venne accolto nella comunità cristiana con i nomi di entrambi i suoi grandi nonni monarchi: Ruggero II Re di Sicilia, e Federico I Imperatore del Sacro Romano Impero. Nel XIII secolo Federico, Sacro Romano Imperatore, si presentava, durante le grandi celebrazioni religiose, indossando una tunica e una dalmatica di seta siciliana, calzari e calze rosse, sempre in seta siciliana e guanti dello stesso colore tempestati di perle. Poi indossava altresì un mantello color rosso cupo, con ricami in oro rappresentanti un leone artigliante un cammello, nei bordi una iscrizione in arabo che voleva significare che quel manto era stato confezionato nel 1133 per il Sommo Ruggero nella città di Palermo.

Il rosso della seta (come la porpora bizantina) testimonia la discendenza romana del potere esercitato da chi se ne ammantava

 

Erano colori che venivano utilizzati normalmente dagli imperatori bizantini, dai pontefici e da tutti quelli che accampavano diritti di autorità universale e assoluti. Nemico giurato dello sgretolamento feudale, Federico II sognava sin da giovanissimo di restaurare sotto la sua autorità l’unità dell’antico impero romano. E ne mostrava l’intenzione ad ogni occasione e con ogni mezzo. Come per gli abiti, anche la corona che l’imperatore indossava in Sicilia e nell’Italia meridionale era carica di simili richiami. Era di una forma creata alla moda degli imperatori bizantini, cinta torno torno, sia in tessuto ricamato o in metallo prezioso, da lunghi pendenti scintillanti di gioielli, un semicerchio che simboleggiava il dominio temporale di chi la portava. La tunica, la dalmatica e la corona consacravano Federico II come possessore di uno status superiore a quello del comune mortale, come una mediazione tra Dio e l’uomo, un riflesso maestoso del Signore sulla terra.

 

Erede delle corone di Germania e di Sicilia, Federico II 

appena ebbe l’occasione diede luce ai suoi sogni, 

e con grande energia perseguì i suoi ideali.

 

Ideali complessi, estremamente conflittuali. Ideali che partivano dal presupposto che l’umanità in seguito al peccato originale fosse condannata a discordie e violenze. Ne conseguiva che lo Stato voluto da Dio, era l’unico strumento che consentisse all’umanità di organizzarsi in una comunità rivolta al conseguimento di pace e giustizia. Era lo Stato che doveva assicurarle entrambe, ed era Dio che ne affidava la guida a un unico individuo, l’Imperatore. Egli era al vertice della gerarchia, l’esempio vivente di virtù e modello di perfezione terrena. L’Impero e i sudditi erano legati da un vincolo di fedeltà: chiunque lo avesse infranto doveva essere punito dal sovrano.

Con simili presupposti, tra l’Imperatore ed i successoridi Papa Innocenzo III, 

gelosi della propria autorità temporale,e convinti della superiorità 

della Santa Sede rispetto all’Impero, l’urto era inevitabile.


Per tradizione i Papi tenevano alla separazione fra le due corone di Imperatore e di Re di Sicilia. Federico promise certamente ad Innocenzo III di abbandonare il Regno non appena avesse cinto la corona imperiale ma poi nei fatti non ne fece nulla. Al contrario alla morte di Innocenzo III (il pontefice a cui la madre morente lo aveva affidato per sottrarlo alle lotte interne tra i grandi feudatari)

 

riunificò le corone di Sicilia e Germania e si dedicò subito 

al rafforzamento proprio potere.


La concezione monarchica e la struttura amministrativa passarono indenni attraverso l’apparente anarchia della giovinezza di Federico II per costituire la base di un rinnovato dispotismo normanno dopo il 1220. Federico in quanto imperatore portò alla ribalta mondiale idee normanne di monarchia. Questo era l’elemento mancante nell’assolutismo romano di Ruggero II: la dimensione universale. Con Federico questa dimensione era ora presente. E da lui venne sfruttata con energia.

 

Padrone del Regno di Sicilia, titolare dell’Impero, assertore
dell’autorità sovrana sulle città dell’Italia Settentrionale,
Federico II era detto dai suoi ammiratori “Stupor Mundi”,
ma anche “Bestia dell’Apocalisse“ dai suoi detrattori.


E questo perché Federico II con la sua ambizione, il suo pensiero politico, la sua mentalità moderna e il suo culto della ragione, con la sua indifferenza religiosa, il suo spirito di avventura, con la totale mancanza di scrupoli, rappresentava per lo Stato della Chiesa una minaccia continua, superiore a qualsiasi altra presentatasi nei secoli precedenti della storia medioevale. I pontefici videro in lui un nemico astuto, ardito, potente e giudicarono combatterlo con tutte le loro forze. Federico, che era totalmente convinto della sua missione, si erse a rigido difensore dei suoi diritti, si vide come fautore del nuovo assolutismo monarchico.

Stabilì che l’Italia Meridionale fosse la base adatta per affermare
il suo potere dove, a differenza della Germania, la sua autorità
era ben più salda. Nell’ottica delle sue grandissime aspirazioni,
il Regno venne scelto per crearsi nel Sud
una base solida e prospera:


il centro di un vasto impero mediterraneo. Federico, con energia profusa senza limiti, vi ristabilì l’ordine compromesso ai tempi della sua minore età, spezzò le resistenze dei feudatari, soffocò le aspirazioni autonomistiche dei comuni. Di tutto il suo Impero, la Sicilia era il possedimento più amato da Federico II. La sua fucina. La Sicilia non solo perché vi aveva trascorso la fanciullezza. O perché era una terra estremamente ricca e opulenta.

Ma in primis perché era strategica ai suoi fini: era soprattutto
da quelle coste che si controllavano le rotte commerciali
del Mediterraneo. Una fitta rete di scambi collegava
l’isola con la costa Africana, la Puglia, Salerno,
Napoli, Amalfi e l’Oriente.


Dalla Sicilia, e non dalla Germania, che si poteva creare una fortissima economia in grado di realizzare il suo sogno. Questo era il sogno mediterraneo di Federico, un sogno, però, che non teneva in debito conto sia il potere del Papato sia la complessa situazione interna della Sicilia. Ma di questo parleremo la prossima volta.

 

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MASSIMO TROISI, IL CUORE E LA MENTE di Fernando Popoli – Numero 10 – Marzo 2018

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MASSIMO TROISI, ILCUORE E LA MENTE

potremmo dire che è quasi una periferia non essendoci soluzione di continuità tra le due città. Massimo Troisi nacque lì, in un contesto popolare, autentico, tradizionale, fatto di gente semplice che crede nel grande spirito della napoletanità e parla quella lingua universale che è il dialetto napoletano, comprensibile a tutti specialmente quando è “interpretata” da un attore partenopeo. Basti pensare che il grande Eduardo, al quale Troisi fu spesso paragonato, recitò a Mosca in una sua commedia nella sua lingua d’origine. Anche Troisi reputava la lingua napoletana consone alla sua recitazione e, in occasione di un’intervista televisiva fatta da Isabella Rossellini che gli chiedeva il motivo per cui recitasse in dialetto, dichiarò: “Io mi sforzo di capire l’italiano, perché gli altri non si sforzano di capire il napoletano”. 

 

Le sue prime apparizioni sul palcoscenico avvennero nella sua città natale, in una sala parrocchiale, con gli amici d’arte e di vita Lello Arena ed Enzo De Caro.

Era allora timidissimo e non sapeva se avesse potuto affrontare 

il pubblico, ma poi dichiarò che nell’oscurità della sala non vedeva 

la platea e quindi poteva recitare poiché aveva 

la sensazione di stare da solo e al buio.

 

Il successo del trio fu immediato e in breve fu consacrato anche da uno spettacolo televisivo che ebbe una grande risonanza. Furono ribattezzati La smorfia quando, alla domanda di Pina Cipriani, direttrice del San Carluccio, teatro napoletano nel quale avevano lavorato, che chiedeva come si chiamassero, Massimo rispose con una smorfia del volto e la Cipriani affibbiò al trio questo nome. Dopo la prima apparizione televisiva, la Smorfia si pose all’attenzione di un vasto pubblico che vedeva sopratutto nel personaggio di Troisi, nella sua poetica recitativa, nella sua evidente timidezza, nel suo parlare la propria lingua, un’espressione del disagio giovanile e delle problematiche sentimentali che coinvolgono i giovani. 

 

Ben presto il cinema mise gli occhi su questa giovane rivelazione del teatro napoletano e il produttore Mauro Berardi offrì a Troisi il ruolo di Franceschiello in un film che doveva essere diretto da Luigi Magni. Il film non si fece ma 

 

Berardi disse a Massimo di pensare a un film tutto suo 

dove egli potesse essere autore e attore.

 

Nel giro di pochi mesi, con l’aiuto di Anna Pavigliano, Ottavio Jemma e il futuro premio Oscar Vincenzo Cerami, nacque la sceneggiatura di: Ricomincio da tre, primo film del grande attore, al quale ne fu affidata anche la regia. Il direttore della fotografia, Sergio D’Offizi, mi ha raccontato che il primo giorno di lavorazione chiese a Massimo dove posizionare la macchina da presa; questi, con la comicità spontanea che lo distingueva, rispose: “Lanciamola in alto e vediamo dove cade”. La sua scarsa conoscenza del linguaggio cinematografico fu superata da un’interpretazione eccezionale, dove l’attore, al centro dell’inquadratura,

 

esprimeva tutto se stesso, rivelando la sua natura spontanea. 

Era una recitazione fatta di pause, parole dialettali, 

espressioni di timidezza, sensibilità certamente nuova, 

atipica e originale.

 

Il film metteva in luce il disagio della retorica sui napoletani e ne faceva superare i luoghi comuni attraverso un’incredibile comicità. Il successo fu enorme, Ricomincio da tre divenne un caso nazionale che dette una svolta al cinema italiano in crisi in quegli anni e Massimo Troisi fu consacrato una grande stella, unica e originale per il modo di porsi, ben presto contesa da tutti. Vinse due David di Donatello, tre Nastri d’argento e due Globi d’oro. Il secondo film completamente di Troisi fu: Scusate il ritardo, dove, in una storia d’amore, Troisi interpreta il suo personaggio con la timidezza e l’indecisione di sempre, consacrando così la sua recitazione. Anche questo film fu un grande successo di pubblico e di critica.

 

L’attore fu paragonato a Totò e a Eduardo De Filippo 

per la sua originalissima interpretazione, ma rifiutò l’accostamento, 

dichiarando di non essere assolutamente alla loro altezza.

 

Nell’arte e nella vita era un uomo timido e riservato, spontaneo e naturale, che rivelava la profondità del suo animo sensibile con un linguaggio semplice e universale. La sua attività cinematografica proseguì con il grande Roberto Benigni nel film Non ci resta che piangere, dove i due attori espressero il meglio di loro stessi in un’indimenticabile interpretazione. Un’accoppiata vincente, il napoletano e il toscanaccio, qualcosa di unico e raro. Poi venne il periodo della collaborazione con Ettore Scola e il sodalizio artistico con Marcello Mastroianni in Splendor e in Che ora è.

 

Scola diceva di aver adottato Troisi e di trattarlo come un figlio, 

spesso la mattina andava a trovarlo nella sua abitazione per parlare 

di arte e di cinema. Due meridionali di grande prestigio, 

l’uno regista, l’altro attore,

 

l’uno napoletano di S. Giorgio a Cremano, l’altro campano di Trevico. L’ultima interpretazione, quella che lo portò a cinque nomination per il premio Oscar fu Il postino, toccante storia di un’amicizia tra un poeta e un portalettere, tratto da un romanzo di Antonio Skármeta, diretto da Michael Radford, ambientato nella splendida cornice delle isole di Salina e di Procida. Questa interpretazione gli costò la vita. L’attore era affetto sin da bambino da febbre reumatica, che sviluppava una grave degenerazione della valvola mitrale, complicata dallo scompenso cardiaco. 

 

Operato a Houston già una volta, doveva sottoporsi a una seconda operazione per il cambio delle valvole deteriorate. Scelse prima di girare il film, quantunque gravemente compromesso dalla malattia, dichiarando “lo voglio fare con il mio cuore” e riuscì a terminarlo qualche giorno prima della fine. Per lui l’arte era più importante della vita.

 

La morte lo colse nel sonno a quarantuno anni, dodici giorni dopo la fine delle riprese, per un fatale attacco cardiaco. Le sue spoglie riposano per sempre affianco a quelle dei genitori nel cimitero di S. Giorgio a Cremano, dove aveva iniziato la sua carriera artistica; in quel mondo che fu sempre suo e lo portò a raggiungere le più alte vette della recitazione, spinto dal bisogno di esprimere la sua grande vena poetica di attore e autore. Nell’isola di Procida, una piazza della marina Corricella è intitolata all’attore napoletano. Nel porto di Salina, un tratto della banchina è stato chiamato: “Passeggiata Massimo Troisi” e vi è conservata la bicicletta adoperata nel film.

 

Sean Connery, dopo aver visto Il postino, dichiarò: 

“E’ il più bel film che abbia mai visto”.

 

Non dimenticheremo mai quel portalettere sprovveduto e confuso nel Postino che va a lezione dal grande poeta Neruda, interpretato da Philip Noiret, per farsi scrivere le poesie per la ragazza di cui è innamorato, per capire, sapere, conoscere e arricchirsi di cose per lui assolutamente nuove; e quando afferma sulla spiaggia in riva al mare in una conversazione filosofica con il poeta: “Il mondo intero è la metafora di qualcosa.”

 

 

 

 

 

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IL FUOCO E IL MARE di Giorgia Ippoliti – Numero 10 – Marzo 2018

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Il marinaio, unico sopravvissuto, pur di non essere sopraffatto dalle onde burrascose, si aggrappò a quel che rimase della sua imbarcazione e, a quel punto, si trovò nella più profonda oscurità. Non gli rimase che rivolgersi al cielo. “(…) Mamma, Mamma ‘e tutt’‘e Mmamme, aiutame tu!”2.
Improvvisamente la notte si fece giorno.
Un’immensa luce lo colse, e gli sembrò di udire una musica celestiale. Una bella signora, vestita di bianco, e cinta nel capo da dodici stelle, gli tese la mano; non v’erano dubbi: era l’Immacolata Concezione!

 

Allora l’acqua, prima ostile e nemica, divenne un valido alleato,
tanto che le onde lo cullarono, privo di sensi, fino a riva.

 

Si risvegliò, all’alba, sull’arenile, accanto alla banchina di Zi’ Catiello. A metà, tra il sogno e la realtà, fu avvistato da alcuni passanti, che accorsero in suo aiuto, con estrema gioia e stupore. Anche questa volta, la vita aveva vinto. Ripresosi, capì che ciò che aveva vissuto non era un sogno … e che quella era, sì, la Mamma di tutte le mamme. Chiamò i presenti “Fratièlle e Surelle” intorno a un falò e insieme cominciarono a recitare il Rosario alla Madonna. 

 

Basta rompere le barriere del pregiudizio e dello stereotipo, che annebbiano la vista, per entrare in contatto con un mondo strabiliante e ricco di

 

tradizioni che, con la loro attualità e forza, irrompono
nella vita di ognuno di noi.

 

È proprio quello che accade a Castellamare di Stabia dove, in un fulgido esempio di unione fra presente e passato, ancora oggi la tradizione svela quella forza viva che la anima e che risiede nella nostra contemporaneità.

Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre, in questa splendida provincia napoletana, città delle acque – ben ventotto sorgenti di acque minerali differenti – la storia di Luigi prende vita. 

In un parallelismo fra cielo e terra, nei dodici giorni antecedenti a questa notte, corrispondenti alle dodici stelle di cui era cinto il capo della Mamma delle mamme, riecheggia, dalle prime luci del mattino, la cantilena dei Fratelli e Sorelle che, richiamando tutti i fedeli, li esortano a “dare la voce” a questa tradizione, che suona come un ringraziamento, proprio come secoli prima fecero il marinaio e le persone accorse.

 

La notte diventa di nuovo giorno. Una voce rompe il silenzio, squarciando il buio dell’oscurità.

 

Un richiamo alla preghiera, dunque, gridato a gran voce – ogni quartiere ha la sua “voce” – da un uomo che, camminando per le strade insieme ai fedeli, ogni giorno, annuncia nel canto la stella della Madonna in cui ci si trovi. In ogni angolo della strada, in ogni quartiere, in ogni casa, prende vita questo canto di gioia e di speranza. Sull’arenile della città, proprio come avvenne sull’arenile vicino alla banchina di Zi’ Catiello, si accendono i falò, detti “fucaracchi”, dove nascono momenti di condivisione, con musica e balli tipici.

 

O’ pale e miezz, la legna, viene raccolta dai ragazzi dei rioni
che, già diversi mesi prima, iniziano a ricercare tutto ciò
che possa rendere il falò vivido e imponente.

 

La voce dei Fratelli e Sorelle risuona in ogni rione, accompagnata, nella prima e nell’ultima notte, da una banda musicale che, in un unico suono di giubilo, invita i presenti a unirsi per ringraziare Colei che, secoli prima, salvò quel marinaio sconosciuto e riconoscente. Tutti gli stabiesi si riuniscono in strada e, nell’ultima notte – quando sono terminate le dodici stelle – attendono l’alba: percorrendo un’ultima volta il percorso votivo, intonano l’invocazione alla Madonna. 

Il paesaggio è incredibile. Castellammare di Stabia, città del mare, si colora di vivacità e ardore…

 

la maestosità del fuoco e i suoi vividi colori invadono
ogni angolo, ogni casa, ogni cuore.

 

In un’atmosfera suggestiva, davanti a spettacoli pirotecnici, che si proiettano nel cielo e nel mare, come in un gioco di specularità e simbiosi, la tradizione di Luigi si svela con tutta la sua attualità. Un’attualità fatta di vita, di gioia, di condivisione. Uno scintillio di canti e balli, un profumo confortante di antico e invincibile, scaturente dalla commistione di salsedine e legna, un vento di speranza da una tradizione, da una cultura che, nonostante le difficoltà, vuole innalzare al cielo la propria storia e la propria identità. Un parallelismo fra passato e presente, fra memoria e attualità, un turbinio di insegnamenti che si innestano nella notte dei tempi arrivando sino ai giorni d’oggi. Una città, quella stessa città che anni prima si unì al coro di Luigi, che non dimentica le proprie radici.

 

È un ringraziamento, un inno alla vita, un gesto di gratitudine
di un popolo che ha memoria e che non vuole dimenticare
la storia di quell’immenso miracolo chiamato Vita.

Tutto questo grazie al fuoco, simbolo di calore che riscalda corpo e anima, e del mare, quale metafora della vita che, tra alti e bassi, vale la pena di essere celebrata.

 

 

 

Luigi, detto “O’ Chiavone”, in una notte come tante, si trovò ad affrontare, con la sua imbarcazione (O’ paranziello), con tutto il suo equipaggio, una tempesta, di un’imponenza tale da non essersi mai vista. “(…) un colpo di mare spazzò via i marinai dalla coperta e poco dopo la barca fu inghiottita dal mare (…)”1

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IL FUOCO E            IL MARE

 

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1 “Antiche Tradizioni Stabiesi – Fratièlle e surélle” di Ciro Alminni – anno 1999.

 

2“Antiche Tradizioni Stabiesi – Fratièlle e surélle” di Ciro Alminni – anno 1999.

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I GIARDINI DEI POMI CITRINI di Giorgio Salvatori – Numero 10 – Marzo 2018

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 I GIARDINI DEI POMI
CITRINI

 

 

È “giardino” la parola più usata per descrivere gli agrumeti
di cui si ammantano, in un tripudio di sfumature dorate,
gli assolati declivi del Meridione.

 

Forse un legame inconsapevole con la leggenda o, secondo alcuni, la memoria degli anni in cui gli aranceti erano architetture arboree ornamentali, in Europa, poiché solo la varietà non edule del frutto, l’arancia amara, era conosciuta e coltivata in Occidente dopo la sua introduzione dall’Oriente. Quando e come questo avvenne, però, è storia ingarbugliata. Si sa soltanto che padre di ogni agrume è il cedro e che l’Asia è la sua patria d’origine. I romani lo conobbero ben presto, anche se ne facevano un uso officinale. Ogni altro agrume, secondo i botanici, deriverebbe da lui. Arance e limoni, però, trionfo di odori e di colori mediterranei, arriveranno più tardi. Prima come abbellimento di ville padronali, infine, ma è questa è storia relativamente recente, come frutti da gustare non soltanto con gli occhi, ma anche con il palato. Un amore non a prima vista, ma solido, quello del nostro Paese con i giardini delle Esperidi.

 

Strano, però, che le vicende legate alla introduzione e alla coltivazione degli agrumi in Italia siano state narrate da pochi e pazienti cultori 

della storia degli agrumi. Una lacuna colmata da una splendida pubblicazione delle Edizioni del Rosone 

e firmata da Nello Biscotti, 

 

pugliese, botanico, con al suo attivo già numerosi saggi sulla flora e la natura della sua regione. Il titolo è Storie di agrumi e paesaggi. I pomi citrini del Gargano. Se l’attenzione e la ricerca sono soprattutto focalizzati sui “giardini” del Gargano, appunto, terra di cui si sono nutriti il corpo e lo spirito dell’autore, la ricostruzione della penetrazione nel bacino del Mediterraneo dei leggendari pomi delle Esperidi è dettagliata e accurata. Biscotti non si limita a definire l’anno o il periodo in cui sulle tavole dei popoli del Mediterraneo si consumano le prime arance dolci (fine del diciottesimo secolo); narra la complessa genesi attraverso cui si giunge alla domesticazione dei pomi selvatici, all’acquisizione di questi frutti esotici nell’alimentazione quasi quotidiana delle nostre famiglie e alla scoperta delle loro proprietà di contrasto per numerose malattie umane.

 

Un lungo viaggio che comincia in Cina, in India, nell’odierno Bhutan, 

in remote regioni del Sudest Asiatico, e che si conclude
nell’esaltazione trionfale che, dei pomi citrini,
sanno celebrare 
i Paesi del Mediterraneo 

e l’Italia in particolare.

 

Non mancano le curiosità. Prima tra tutte la spiegazione del nome “portogallo” che, ancora oggi in alcune regioni, viene usato per riferirsi all’arancia dolce. Una traccia lessicale del periodo in cui si riteneva che questi pomi agrodolci provenissero dal Portogallo, Paese tra i primi a trarre profitto del loro commercio. Fin qui, però, il lavoro di Biscotti si inserisce nel novero delle ricerche dotte mettendo pazientemente insieme i tasselli di un mosaico fatto di richiami storici, citazioni di studi pregressi, elaborazione di dati desunti da fonti specialistiche. Il grande merito della sua opera risiede soprattutto altrove. Ed è duplice. Il primo merito risiede nella fresca lettura mnemonica che l’autore svolge tra i suoi vividi ricordi d’infanzia sul Gargano, l’affresco di un’Italia rurale identica ovunque. Val la pena di trascriverne alcuni: “Il giorno più bello (d’estate, n. d. r.) era quello in cui dicevamo: – Domani ci trasferiamo al giardino – (in corsivo). Si era a luglio e l’idea di poter vedere il mare era fortissima, ma vi era dell’altro e ancora oggi non riesco a decifrarlo fino in fondo.

 

Era probabilmente l’idea di una campagna vissuta, abitata
da tanti bambini, uomini, donne, pescatori che vendevano
alici, sarde, telline, tante volte barattate
con un cesto di arance. 

 

La sera si riunivano in tanti a suonare tarantelle e chiacchierare, discutere, raccontare favole ai bambini. La gioia era probabilmente quella di poter stare con zii, cugini, nonne, tutti insieme a condividere 15-20 metri quadri di una casetta che ogni anno si pitturava con la calce all’interno e di rosso pompeiano all’esterno. C’erano ancora le arance ed ogni momento era buono per mangiarne una e, se si aveva molta fame, bastava strusciarla su una grossa fetta di pane, il tutto condito con tanto olio di oliva che non mancava mai”. Suona lontana questa armonia per chi vive oggi un’infanzia o un’età matura immerse nella inconsapevole distopia del caotico universo digitale. Eppure si tratta di memorie degli anni sessanta del secolo scorso, non di protostoria dell’umanità. Il secondo merito è nella descrizione accurata, la prima, nel suo genere, delle tante varietà di pomi citrini coltivati nel Gargano, dalla loro età dell’oro, quando erano considerati i più pregiati e si esportavano agrumi perfino negli Stati Uniti, fino alla loro decadenza, negli anni dello spopolamento delle campagne, quelli in cui il “giardino delle Esperidi” si cercava in città, nelle metropoli del Nord Italia e addirittura nelle miniere del Belgio, dove morirono tanti nostri connazionali.

 

Ecco allora sfilare davanti agli occhi del lettore, attraverso descrizioni accurate o suggestive immagini fotografiche, arance forti, “femminine”, rugose, a spina, “toste”, limoni lustrini, sanguigni, incannellati,
melangoli bizzarri e tanti altri ancora, dai nomi stravaganti 

e misteriosi, che ci attraggono o ci lasciano perplessi. 

 

E oggi? Oggi qualcosa si muove. La richiesta di arance del Gargano è in ripresa. “C’è perfino un’azienda di bevande analcoliche del Nord che reclamizza alcune bibite come aranciate con succo di agrumi del Gargano” -dice con orgoglio Biscotti e racconta di come questa timida ripresa sia frutto di un lungo e paziente lavoro di ricostruzione della rete di coltivazione, raccolta e commercializzazione degli agrumi del Gargano. Una ricostruzione avviata anche con provocatorie esposizioni pubbliche di frutti abbandonati nei giardini negli anni ottanta e novanta, incontri con rappresentanti politici regionali e nazionali, partecipazione ad una edizione del Salone Internazionale del Gusto a Torino, nel 2000, sostenuta dal graduale interesse di testate radiofoniche e televisive.

 

Fino ad arrivare al riconoscimento IGP (indicazione geografica protetta) per due varietà tipiche, il limone femminello, nel 2006, 

e l’arancia bionda nel 2007.

 

Entrambe possono essere considerate eccellenze del Sud non soltanto perché uniche per colore, sapore, consistenza, resistenza alle avversità climatiche, ma perché rappresentano un mondo degno di essere conservato e tramandato per lo straordinario patrimonio di conoscenze che generazioni di agricoltori ci hanno consegnato. Un modello di coltivazione ammirevole, su terreni talmente impervi che sarebbe difficile ipotizzare altre produzioni agricole di eccellenza con le moderne tecniche di coltivazione. Ci sono tutti gli ingredienti perché “i pomi citrini del Gargano tornino ad essere risorse di qualità” -dice Biscotti, e si tratta dell’unica strada percorribile per salvare anche un paesaggio che resta ancora uno dei più belli e più intatti del Sud. Mutatis mutandis, si dovrebbe “tornare indietro per andare avanti’’. Era una frase, quasi un ossimoro che amava ripetere Tatanka Yotanka, alias Toro Seduto, il grande leader dei Lakota Sioux. Un insegnamento che sembra voler far proprio Nello Biscotti a proposito dei suoi pomi citrini dello Sperone d’Italia e che noi, di cuore, condividiamo.

 

 

 

 

 

LIBRO
AGRUMI

Tavola 1. Rappresentazione di un campione significativo della diversità che ha caratterizzato la storica agrumicoltura del Gargano. 1. Limone incannellato; 2. Limone ovale; 3. Limone fusillo lunario; 4. Limone tunno; 5. Limone sanguigno; 6. Limone lustrino; 7. Limone tondo vecchiarino; 8. Cedro liscio oblungo; 9. Limone tondo vecchiarino; 10. Arancia a pera; 11. Arancia scorciuta; 12. Arancia varlotto; 13. Mandarino meditteraneo; 14. Arancia sferica; 15. Arancia sanguigna; 16. Arancia virgata; 17. Arancia tosta depressa;18 Arancia Patrenostro; 19. Arancio forte; 20. Bergamotto.

in origine

sorvegliato da un drago e dalle figlie di Atlante: Egle, Eritea, Esperetusa, le Esperidi. Questa, in estrema sintesi, è la leggenda, anzi, una versione della leggenda. Una storia che nasce dalla mitologia greca, si intreccia con la leggenda dell’albero dell’immortalità e le vicende della guerra di Troia e giunge fino a noi, con i frutti dorati dei “giardini” del Sud. Pochi, infatti, dalla Sicilia alla Calabria, dalla Puglia alla Campania, usano il termine “agrumeto” per riferirsi alle coltivazioni di arance, cedri, limoni.

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L’ABRUZZO NON ESISTE di Marzio Maria Cimini – Numero 10 – Marzo 2018

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L’ABRUZZO NON ESISTE

 

sarebbe piaciuto a Giorgio Manganelli (1922-1990), che all’Abruzzo ha dedicato pagine terse e solenni, forse le più belle che siano state scritte su questa regione ascosa e spigolosa. Quando l’attraversò in lungo e in largo, nel 1987, scortato dall’automedonte Pino Coscetta, entrambi al soldo del Messaggero, trovò che l’Abruzzo fosse “specializzato nella produzione di freddo” e gli abruzzesi “bizzosi, protervi”, con collane di serpenti, latori di “qualcosa di acre e insieme di angolosamente elegante” 1 e gli piacquero non poco.

 

Non era nuovo alla scoperta dell’Abruzzo, Manganelli: l’attraversò con la sua Bakunina, un motorino anarchico, scendendo direttamente da Milano, sua città natale, dalla quale fuggiva, fuggendo da una madre ebrea convertita cattivissima (“qual è la differenza tra un condor e una madre ebrea? Entrambi ti mangiano il cuore, ma almeno il condor aspetta tu sia morto”), da una moglie che non lo amava, da una figlia in fasce, da un’amante un po’ matta che rispondeva al nome di Alda Merini, andando incontro al suo destino di grande scrittore, a Roma. Allievo, a Pavia, di quel Vittorio Beonio Brocchieri che alla guida di un monomotore solcava i cieli dei due emisferi puntando dritto ai Poli, Manganelli non era neppure minimamente progettato per il viaggio: pingue e nevrotico, attraversato da milioni di incubi e manie, manderà nondimeno corrispondenze mirabolanti e straordinarie dalle sue esplorazioni di mondi lontani e paradossali. Una volta che lasciò Roma per intraprendere uno dei suoi viaggi avventurosi disse che si sarebbe recato a Teramo.
 
In effetti l’Abruzzo è un luogo lontanissimo, per arrivarci senza valicare l’Appennino – che lì tocca i tremila metri del Gran Sasso d’Italia – bisogna compiere un giro intorno alla Terra, e non è detto che non sia 
la maniera più comoda e più veloce per raggiungerlo, se pure 
Boccaccio per indicare luogo nascosto e irraggiungibile 
scrive “più là che Abruzzi”2
 
E la sua distanza dal mondo, la sua albagia un po’ cisposa e un po’ voluttuosa ne fanno un oggetto strano, non pienamente definibile e tantomeno maneggevole. Anche chi v’è nato, solitamente attraversato da un amore selvatico e belluino per questa terra di “sassi, rocce, queste cose che hanno movimenti, spasimi e trasalimenti che durano millenni, e poi brividi di un secondo che fanno strage”3, ha sovente difficoltà a capire la sua terra, che si ostina ad osservare e dalla quale viene ricambiato solo da effimeri segnali d’amicizia, strette di mano calorose e fugaci. 
 
Non stupisce dunque che i foresti facciano fatica a comprendere la natura di questa terra di orsi, camozze e lupi. 
 
Che posto ha l’Abruzzo nell’Italia del XXI secolo? Anzitutto, 
ha un problema di collocazione. La storia del Novecento, curiosamente, l’ha fatta a poco a poco avanzare verso Settentrione: quanti sono oggi 
gli abruzzesi che definirebbero loro stessi pienamente meridionali? 
 
Temo pochissimi. L’Abruzzo d’oggi ha dimenticato i suoi mille anni sotto il Regno di Sicilia, poi quello di Napoli e infine sotto il Regno delle Due Sicilie. Eppure le bizzarre costruzioni degli uomini che appartengono all’ingegneria politica dopo il 1861 non hanno mai sottratto l’Abruzzo a questo suo pristino e antico legame con il Meridione della penisola. Regione più settentrionale del Regno duosiciliano e anzi irriducibile terra di confine (Civitella del Tronto, fortezza estrema posta sul confine col Regno Pontificio, resistette alle truppe sabaude duecento giorni, fino al 20 marzo 1861, ossia fino a tre giorni dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia da parte di Vittorio Emanuele II), l’Abruzzo regnicolo ha guardato cinquecento anni a Napoli quale suo riferimento morale e politico, mentre oggi pensa solo a Roma, a cui è velocemente collegata da due supersoniche autostrade, le più alte d’Europa, le più belle del mondo secondo la scrittrice premio Nobel Alice Munro, che le attraversò nel 2008 restandone incantata. Napoli e tutto il meridione sembrano oggi lontanissimi dall’Abruzzo, e non solo a causa della congenita difficoltà e lentezza dei trasporti su gomma e su rotaia che affligge il sud d’Italia, ma per ben più radicati sentimenti: l’Abruzzo d’oggi si sente appartenente ad un indefinito “centro Italia”, più simile alle Marche, all’Umbria, al Lazio che vantano tra loro apparentamenti storici assai vincolanti e illustri. 
 
Anche l’osservatore che abbia vaghe conoscenze dei popoli e delle terre aprutini – nessuno sa con esattezza i suoi confini e la sua toponomastica è flagellata dall’approssimazione – non è pronto ad ammettere l’Abruzzo tra le regioni del Mezzogiorno.
 
Ma se l’Abruzzo, meridionale e napolitano per storia, costumi, lingua, cucina, dimentica d’appartenere al Sud, ed è negletto e trascurato dal Centro, e alieno e giustamente inaccolto dal Settentrione, cessa d’esistere. Non so se l’Abruzzo sia effettivamente un dono del Sud, ma di certo del Sud è figlio legittimo e non scapestrato: del Meridione conserva la cucina sapida e ingegnosa, fatta di cibi rituali assai legati alla terra e alle stagioni, con una sostanziale distrattezza per i frutti del mare; del Meridione parla la lingua, la cui radice partenopea si avverte ovunque, inasprita dal passaggio dei monti; del Meridione porta i costumi, impreziositi dai lavori a tombolo e da arcaici schemi geometrici; del Meridione condivide, infine e soprattutto, la storia, una lunga storia fatta di seduzioni antiche e di furori ben temperati, a cui ha fornito acute intelligenze e non poche mani d’artista, che contribuirono non distrattamente a compiere i destini pre e post-unitari del Mezzogiorno d’Italia, con esiti quasi sempre felici. 
 
Non è possibile immaginare una storia d’Italia senza considerare il suo ingombrante Meridione, non è possibile immaginare 
una storia del Meridione senza l’Abruzzo.
 
E allora perché questa Regione di un milione e trecentomila abitanti, di poco più piccola della Campania e di poco più grande della Basilicata, è così desiderosa d’affrancarsi dal Sud, pronta ad abbracciare altre storie, altre tradizioni, altre lingue? Forse è il destino di tutte le terre di frontiera, mescolarsi agli altri, non definire con chiarezza i contorni della propria appartenenza, mimetizzarsi e confondersi per il timore di vedersi un giorno assaliti dall’altrui ferocia. È forse questo anche il motivo della sua atavica ospitalità nei confronti di quanti venivano dall’altra parte del Mare Adriatico, non temibili come i Saraceni in Puglia, ma contrappunto commerciale, sponda amica, portatore di Santi Patroni, come quel San Cetteo che protegge Pescara, Porta Aprutii e sera Regni, con ogni probabilità originario dei Balcani, così come dai Balcani viene quell’uso di mangiare le pecore, le stesse pecore che davano una lana di così alta qualità da essere gelosamente protetta e richiesta dai Medici di Firenze e che hanno rappresentato per secoli la maggiore fonte di ricchezza, sulla via del Tratturo Magno, per larghe porzioni della sua popolazione. 
 
Il Tratturo Magno, questa via antichissima, “quasi un erbal fiume silente”4 nelle parole del più abruzzese dei poeti, del più italiano 
dei cuori, Gabriele d’Annunzio, che milioni di pecore e migliaia 
di pastori, per mille anni e forse mille altri ancora, 
 
hanno percorso per fuggire i rigori invernali di questo esportatore netto d’inverno e di freddo che è l’Abruzzo, dai massicci del Gran Sasso e della Majella fino alle spiagge adriatiche e poi giù, ancora, verso i tepori del Tavoliere delle Puglie. È questa la via che conduce a Meridione, è questa la via che gli abruzzesi devono tornare a percorrere per ricongiungersi con la propria storia e andare fiduciosi incontro al destino. È questa la via che, “su le vestigia degli antichi padri”5, porta all’identità più profonda, segna una collocazione nell’Italia di oggi e in un Mondo dai confini sempre più sbiaditi e mutevoli, valica i confini politici delle regioni e conduce ad una nuova concezione degli spazi, costituendo entità spirituali e amministrative nuove e antiche al tempo stesso. Senza memoria delle sue appartenenze illustri l’Abruzzo non esiste.

 

1 -Tutti gli articoli che Giorgio Manganelli scrisse per il quotidiano “Il Messaggero” nel 1987 sono oggi raccolti ne La favola pitagorica, Adelphi, Milano, 2005, da cui sono tratte le citazioni riportate in questo scritto.

 

2 – V. G. Boccaccio, Decameron, Giornata ottava-Novella terza: «Disse allora Calandrino: “E quante miglia ci ha?” Maso rispose: “Haccene più di millanta, che tutta notte canta.” Disse Calandrino: “Dunque dee egli essere più là che Abruzzi.” “Sì bene” rispose Maso “sì è cavelle.»

 

3 –  Ancora G. Manganelli, op.cit., p. 106

 

4 –  G. d’Annunzio, I pastori, da Alcyone, Fratelli Treves, Milano, 1903.

 

5 –  Ibidem.

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UN MERIDIONE MARITTIMO? di Ferdinando Sanfelice di Monteforte – Numero 9 – Dicembre 2017

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UN MERIDIONE MARITTIMO?

 

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convinte che la loro sopravvivenza futura, nonché la speranza di mantenere il livello di benessere finora goduto dalle loro popolazioni, dipendano in parte rilevante sia dallo sfruttamento delle risorse marine, sia da un maggiore coinvolgimento nelle attività del commercio marittimo. 

La maggior parte dei governi, infatti, è giunta alla preoccupante conclusione che quanto è ricavabile dalla terra o dal sottosuolo non basta più a produrre reddito per il proprio Paese, e per questo si rivolgono al mare, come fonte di future ricchezze. Sintomatica è, a tal proposito, la dichiarazione, alcuni anni fa, da parte di un Presidente della Repubblica francese, che si meravigliava del “troppo lungo oblio della Francia sulla sua vocazione marittima”1 e aggiungeva che il Paese “doveva avere una volontà politica permanente per andare verso l’oceano, per proiettarvi un’ambizione”2

Questa corsa al mare, divenuta di recente un approccio comune 
a molti governi, inclusa la Cina, spiega perché si sia verificata un’intensificazione dei contenziosi marittimi e un riarmo navale generalizzato, che ha coinvolto, tra l’altro anche 

molte Nazioni rivierasche del Mediterraneo.

La situazione nel nostro bacino è oggettivamente difficile e, anche se non ha ancora dato luogo a conflitti aperti, non sono mancati momenti di tensione tra i vari Paesi. Basterà citare lo scontro tra un convoglio di navi turche, la Freedom Flotilla, con le forze speciali israeliane, il 31 maggio 2010 e, ancor prima, la dichiarazione del Parlamento turco, che nel 1995 approvò un documento che considerava casus belli ogni espansione delle acque territoriali greche, al di là delle 6 miglia marine.

Un tale crescente livello di contenzioso, frutto di questa maggiore attenzione alle ricchezze del mare comporta, per il nostro Paese, come e più del passato, la necessità di disporre di un “Potere Marittimo” per contenere tale conflittualità e far valere i propri diritti. Ma cosa vuol dire questo concetto? Per chi non lo ricordasse, già nel 1814 un illustre napoletano, Giulio Rocco, ne definì l’essenza, affermando che esso era “nell’ordine politico, una forza somma risultante da quella di una ben ordinata Marina Militare e di una numerosa Marina di Commercio”3.Vista con gli occhi di oggi, tale affermazione del nostro insigne conterraneo non è altro che un’applicazione all’ambiente marittimo del paradigma secondo il quale “la ricchezza è in genere necessaria per sostenere la potenza militare, così come la potenza militare è di solito necessaria per conquistare e proteggere la ricchezza”, ma possedere un “Potere Marittimo” richiede precisi requisiti, sia in campo militare, sia in quello commerciale, che non sono sempre disponibili.4

Il Meridione è la parte della penisola italiana più vicina sia alle linee 
del grande commercio marittimo internazionale, sia ai bacini alturieri 
del Mediterraneo, dove le ricchezze dei fondali marini 
sono più numerose, e pretese da molti.


È quindi necessario capire come il Meridione si collochi rispetto ai requisiti di marittimità, e cercare di stabilire quale possibilità esso abbia di sviluppare le proprie attività sul mare, che oggi, ancora più rispetto al passato, è diventato la fonte primaria di benessere per un popolo.

I requisiti che definiscono la marittimità furono analizzati, verso la fine 
del XIX secolo, da uno studioso americano, Alfred Thayer Mahan, 
il quale li chiamò “elementi del potere marittimo”. Sarà quindi 
opportuno esaminare, per ognuno di essi, come si colloca 
il nostro Meridione: 
 
Posizione geografica

 

“se una nazione è situata in modo tale da non essere costretta a difendersi sulla terra né indotta a ricercare un aumento del proprio suolo sulla terra, è per la sua stessa unità d’intenti rivolti al mare, avvantaggiata rispetto a un’altra che abbia le sue frontiere sul continente”5. Se poi questa Nazione è posizionata lungo le principali rotte commerciali, lo studioso americano notava che il suo vantaggio geografico è ancora maggiore. A proposito del Mediterraneo, Mahan aggiungeva che “le circostanze hanno fatto sì che il Mare Mediterraneo abbia giocato nella storia del mondo una parte superiore a quella di qualsiasi altra estensione di mare della stessa dimensione”6. La posizione geografica del Meridione, che, con la Sicilia, taglia il bacino in due parti, potendo controllare i transiti tra queste, è quindi particolarmente favorevole, e notevole potrebbe essere di conseguenza la possibilità di sfruttare la posizione geografica per il proprio sviluppo. Basta, inoltre, uno sguardo alla carta geografica per vedere come, dal punto di vista marittimo, il Meridione si affacci su entrambi i bacini, con la costa adriatico-jonica che guarda verso il Levante, fino al Medio Oriente, e un’altra che guarda verso il Ponente, e quindi aperta ai commerci atlantici. Non vi è un’altra regione o Paese, nel Mediterraneo, che goda di tutti questi vantaggi, dal punto di vista geografico; 

Conformazione fisica.


“La linea di costa di un Paese costituisce una delle sue frontiere e più facile è l’accesso alla regione al di là della frontiera, in questo caso il mare, maggiore sarà la tendenza di un popolo ad avere relazioni col resto del mondo per quella via. Se si potesse immaginare un Paese con una estesa linea di costa, ma interamente priva di porti, questo Paese non avrebbe, di per sé, alcun commercio marittimo, né naviglio, né Marina Militare”7. Qui sorgono alcuni problemi: il Meridione, con la sua limitata disponibilità di porti, alcuni dei quali sono ormai inadeguati a favorire il commercio, spesso per mancanza di manutenzione e di ammodernamento, è quindi fortemente svantaggiato sotto questo aspetto. La situazione dei porti turistici, i “Marina”, è in effetti migliore, anche se non ancora adeguata, per numero e capacità ad accogliere tutto il turismo marittimo che le bellezze dei nostri mari potrebbero attirare. Questo è un punto sul quale è necessario impegnarsi, se si vuole che il Meridione esca dal suo presente stato di sottosviluppo;

 

Estensione del territorio.

 

“Non è tanto il numero totale dei chilometri quadrati della superficie del Paese che deve essere considerato, quanto la lunghezza della sua linea di costa e le caratteristiche dei suoi porti. A questo riguardo occorre dire che, a parità di condizioni geografiche e fisiche, la lunghezza della linea di costa è fonte di potenza o di debolezza, a seconda che la popolazione sia più o meno numerosa”8. In teoria, quindi, con la sua costa estesa e piena di piccoli ridossi, il Meridione avrebbe tutte le caratteristiche per costituire un fattore propulsivo per incrementare la potenza economica e commerciale dell’Italia. In pratica, però, ci troviamo di fronte a un grande problema, triste retaggio della Storia, come vedremo tra breve;

 

Entità della popolazione.

 

“Per quanto riguarda la popolazione, non è solo il totale generale che deve essere computato, ma il numero di gente che prende il mare o, per lo meno, che è immediatamente disponibile per l’imbarco e per la costruzione di materiali navali”9. Purtroppo, nel Meridione, la specie umana nota come “homo maritimus” costituisce una netta minoranza, ancorché di rara qualità. Questo è dovuto sia ai secoli di dominazione straniera, sia alle minacce dal mare, che hanno indotto larghe fasce della nostra popolazione a emigrare verso l’interno del Paese: i bellissimi comuni, arroccati sulle montagne, che vediamo attraversando in auto il Meridione, non sono altro che una risposta a queste situazioni ingestibili, da parte di un popolo spesso lasciato indifeso, fino al XVIII secolo. Un altro grave problema, presentatosi negli ultimi decenni, è la progressiva decadenza della cantieristica meridionale, dato che in questo importante settore produttivo i responsabili delle decisioni economiche hanno a suo tempo deciso di spostare il baricentro della cantieristica al nord dell’Italia. Ciò ha reso il Meridione particolarmente debole sotto questo aspetto, facendogli perdere know-how e posti di lavoro;

 

Carattere nazionale.

 

“Se il potere marittimo è basato su un vasto e pacifico commercio, allora l’attitudine all’occupazione commerciale deve essere la caratteristica peculiare delle Nazioni che sono state, prima o poi, grandi sul mare”10. Ma il Mahan osservava anche che “le classi nobili d’Europa ereditarono dal Medioevo un arrogante disprezzo per il pacifico commercio, un disprezzo che ha esercitato un’influenza modificatrice nel progresso di queste, a seconda del carattere nazionale di questi Paesi”11. Questa osservazione si attaglia, in modo particolare, al Meridione: anche dopo la scomparsa della nobiltà come classe dirigente, le attività commerciali vengono sia sistematicamente oppresse dalla criminalità organizzata, sia considerate di livello inferiore rispetto ad altre professioni, specie quelle del terziario. Nel Meridione il senso di legalità è un patrimonio di meno della metà della popolazione e la criminalità organizzata, che prospera solo in ambienti dove l’illegalità è tollerata, può quindi opprimere le attività produttive e commerciali, impedendo lo sviluppo delle nostre terre e incrementando la disoccupazione;

 

Carattere del governo.

 

“La condotta del governo corrisponde all’esercizio di una volontà intelligente che, a seconda che sia saggia, energica e perseverante oppure no, causa successo o fallimento nella vita di un uomo o nella storia di una Nazione. (A tal proposito) i più grandi e brillanti successi si sono avuti quando vi è stato un intelligente indirizzo da parte di un governo interamente impregnato dello spirito del popolo e consapevole delle sue genuine inclinazioni”12. Quanto i governi regionali del Meridione siano determinati a far sì che il nostro Sud possa godere di uno sviluppo duraturo grazie alle attività marittime, è una domanda che è lecito porsi

 

In effetti, qualcosa è stato fatto, ma con una popolazione in gran parte lontana dal mare, com’è stata per secoli quella del Meridione, molto c’è ancora da fare per invertire la tendenza. 

 

Come si può notare dalle considerazioni finora elencate, esistono notevoli impedimenti a uno sviluppo della marittimità del Meridione, malgrado l’enorme potenziale, essenzialmente geografico, che la favorisce.

 

In buona sostanza, le azioni necessarie, per colmare il divario esistente, rispetto alle potenzialità in campo marittimo del Meridione, 

sono, in ordine di importanza: 

 

 Educare e abituare alla vita di mare una maggiore aliquota 

 della nostra popolazione.

 

Molti encomiabili sforzi sono stati fatti da parte di Associazioni, come la Lega Navale, ma è necessario che tali sforzi vengano non solo incoraggiati, ma anche integrati da un’azione ben più energica da parte delle Pubbliche Amministrazioni. Portare una popolazione verso il mare richiede anche una propaganda capillare per convincere l’opinione pubblica del Meridione che il mare non è più un pericolo, ma un’enorme opportunità;

Migliorare i porti.


Questo è un problema generale dei Paesi del Mediterraneo. Osservava, a tal proposito, l’intellettuale francese, Jacques Attali, che “i porti maggiori di questo mare sono al quarantesimo o al cinquantesimo posto nel mondo, (e) scadono annualmente in tale classifica”13. Un’azione decisa in tal senso, quindi, porterebbe al Meridione un benessere notevole, come mostra lo sviluppo di Gioia Tauro, che è diventato –
rara avis – uno dei porti maggiori del bacino;

 

Incentivare la cantieristica meridionale, la cui decadenza 

ha raggiunto un livello preoccupante.

 

Se è vero che la concorrenza dei Paesi asiatici è forte in questo campo, è altrettanto vero che le costruzioni navali di alta qualità e prestazioni sono un settore strategico, dove ben pochi Paesi possono competere con le qualità di noi meridionali in fatto di ingegno e di progettazione;

Dare un ulteriore impulso alle attività turistiche sul mare.


Chi sia andato sulla Costa Azzurra, da Nizza fino a Tolone, può vedere quanto indietro siamo noi meridionali, in questo campo. Con le coste e isole che abbiamo, potremmo più che raddoppiare le presenze di turisti e appassionati del mare. Servono più porti e più servizi, che generano indotto e occupazione. 

 

A monte di tutto, però, deve esserci una maggiore consapevolezza che non vi è sviluppo senza legalità. Proprio il settore dell’economia marittima è quello che necessita, come e più di altri, di legalità e di trasparenza.

 

Se la maggioranza della nostra popolazione non si convince 

che le attività economiche vanno protette dall’illegalità, dalla 

corruzione e dalla criminalità, nulla potrà consentire 

lo sviluppo di un “meridione Marinaro”.

 

Infatti, non ci vuole molto per perdere questa occasione di sviluppare le attività sul mare e altri Paesi, pur meno dotati del nostro Meridione, sarebbero ben felici di toglierci fette importanti di benessere in questo settore. Il rischio è quello di rassegnarci a vedere gli altri prosperare sul mare e, al massimo, “servire loro il caffè”! 

In definitiva, non ci si può limitare a vedere i futuri perni dell’economia del Meridione né nel turismo in genere né nella manifattura di prodotti di basso valore aggiunto, come si è pensato di fare. Una decisa sterzata verso l’eccellenza in campo marittimo, in tutti i settori di attività, è necessaria se si vuole stimolare uno sviluppo bilanciato e durevole del Meridione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

fine-t-storia
Ferdinando-Sanfelice

1 Discorso del Presidente SARKOZY a Le Havre, 16 luglio 2009.
2 Ibid.
3 G. ROCCO. Riflessioni sul Potere Marittimo. Ed. Lega Navale Italiana, 1911, pag. 1.
4 P. KENNEDY. Ascesa e Declino delle Grandi Potenze. Ed. Garzanti, 1989, pag. 20.
5  A.T.MAHAN. L’influenza del Potere Marittimo sulla Storia. Ed. Ufficio Storico Marina Militare, 1994, pag. 64.
6 Ibid., pag. 68.
7 Ibid., pag. 70.
8 Ibid., pagg. 77-78.
9 Ibid., pag. 79.
10 Ibid., pag. 84.
11 Ibid., pag. 88.
12 Ibid., pag. 92.
13 J. ATTALI. La Méditerranée ou l’ultime utopie, in Défense Nationale et Sécurité collective, numero speciale dedicato all’Unione per il Mediterraneo, 2008.

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1 Campania
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3 Sicilia
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4 Puglia
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5 Abruzzo
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6 Basilicata
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LE BUFALE STRALUNATE DI PIOVENE di Francesco Ricciardi – Numero 9 – Dicembre 2017

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LE BUFALE STRALUNATE DI PIOVENE

 

 

Piovene batteva palmo a palmo lo Stivale per conto della Rai quando, giunto nelle campagne di Paestum, prendeva per la prima volta contatto con quello “strano e primitivo animale, dagli occhi spiritati”

e con il delicato rito della mungitura: “La bufala si incontra in tutta la Campania; nella zona di Paestum gli allevamenti sono fitti, ed il caso ha voluto ch’io la conoscessi qui. Vi è certo una specie di affinità poetica tra quel grande animale nero e le antiche rovine. Armato di un bastoncino dalla punta di ferro, il massaio, che regola la vita delle mandrie, mi ha condotto dentro il recinto; le bufale facevano davanti a noi quasi un muro compatto, fissandoci a muso basso con espressione stralunata; se non fosse stata la fiducia nei poteri magici del bastoncello del massaio, avrei apprezzato meno la poesia della visita. Quell’animale primitivo è però strano e intelligente. Rifiuta di lasciarsi mungere se non ha il proprio piccolo attaccato a un capezzolo; soltanto allora, per nutrirlo, rilascia il suo prezioso latte, che altrimenti può trattenere. E infatti, ad ogni mungitura, il piccolo è presentato alla madre; questa cerimonia però richiede una specie di rito.

Al momento del parto, l’unico uomo che la bufala riconosce, il massaio, le grida il suo nome all’orecchio. Il nome non consiste in una parola, bensì in una frase cantata.

 

La bufala non la scorda più; diviene per sempre il suo nome, e insieme l’appello del figlio che chiede d’essere allattato. Anche tra duecento bufale, ognuna nel branco conosce la frase modulata che la distingue”. A questo punto il lettore perdonerà una divagazione personale a chi scrive, che coltiva il vezzo di considerarsi un intenditore della materia… in fondo può vantare un consumo familiare vecchio di alcune generazioni, una sorta di Dna latticino. La famiglia di mia nonna materna, infatti, gli Alfani, nelle sue vaste proprietà, con diverse fattorie attive nella piana del Sele (tutte sulla sponda destra del fiume) tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento allevava circa 8000 bufale (e altrettanti cavalli). Furono tra i primi nel Salernitano, gli Alfani, a produrre in maniera “sistematica” mozzarella di bufala. Era una produzione destinata piuttosto all’uso familiare, per la gioia propria, dei tanti amici e clienti (nel senso latino del termine), dei contadini ecc. Le mozzarelle, infatti, per la loro deperibilità e le caratteristiche di assoluta freschezza che devono avere al momento di essere consumate, mal si prestavano ad un esteso commercio. Che la diffusione della mozzarella fosse limitatissima è provato, peraltro, dalla sua totale assenza nelle figurazioni del Presepe napoletano, dove invece fanno bella mostra di sé provole e caciocavalli appesi alla porta delle case o sulle botteghe dei salumieri.

Alimento di lusso, dunque, la mozzarella… tanto che, in epoca borbonica, la sua produzione e la commercializzazione avvenivano addirittura nella Tenuta reale di Carditello.

 

Da qui ogni giorno venivano inviati latticini freschi per la tavola del re, e il resto della produzione era venduta ai privati, costituendo una delle voci più cospicue delle rendite reali. Siamo verso la fine del Settecento e l’affermarsi del consumo dei latticini di bufala va certamente collegato con l’attività della Tenuta reale, dove venivano anche apportate migliorie agli allevamenti e alla razza mediante incroci indovinati. Re Ferdinando, infatti, se da un lato lasciò assai a desiderare quanto a doti politiche, non era per nulla scarso sul versante del bel vivere. Trascurava, insomma, volentieri i problemi pratici del suo regno ma sapeva come godersi la vita. Era anche buongustaio e i suoi latticini amava consumarli freschi, così come arrivavano sulla sua tavola. E faceva bene. È solo un parere personale ma nessuno mi toglierà mai dalla testa la convinzione che utilizzare la mozzarella di bufala in qualsivoglia preparazione di cucina sia uno spreco: se cucinata, infatti, perde quasi del tutto il suo sapore e quella consistenza inconfondibili… meglio allora usare una qualsiasi mozzarella di latte vaccino. Come si conviene a una regina della tavola meridionale, la mozzarella di bufala va consumata fresca – alcuni, tra cui il sottoscritto, la preferiscono del giorno prima – e gustata da sola.

 

La sua pasta inconfondibile, la forma e la consistenza non hanno riscontro in nessuno dei prodotti simili.

 

Perché – per dirla con Maria Rivieccio Zaniboni (Cucina e vini di Napoli e della Campania – Mursia 1975) – non solo occorre che le bufale pascolino nelle piane di Aversa e di Paestum, ma occorre che pascolino di notte quando la luna batte e illumina d’argento le pianure e gli acquitrini. È questa luna, ci ha raccontato un amico, che ne arricchisce e ne impoverisce il latte per cui, a detta degli esperti, un legame arcano passa tra il sapore della mozzarella e le fasi lunari così come altri orfici legami restano intrecciati con il colore dell’erba dei pascoli o addirittura con i venti che corrono sul litorale sul quale sciaborda quel mare su cui veleggiarono un giorno lontano Ulisse ed Enea”. È un mondo, quello descritto dalla Rivieccio Zaniboni, che purtroppo è finito per sempre, sepolto dai moderni metodi di allevamento che ospitano gli animali in stalle attrezzate e a cicli di produzione programmati che hanno tolto le bestie dagli acquitrini primordiali.

 

Le bufale che ancora si vedono oggi percorrendo le vie della Piana 

del Sele spesso sono messe lì per bellezza, magari come semplice richiamo per un caseificio che ha il proprio punto vendita 

lungo la strada.


Già dal 1993 il “Consorzio formaggio tipico mozzarella di bufala” ha ottenuto la doc (sicché può fregiarsi di questo nome solo la mozzarella prodotta al 100% con latte bufalino, confezionata in sacchetti adeguati recanti l’apposito contrassegno) ma, come avviene anche per altri prodotti, non è tutto; come le mozzarelle di bufala non sono tutte uguali. Non basta fermare la macchina ad Aversa o Battipaglia, entrare dal primo rivenditore che capita ed essere sicuri di portare a casa una buona mozzarella. Ve ne sono anche di pessime. Se il caseificio non ha un buon “casaro”, personaggio strategico che racchiude in sé esperienza, competenza e tecnica, non produrrà mai una buona mozzarella. E il “napoletano”, che tra i suoi oggetti di culto, cui non può o non vuole rinunciare (la pizza, i maccheroni, il sole, il mare, San Gennaro…), ha anche la mozzarella, sarà in grado di riconoscere al primo boccone se è buona, in barba a qualsiasi normativa.

Il nome delle bufale


Secondo Achille Bruni (Dell’Agricoltura e Pastorizia del Regno di Napoli, 1845) «la bufola figlia una volta l’anno, porta 10 mesi circa, ed ha moltissimo amore per la sua prole. È chiamata con nome e con una certa cantilena, e così essa si muove dal luogo ove pascola, e si avvicina alla persona per farsi mungere». È tutto vero: ama i suoi piccoli e risponde al richiamo. I nomi, quasi delle frasi, devono essere cantati: «È una cantilena orientale – dice Piovene – certo d’origine remota, simile a quella del muezzin dal minareto, e che il massaio invece modula all’alba davanti al branco. Successivamente le bufale escono dalla mandria e si consegnano docili ai mungitori; senza la frase magica non uscirebbero, e si ribellerebbero al tentativo di mungerle con tutta la loro furia selvaggia». Ogni annutolo, dunque, appena il massaro intonava il suo nome – diverso nelle parole e nel ritmo dagli altri – rispondeva al proprio e accorreva, seguito dalla madre che, anch’essa rispondendo al richiamo, lo raggiungeva lasciando il gruppo.

Potevano essere centinaia, le bufale, ognuna aveva il suo versetto inventato apposta per lei dal massaro.

 

Traducendo i nomi citati in italiano da Piovene, questi “in lingua” suonerebbero più o meno così: Chesta se ‘ntrica ‘ e tutto (s’impiccia su di tutto); Tu nun si’ mai cuntenta (non sei mai contenta); ‘A canzona è bella ‘a ssentì (la canzone è bella da sentire); Me piace pecché è bell’ e giovane (mi piace perché è bella e giovane); ‘Onna Rosa cumanna a tutt’ quante (Donna Rosa comanda tutte); Tu me fai ‘a presumente (Tu mi fai la presuntuosa); I’ song’ bella o’ veramente (sono veramente bella). 

Anche il poeta Rocco Scotellaro in ‘Contadini del Sud’ ci riferisce di alcuni di quei nomi magici: «Ogni bufala ha un nome che è un versetto e i nomi di una mandria di bufale sono un poema! ‘Nu turzu… ‘nu turzo t’è lassato ‘n canna (il nocciolo… ti è rimasto in gola); ‘A malatia… tiene sempre ‘sta malatia (la malattia… hai sempre la stessa malattia); ‘E cane… pure ‘e cane stanne amare (anche i cani sono tristi); ‘A cuccagna… sta cuccagna pure fernisce (la cuccagna… anche questa cuccagna finisce); A lu fine… a lu fine se sente l’addore (dal friggere… dal friggere si sente l’odore)». E mia nonna Angelica ce ne ha tramandato alcuni creati dai suoi massari, tra cui ricordo: Vac’ a Ievol’ a fa’ ammore (Ievol’ sta per Eboli), Tavernanova alloggia a tutti (a Tavernanova sorgeva la maggiore tra le aziende agricole di famiglia), ‘O signurino ‘nsisto, dove per signorino prepotente si intendeva Mariantonio, il primogenito della famiglia… Si, perché alcuni nomi potevano essere anche un pretesto, un mezzo indiretto usato dal massaro per dire la sua al padrone, perfino per insultarlo, giacché tra massaro e bufala il padrone non si poteva intromettere.

La parola mozzarella

 

Già alla fine del Seicento Antonio Latini, nella “Breve descrizione del Regno di Napoli in ordine alle cose commestibili”, indicava Acerra come luogo principe per la produzione di provole; e, poco più di un secolo dopo, lo confermava Vincenzo Corrado che nelle “Produzioni del Regno di Napoli” inserisce questi latticini tra i prodotti tipici della città che aveva dato i natali a Pulcinella: “Si fa grande industria e commercio di provole, di mozzarelle, di burrielli, e di altri freschi latticini, giacché vi sono procovj di vacche e di bufale. Parimenti – egli prosegue – per la città di Aversa…”.

Ma la prima citazione sicura del termine mozzarella, diminutivo 

di mozza, risale alla seconda metà del XV secolo quando Pietro Mattioli (“I discorsi”), parlando di latte, citava “quello di bufala di cui si fanno quelle palle legate con giunchi che chiamiamo mozze 

e a Roma provature”. 

 

Mozzarella, provatura, provola… negli antichi ricettari si parla in genere di provatura, termine usato un tempo nelle zone del Lazio meridionale, tuttora zona di bufali, per indicare i formaggi freschi bufalini lavorati come la mozzarella; provola invece era il nome usato in Campania, sostituito poi con la parola mozza e con il diminutivo mozzarella, dal verbo mozzare, chiara allusione ad uno dei momenti significativi della lavorazione. Con l’andar del tempo provatura è finito nel dimenticatoio come termine arcaico, usato solo in qualche ricetta della tradizione romana (crostini di provatura), e provola invece è rimasto ad indicare il formaggio bufalino o vaccino affumicato, un espediente, questo, usato per una migliore conservazione e un più facile trasporto e commercio. Sulla storia delle bufale e della loro presenza in Italia esistono pareri quanto mai controversi. Alcuni, basandosi su un brano di Plinio, affermano che i bufali sarebbero stati presenti già in epoca Romana. C’è poi l’affermazione di Paolo Diacono nella sua Historia Longobardorum, secondo la quale i bufali sarebbero arrivati in Italia al seguito di Agilulfo, re dei Longobardi intorno al 596 d.C.  

Nell’Ottocento, altri autori ipotizzarono che essi fossero stati introdotti 

in Sicilia dagli Arabi e, successivamente, per opera dei Normanni, dall’isola importati nelle regioni meridionali.


Nessuna delle ipotesi può vantare prove inconfutabili, nessuna storia è più vera dell’altra, anzi, è probabile che tutte abbiano un fondo di verità e che le bufale d’oggi siano un misto di tutte le razze del passato. Per la storia della nostra gastronomia la cosa è irrilevante poiché le prime testimonianze di formaggio bufalino si hanno solo molti secoli dopo. Una cosa è certa, però, due sono le localizzazioni originarie (solo in seguito si aggiungeranno il Foggiano e la provincia di Latina): una nei territori di Acerra e Capua, l’altra nella piana del Sele, dove la presenza di questi animali è abbondantemente testimoniata. Tra l’altro il bufalo, sconosciuto nel resto d’Europa, suscitava la curiosità di quei viaggiatori stranieri del Settecento così ardimentosi da spingersi fin qui. Essi, tornati in patria, raccoglievano le loro esperienze nei famosi diari di viaggio, in cui non di rado si parlava dei bufali. Così J. W. Goethe: “… attraversando canali e ruscelli e incontrando bufali dall’aspetto di ippopotami e dagli occhi iniettati di sangue…”; e così C. V. De Salis Marschlins: “… razza di bestiame alla quale si porta da alcun tempo molta attenzione… le mandrie più numerose si ritrovano sulle rive del Garigliano e nelle pianure a settentrione della Terra di Lavoro…”.

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e il suo Viaggio in Italia (1957), libro del quale l’anno appena trascorso ha festeggiato il sessantesimo compleanno, come del suo autore i 110 anni dalla nascita. Fu, quello dello scrittore vicentino, un lavoro speciale, un affresco straordinario del nostro Paese che Eugenio Montale, nel recensirlo, non esitò a definire “un viaggio di ricognizione di una completezza senza precedenti”. A mezzo secolo dalla sua pubblicazione, non è ancora apparso un altro libro di viaggio capace di penetrare così a fondo nella realtà del paese, tanto da poter essere letto con piacere e profitto anche in funzione dell’Italia di oggi.

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CAMPI CITTA’ DEL LIBRO di Gianluca Anglana – Numero 9 – Dicembre 2017

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CAMPI CITTA’  DEL LIBRO

 

Gianluca-Anglana-cultura
da carmelo bene

Novembre 2017. 

Metti una sera in Puglia. Si sente odore di autunno: è quello dei camini accesi e della carne cotta alla brace. È già il crepuscolo e le strade brulicano ancora di vita. È la folla composta e discreta di coloro che amano i libri, di chi cerca la cultura. Capannelli di gente si formano davanti all’ingresso della Chiesa di San Giuseppe. A giudicare dalla sua facciata austera non diresti mai che, all’interno, svetta un altare centrale pregevolissimo, quasi un retablo spagnolo: un piccolo capolavoro, insomma, in cui riconoscere la firma di Giuseppe Cino, architetto tra i più insigni del barocco leccese..

santa maria
Palazzo Marchesale

“Campi città aperta”, si potrebbe dire, parafrasando Roberto Rossellini:
le vie del centro sono spalancate alla milizia del sapere.
I suoi monumenti s’illuminano a festa: accolgono
i pellegrini della conoscenza.


Si va a caccia dell’evento più attrattivo. Si sfida l’imbarazzo della scelta. Gruppi di curiosi stendono davanti agli occhi, come una mappa del metrò, il programma della Città del Libro, il festival dell’editoria giunto quest’anno alla sua ventiduesima edizione. Un bel traguardo, per Campi Salentina, il paese che se ne attesta la paternità e che lo ospita sin dal 1995. Un vanto per questa terra, vero motivo di orgoglio, per lo più snobbato dalla stampa nazionale, distratta dagli schiamazzi della politica e dal sensazionalismo della cronaca nera. L’Imam di Lecce, Saiffedine Maaroufi, al quale mi presento, si chiede, mi chiede: «dove sono i giornalisti?» Mi concede parte del suo tempo prima di tornare a Lecce. È un uomo dagli occhi sorridenti, dalla barba fitta e da quella, che mi sembra, una palpabile fiducia nel futuro. Il suo intervento è inserito nella Rassegna dal titolo I cammini dell’uomo verso un nuovo umanesimo. Si compiace dell’interesse della gente e si rammarica della scarsa attenzione dei mass media: un’assenza esecrabile, a mio modo di vedere, in un periodo storico in cui invece sarebbe più saggio investire sugli incontri, piuttosto che sui presunti scontri di civiltà. Scambiamo qualche parola: scopro che è originario della Tunisia. Commentiamo insieme il dibattito appena conclusosi tra la scrittrice Simona Toma e Sumaya Abdel Qader, blogger perugina, di origine giordana, oggi consigliera comunale della città di Milano nonché autrice del libro Porto il velo. Adoro i Queen. Molta la partecipazione, soprattutto al femminile: alcune lettrici hanno fame di conoscere, sono animate dalla curiosità e pongono alla Signora Qader domande sulla religione musulmana, sulla cultura araba e sulla condizione della donna nelle aree di fede islamica.

 

C’è una bella atmosfera a Campi, c’è voglia d’incontro, c’è il desiderio 

di capire e di capirsi, c’è la curiosità di conoscere meglio altri individui, altri popoli, altre culture, altre religiosità. C’è l’aspirazione 

a cercare elementi unificanti piuttosto che divisivi.

 

E non potrebbe essere altrimenti, visto che l’Edizione numero ventidue di Città del Libro è dedicata ad Abramo – leggo sulla pagina web del Festival letterario – «il cui nome significa ‘padre di molti popoli’» e costituirà un riferimento culturale fondamentale capace di far dialogare le letterature e i popoli che abitano l’area mediterranea e africana. Una moltitudine di nomi importanti: lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun; il Direttore Generale di Treccani, Massimo Bray; il giornalista Domenico Quirico; la giurista francese Jeannette Bougrab; la scrittrice inglese Nicolette James, solo per citarne alcuni. 

 

Dicembre 2017. È un mattino di sole. Negli uffici comunali, incontro il Sindaco di Campi Salentina, il Prof. Egidio Zacheo1, cui va l’indiscutibile merito di avere dato i natali alla Città del Libro nel 1995.

Fu l’inizio di un rinascimento: Campi, che fino ad allora saliva
alla ribalta delle cronache esclusivamente per fatti di malavita, 

cominciò a mutare volto, a credere maggiormente in se stessa – fregiandosi persino del titolo di Città grazie a un Decreto della Presidenza della Repubblica2 – e a tributare maggiore rispetto 

al suo passato sfavillante e ai suoi monumenti 

sia architettonici sia umani. 

 

Pochi sanno, ad esempio, che a Campi sorge uno dei rarissimi esempi di arte gotica nel Salento: si tratta dei resti della Cappella Maremonti, rinvenuti quasi per caso all’interno della Chiesa Principale. Pochi sanno che Campi è il luogo in cui è nato uno dei massimi artisti italiani del Novecento, Carmelo Bene, cui va il merito di avere cambiato per sempre il teatro italiano.

 

Perché il Sud migliore, quello produttivo e propositivo,
fatica ancora a fare notizia?

 

«Mi meraviglierei del contrario. In tutti i campi, il Sud ha maggiori difficoltà rispetto al resto d’Italia. Molti eventi, che si tengono nel Mezzogiorno, soffrono l’indifferenza dell’informazione. È un po’ ciò che è accaduto alla Città del Libro, la quale tuttavia quest’anno ha catalizzato un’attenzione maggiore perché la formula utilizzata è stata davvero innovativa: non si poteva non tenerne conto. Il 2017 ha segnato un cambio di passo, potremmo dire un salto di qualità. La Città del Libro è stata per anni la Fiera del Libro, cioè l’incontro di autori ed editori per pubblicizzare e far vendere libri: cosa del tutto legittima e positiva, per carità, sia benvenuta ogni iniziativa volta a fare vendere più libri. Quest’anno, però, abbiamo pensato a qualcosa di diverso. La nostra rassegna non poteva più essere la Fiera del Libro: doveva avere obiettivi culturali di più ampio respiro. Abbiamo voluto un evento che avesse un ruolo strategico, che fosse uno strumento di dialogo tra le varie sponde del Mediterraneo».

 

Un ponte tra le culture e le nazioni…

 

«Noi abbiamo creato e creiamo opportunità di dialogo in una fase storica in cui invece si amplificano il contrasto, l’incomprensione, persino il timore del diverso (pensi, ad esempio, al fenomeno delle migrazioni in Europa che suscita paura e sgomento). Tutto ciò si combatte con la cultura e con il dialogo. Il nostro è un obiettivo ambizioso, che noi dobbiamo proporci di portare avanti, perché la Puglia è una regione vocata a questo compito, perché il Salento è un avamposto proiettato nel Mediterraneo, un osservatorio atto a favorire formidabili momenti di scambio. E noi abbiamo pensato di fare di Città del Libro un’occasione per intrecciare dei contatti culturali con altre genti. Abbiamo stabilito rapporti di scambio con case editrici e autori al fine di favorire la pubblicazione in Italia di opere edite nei Paesi con cui abbiamo collaborato e viceversa; è stata siglata un’intesa tra Università di Lecce, Città di Campi e alcuni Atenei del Nordafrica per un Erasmus nella direzione di quei Paesi, insomma un Erasmus verso il Sud piuttosto che un Erasmus verso il Nord3. Campi diventa lo snodo di questa intesa, che prevede iniziative di varia natura. Campi è il comune che avrà la regia di tutto questo. In questa progettualità sta la novità rispetto al passato e risultano coinvolti la Regione Puglia e l’Università di Lecce e quindi tutto il territorio. La finalità è combattere la diffidenza, i pregiudizi e la paura con il dialogo, tramite l’interazione tra culture di varia provenienza. Città del Libro aveva bisogno di trovare una sua specificità, data anche la collocazione geografica del Salento e di Campi in particolare in quanto baricentrica rispetto alle tre province4. Quest’anno, ribadisco, c’è stato il grande salto di qualità: prova ne è la partecipazione di personalità di grande rilievo e caratura».

 

Sono passati molti anni dal 1995, quando ebbe l’intuizione 

di scommettere sul suo paese e dare vita ad un festival 

dedicato ai libri. Che cosa la spinse a questa scommessa?

 

«Allora Campi era in mano alla criminalità organizzata. Ci chiedemmo: come combatterla? Scommettemmo sulla cultura: a nostro modo di vedere, la cultura poteva vincere la barbarie. I cittadini avrebbero potuto riappropriarsi della loro città (qui alle otto di sera c’era il coprifuoco!), se si fossero rammentate loro la nobiltà delle proprie radici e la ricchezza culturale della loro terra. Quell’amministrazione organizzò quindi feste, spettacoli, concerti, incontri, presentazioni di libri, mostre; costituì perfino un’orchestra comunale; esaltò il talento e la creatività e la gente cominciò a reimpossessarsi della città. E man mano che i cittadini si reimpossessavano degli spazi pubblici, arretrava la criminalità. Potemmo certo contare sul sostegno degli altri livelli istituzionali, delle forze dell’ordine, delle scuole e delle associazioni. Ma fu la cultura a dimostrarsi la carta vincente, il grimaldello con cui scardinare il meccanismo dell’illegalità. Alla fine di ogni anno scolastico, veniva donato un libro a tutti gli studenti, inondando la città di millecinquecento volumi: fu così che prese quota l’idea di Città del Libro. È stata una scommessa bella e anche difficile, perché abbiamo fatto tutto con le nostre mani. Pensi che l’anno scorso la Regione Puglia ha stanziato più di un milione di euro per la Notte della Taranta e ventunomila euro per la Città del Libro. C’è proporzione? Noi siamo riusciti a portare avanti la nostra manifestazione, perché ci abbiamo creduto e perché siamo aiutati dai cittadini e da un numero di persone straordinarie che per più di due mesi lavorano gratuitamente»

In un’intervista dello scorso Giugno, il Presidente della Fondazione della Città del Libro, Cosimo Durante, ha parlato 

di un nuovo modo di fare turismo: quello sostenibile, 

quel turismo che procede orientato dai beni e dagli interessi culturali e quindi anche da appuntamenti come Città del Libro (che vanno ad inserirsi in Puglia3655). 

Qual è la Sua idea di turismo?

 

«Consideri quello che è accaduto a Gallipoli, parlo del turismo “mordi e fuggi” e di puro intrattenimento, che nega la valorizzazione delle risorse culturali di una località. Mentre la parabola di questa forma di turismo ha toccato il suo picco massimo, a Gallipoli ha chiuso i battenti l’ultima libreria cittadina6. Ecco, noi tentiamo di muoverci nella direzione esattamente opposta. Vogliamo un turismo intelligente che valorizzi le risorse culturali, artistiche, storiche, monumentali e soprattutto umane: questa terra vanta la luce di figure straordinarie. Vede, noi abbiamo affidato l’inaugurazione dell’Edizione 2017 della Città del Libro a un concerto dell’ottima Orchestra del Salento, la quale, nella magnifica cornice della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, ha eseguito un’opera di Carmelo Bene. Carmelo Bene, un genio salentino, ha reinterpretato il Manfred di Robert Schumann sul testo di Lord Byron7. Mi sono venuti i brividi! La nostra terra ha dialogato con le espressioni più alte della cultura universale: e Carmelo Bene era di Campi! Quella sera si capiva visivamente quante potenzialità abbiamo: e invece per Carmelo Bene, per la musica e per gli artisti e i musicisti locali abbiamo fatto ancora troppo poco». 

 

Perché mancano manifestazioni teatrali di alto livello
nella città di Carmelo Bene?

 

«Il Salento è una terra che nei confronti del suo figlio illustre ha mostrato di avere una certa smemoratezza: noi abbiamo voluto farle tornare la memoria. Come? In primo luogo, nel corso del 2017 e con bando nazionale, ha avuto luogo la prima edizione del Premio Carmelo Bene: una commissione di Docenti Universitari ha premiato due tesi di laurea e una pubblicazione sull’Opera di Carmelo Bene8. Inoltre, il Teatro di Campi è stato già intitolato a Carmelo Bene: è il primo teatro a lui dedicato in Italia e nel Mondo. In più, stiamo lavorando per tenere a Campi nei prossimi mesi, spero prima dell’estate, un convegno nazionale che si riunisca magari con cadenza biennale e che faccia un po’ il punto sugli studi su Bene. Questa è la progettualità per Carmelo Bene, per la cui radicazione occorre tempo».

 

A proposito di viaggiatori e di turisti in cammino, colpisce 

la collaborazione tra Fondazione Città del Libro e Matera 2019. 

È facile fare sistema tra realtà meridionali?

«Sia nel mondo dell’impresa sia nel mondo politico-istituzionale, non siamo educati a fare sistema: questo ci rende più deboli. Noi facciamo fatica a trovare l’appoggio o la collaborazione stabile da parte del settore imprenditoriale o bancario, salvi alcuni casi. Proprio per questo, Città del Libro è un piccolo miracolo del Sud».

 

L’edizione numero ventidue di Città del Libro si è tenuta a Campi dal 23 al 26 Novembre. Proprio il 27 Novembre il Sole 24 Ore pubblicava la consueta classifica annuale del benessere socio-economico delle province italiane. Anche quest’anno le province meridionali occupano la parte bassa della classifica. Mi colpiscono in particolare le ultime due posizioni, assegnate rispettivamente a Taranto e a Caserta, territori ricchissimi di storia e un tempo gloriosi.

Fa specie vedere così in affanno l’antica Tarentum e la città 

della Reggia. Lecce è centoquattresima su centodieci. 

Secondo Lei, cosa serve al Meridione per decollare?

 

«Più civismo. Risorsa fondamentale per la qualità della vita. Civismo vuol dire legare di più il cittadino alla dimensione pubblica. Per ragioni storiche, i nostri concittadini non sentono questo legame. Quella meridionale non è solo una questione economica, bensì anche di civismo. Il civismo comporta la valorizzazione di ciò che è di tutti. Il pubblico è cosa di tutti: la nostra mentalità tende a ritenere che ciò che è pubblico è di nessuno. Dobbiamo lavorare sulla piena valorizzazione dei nostri tesori e talenti, perché il nostro meglio entri in un sistema pubblico. Lecce è una città meravigliosa: perché affonda tanto nelle graduatorie nazionali? Perché i cittadini sentono il rapporto con la dimensione pubblica in modo debole. Potenziare il civismo significa accrescere la qualità della vita. L’illusione è che si possa stare bene restando isolati: se si resta isolati, non si sta mai bene. E se manca la dimensione pubblica è difficile essere felici».

Che cos’è per Lei il Dono del Sud?


«Il Sud è ricco di doni. La civiltà moderna è nata in queste contrade: noi siamo la terra di Federico II. Qui sono nati l’arte moderna, la cultura moderna, il diritto moderno, la scienza moderna. Come? Attraverso le contaminazioni. Ecco la “Città del Libro-ponte”: la cultura araba è stata promossa da Federico, perché ai suoi tempi quello arabo era un sapere avanzato (soprattutto sul piano scientifico e filosofico), perché ai suoi tempi il Nord dell’Europa eravamo noi. Il Sud è una terra piena di doni: ha donato molto al mondo e poi ha smarrito questo ruolo, perché non ha saputo diventare comunità. Noi abbiamo bisogno della comunità, d’istituzioni e classi dirigenti credibili, di legare il cittadino al destino comune, di fargli capire che ciò che è di tutti è di tutti e non di nessuno. Gli interventi finanziari, da soli, sono inefficaci: il divario rispetto al Nord è rimasto, perché di matrice culturale».

Se lei volesse fare uno spot per Campi Salentina, 

quale slogan utilizzerebbe?


«Mi lasci partire da un esempio. Carmelo Bene non è un prodotto casuale. Tra la fine del 400 e tutto il 600, Campi è stata una comunità molto attiva dal punto di vista artistico e specialmente teatrale. C’era un humus. Questa è una città ricca di cultura e figure straordinarie. Questo consentirebbe a Campi di entrare nel futuro con più equilibrio e sicurezza. Perciò ecco lo slogan che io conierei: grazie a una cultura antica proiettarsi verso l’avvenire. Guardi, Federico II di Svevia veniva in queste terre con Pier delle Vigne per cacciare e contemporaneamente ragionare delle Costituzioni di Melfi, promulgate nel 1231. Federico è un brand della Puglia: opere straordinarie come il castello federiciano di Brindisi o la Torre di Leverano9 andrebbero messe a sistema. Federico era puer Apuliae, sicché auspicherei un percorso prettamente salentino dei luoghi federiciani: Oria, Leverano, Campi Salentina, Lecce. Dietro questo circuito dei monumenti si nasconde un circuito intellettuale, in cui la Puglia e il Salento hanno ancora molto da dire. Abbiamo creato la ricchezza materiale: va bene. Abbiamo riempito lo stomaco: va bene. Ora, è tempo di investire in cultura. Riempiamo un po’ la testa… Riempiamo un po’ la testa…». 

 

La mia conversazione finisce con la cordialità di una stretta di mano. Esco dal Municipio ed entro nella luce abbagliante di quest’autunno che muore. Sento il vento del Nord che mi annusa il cappotto: osservo l’eleganza dell’entrata laterale della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, che da quel vento ha preso il nome, la Porta della Tramontana. Procedo in direzione del Palazzo Marchesale e penso a Federico a caccia, nei boschi attorno a Campi: il fascino di questa terra ricca di storia mi riempie un po’ la testa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

decoro cultura
1  Il Prof. Zacheo è stato più volte sindaco di Campi (dal 24 aprile 1995 fino al 13 febbraio 2001: oggi è in carica dal 27 maggio 2014).
2 DPR 2 settembre 1998.

3 Si tratta di una Dichiarazione di intenti, siglata a Campi Salentina il 24/11/2017, da una parte, da Città del Libro, a firma del Sindaco Zacheo oltre che del Presidente della Fondazione “Città del Libro”, Cosimo Durante, e dell’Assessora all’Industria Turistica e Culturale della Regione Puglia, Loredana Capone; dall’altra, dall’Università di Lecce, dagli Atenei di El-Tarf e Annaba in Algeria e dall’Università Mohammed V di Rabat in Marocco.

4 Lecce, Brindisi e Taranto (nda).

Puglia365 è il piano strategico del turismo della Regione Puglia per il periodo 2016-2025.

6 Cfr. articolo del 14/12/2017 pubblicato su www.illibraio.it .

7 Il Manfred è uno spettacolo teatrale del 1978, diretto, interpretato e tradotto da Carmelo Bene, tratto dal poema drammatico di George Gordon Byron con musiche di Robert Schumann.

8 Qui: http://www.comune.campi-salentina.le.it/documenti/notizie/VERBALE.pdf, il Verbale della Commissione Giudicatrice.

9 La Torre Federiciana di Leverano, che si eleva per circa 28 metri nel centro abitato, fu voluta, secondo la tradizione, da Federico II di Svevia per monitorare la costa ionica. Monumento nazionale dal 1870, la torre presenta una forma parallelepipeda a base quadrata con i prospetti orientati secondo i punti cardinali ed è provvista di merli.