LE DUE SICILIE DI FEDERICO II di Fabio De Paolis – Numero 11 – Luglio 2018

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LE DUE SICILIE DI FEDERICO II

 

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la Sicilia con una monarchia caratterizzata da idee assolutistiche, una burocrazia articolata, forzieri ragionevolmente pingui, una eredità culturale composita, che si rifletteva nella presenza a corte di Greci, Ebrei, Arabi

Una Sicilia il cui reggitore si considerava inviato dal Cielo sulla terra per proteggere il popolo dagli attacchi dei rapaci nemici del regno: la Sicilia di Ruggero II, creata da quel grande monarca con volontà indomabile. Di fronte, l’altra Sicilia: un regno squassato dalla ribellione delle etnie sottomesse, soprattutto musulmani del lato occidentale, un regno dissanguato dalle feroci imposizioni fiscali necessarie a finanziare le guerre contro i cattivi annidati a Roma o nel resto dell’Italia. Una minaccia non più che occasionale per i Siciliani veri o propri. Un regno la cui burocrazia serviva gli interessi della Corona molto più che quelli dei sudditi, gravati di tasse, interferenze nei diritti ereditari, obblighi di leva.

Al cuore di molte delle mire sul Regno di Sicilia nel XII secolo, vi era la convinzione che essa fosse una terra baciata dalla fortuna. Un regno la cui fama di ricchezza, 

vera o presunta, lusingava avventurieri in cerca di un trono.


Lo spagnolo Ibn Jubayr, trovatosi qui nel 1184-85, così la descrisse: “La prosperità dell’isola supera ogni descrizione. Sia sufficiente dire che è figlia della Spagna nella misura delle sue coltivazioni, nell’esuberanza dei raccolti, e nel benessere, avendo dovizia di prodotti selvatici, e frutti d’ogni sorta e specie. Invero l’intera isola per fertilità e abbondanza è una delle più mirabili nella creazione di Dio.”

All’epoca di Federico II arrivare a Palermo era sicuramente una emozione straordinaria. Varcate le mura si entrava dentro una città incantata 

e cosmopolita. Enorme era la ricchezza della capitale del Regno.


Si rimaneva colpiti soprattutto dai traffici e dalla vita del porto, grandi spazi dove erano aperti i numerosi fondachi per accatastare le mercanzie e dove erano di base i quartieri amalfitani, pisani e veneziani. Nelle sue strade si amalgamavano razze e costumi diversi. Ovunque si stendevano mercati. Dentro e fuori le mura della città mercanti di ogni paese e provenienza avevano le loro botteghe artigiane, esponevano tappeti di Siria, argenti e pellami egiziani o tunisini, vasi greci, stoffe e profumi orientali. Nelle vie si ascoltavano linguaggi diversi: greco, latino, arabo, germanico, egiziano, toscano, veneto, pugliese e lombardo.

Per rendersi conto della sua ricchezza, basti pensare che sul finire del XII secolo 

gli introiti della sola Palermo pareggiavano quelli affluiti nelle casse dei re d’Inghilterra dall’intero loro regno. Mentre l’Albione era ricca d’argento e doveva il suo benessere alla lana, la Sicilia doveva la sua straordinaria ricchezza all’abbondanza di cereali 

e di materie prime, tra l’altro pelli e cotone.


Possedeva una terra che, se ben sfruttata, non ne aveva di uguali per bontà, feracità e ampiezza. Con queste qualità, la Sicilia rappresentava di per se stessa la principale fonte di grano. Il frumento siciliano era in prevalenza di qualità dura, adatto all’immagazzinamento, ed era oggetto di forte esportazione allora come nell’antichità. Questo veniva coltivato sui pendii nelle zone occidentali e sudorientali dell’isola. 

 

I sovrani siciliani erano i proprietari fondiari di maggior peso.

Un’ampia estensione del territorio siciliano nel XII aveva carattere demaniale, 

non concessa ai feudatari, bensì sottoposta al diretto controllo del governo centrale.


Soltanto una parte dell’isola di Sicilia era nelle mani dei baroni Normanni. Per il resto i proprietari erano ecclesiastici: in primis l’Abbazia di S. Salvatore, il potente monastero greco basiliano a Messina, e poi l’Abbazia di Monreale, di fondazione latina, che ebbe in concessione nella Sicilia occidentale le terre a larga componente musulmana. La produzione destinata alla vendita era abbondante, tanto più che le rese erano eccezionalmente elevate: dieci chicchi almeno per ciascun seminato, senza contare che le produzioni annuali erano in costante aumento, grazie anche all’assenza di carestie, fenomeni assai rari per tutto il corso del XIII secolo. E per giunta i prezzi erano bassi.

La grande espansione demografica del XII e XIII secolo comportò un aumento 

della richiesta di derrate alimentari. Quale occasione migliore per la Sicilia 

che produceva un grano versatile e conservabile. Il grano siciliano divenne 

allora un prodotto richiesto da un capo all’altro del Mediterraneo. 


Un grano usato per le gallette ad uso dei marinai, un grano usato per produrre la pasta che iniziava a comparire sulle tavole dell’Italia del nord, un grano usato in tutto il Nord Africa per produrre il cuscus. Ovviamente la Corona era il maggior beneficiario dello smercio di grano all’estero, il controllo della produzione le faceva ricavare grandi guadagni dalle vendite e dalle relative gabelle. Era, questa, una realtà da cui Federico II seppe trarre grande vantaggio: egli ne controllava personalmente le coltivazioni, ne favoriva il commercio con imposte ridotte e prestava il massimo impegno per cercare di migliorare gli standard di rendimento (lo dimostrano anche le sue lettere colme di apprensione durante una infestazione di bruchi tra le spighe siciliane).

Ma la forte economia siciliana si basava anche su altro: soprattutto sul sale, 

sul ferro, sulla coltivazione dei gelsi e sulla produzione della seta grezza.


I re di Sicilia mantenevano al loro servizio un gruppo di setaioli specializzati. Erano istallati nei palazzi reali, artigiani che erano arabi, o ebrei greci. Setaioli destinati a conservare il segreto della lavorazione e tramandarlo alle nuove leve di corte. Sono molti i ritrovamenti di seta siciliana nelle tombe di principi e vescovi nordeuropei, come numerose sono le lettere che attestano di come la seta siciliana venisse esportata in Egitto e nello Yemen.

Ma Federico aveva occhio anche all’industria locale. Per questo diede forte impulso anche alle piantagioni di indaco e non trascurò gli zuccherifici. Non pago, 

incoraggiò anche la fiorente industria ceramica, e si sforzò molto 

per reintrodurre specialità orientali come l’hennè. 


Nel 1231 Federico II promulgò le
Costituzioni di Melfi, un’ordinata raccolta di leggi ispirata alla dottrina giuridica romana e alle esperienze di governo normanne, compilata grazie al contributo del gran giustiziere Taddeo da Sessa e dal gran cancelliere Pier delle Vigne.

Le Costituzioni rappresentano il maggior monumento legislativo del Medioevo 

con il quale l’Imperatore intendeva combattere la frammentazione feudale, 

eliminando i poteri intermedie e attribuendo a sé ogni prerogativa.


Le Costituzioni sancivano: consolidamento e ampliamento del potere regio; divieto di vendere feudi in quanto proprietà statali; assoggettamento degli ecclesiastici ai tribunali comunali; obbligatorietà per i sudditi di pagare tributi; eguaglianza per i cittadini davanti alla legge e difesa dei deboli contro le prepotenze dei baroni; funzioni giuridiche e amministrative nelle mani del re. Vennero introdotti monopoli sul sale, sulla seta, sul grano, ma furono abolite le dogane interne per facilitare i commerci tra le province; vennero unificati pesi e misure, coniate monete d’oro, dette “Imperiali “e “Augustali”; fu ricostruita una flotta e nel settore agricolo vennero introdotte nuove colture e allo stesso tempo costruite imponenti masserie. Fu una grande innovazione. Ma questa è un’altra storia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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NUNZIATELLA PRIMATO NAPOLETANO IN EUROPA di Alessandro Montone – Numero 11 – Luglio 2018

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NUNZIATELLA PRIMATO NAPOLETANO IN EUROPA            

 

“La “Nunziatella” è il cuore pulsante della formazione militare nel cuore di Napoli, una organizzazione viva e vitale, eccellenza italiana apprezzata anche all’estero, per la quale stiamo pensando ad un futuro che parla d’Europa” Così il Ministro della Difesa Roberta Pinotti il 18 Novembre scorso a Napoli in occasione del 230° anniversario dalla fondazione di questa famosa scuola. 

 

Infatti tra le proposte di cooperazione rafforzata in Europa c’è quella avanzata proprio dal nostro Ministro che ha candidato la “Nunziatella” a polo di formazione per gli ufficiali europei “unendo così la difesa del futuro con la sua tradizione più nobile”. E dal Presidente del Casd (Centro Alti Studi per la Difesa) il Generale Del Casale, è giunta una conferma meno sfumata:

 

Il progetto Grande Nunziatella sarà una scuola militare europea sotto il controllo operativo del Casd”. Una scuola militare italiana, per essere più chiari, 

molto antica ed estremamente allettante per la futura formazione 

dei giovani cadetti del vecchio continente.


Ma come si è formato questo saldo prestigio convalidato dal recente progetto europeo? 

 

“Preparo alla vita e alle armi” è il motto che compare dal 1937 sullo stemma araldico della Scuola Militare Nunziatella, Nata nel 1787 con il nome di Reale Accademia Militare e, da allora, fucina di famosi uomini d’arme e di ottimi professionisti. Ha sede nel “Rosso Maniero” sulla collina di Pizzofalcone, proprio dove nel VIII° secolo a.C. nacque “Parthenope”, l’originario nome greco del primo nucleo abitativo della città di Napoli! La possente struttura affonda le sue grosse arcate di sostegno nella roccia tufacea, “…in faccia a Capri, con ai piedi il mare e a sinistra la costiera di Sorrento. È ben difficile, almeno in Europa, che si possa trovare un punto simile”. Così descriveva il luogo Wolfang Goethe quando si recò a Napoli agli inizi del 1787, proprio pochi mesi prima che Ferdinando IV di Borbone vi fondasse la “Reale Accademia Militare”. Così, dal rimaneggiamento del vecchio convento sede del Noviziato dei Gesuiti che si affiancava alla splendida chiesa barocca della “Nunziatella”, come i napoletani della zona chiamavano la chiesa della “Santissima Annunziata”, nacque l’imponente costruzione che dal monte Echia guarda al centro del golfo di Napoli con l’aspetto di una fortezza inespugnabile.

Dalla sua fondazione ad oggi ha attraversato oltre due secoli di storia d’Italia, anch’essa restando coinvolta nei mutamenti militari e socio culturali legati all’alternanza di dominazioni, regimi e governi diversi:


dai Borboni alla Repubblica Napoletana, da questa a Bonaparte e di nuovo ai Borboni, e passando per Garibaldi, i Savoia, la I^ guerra mondiale, il ventennio fascista, la II^ guerra mondiale, è giunta ancora vitale e attiva nell’Italia repubblicana di oggi. Cambiò quindi più volte nome: “Reale Accademia Militare”, “Real Convitto Militare”, “Reale Accademia Militare”, “Scuola Reale Politecnica e Militare”, “Real Collegio Militare”, “Collegio Militare di Napoli” e finalmente “Scuola Militare Nunziatella”. Cambiarono gli stemmi araldici, cambiarono i motti e le divise ma la Scuola continuava nel suo compito educativo: anche dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 la Nunziatella rimase l’unica Scuola Militare consentita. I giovani al suo interno, ieri come oggi, militarmente irregimentati (costituiscono infatti il I° Reggimento d’Italia, onore che consente loro di aprire la sfilata del 2 Giugno a via dei Fori Imperiali a Roma) sono da sempre liberamente istruiti ai valori di Patria e Libertà. Tanti i famosi insegnanti che contribuirono alla libera formazione intellettuale dei giovani allievi, uno per tutti: Francesco de Sanctis! 

 

I giovani allievi, sin dalla fondazione della Scuola e secondo l’indirizzo del suo primo comandante Generale Giuseppe Parisi, dovevano “…essere anche introdotti alle scienze filosofali per rassodarli nel raziocinio e formarli nella coscienza dei propri doveri e nel sistema sociale e politico.”

La libertà di pensiero e la formazione del carattere furono sempre le costanti 

nella vita dei giovani allievi, tant’è che “… per l’assolutismo borbonico, 

la Scuola, fu un vero cavallo di Troia, dal quale uscirono alcuni 

tra i combattenti più ardenti di libertà ed italianità,

 

quali furono Guglielmo Pepe, Pietro Colletta, Mariano D’Ayala, Enrico Cosenz, Carlo Pisacane…” come scrive il generale Tito Battaglini nella sua “L’organizzazione Militare delle Due Sicilie” (Modena 1940). Persino durante la guerra per l’unità d’Italia, nel 1860, i suoi allievi in armi si schierarono su fronti avversi, alcuni favorendo o partecipando attivamente alla cacciata dei Borboni, altri fedeli al re, morendo per la sua difesa nell’assedio di Gaeta. 

 

Sempre molto alto fu il contributo di sangue versato dai figli della “Nunziatella” in tutti i conflitti e tante le prestigiose onorificenze loro attribuite: 38 medaglie d’oro, 490 d’argento, 414 di bronzo al Valor Militare; 1 medaglia d’oro al Valor Civile. Tante le importantissime cariche da loro ricoperte: 18 Ministri, 14 Senatori, 14 Deputati, 4 Presidenti del Consiglio, 1 Presidente Corte Costituzionale, il I° Presidente Nazionale Antimafia, un candidato al Premio Nobel, un premio Oscar. E ancora: 2 Capi di Stato Maggiore della Difesa, 2 dell’Esercito, 2 della Marina ed 1 dell’Aeronautica, 3 Comandanti dell’Arma di Finanza, 2 Comandanti dell’Arma dei Carabinieri e 14 Vicecomandanti, 4 Dirigenti Generali dei Servizi di Informazione. Molti altri ancora sono famosi nei più disparati campi, dallo spettacolo alla alta finanza, dalle docenze universitarie alle grandi costruzioni, dal design automobilistico a dirigenze di prestigiose aziende e a brillanti carriere militari. I più blasonati: Vittorio Emanuele III° Re d’Italia e Amedeo Duca d’Aosta. Anche l’allievo Vittorio Emanuele di Savoia come l’allievo Amedeo di Savoia-Aosta, allora come oggi e come gli allievi prima di loro, si alzava ogni mattina all’alba al suono della tromba per iniziare la faticosa giornata fatta di ordine e disciplina, corse e adunate, studio e addestramento ginnico e militare; poco il tempo per rilassarsi, poche le ore di libera uscita! 

 

Eppure allora come oggi,

ogni anno sono migliaia le domande per partecipare al concorso di ingresso 

alla Scuola che, dopo una severa selezione, apre le porte 

a circa 90 giovani quindicenni vogliosi di crescere.

 

Tre anni di Liceo Classico o Scientifico, da trascorrere insieme nelle aule, nelle camerate, nelle palestre, dando il meglio di sé nello studio, in ogni disciplina sportiva praticata e in ogni addestramento militare. Così sino alla “Maturità”, il bivio della scelta: proseguire con la carriera militare o dedicarsi ad attività professionali in ambito civile? Scelte senz’altro impegnative ma effettuate in piena consapevolezza, dopo i tre anni trascorsi alla Scuola. Scuola che dall’ 8 Settembre 2009, dopo anni di indecisioni, aderisce anch’essa alle “quote rosa” concedendo l’ingresso al gentil sesso. Quell’anno superarono le prove di ammissione le prime 13 allieve, prime di una crescente schiera.

 

Il 22 Febbraio 2012 l’Assemblea Parlamentare del Mediterraneo dichiarava 

la Scuola Militare Nunziatella “Patrimonio storico e culturale 

dei Paesi del Mediterraneo”.

 

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un’eccellenza del Sud e futura eccellenza in Europa!

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VIA MARINA DI REGGIO CALABRIA di Giuseppe Valentino – Numero 11 – Luglio 2018

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VIA MARINA DI REGGIO CALABRIA

 

La bellezza e la suggestione di quel tratto di costa che si affaccia sullo Stretto di Reggio e Messina avrebbe potuto certamente evocare, nel poeta-soldato, l’espressione di apprezzamento che gli viene attribuita. C’è, però, un elemento che va considerato e sul quale non risulta che gli osservatori più attenti della storia di Reggio Calabria di quel periodo si siano interrogati: D’Annunzio non sarebbe mai stato a Reggio dopo la realizzazione del Lungomare. 

 

Eppure, più volte fu invitato e, certamente, lo fece l’On. Giuseppe Valentino considerato l’ideatore di quel chilometro che tanta suggestione riesce ad evocare e che si caratterizza come momento architettonico e panoramico più significativo e struggente della città calabrese.

 

La costruzione del Lungomare, così come oggi lo si può ammirare in luogo 

della struttura preesistente – l’antica Via Terme, di poco più a monte 

della vecchia Via Marina con la quale poi si confondeva,

 

è frutto dell’appassionata intuizione di Valentino che realizza così la straordinaria terrazza lunga un kilometro dalla quale si può ammirare, in tutta la sua sfolgorante bellezza, il panorama dello Stretto di Reggio e Messina: un dono di Dio alle due città che si affacciano su quel tratto di mare perché quella bellezza resti immutabile laddove gli uomini, nel corso dei secoli, si sono “sbizzarriti” per turbare le armonie della natura. E fu questo sforzo teso ad individuare la soluzione che meglio potesse valorizzare quel luogo incantevole che Giuseppe Valentino riesce ad esprimere in maniera mirabile in un libro di memorie scritto venticinque anni dopo il sisma che aveva distrutto la sua città. 

 

Qui le stesse parole di Valentino riescono a rendere in maniera palpabile e suggestiva come la sua elaborazione intelligente abbia consentito la soluzione più funzionale e più coerente con le esigenze di eleganza e grandiosità che dovevano caratterizzare quella realizzazione.

Il problema da affrontare era l’area scoscesa su cui sarebbe dovuta sorgere 

la passeggiata e, quindi, quali soluzioni adottare per attenuare le pendenze 

e nello stesso tempo dare un’idea di ampiezza che conferisse 

grande dignità al lungomare.


Val la pena riproporre testualmente alcune espressioni del libro di Valentino che in maniera semplice e suggestiva nel contempo, riescono a rendere l’idea di come lo sforzo di edificare esaltando al massimo l’opera sotto il profilo estetico venne anche alimentato dalla comparazione con luoghi d’Europa noti per la loro eleganza e bellezza. Scriveva Valentino:
«nelle ansie della ricerca mi parve di ricordare, non so bene, se nei giardini di Montecarlo od altrove, delle aiuole in pendio, (quando il mio cervello si stillava in questi problemi … estetici la città era un groviglio di macerie e la mia casetta di Via Tribunali era immersa nel buio e nello squallore!) ed allora mi balenò la soluzione: “e se dessi a tutta la zona di giardinaggio, che separa le due strade, quel dolce declivio che basti a superare il dislivello?” Eureka! Mi fermai su questa idea che mi parve una trovata, pur continuando nella mia mente a fare un confronto colla Via Marina di San Remo, coll’Ardenza di Livorno con la proménade des Anglais di Nizza, le quali sono tutte piatte, senza dislivelli, e credetti il mio ripiego della pendenza degradante sarebbe stata un’originalità presumibilmente di bello effetto, e di movimentata eleganza, sia per coloro che guardino la strada dalle varie parti della città, sia per coloro ed ancora meglio, che la guardino dalla parte del mare».

Così nacque la Via Marina: il più bel chilometro d’Italia a prescindere 

che lo abbia detto o meno d’Annunzio ovvero un incantato, 

ignoto osservatore di quella meraviglia.


Quando a distanza di anni il degrado si stava impadronendo di quell’angolo di Paradiso, Italo Falcomatà – sindaco che amava la sua città – si adoperò per recuperare questo sito incantevole e – grazie agli strumenti della modernità – riuscì a coprire l’attigua strada ferrata con la realizzazione di un tunnel che ha consentito l’ampliamento della passeggiata, incorniciata dalla splendida ringhiera disegnata da Camillo Autore che di Valentino era amico ed estimatore. 

 

Questo merito di Falcomatà è stato riconosciuto e la parte della via Marina posta a ridosso della spiaggia porta il suo nome. A Valentino che ideò il più bel chilometro d’Italia, lo realizzo tra mille difficoltà, rischiando talvolta il patrimonio avito, è dedicata soltanto una colonna romana, all’inizio del Lungomare, dove una piccola targa ne ricorda l’opera. Ma nella considerazione dei Reggini, nonostante il tempo trascorso dagli eventi che determinarono la costruzione di questa opera straordinaria, Egli resta il “Sindaco della Ricostruzione”.

La stampa ne parla ogni qualvolta v’è motivo di ricordare questi anni intensi 

ed appassionati della ricostruzione di Reggio,


nelle Università gli studenti hanno scritto tesi di laurea sulla sua opera, i paragoni si succedono fatalmente nel corso degli anni rispetto ad altri Amministratori che hanno brillato… per non aver fatto nulla in una città che, ancor oggi, ha bisogno di molto. 

 

Questo ricordo grato, che sopravvive al tempo che passa, è motivo di orgoglio e gratificazione per coloro che oggi portano il suo nome e sanno che l’impegno e l’amore per Reggio è l’irrinunciabile patrimonio morale che Egli ha lasciato..

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Così Gabriele D’Annunzio avrebbe definito la Via Marina di Reggio Calabria.

 

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IL VAL DI NOTO di Sergio Spatola – Numero 10 – Marzo 2018

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IL VAL DI NOTO

L’<<ELOGIO DELL’INDUGIO>>1

 

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Sembrerebbe un racconto dell’ultimo evento sismico che ha interessato, come troppe volte accaduto, il nostro Abruzzo (insieme a Umbria, Marche e Lazio), a parte forse per la frenesia ricostruttiva. Ma non si dimentichino le vittime, seppur eventi più recenti ce ne facciano piangere altre, della nostra Sicilia.

 

11 gennaio 1693. «Vide che alle due mezza improvvisamente rovinò tutta la città (…) e che durante il terremoto si era ritratto il mare di due tiri di schioppo e per la risacca conseguente aveva trascinato con sette tutte le imbarcazioni che erano ormeggiate in quell’insenatura […] State certi che non c’è penna
che possa riferire una tale sciagura»2.

 

Due terremoti – o due scosse dello stesso evento – e uno tsunami, tra il 9 e l’11 gennaio 1693, distrussero tutto il Val di Noto. Così, era definita la circoscrizione amministrativa che si occupò della giustizia, dell’erario e occasionalmente anche delle milizie del Regno di Sicilia dal periodo normanno alla sua abolizione nel 1812 e, dunque, l’area sud-orientale siciliana – individuata tra la provincia di Ragusa, di Siracusa e parte della provincia di Catania, di Enna e di Caltanissetta. 

 

Quello che ne seguì, ai tempi, fu un fervore costruttivo senza precedenti nell’intera penisola. Vuoi la devozione religiosa con la promessa salvezza dopo la vita terrena vuoi il rispetto per il sovrano che passava sei mesi a Palermo e sei mesi a Catania, scattò, negli uomini che allora avevano i mezzi procurati col prezzo dell’enorme divario sociale, la volontà di rialzarsi e di esprimere – dopo l’immenso dolore per le perdite – la gioia della vita.

 

Il barocco siciliano e, in particolare, quello di Val di Noto, rappresenta lo sforzo, 

da un lato, ricostruttivo più riuscito della storia italiana quando si guarda a Catania, Ragusa, Modica e Scicli e, dall’altro, edificatorio, quando si pensa a Noto, 

Avola e Grammichele.

 

Infatti, mentre le prime città vennero «tirate su» dalle macerie, per Noto e Avola la storia fu ben diversa come dimostra lo sdoppiamento in «antica» e «barocca». È impossibile descrivere tutto il Val di Noto, e forse inutile, per l’offerta documentata e attenta di guide e siti che, giorno per giorno, si dedicano a rappresentarlo. Si può, invece, cercare di descriverne lo spirito. Il Val di Noto, infatti, rappresenta un «Viaggio» esso stesso, dove tra bellezze naturalistiche (Vendicari e le Gole dell’Alcantara, in primis), architettoniche (Noto, ma anche Catania, Scicli, Modica) ed enogastronomiche (per trovare qualcosa di veramente locale occorre riferirsi alla rosticceria tipica), si respira un’aria che elogia «all’indugio».

 

L’indugio. Nel documento di presentazione per la candidatura del Val di Noto 

a Capitale della Cultura 2020, esso è stato correttamente contestualizzato 

come «una specificità e un’anima che (…) si è riusciti 

a salvaguardare quasi intatta,

 

diventando oggi formidabile elemento dì attrazione per chi, colto e consapevole, è legato a una concezione del “Viaggio” radicalmente diversa dagli stanchi rituali del turismo di massa». 

 

Questo perché, se ti trovi sul Corso di Noto, in primavera, non troverai alcuno che voglia divorare la bellezza e magari perderla dietro il filtro del proprio smartphone, ma vedrai colui che, nella pasticceria davanti ad una granita, la mattina, oppure nel locale per un aperitivo, al tramonto, starà col naso all’insù per osservare tutt’intorno la caratteristica pietra color «oro tendente al rosa», chiedendosi il perché di un mancato trasferimento immediato. 

 

Questo «indugio» pervaderà il suo viaggio e penetrerà le sue ossa senza accorgersi che non sono gli abitanti ma il luogo a richiedere riflessione quieta. Modica, d’altronde, ti costringerà a rinunciare allo strumento tecnologico approntato per immortalarla. Il Duomo di San Giorgio infatti, sia per la ripida e incredibile scalinata sia per l’altezza, non ti consente di inquadrarne agevolmente la facciata. Prospettiva e equilibrio ne costituiscono il punto di forza. Potrai ammirarne la completa bellezza solo recandoti nella collina di fronte, al Belvedere, dove penserai di essere parte di un presepe.

 

Insomma, un vero e proprio viaggio dell’anima durante il quale riflettere 

sulle dinamiche contemporanee.

 

D’altronde, si sta ripensando il Val di Noto come un luogo dove «il processo di crescita e sviluppo non (è) fondato (…) sull’emulazione impacciata e dannosa di modelli estranei al territorio, ma, per la prima volta, sul riconoscimento e la piena consapevolezza del valore della specificità del proprio patrimonio materiale e immateriale»3

 

Incredibile. Quanto è vero. Ciò – mi dispiace contraddire i redattori del Dossier – non si applica al solo Val di Noto ma all’intero Sud, come Myrrha cerca di affermare, edizione dopo edizione, sostenendo che il nostro Meridione deve essere finalmente considerato attraverso la sua propria «eccellente specificità», da leggersi attraverso criteri che «il PIL non sa contare».

 

 

 

 

Altra distruzione, ancor peggiore della prima. Solidarietà per le vittime. Frenesia ricostruttiva.

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1 – L’espressione azzeccata è contenuta in ValdiNoto 2020 – DOSSIER DI CANDIDATURA A CAPITALE ITALIANA DELLA CULTURA 2020, Noto, 2018, pag. 14

2 –  Relacion de lo refirio el Patron Marco Calapar que vino de Zaragoza. Augusta y Catania en Santa Cruz de Mesina en 15 del coriente mies de Enero de 1693. Citazione contenuta nel testo di Lucia Trigilia, 1693 – Illiade funesta – La ricostruzione delle città del Val di Noto, Palermo, Arbaldo Lombardi, 1994.

3 – ValdiNoto 2020 – cit.

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D’ANNUNZIO A NAPOLI E LA SCRIVANIA di Franca Minnucci – Numero 10 – Marzo 2018

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D’ANNUNZIO  A NAPOLI E LA SCRIVANIA

 

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che indussero il poeta a non proseguire il viaggio per la Sicilia insieme al suo amico e la conseguente decisione di fermarsi, inizialmente per pochi giorni ma in realtà per oltre due anni, nella città partenopea.

 

Che la vita di Gabriele d’Annunzio sia stata inimitabile e sregolata lo sappiamo, 

ma quel che visse a Napoli nei due anni di soggiorno sotto il Vesuvio 

è ancora oggi dai critici considerato tra i momenti più esaltanti 

e complicati della sua straordinaria esistenza.


Quello che possiamo dire è che d’Annunzio, già dal suo primo soggiorno all’Hotel Vesuve, è soggiogato e sedotto da quel mare e dallo spettacolo della natura:“In questi pochi giorni ho veduto mille spettacoli diversi e tutti stupefacenti” scrive a Barbara Leoni, sua amante romana dell’epoca, il 3 settembre: “Sono stato a Posillipo, a Pozzuoli, a Baja, a Sorrento, a Capri, per mare e per terra… Sono tornato a Napoli in barca, stasera, dal capo Miseno, costeggiando. E’stata una divina navigazione per un mare divino. Remigavo, come nelle acque di Anzio. Alla punta di Posillipo è caduta la sera; e tutta Napoli è sorta dal mare incoronata di lumi respirando come una creatura misteriosa, nel crepuscolo violetto”.

Neppure il discutibile “talismano” che Barbara gli aveva donato per legarlo a sé 
una ciocca intima – potrà fermarlo dal vivere questa totale e profonda immersione emozionale e quel turbinio di sensi che lo percorrerà nella città partenopea.


È lecito quindi chiedersi, con i critici, se il soggiorno napoletano fu di grande impegno culturale e letterario o si trattò di una breve parentesi nella vita del poeta, fatta di amori proibiti, di vita inquieta e appena segnata da sprazzi poetico-narrativi. Quel che è certo è che d’Annunzio pubblicò nel 1892 due romanzi: L’Innocente, uscito per i tipi di Bideri dopo il rifiuto di Treves, e il Giovanni Episcopo; concluse L’Invincibile con il nuovo titolo Trionfo della morte, mise insieme alcune delle sue migliori raccolte di poesie, come Odi Navali ed Elegie Romane, entrò nella redazione del quotidiano “Il Mattino” diretto dai suoi amici Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao e scrisse tredici “pezzi”, veri e propri saggi decisivi per la sua auto-formazione. Pubblicò con l’editore Luigi Pierro due libretti di novelle – I Violenti e Gli Idolatri – ascoltò Wagner, si invaghì di Nietzsche che legge in un primo momento nell’antologia curata da Lauterbach e da Wagnon, si innamorò della poesia simbolista che concorda con i versi che raccoglierà nel Poema Paradisiaco.
Tutto questo e “molto altro” in poco più di due anni.

 

Il “molto altro” era fatto di continue incursioni a Roma per tacitare Barbarella, soddisfare i suoi appetiti sessuali e calmare le sue crisi di gelosia, ma anche della storia d’amore e di passione voluttuosa con Maria Gravina di Cruyllas, la slanciata ed elegante principessa di Ramacca che si era buttata nella vita mondana sotto il Vesuvio per reagire alle tante delusioni e che, con quella ciocca rossa che trafiggeva come una spada la sua chioma nera, era simbolo di sensualità e seduzione nei migliori salotti napoletani. 

 

Come se non bastasse, il “molto altro” era anche l’avventura con Moricicca, ex amante di Scarfoglio; erano le varie sfide a duello intimate da mariti traditi; gli artificiosi espedienti per sfuggire ai debitori e i tanti episodi boccacceschi finiti nelle aule dei tribunali.

Il periodo napoletano, quello che d’Annunzio chiamò della “splendida miseria”, 

fu però certamente il periodo più difficile dal punto di vista economico 

nell’esistenza del poeta.


Questo sicuramente perché la sua vita privata si era particolarmente complicata, non solo per la nascita della piccola Cicciuzza, forse il frutto più delicato e desiderato di questa esperienza, ma soprattutto per la convivenza con Maria Gravina che cominciò presto a dare segni di insofferenza e instabilità psichica, e i quattro figli di lei; come pure per i continui spostamenti e viaggi a Roma fatti per tacitare gelosie e risentimenti della moglie, Maria Hardouin di Gallese, e dell’amante romana; e ancora per le tante necessità economiche che arrivavano da tutte le parti, oltre che da questa grande famiglia allargata anche dalla sua casa di origine, in particolare difficoltà dopo la morte del capofamiglia. Non ultimo, per i continui spostamenti di domicilio a cui era costretto, per vari motivi di opportunità e di comodità.

 

Non si contano gli aneddoti sorti intorno al suo eccentrico protagonismo. Troppo preso dalle vicende amorose, manca un appuntamento con Benedetto Croce, che gli sarà sempre ostile, non accettando tra l’altro l’attacco a De Sanctis per il quale il nostro aveva coniato il termine “intellettuale” mai usato prima in forma sostantivata. La verità è che

tutta la vita di Gabriele d’Annunzio è stata caratterizzata da un intrecciarsi 

di situazioni che sembrano a volte soffocare e sommergere il letterato, 

ma dalle quali però escono sempre vincenti il poeta e il romanziere. 

E così a Napoli.


Il soggiorno napoletano, anche in condizioni di estrema indigenza, fu precursore di occasioni e proposte culturali future e soprattutto fu la testimonianza di come d’Annunzio riusciva ad essere contemporaneamente nella sua duplice immagine di vittima e di protagonista delle sue stesse vicende di vita. A Napoli d’Annunzio ha compiuto trent’anni, è diventato padre per la quarta volta, ha raggiunto una autorevole fama internazionale. Nella città partenopea ha pubblicato romanzi, raccolte, novelle, veri e propri saggi giornalistici tra i più interessanti della sua immensa carriera di scrittore. L’11 dicembre del ‘93 il poeta parte definitivamente da Resina diretto in Abruzzo, lasciandosi alle spalle un periodo sicuramente difficile e doloroso ma anche una esperienza esaltante e un turbine di successi. E quando, subito dopo la sua partenza, Franz Lecaldano un faccendiere dell’epoca, pone in vendita, negli uffici del “Mattino”, la pelliccia del poeta, uno dei tanti “pegni” che avevano permesso a d’Annunzio di sbarcare il lunario, si capì come quella folla di compratori, di curiosi, che si accalcava e accapigliava per entrarne in possesso lo faceva non per avere la spoglia di un vinto… ma il feticcio di un divo!

Il poeta, il grande poeta che aveva scritto le Elegie Romane, le Odi Navali, 

il Poema Paradisiaco e che scriverà le Laudi, aveva forse composto 

questi versi anche senza avere una… scrivania.


Così, infatti, ci racconta il giornalista Alberto Consiglio in un simpatico articolo sulla “Fiera Letteraria” uscito il 2 settembre 1928: un d’Annunzio che riesce a trovare una vena di ironia e di leggerezza anche in momenti oggettivamente difficili e scoraggianti per chiunque. 

L’autore ci racconta che, nel dicembre del 1892, nella dimora di Villa Isabella a Resina, d’Annunzio è alla ricerca disperata di una scrivania consona alla sua importanza di scrittore e

per convincere la baronessa Marianna Cassitto della Marra, che lo aveva generosamente ospitato nella sua elegante abitazione, a comprare 

una scrittorio adatto ad ospitare degnamente il grande poeta, 

manda alla sua mecenate una supplica in versi.

 

Nulla sappiamo di questi versi che a Napoli circolavano di bocca in bocca e nei quali abbiamo difficoltà a riconoscere il futuro autore delle Laudi, quindi chiaramente lontani dai fasti letterari del Vate, ma se dobbiamo credere a questa attribuzione, possiamo considerarli utili per capire la condizione di “cattività” che il poeta sta vivendo. 

 

La supplica si presenta in tutta la sua scanzonata leggerezza ed ironia con settenari un po’ ridondanti quasi a simulare quel mondo al quale il testo è indirizzato: un mondo di rituali, di consuetudini, di protocolli anche verbali che ci suggeriscono che il poeta non ha difficoltà a calarsi in quel ruolo adottando, con un sorriso stampato sulle labbra, un linguaggio apertamente forzato querulo e devoto!

Un d’Annunzio inedito in tutti i sensi, con una vena di comicità che ci stupisce per i tempi e le avventure che in questo momento sta vivendo.

 

Alla Baronessa Della Marra 

SUPPLICA 

Mia dolce baronessa, 

non mi sarà concessa 

 dunque una scrivania 

che in tutto degna sia 

dello scrittor famoso? 

L’animo generoso 

non muoveranno i versi 

supplici? Dunque apersi 

invano la mia vena? 

O amica, gratia plena, 

non mi fate languire 

per quelle cento lire 

che l’antiquario chiede! 

Voi sarete l’erede 

del morituro sposo. 

Domani un prodigioso  

flutto d’oro le casse 

v’empirà senza tasse… 

Che sono dunque cento 

lire buttate al vento? 

Deh! Fate che domani 

sera le belle mani 

baronali io vi possa 

baciare! Non vi ho mossa 

la pietà nel pio cuore? 

Orrore! Orrore!! Orrore!!! 

È dunque un cor di pietra 

che né pure la cetra 

d’Orfeo discioglierebbe? 

Ahi me, chi l’avrebbe 

imaginato! Addio, 

baronessa crudele. 

Misero Gabriele! 

Nella sua innocenza 

egli resterà senza 

la scrivania. Per cento 

lire! Per sole cento 

lire! Per cento lire 

sole! Ah, meglio morire! 

Il vostro cor m’ascolta? 

Questa è l’ultima volta. 

L’ultima volta sia. 

Voglio la scrivania, 

quella di cento lire; 

o pur voglio morire…

                          Gabriele d’Annunzio 

22 dicembre – sera 

 

“È quasi fuor di luogo” commenta il giornalista, ”aggiungere che, al patriottico scopo di salvare all’Italia le Laudi, la Nave e i più grandi capolavori della letteratura italiana, la baronessa della Marra si affrettò ad acquistare la scrivania.” E la stessa sera il nostro Gabriele “poté baciare riconoscente le baronali mani, nel salotto della principessa di Ottajano, quelle mani che, educate da Sigismondo Thalberg, allietavano di musiche gli uditori”.

 

 

 

 

 

 

 

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è forse uno dei più intricati per i biografi. Si ignorano, per esempio, i motivi dell’improvvisa partenza da Francavilla, nei pressi di Pescara, che d’Annunzio fece insieme al suo maestro e sodale, Francesco Paolo Michetti, in quel fine agosto del 1891, come le insospettabili ragioni

 

MYRRHA PER LA SICILIA: UN DONO di Carmen Lasorella – Numero 10 – Marzo 2018

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Nel Sud dei segni meno, con le cronache dell’abbandono e del degrado, i valori della storia e della bellezza diventano più forti, perché vincono la caducità del quotidiano. 

 

Il percorso scelto da Myrrha ė così insolito, da diventare esclusivo. Racconti sul web, senza fatica, che poi diventeranno specchi di carta limpidissimi nei quali continuare a riflettersi, ritrovando il profilo più prezioso del Sud, fatto di uomini, luoghi e sfide riuscite. O quasi. 

 

Lo sforzo non si avverte, perché le occasioni di racconto sono infinite. Basta andarle a cercare. 

 

Nello speciale di Myrrha dedicato alla Sicilia, si va dalle architetture fraintese di Gibellina al mecenatismo ibleo, per arrivare alla centralità di Siracusa nella cultura della giustizia. E si continua con l’arte declinata nel piacere di una collezione contemporanea a Palermo o con la creatività che coinvolge i sensi tra pittura e narrazione, fotografia e poesia, in una cornice insolita quale quella di Caltanissetta. Non manca il brontolio sordo dell’Etna, che brucia miti e visioni, magma e fuoco perenne; mentre sullo sfondo del Mar Mediterraneo si stagliano le memorie di antichi e nuovi relitti, offerti all’immagine e consegnati alla testimonianza. Ci sono poi la tradizione e la fede, che si fondono nel barocco di Catania, la stessa città per la quale l’università di Enna immagina micro-interventi di agopuntura urbana tra i colori e i profumi della Vucciria di Guttuso. E Palermo, capitale della cultura, va oltre i muri, edificando ponti e crocevia, guardando all’Europa, comunque terra di poeti, scienziati ed anche pescatori, che -come cantava De Andrè- “qualsiasi cosa tu gli confidi, l’hanno già saputa dal mare”. 

 

L’isola più intensa del Mediterraneo concentra dunque in sé il senso e le contraddizioni del Sud. Evocando Sorrentino, La grande bellezza e lo sfascio disperato di una società oramai degradata, che il regista descrive quasi con crudeltà. 

 

Eppure, la speranza non può morire. 

 

Proprio Gibellina, negli anni ’70, dopo le devastazioni del terremoto, fu capace di esprimere la tenacia di un uomo, che insieme ad altri uomini capì che non basta ridare un tetto a chi l’ha perduto. Il sindaco di quella città si oppose alla ricostruzione, che non ricostruisse anche il senso della comunità e ignorasse la bellezza. Un tema attualissimo e destinato a rimanere attuale in un paese ad alto rischio sismico, come l’Italia. Gibellina, nella visione di quell’uomo doveva rinascere più bella di prima, con il contributo di artisti e di uomini di cultura. Anche Burri immaginò un’opera per Gibellina: il cretto. Una fenditura, un segno profondo, comunque una cicatrice, non per cancellare la ferita, ma per guarirla. 

 

In quella sfida, che purtroppo non è stata vinta appieno, c’è una storia che si ripete. Come scriveva Sciascia: “ lo Stato non era pronto, né incline, ad accogliere un’istanza di ricostruzione, che non fosse una ricostruzione della miseria…sperava nella fuga, nell’abbandono..” 

 

Cosa è successo dopo nel Sud? In Basilicata? In Irpinia? In Molise? Nelle Marche? In Abruzzo? Perfino nel Lazio, che è un po’ più in su, ma non abbastanza come nel caso dell’Emilia Romagna? Terra colpita dal terremoto, ma con le attività produttive che non hanno mai smesso di funzionare? 

 

Hanno continuato a costruire le casette, laddove ridare un tetto a chi l’ha perduto, appunto, non basta. Si sono allora ripetute le storie di miseria e le storie di fughe e di abbandono, benché ci siano risorse immense, come nel caso della Basilicata del petrolio. Facciamo però una considerazione: è vero o non è vero che proprio la Basilicata oggi è conosciuta in Italia e nel mondo grazie alla scelta di fare di Matera una Capitale Europea della Cultura? 

 

Come a Gibellina negli anni ’70, anche per Matera, nella percezione dei più, ha funzionato il sogno, il dialogo senza tempo nel segno della bellezza assoluta. Eppure, Gibellina non è stata una sfida vinta appieno. Per Matera si annuncia lo stesso rischio. In una terra, che vede flussi di turisti e di risorse incredibili, dove sono le infrastrutture? Quali acceleratori si sono messi in campo? E i nuovi modelli? Quanto si è investito nel capitale umano di qualità? 

 

Ancora una volta, la cattiva politica e le classi dirigenti che la impongono hanno impedito la partecipazione attiva e fattiva dei cittadini. Per loro non vale neanche più la legge del 2%. 

 

Ovvero? Una legge, che venne chiamata così oramai quasi mezzo secolo fa, perché destinava il due per cento della spesa pubblica edilizia al decoro dei luoghi e al fregio dell’arte. Allora si considerò che fosse troppo poco… come potrebbe bastare oggi, che non viene neanche applicata? 

 

Ecco allora il senso di Myrrha, che cerca le matrici perdute del Sud, capaci di incidere sui luoghi e nei cuori delle persone, sicura che l’altissima capacità di resilienza delle donne e degli uomini che vivono sotto un cielo colorato di indaco e comunque educati alla bellezza, possano ricreare orizzonti possibili. Sul piano economico, sostenibili.

 

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MYRRHA PER LA SICILIA: UN DONO

 

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L’ISOLA DEL TESORO di Giovanni Ilarda – Numero 10 – Marzo 2018

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l’isola    del tesoro

 

 

Oltre 1.000 km di costa, migliaia di spiagge, un arcipelago di isole minori nel cuore del Mediterraneo, il vulcano più alto d’Europa, 4 parchi naturali1 e 77 riserve.

 

La Regione più grande d’Italia, dove hanno lasciato segni indelebili della loro stabile presenza Fenici (che hanno fondato il Capoluogo), Greci, Romani, Bizantini, Arabi, Normanni, Francesi e Spagnoli.

 

Le tradizioni e le culture di questi popoli hanno scritto nei secoli la storia della Sicilia e sono rappresentate oggi non soltanto da migliaia di inestimabili capolavori dell’architettura e dell’arte, ma dal carattere stesso dei siciliani, 

dal loro linguaggio e persino dai piatti tipici,

 

dalla pasta con le sarde ai prodotti delle tonnare, dai cannoli alla cassata, dalla caponata alla granita di limone, dagli arancini di riso2 alle panellei3, cosicché la cucina è diventata ragione di riconoscimento e identità prima ancora che motivo di attrazione turistica (dallo street food alle rivisitazioni stellate).

 

La gastronomia è, anzi, testimone d’eccellenza della storia di Sicilia, degli stenti e dell’orgoglio di un popolo. Emblematica l’origine, secondo la leggenda, della pasta con le sarde a mare: c’è stato un tempo in cui anche le sarde erano un lusso per molte famiglie; le mamme utilizzavano, allora, la precedente acqua di cottura dei giorni di festa per insaporire un piatto di spaghetti in cui le sarde in realtà non c’erano, ma soltanto perché – rispondevano alla domanda di loro bambini – … erano rimaste a mare! 

Anche i piatti tipici fanno, quindi, parte della storia di una terra alla quale 

si addice, in pieno, il titolo del famoso romanzo di Stevenson, 

l’Isola del tesoro. Anzi, dei tesori:


che si ritrovano a migliaia nelle Chiese, nei Palazzi dell’antica nobiltà, per le strade, al centro e nei quartieri popolari, un enorme museo all’aperto nelle grandi città e nei piccoli borghi
4. Non sorprende, quindi, che Palermo sia stata scelta come Capitale italiana della Cultura per l’anno 2018. In questa terra straordinaria, però, vive un popolo che parla un dialetto (che con il maestro Camilleri è andato ben oltre i confini dell’Isola) nel quale non esistono verbi al tempo futuro. 

 

Un’acuta riflessione sull’argomento si deve a

Leonardo Sciascia che nel corso di una conversazione con la giornalista francese Marcelle Padovani, pubblicata nel ’79, affermava: Come volete non essere pessimista in un Paese dove il verbo futuro non esiste? 


Quasi a dire che la spiegazione di quella particolarità linguistica doveva essere ricercata nello stesso modo d’essere dei siciliani che, ormai rassegnati di fronte alle difficoltà del presente, avrebbero perso ogni speranza in un futuro migliore, fino al punto da cancellarlo dalla loro lingua. 

 

Un sottile filo rosso collega all’evidenza il pensiero di Sciascia ad un altro famoso rappresentante della letteratura siciliana, Tomasi di Lampedusa, che nel Gattopardo fa dire a Tancredi, rivolto al principe di Salina: “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.” 

 

Il senso di una frase che inneggia al trasformismo e che è divenuta ormai celebre e a tutti nota: far finta di cambiare al solo scopo di lasciare tutto immutato, rimanendo fermi all’eterno presente. 

 

La rassegnazione, il pessimismo, l’incapacità di guardare al futuro è, così, diventata nell’imaginario collettivo una componente identitaria della sicilianità. 

 

Personalmente, però, non credo che ciò sia vero o, almeno, che sia ancora vero. Il pragmatico realismo e l’aver dovuto, per secoli, affrontare ogni giorno prepotenze, sopraffazioni, soprusi di governanti, vessazioni di mafiosi e proclami riformisti di una classe dirigente che mirava, in realtà, alla gattopardiana conservazione dell’esistente, hanno accentuato nei siciliani l’attenzione al presente, hanno affinato l’arte dell’arrangiarsi, hanno portato a trascurare la programmazione, ma non sono univocamente sintomatici di un’atavica ed eterna rassegnazione.

 

Pensando al carpe diem di Orazio o all’incertezza del domani cantata 

da Lorenzo de’ Medici nel Rinascimento penso, infatti, che il preoccuparsi 

del presente, trascurando l’importanza del futuro, non sia un’esclusiva (in negativo) dei siciliani, ma una caratteristica dell’umanità intera, in ogni tempo.

 

I giovani siciliani di oggi, del resto, hanno in gran parte abbandonato il dialetto, parlano italiano e inglese, due lingue in cui il futuro esiste e ha un preciso significato. 

 

Il largo consenso con cui è stata raccolta l’eredità che ci hanno lasciato due grandi siciliani come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e tanti altri che hanno pagato, con il sangue, la caparbia ostinazione di volere una Sicilia migliore, conferma il cambiamento. 

 

Oggi l’atteggiamento dei siciliani verso il futuro è, infatti, cambiato per l’acquisita consapevolezza, soprattutto nei giovani, della necessità di lottare e impegnarsi nell’affrontare un presente che è ancora, purtroppo, più duro che in altre parti del Paese, soprattutto sul fronte del lavoro, con la dignità degli uomini liberi, con la volontà e la speranza di un futuro diverso per una Terra che rappresenta una vera perla del Sud.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1 – Parco dell’Etna, Parco dei Nebrodi, Parco delle Madonie e Parco Fluviale dell’Alcantara.

2 – Conosciuti rigorosamente al femminile (arancine) nel palermitano.

3 – Frittelle con farina di ceci tipiche del capoluogo che hanno rappresentato la colazione quotidiana di intere generazioni di studenti sino agli anni sessanta.

4 – Notevole, ad esempio, il patrimonio di Ciminna, piccolo comune a pochi chilometri da Palermo, non a caso scelto da Luchino Visconti per ambientare molte scenografie del Gattopardo (1963).

 

Credits foto

 

San Giovanni degli Eremiti (PA)
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Golfo di Mondello (PA)
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Duomo di Modica
Diritto d’autore: <a href=’https://it.123rf.com/profile_xlucax79′>xlucax79 / 123RF Archivio Fotografico</a>
Etna in eruzione
Diritto d’autore: <a href=’https://it.123rf.com/profile_virz8′>virz8 / 123RF Archivio Fotografico</a>
Diritto d’autore: <a href=’https://it.123rf.com/profile_elesi’>elesi / 123RF Archivio Fotografico</a>

 

SAN SERGIO I PAPA di Umberto De Augustinis – Numero 10 – Marzo 2018

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SAN SERGIO I PAPA

 

Inoltre i primi tre sono nati ed eletti nello stesso scorcio di secolo, la seconda parte del VII, e l’ultimo circa cinquanta anni dopo. Due di loro, Agatone e Sergio sono palermitani, entrambi impegnati sul fronte della statuizione delle regole della Chiesa, con relative interferenze imperiali; Leone proveniva da Aidone, una città oggi in provincia di Enna; Stefano da Siracusa.

 

Sicuramente Sergio I tra i papi siciliani occupa un posto di enorme rilievo,
perché, con lui, cambiano molto i rapporti tra Impero d’oriente e Chiesa.

 

Sergio, palermitano, presbitero di famiglia originaria di Antiochia, diventa papa dopo la morte di Conone (21 settembre 687), anche lui formatosi a Palermo. L’epoca era decisamente particolare: Roma, e tutti i territori italiani non Longobardi, erano in mano all’imperatore d’oriente, in quel momento Giustiniano II. Il potere in Italia era esercitato dall’esarca di Ravenna, Giovanni Platina. 

 

L’imperatore non aveva remore a indire frequenti assemblee ecclesiali, denominandole concili, presiedendole personalmente indipendentemente dalla presenza del papa, a volte neppure invitato, o per il tramite di delegati, e a formulare norme e precetti per la Chiesa. Fra queste, l’ultima prima dell’ascesa di Sergio, fu l’avvio del c.d. Concilio trullano, quinto dell’era cristiana, indetto all’epoca di Agatone, che prende il nome dalla costruzione ove ebbe luogo.

 

La giustificazione dell’intromissione imperiale stava nel ritenersi l’imperatore 

un “isapostolo”, un parificato in tutto e per tutto agli apostoli. 

Del primato di Pietro, si preferiva non parlare. 

 

L’elezione di Sergio fu piuttosto turbolenta. Al soglio pontificio aspiravano Pasquale, amministratore delle finanze ecclesiastiche e, quindi, arcidiacono, e Teodoro, presbitero anziano di Roma (arciprete). Pasquale aveva stretto un patto con l’esarca Giovanni Platina: l’appoggio per la sua elezione a papa in cambio di cento libbre d’oro. Tra corruzione e simonia. Ma l’elezione di Pasquale fallì per l’opposizione dell’aristocrazia romana. Pasquale sarà confinato a vita in un monastero, in sospetto di magia.

 

Il 15 dicembre 687, Sergio fu consacrato papa. L’esarca Giovanni Platina chiese 

ed ottenne da lui il pagamento delle cento libbre d’oro come prezzo dell’appoggio. Per trovare le risorse furono pignorate le offerte in oro a S.Pietro dei fedeli. 

Ma, all’epoca, le cose andavano così.

 

Sergio, tuttavia, uomo raffinato e colto, dimostrò subito di non gradire la politica ecclesiale di Giustiniano II. Quando quest’ultimo decise di convocare un concilio (denominato Quinisextum, cioè riassuntivo del quinto e sesto), neppure invitando il papa, lì per lì, Sergio non osservò nulla, ma, poi, si rifiutò categoricamente di sottoscrivere le 102 costituzioni che l’assemblea aveva approvato. Tra queste c’era sia la supremazia del patriarcato di Bisanzio su tutti i vescovi, meno il papa, ma anche una sensibile attenuazione del celibato ecclesiastico. 

 

La reazione di Gustiniano II non si fece attendere. L’imperatore fece arrestare i due delegati pontifici e mandò a Roma uno dei suoi militari più feroci, certo Zaccaria, con l’ordine di arrestare il papa e trascinarlo a Bisanzio per processarlo, così come, qualche anno prima, era avvenuto già con papa Martino (fatto maltrattare, destituire ed esiliare). I romani, e non solo, insorsero. La milizia imperiale di stanza a Ravenna accorse a sostegno del papa. Zaccaria capì che i tempi erano cambiati e che aveva osato troppo. 

 

Il prestigio ed il carisma del papa stavano per mettere fine ad una politica 

religiosa imperiale di evidente sopraffazione.

 

Così il feroce militare fu costretto a chiedere aiuto al papa, mentre popolo e soldati vari lo braccavano per tutta Roma. Alla fine Zaccaria si rifugiò nella camera da letto di Sergio e si nascose sotto il letto stesso. Solo grazie all’intercessione di Sergio, non fu ucciso, ma, in compenso, allontanato da Roma tra gli insulti del popolino.

 

Il papa aveva vinto.

 

Giustiniano II pagò anche a Bisanzio le conseguenze del fallimento della sfida: fu deposto da una congiura di palazzo, alla quale si associò anche il patriarca, Callinico I, subì l’amputazione del naso, donde fu denominato Rinotmeto e mandato in esilio. L’asportazione del naso avrebbe dovuto impedire qualsiasi ripristino di poteri imperiali, perché le amputazioni corporali ne erano ostative. Successivamente, fattosi un naso d’oro, Giustiniano tornerà al potere per alcuni anni, fino alla uccisione sua e del suo unico erede, ma eviterà nuove collisioni con Roma.

 

Il confronto, risoltosi così positivamente per Sergio, ne accrebbe enormemente 

il prestigio, assieme a quello della Chiesa di Roma.

 

Facile spiegarsi, dunque, le numerose visite di importanti personaggi a Roma, desiderosi di abbracciare la fede cattolica, e lo spianarsi della strada per un rapporto estremamente significativo e sinergico con il popolo dominante dell’epoca, i Franchi, che porterà molto lontano. A questo enorme prestigio si devono molte cose: tra le altre, 

 

Sergio fu il primo pontefice a battere moneta, il primo ad essere direttamente 

sepolto in S. Pietro, alla sua morte, avvenuta l’8 settembre 701, 

quello che introdusse la possibilità di avere più altari nelle chiese, 

il primo ad essere citato come diretto referente 

delle comunità cattoliche britanniche.

 

Di qui, infine, la sua immediata canonizzazione.

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Agatone, Leone II, Sergio I e Stefano III.
La caratteristica che li accomuna tutti è di essere inquadrabili nell’ambito e nel contrasto delle strategie politiche-religiose dell’Impero bizantino. 

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TARANTO NON E’ SOLO VELENI. IL MArTA di Roberta Lucchini – Numero 10 – Marzo 2018

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TARANTO NON È SOLO VELENI.        il MA TA

 

Ma il faro mediatico, sistematicamente puntato sui mostri che negli anni hanno corrotto le aspettative, inquinando acque e vite umane, dovrebbe talvolta accendersi sul buono che c’è, sulle iniziative lodevoli, sulle persone che si impegnano per il cambiamento. A Taranto si può ricominciare; anzi si deve. Ma da dove? Il MArTA ci sembra un ottimo punto di partenza.

La visita al Museo Archeologico, invero, è la tappa iniziale e imprescindibile
sia per chi desideri avvicinarsi alla città e alle sue origini sia per i tarentini
che vogliano ritemprarsi con una boccata di orgoglio campanilistico.


Il Museo nacque nel 1887 per ospitare le innumerevoli testimonianze raccolte nel corso dei ritrovamenti massicci, conseguenti alla revisione urbanistica che accompagnò ripensamento e sviluppo del quartiere Borgo Nuovo. Taranto, infatti, era anticamente sorta sul piccolo promontorio che, unito alla terraferma da un modesto lembo di terra, separava la grande baia del Mar Grande, all’esterno, dalle acque – dolci e salmastre ad un tempo, preziose per nutrire i celebri mitili – del bilobato Mar Piccolo; mari che, fino alla seconda metà dell’Ottocento, erano in comunicazione solo attraverso il canale naturale a nord-ovest, sul quale sorge, forse dall’anno Mille, il Ponte di Porta Napoli. Sul finire del XIX secolo, l’espansione della città verso est come conseguenza della nascita dell’Arsenale militare sul Mar Piccolo, iniziato nel 1883 e ultimato nel 1889, sfociò, per un verso, nella realizzazione del Canale navigabile, ottenuto recidendo quel breve cordone ombelicale che ancorava la città vecchia peninsulare al resto del territorio, e richiese la contestuale costruzione, sul canale medesimo, del Ponte girevole (entrambe, opere ingegneristiche di assoluto rilievo, inaugurate proprio nel 1887); per altro verso, comportò il rimaneggiamento dell’assetto urbano sulla sponda est della neonata via d’acqua, anche nell’ottica di accogliere molte famiglie dal sovraffollato centro storico. In seguito a sbancamenti e livellamenti per creare un impianto viario di reticolato regolare, moltissimi reperti vennero alla luce, mentre alcuni siti furono irrimediabilmente interrati. Cosicché 

 

il nostro Museo, la cui sede fu individuata nell’ex convento dei frati Alcantarini, 

avviò le proprie attività inizialmente a mo’ di “deposito” 

dei rinvenimenti archeologici locali.

 

A questi, si aggiunsero nel tempo oggetti provenienti da svariati siti del territorio apulo, spesso necropoli o sepolture, da Canosa a Crispiano, da Ginosa ai dintorni di Bari e al Salento, solo per citarne alcuni. Dai primi anni del Novecento, e a più riprese nel corso del secolo fino ai giorni nostri, il Museo fu ampliato, modificato e organizzato secondo i criteri scientifici che più si confacevano al momento storico. Il percorso che viene oggi offerto al visitatore è la risultante di un ultimo intervento che, dopo una chiusura totale nel 2000, riaperture progressive nel 2007, 2013 e, da ultimo, nel 2016, ci consegna un edificio rimodernato, arricchito di ausili multimediali e articolato in due piani espositivi con mezzanino (ove è ospitato un lascito del 1909 da parte di Monsignor Giuseppe Ricciardi che affidò diciotto tele risalenti ai secoli XVII e XVIII alle cure dell’allora Regio Museo);

vi si ripercorre la storia di Taranto e dintorni in progressione cronologica, 

partendo da preistoria e protostoria, quando la parte meridionale 

della penisola era abitata da popolazioni autoctone – gli Iapigi. 


Si prosegue poi con l’arrivo degli Spartani, che fondarono qui la loro unica colonia fuori dall’Egeo,
Taras per l’appunto, nel 706 a. C., dopo che i Parteni, cioè i figli illegittimi delle spartane nati nel corso della guerra messenica, guidati dal giovane Falanto, furono costretti ad abbandonare la madrepatria e a riparare sulle coste italiche, come propiziamente suggerito dall’oracolo di Delfi. Interessante cogliere la dialettica dei rapporti fra colonizzatori e popolazioni indigene, come pure la differenziazione interna di queste ultime che nel corso dei secoli, anche per ulteriori influssi esogeni, si suddivideranno, sull’intero territorio apulo, in Messapi, Peucetii e Dauni.

Viene quindi proposta una sezione dedicata all’epoca romana,
il che dà l’opportunità di ripercorrere i tormentati rapporti
fra l’ambita Taranto e Roma,

 

dall’accordo del IV secolo a. C., secondo il quale navi romane da guerra non potevano superare il Capo Lacinio, entrando nella baia, in tal modo sancendo il principio della inviolabilità della acque interne, fino alla rottura di questo accordo da parte romana; dall’arrivo di Pirro a sostegno di Taranto alla sconfitta e conseguente capitolazione (275 a.C.); dalla ribellione a Roma all’arrivo del cartaginese Annibale; dalla resistenza all’assedio romano alla definitiva disfatta ad opera di Fabio Massimo nel 209 a. C., con conseguente spoliazione della ricca e ammirata città sul golfo. Il percorso espositivo si estende al periodo tardoantico e poi altomedievale, con particolare attenzione ai cambiamenti introdotti dalla dominazione romana nelle abitudini scultoree e decorative, fino alle testimonianze della convivenza sul territorio di comunità ebraiche e musulmane, per giungere al ritorno dei bizantini nel X secolo d. C.. 

 

Il criterio temporale, nelle venticinque Sale del MArTA, affianca quello tematico 

che, attraverso oggetti di arredo, suppellettili ed elementi architettonici decorativi, 

per lo più appartenuti a corredi funerari o comunque a necropoli, permette 

di comprendere le abilità produttive, le abitudini quotidiane, 

la cultura religiosa e i contatti con altri popoli:

 

in altri termini, l’oggetto che esprime un territorio, nell’accezione più ampia del termine. Sarebbe arduo, e certamente riduttivo, tentare di dar conto della ricchezza dei reperti custoditi in questo raccolto e bellissimo Museo, diretto dal 2015 – e con successo, come si riscontra nel numero degli ospiti e nel giudizio dei tarantini – dalla dottoressa Eva Degl’Innocenti. Ma non si può tacere di alcuni oggetti emblematici i quali, più di altri, colpiscono il visitatore che volentieri li incamera e se ne appropria nella memoria. E’ il caso, ad esempio, dell’elegante Zeus-Zis, statua in bronzo alta circa 80 cm, rinvenuta presso Ugento e risalente al VI sec. a.C., rappresentato dai Messapi nei modi iconografici greci, con leggera torsione del busto nell’atto di scagliare fieramente un fulmine; oppure del magnifico cratere raffigurante la nascita di Dioniso, risalente al IV sec. a.C., appartenente alla sconfinata collezione coroplastica, la quale racconta non solo dei contatti delle popolazioni locali con la civiltà micenea ben prima della vera e propria colonizzazione greca, ma anche del successivo legame degli artigiani locali con metodi e forme importati dalla madrepatria, fino allo sviluppo di tecniche decorative originali, come quelle della ceramica sovradipinta.

 

Colpisce la magnifica produzione orafa, con l’esposizione di gioielli raffinatissimi, rinvenuti nelle sepolture e realizzati con tecniche di laminatura, a sbalzo 

e in filigrana, prova tangibile dell’elevato standard produttivo raggiunto 

delle maestranze locali in epoca ellenistica;


carpisce l’attenzione un sorprendente nucifrangibulum, schiaccianoci in bronzo le cui leve sono due mani in fattezze sorprendentemente morbide, atte a contenere il guscio, che si prolungano fino ai polsi ornati di splendidi bracciali serpentiformi in oro. Ancora, una ricca collezione di antefisse, cioè elementi di chiusura delle tegole decorate da volti di gorgoni con funzione apotropaica, oppure elementi in carparo, pietra calcarenite locale, provenienti da frontoni o da monumenti sepolcrali. Ad ogni buon conto, il miglior reportage non potrà mai eguagliare il fascino di una visita. La Storia che qui è raccontata, tuttavia, non è fine a se stessa: il MArTA ospita giovani studenti delle scuole secondarie di secondo grado impegnati nei progetti di alternanza scuola-lavoro che, come spiega il dott. Lorenzo Mancini, giovane archeologo estremamente competente che ci ha accompagnati in questo viaggio, prevede per i prossimi mesi la realizzazione di un percorso guidato nella storia della città attraverso la mappatura del territorio che tenga conto della percezione che gli abitanti hanno dello stesso, al fine di fornire loro un solido ancoraggio identitario.

 

Nel corso della visita, incontriamo due scolaresche di bimbetti non più grandi 

di 4 anni che, ordinatamente, attraversano le Sale del Museo e i secoli passati. Questa è la speranza con cui si lascia la città: 

la cultura affidata alle nuove generazioni.


Il lavoro richiede anni, lustri, decenni. Ma in fondo è poca cosa rispetto ai millenni di gloriosa Storia che da qui ha transitato, consegnando ai posteri un senso e un patrimonio. Si può fare, bisogna crederci.

 

 

 

 

 

 

 

Non si tratta di nascondere la testa sotto la sabbia, evitando di confrontarsi con i tanti e radicati problemi che attanagliano la città e che sembra si attorciglino su se stessi generando frutti letali.

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 Immagini concesse dal Museo Nazionale Archeologico di Taranto

testa di Herakles

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BENEVENTO: LEGGENDA STORIA VETUSTÀ di Hilde Ponti – Numero 10 – Marzo 2018

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BENEVENTO: LEGGENDA STORIA VETUSTÀ

 

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abbonda di testimonianze storiche intrecciate a leggende misteriche, annoverate ormai alla tradizione popolare, spesso confermate da documenti sulla Sacra Inquisizione.

Come si presenta Benevento, città piena di doni, magica per elezione? Si svela come una terra amena, posta in una conca, attorniata da montagne, dove il fiume Sàbato confluisce nel Calore. Un mondo questo, carico di presenze straordinarie. Mille incantesimi, antichità spesso dormienti, attestano un centro sannita che entra nella Storia, solo dopo la vittoria dei Romani su Pirro. Da allora, Maleventum – il nome arcaico, muta in Beneventum – nel 268 a.C. quasi a decretare fortuna.

 

E’ l’imperatore Traiano a procurarle ricchezza, tracciando la via Appia Traiana, 

che avvicina il sito ai commerci del porto di Brindisi.

 

A decretare Benevento capitale, però, dovettero intervenire i Longobardi, creando un principato, dove fiorì la scrittura beneventana: splendidi manoscritti miniati, ancora oggi tesori inestimabili. 

 

Risale proprio a quella Età la leggenda di Benevento esoterica: descrivendo le pendici settentrionali del colle beneventano come zona dove guerrieri barbari davano vita a riti scabrosi, ancestrali, proprio intorno a un albero di noce. Tuttavia, anche dopo il dominio longobardo, le credenze si ammantarono ulteriormente di liturgie diaboliche: donne confessavano davanti al tribunale dell’Inquisizione, aver volato in sella a esseri infernali, al noce di Benevento, celebrare il Sabba e congiungersi al demonio.

 

Talvolta, invece, con afflati fantasiosi, descrivevano con dovizia il volo, 

cavalcando a loro dire scope – forse l’oggetto a loro più familiare – 

sopra i cieli di Roma,

 

zona San Giovanni, la notte del solstizio d’estate, quando si dice che i semplici emanino l’ennesima potenza dei loro principi. Ormai, venivano chiamate Herbane, essendo pienamente consce degli effetti magici dei semplici, elaborati in formule alchemiche, una sorta di scienza da divulgare, marchiandola proprio sotto al noce.  

 

Forse, fu proprio per interrompere sensualità particolari, supplizi e stragi, comunque porre fine a dicerie, che il sant’uomo del posto, nella persona del Vescovo Barbato, pensò di far sradicare la pianta.

 

Niente scandali sul suolo passato alla Chiesa, dominio che durò fino all’Unità d’Italia. Ciò nonostante, la leggenda ebbe a rafforzarsi, tanto da far parlare 

del fatto misterico, pure in un passo de I promessi sposi del Manzoni. 

“L’elemosina. Sapete di quel miracolo delle noci, 

che avvenne molt’anni or sono…?”.

 

Intanto il volgo sposta il racconto sulle rive del fiume Sàbato, alla mitica Ripa delle Janare, luogo atto agli incontri carnali, tra fattucchiere dedite a creare incantesimi, prodigi vari e veleni, con esseri diabolici. Storie di contrada, a cui ha attinto persino un Marchio: torroni e liquore “Strega”, famosi nel mondo. Brand di qualità, che promovendo un importante Premio Letterario, unirà leggenda e cultura editoriale. 

Ma cosa è rimasto della storia infinita di Benevento?

 

Divulgati su argomenti profani, si riparerà decantando la bellezza impareggiabile del Duomo: dove cinque navate ad arco tutto sesto dell’ingresso, mostrano colonne corinzie di epoca romana, mentre la spettacolare facciata ospita, oltre a frammenti romani e bizantini, anche iscrizioni longobarde.
 
Meraviglia desta anche l’imponente Teatro romano: diecimila spettatori accolti sotto venticinque arcate monumentali, costruzione avviata nel 126 a.C. dall’imperatore Adriano. L’età non ha scalfito né la cavea, tanto meno la scena: ospita ancora rappresentazioni liriche e di prosa. 
 

E come non provare emozione all’arco di Traiano? Un vero passaggio trionfale, eretto per onorare l’imperatore, 

in assoluto il più ricco dei monumenti vetusti, splendori in bassorilievo 

rivestiti in marmo pario.


Invece, i rilievi che spiccano nei due fronti esaltano il saggio governo romano, mentre le immagini all’interno riferiscono rapporti fruttuosi dell’imperatore con la popolazione beneventana. 

 

E poi, non si può tralasciare la Medievale Santa Sofia, dove si celebrano ancora manoscritti e miniature coniate dalla Scrittura beneventana. La costruzione è sorprendente, di pianta semicircolare, sontuosa la cupola, sorretta al centro da un giro esagonale di grandi colonne, affascinante prospettico a effetti geometrici, presenta via via un ciclo di affreschi dell’VIII Secolo:

lascia senza fiato quell’arte siriaco-armena.

 

E come non essere ammaliati da cimeli, colonne, lapidi, cippi romani, incastrati talvolta nei muri di case e ancora androni, cortili trasudanti seduzioni quotidiane, archi, palazzetti barocchi del centro vetusto: Benevento è uno scrigno di tesori. Eccellenze da brivido! Incantesimi, non sempre da immaginario collettivo. 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

  

 

 

 

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 Foto: witches-brooms-3067494a Gianmichele Galassi. Le streghe hanno smesso di esistere…